domenica 8 novembre 2009

Barbara Spinelli: Quel muro che cadde sulla sinistra

08 Novembre 2009
La Stampa

Barbara
Spinelli

Quel muro
che cadde
sulla sinistra

Il muro di Berlino cadde sulla testa della sinistra italiana come il
giorno del Signore nella prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi: «Voi
sapete bene che il giorno del Signore arriverà come un ladro, di notte.
Proprio quando la gente dirà "Pace e sicurezza", improvvisa piomberà su di
essi la rovina, allo stesso modo che arrivano alla donna incinta i dolori
del parto. E non scamperanno». Per alcuni nel partito comunista italiano fu
proprio così: Alessandro Natta, che fino all'88 aveva guidato il Pci,
confidò a Claudio Petruccioli (era il 10 novembre, poche ore dopo la notte
fatale) che «Hitler aveva vinto». Fu in quei giorni che il suo successore,
Achille Occhetto, cominciò a parlare, alla Bolognina, della Cosa: non riuscì
ancora a darle un nome, ma sentì che per scampare bisognava subito
inventarsi un partito nuovo e soprattutto un nome che facesse dimenticare il
passato con i suoi tanti pensieri falsi, le sue doppie verità, le sue
volontarie impotenze. Per molti militanti fu una scossa, perché il passato
non lo dismetti in una notte alla maniera in cui Stalin dismetteva storie e
compagni, cancellandone le tracce.

Perché il nuovo non puoi definirlo una Cosa, solo perché hai paura di
usare parole tragicamente disonorate come progetto, ideologia, meta. Non
solo: se i vertici cambiarono così prontamente strada, vuol dire che per
decenni avevano nascosto alla base il vero: se avessero parlato prima, non
avrebbero permesso che l'Italia restasse senza alternanza per quasi mezzo
secolo.
Da allora sono passati vent'anni, e gli eredi del Pci ancora soffrono
quel congedo precipitoso, quel vocabolario che d'un colpo si svuota. Ci sono
parole che lasciano l'impronta anche se son nebbia, e un destino simile
toccò alla Cosa. Al posto dell'idea del mondo, comparve questo sostantivo
che è un annuncio, un guscio che si promette di riempire: «un nome
generico - scrive il Devoto - che riceve determinazione solo dal contesto
del discorso». Tutto da allora è stato futuro appeso a un contesto
indeterminato: anche le primarie, cui si era chiamati a aderire senza saper
bene a cosa si aderisse. Anche la speranza di coniugare le due forze
fondatrici della repubblica: il socialismo e il cattolicesimo, dimenticando
(lo storico Giuseppe Galasso l'ha ricordato il 30 agosto sul Corriere della
Sera) il terzo incomodo che è la tradizione laica, liberale, radicale.
Riesaminando l'ultimo ventennio, Arturo Parisi parla del controllo che le
nomenclature dell'ex Pci hanno finito con l'acquisire sull'Ulivo, e del
patto stretto da esse con i falsi innovatori dello stesso partito. I
candidati segretari regionali provenienti dai Ds erano nelle ultime primarie
il 75 per cento del totale, facendo «coincidere la geografia elettorale del
Pd con i confini del voto comunista» e sconfiggendo l'Ulivo (intervista a
Gianfranco Brunelli, Il Regno 16/2009).
Forza indispensabile della sinistra ma non bene identificata, l'ex Pci
l'ingombra con il peso, non leggero, di una storia ripudiata. Sono anni che
espia, fino all'eccesso, un passato di cui tuttavia non vuol parlare. Il
centrismo, i toni bassi, la tregua fra i poli, la politica senza
contrapposizioni: siamo in un paese dove il principale partito di sinistra,
vergognandosi del passato, non fa vera opposizione per tema di somigliare a
quel che era. Dallo spirito dell'89 ha appreso poco. Lo stato di diritto, l'onestà
delle élite, la scoperta del conflitto sale della democrazia: la liberazione
dell'89 ha preso da noi la forma di Mani Pulite, senza lambire la politica.
Inutile prendersela con i magistrati, se l'ansia di rigenerazione hanno
finito con l'esprimerla solo loro. Bersani ha preso atto, ieri, che dialogo
è ormai una «parola malata e ambigua».
L'espugnazione dell'Ulivo e del Pd non crea identità. Anche il
socialismo italiano fu espugnato così: usurpandolo, non integrandolo e
cercando di capire l'altrui tracollo oltre che il proprio. Anche per il
socialismo italiano la caduta del Muro spuntò infatti come un ladro
notturno. Le metamorfosi del Pci sono una storia di crudele appropriazione,
ma il socialismo è non meno colpevole di questo furto di vocaboli e
identità. Non è mai riuscito a divenire dominante, come nel resto d'Europa.
E quando con Craxi volle disputare la rappresentanza della sinistra al Pci
non seppe trarne le conseguenze: continuò nei suoi doppi giochi, prospettò l'unità
delle sinistre senza rinunciare a spartire potere, non si rinnovò moralmente
ma degradò sino a divenire il simbolo della corruttela italiana.
In un lucido saggio sull'Italia, lo storico Perry Anderson descrive un
partito socialista che ingenera il berlusconismo, spiegando come questi sia
erede dell'ultimo Psi più che della Dc (London Review of Books, 21-3-02). La
spregiudicatezza di Craxi è un tratto speciale e irripetibile della nostra
cultura. Altrove lo spregiudicato è figura settecentesca che combatte
pregiudizi, dogmi: non coincide con l'uomo senza scrupoli. Da noi i due
tratti si confondono, e spregiudicatezza è encomiabile virtù di chi sprezza
le regole, la legge, l'etica, nella certezza che il potere renda tutto
lecito se non legale. L'intera classe dirigente ne è responsabile, e non
stupisce che da decenni l'agenda della politica sia dettata da Berlusconi.
Occhetto sperava forse in una svolta autentica. Sperava in una
carovana che viaggiando associasse forze diverse, e temeva la caserma
anelata da Massimo D'Alema. Un timore che si rivelò giustificato, ma che non
vede il solo D'Alema sul banco degli imputati. Questi fu almeno chiaro: l'Ulivo
non gli piacque mai. Più colpevoli furono i falsi innovatori, che
promettevano senza mantenere: che non hanno esitato, come Veltroni, a
distruggere l'ultimo governo Prodi. Ciononostante è D'Alema la persona
chiave del ventennio. In qualche modo è restato quel che era, senza più
dogmi ma con inalterata volontà di potenza. Dei comunisti ha la stessa
insofferenza verso il dissenso, lo stesso fastidio freddo verso la stampa
indipendente. Sono sue e non di Berlusconi frasi come: «I giornali? È un
segno di civiltà non leggerli. Bisogna lasciarli in edicola». La morte
temporanea dell'Unità, nel 2000, lo testimonia. Michele Serra parlò di
delitto perfetto su la Repubblica: «La fine dell'Unità, forse più ancora
della Bolognina, illumina lo sconquasso identitario della sinistra italiana.
Ne racconta le insicurezze, i complessi di inferiorità, l'incerto e poco
lineare incedere verso una modernità spesso vissuta da praticoni».
Vivere la modernità da praticoni è l'abbandono dell'ideologia, in nome
dell'antidogmatismo. Il fatto che le ideologie totalitarie siano perite, non
significa che un partito possa solo vivere di volontà di potenza, e su essa
fabbricare inciuci. Che possa continuare a ricevere il colore da discorsi
effimeri. Dotarsi di un'ideologia vuol dire avere un sistema coerente di
immagini, metafore, princìpi etici. Vuol dire pensare un diverso rapporto
con gli stranieri, la natura, il lavoro che muta, l'immaginario. A
differenza della politica quotidiana, l'ideologia ha una durata non breve ma
media, e la durata non è imperfezione. È perché non aveva idee sull'informazione
di massa e sulla società di immigrazione che la sinistra fu travolta da
Berlusconi. Che non seppe adottare, subito, una legge sul conflitto d'interesse.
Che giunse sino a chiamare la Lega una propria costola.
Perry Anderson ritiene che la nostra sinistra sia invertebrata. Una
Cosa appunto, senza scheletro: un metamorfo, come nel film di Carpenter. Il
suo sogno ricorrente è quello d'un paese normale: un'altra Cosa - imprecisa,
mimetica - che dall'89 cattura gli spiriti. La sinistra invertebrata ha
corteggiato Clinton, Blair, Schröder, tessendo elogi del moderatismo, del
centrismo. Vita normale, per la sinistra, ha significato sin qui
smobilitazione ideologica, conformismo: il nuovo ancora lo si aspetta.

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