da www.nuvole.it
Oltre il PCI
di Emanuele Macaluso*
Sono trascorsi vent’anni dalla caduta del muro di Berlino e da quando, immediatamente dopo, Achille Occhetto, allora segretario del Partito Comunista italiano, operò la “svolta della Bolognina”, che fece cambiare nome, e non solo nome, al partito.
Faccio una prima considerazione: dopo l’Ottantanove in Italia si è aperta una fase politica che, con le elezioni del 1994, è stata segnata da un nuovo sistema (la seconda Repubblica) che non ha ancora trovato un definitivo assetto politico-costituzionale. Si parla sempre di transizione e ancora non si capisce verso quale approdo. La Costituzione italiana dice che l’Italia è una Repubblica parlamentare, ma, quella che i politologi chiamano costituzione materiale, cioè la realtà in cui operano le forze politiche, il sistema, è ormai un ibrido, dato che le leggi elettorali indicano un leader che ritiene di essere investito dal popolo (è il caso di Berlusconi) mentre il popolo elegge deputati e senatori.
E’ in corso uno scontro su questi temi: e dopo la bocciatura del Lodo Alfano si è acutizzato. Ho fatto questa prima considerazione per dire che anche il processo di cambiamento del Pci, avviato dopo il 1989, sembra ancora non concluso: dal Pci al Pds, dal Pds ai Ds, poi la confluenza, con gli ex democristiani della Margherita, nel Partito Democratico. Un amalgama non riuscito, quest’ultimo, aveva detto Massimo D’Alema. E il travagliatissimo congresso-non congresso del Pd lo testimonia ampiamente.
La transizione non è finita. E allora bisogna interrogarsi sulle ragioni per cui le cose stanno così. Penso che per capirlo sia necessario tornare proprio al 1989. La verità è che a quella data i leader che guidavano i partiti italiani non capirono che il mondo cambiava. L’Italia era stata retta dal 1948 da un “bipolarismo imperfetto”: da un sistema in cui le alleanze di governo si realizzavano su un presupposto internazionale, il dilemma est-ovest, comunismo-anticomunismo. Dopo quarant’anni occorreva quindi cambiare quel sistema.
E’ vero che tra il 1976 e il ’79 con Moro e Berlinguer si era avviato un processo per cui il Pci sarebbe entrato nell’area di governo. E questo avrebbe consentito un mutamento del sistema anche se il Pci non fosse stato al governo con la Dc. Ma con l’assassinio di Moro, la fine dei governi di solidarietà nazionale, il ritorno della Dc all’anticomunismo (il preambolo di Forlani al congresso Dc del ’79), la successiva alleanza Dc-Psi e il cosiddetto pentapartito, riportarono il sistema al 1948.
Con queste premesse, Occhetto nel 1989 fece la svolta solo per cambiare nome, ma senza un progetto politico, senza una strategia, che facesse perno sull’unità della sinistra finalizzata a realizzare l’alternativa di governo negata per quarant’anni. Per parte sua Bettino Craxi non capì nulla dell’‘89, se non il fatto che nel Pci si apriva una crisi di cui lui poteva esserne il beneficiario. Infatti, mentre nel simbolo del Psi inseriva lo slogan “unità socialista”, si ostinava a riproporre l’accordo con la Dc, con Andreotti e Forlani (il Caf), e a definire un organigramma che l’avrebbe dovuto ricollocare a Palazzo Chigi, inviando al Quirinale Andreotti o Forlani.
La sinistra si era divisa nel 1947 con la scissione di Saragat e si era divisa nuovamente nel 1956, dopo la rivoluzione ungherese, con la rottura del patto di unità d’azione tra Pci e Psi, sul terreno della politica internazionale. Il centrosinistra, nei primi anni Sessanta, era nato con le stesse premesse internazionali: la presenza dell’Urss, il Patto di Varsavia, il Patto Atlantico e il Pci con una politica estera considerata vicina all’Urss e al Patto di Varsavia e non agli Usa e al Patto Atlantico. Se non che, quando nell’‘89 tutto questo finirà, la separazione della sinistra non si esaurirà e si vorrà invece perpetuare una formula di governo consumata e ormai inservibile anche sul piano internazionale.
La crisi del sistema si apre nel 1989 e Occhetto, che con il Pds ha fatto la svolta e ha subito la scissione di Rifondazione Comunista, è coinvolto nella crisi del sistema. Il Pds nelle elezioni politiche del 1992 ottiene solo il 16%. La Lega di Bossi ottiene ottanta parlamentari. È un segno chiaro della piega che assumerà la crisi. Occhetto, con D’Alema, Fassino, Veltroni, Mussi, Livia Turco, Bassolino, il gruppo dirigente del Pds, chiede l’adesione all’Internazionale socialista, ma rifiuta di lavorare per costruire in Italia un Partito Socialista unitario nell’alveo del socialismo europeo. Come Craxi. Tutto questo mentre nel Pds si era costituita una corrente riformista con Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte, Paolo Bufalini, Luciano Lama, Emanuele Macaluso e molti giovani, come Umberto Ranieri ed Enrico Morando, che propugnavano l’unità a sinistra e l’identità riformista del socialismo europeo. Il rifiuto di questa prospettiva da parte della maggioranza occhettiana era motivato dal fatto che “socialismo”, e “socialisti” erano parole screditate in Italia e che il nuovo partito doveva convogliare quella che lo stesso Occhetto chiamava “sinistra sommersa”. Contemporaneamente, un altro gruppo, animato da ex comunisti come Ferdinando Adornato e Willem Bordon, costituiva “L’Alleanza democratica”, con ex repubblicani e democratici di varia provenienza. In Sicilia e poi in tutto il Paese aveva infine spiccato il volo Leoluca Orlando, dando vita a un partito giustizialista: “La Rete”.
L’alleanza di questi gruppi con il Pds si concretizzò nella lista elettorale del 1994 che si denominò “I progressisti”. Contemporaneamente un grosso pezzo della Dc si era radunata nel Partito popolare di Mino Martinazzoli, il quale, non tenendo conto, come Occhetto, della nuova legge elettorale, che obbligava gli alleati ad apparentarsi, si presentò da solo. Entrambi furono clamorosamente sconfitti da Berlusconi collegato al Nord con la Lega e al Sud con l’Msi, che si trasformava in Alleanza Nazionale. La “sinistra sommersa” non emerse e Occhetto ne tirò le conclusioni dimettendosi da segretario del Pds.
Nel partito si aprì allora un dibattito sul futuro segretario anche attraverso una consultazione referendaria che vide come candidati Veltroni e D’Alema. Prevalse Veltroni, ma il Consiglio nazionale del partito, statutariamente delegato a votare il segretario, elesse Massimo D’Alema. Il quale in Parlamento si impegnò nella Bicamerale per le riforme costituzionali e istituzionali in un lavoro senza esito, dato che alla fine Berlusconi rovesciò il tavolo chiudendo ogni dialogo.
Il partito, invece, restò senza guida e anche senza una politica. Il “ribaltone”, promosso dalla Lega che si separò da Berlusconi, si risolse con il governo Dini. Seguirono le elezioni anticipate del 1996, la candidatura di Prodi, la nascita dell’Ulivo, il successo elettorale del centrosinistra (la destra si presentò divisa alle elezioni: Berlusconi da una parte, Bossi dall’altra) e il primo governo Prodi con l’appoggio esterno di Rifondazione Comunista di Bertinotti. Ma il Pds restava un partito senza identità.
Nel 1998, D’Alema promuoveva un incontro con alcuni esponenti socialisti senza patria - Giuliano Amato, Giorgio Ruffolo, Valdo Spini e molti altri – e alcuni intellettuali di sinistra per dare al partito una più netta impronta socialista e convocava, a Firenze, una grande assemblea per dare corpo alla sua iniziativa facendo nascere la Cosa2. Occhetto, col Pds, aveva fatto nascere la Cosa. In quei giorni uscì un mio libro scritto insieme a Paolo Franchi con un titolo significativo: Da Cosa nasce Cosa. Il Pds perse la P, si chiamò Ds, ma la Cosa dopotutto non cambiò.
Intanto Bertinotti ritirava l’appoggio a Prodi e D’Alema formava un governo di centro-sinistra (col trattino) promosso con Cossiga, che aveva costituito l’Udeur. Veltroni, sponsorizzato da D’Alema, diveniva segretario dei Ds. Ma ancora una volta si poneva il problema di sempre: qual era l’identità di questo partito che ora esprimeva il presidente di un governo di centro-sinistra?
D’Alema, dopo l’insuccesso delle elezioni regionali del 2000, si dimetterà e Giuliano Amato sarà il nuovo Presidente del Consiglio. Ma la storia dei Ds diverrà sempre più incomprensibile. Infatti, alle elezioni politiche del 2001 i Ds di Veltroni non candidano il presidente del Consiglio uscente, l’ex-socialista Amato, ma Rutelli, sindaco di Roma, che sarà sostituito dallo stesso Veltroni. E Berlusconi vincerà.
Ecco allora che il nuovo segretario dei Ds, Piero Fassino, convoca un congresso, a Pesaro nel 2001 e rimette al centro l’identità socialista del partito: i più acclamati sono il migliorista Napolitano e il socialista Amato. Ma sarà lo stesso Fassino, con D’Alema, a richiamare nel 2007 alle armi Veltroni sindaco di Roma per dare vita (si fa per dire) a un nuovo partito, il Pd, mettendo insieme i Ds e la Margherita di Rutelli. Il quale, ancora una volta, vorrebbe scambiare ruolo con Veltroni (siamo al giuoco dei quattro cantoni) e si candida a sindaco di Roma. Un disastro.
Anche la prima prova elettorale del Pd sarà deludente. Il tema centrale, anche nel congresso in corso, è sempre lo stesso: qual è l’identità di questo partito? Insomma venti anni dopo l’ ‘89, venti anni dopo la svolta della Bolognina, il gruppo dirigente dell’ultimo Pci - Occhetto, D’Alema, Fassino, Mussi, Turco, Bassolino - è ancora in sella, non più di destrieri, ma animali indecifrabili. Di quel gruppo manca Claudio Petruccioli che si è messo fuori. Mussi è con sinistra democratica e gli altri sono confluiti nel Pd, il quale sta adesso eleggendo un nuovo segretario, dopo le dimissioni di Veltroni e la segreteria interinale di Franceschini.
Fassino sta con Franceschini, gli altri stanno con Bersani e tutti sono in difficoltà. E’ curioso il fatto che nei partiti europei cambiano i leader, ma non il nome del partito, mentre in Italia i partiti cambiano ripetutamente nome del partito, ma sono in campo sempre le stesse persone. E’ questa la ragione del fatto che dopo vent’anni sembra che siamo punto e a capo? Forse. Ma una discussione politica rigorosa e disinteressata su questo tema non si è mai fatta. E non si fa ancora.
* Emanuele Macaluso, è stato sindacalista, parlamentare, direttore de L’Unità. Attualmente dirige la rivista Le nuove ragioni del socialismo ed è editorialista de La Stampa.
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