domenica 1 novembre 2009

Duccio Cavalieri: Il capitalismo storico e la scelta di fondo odierna

Dal sito economia e politica
Il capitalismo storico e la scelta di fondo odierna




Il liberismo classico della scuola di Manchester implicava un’idea chiaramente utopistica: quella di un ordine naturale che avrebbe teso a realizzarsi spontaneamente e che in un contesto perfettamente concorrenziale sarebbe stato in grado di assicurare a tutti un massimo relativo di soddisfazione (un ‘ottimo paretiano’), operando trasferimenti di risorse tra impieghi alternativi, senza alterare sostanzialmente la distribuzione preesistente del reddito.

Così idealizzato, il capitalismo non è un modo di produzione storicamente determinato, ma una categoria universale sovrastorica, capace di mutare nella forma, ma non nella sostanza. E dunque destinata a durare in eterno. Il capitalismo reale, ovviamente, è tutt’altra cosa. E’ un tipo di organizzazione dell’economia finalizzato alla produzione per il profitto e all’accumulazione del capitale. Con tutto ciò di buono e di meno buono che questi obiettivi comportano: dall’efficienza e dalla spiccata capacità di promuovere lo sviluppo delle forze produttive di un paese, alla soggezione a crisi ricorrenti e devastanti, e dalla mancanza di vera democrazia a un’oppressione sociale.

Nel capitalismo odierno, la ferrea logica di riproduzione del capitale, finalizzata all’estrazione e appropriazione privata di un plusvalore, impedisce a una larga parte degli esseri umani di emanciparsi dal lavoro salariato e di realizzare attraverso un’attività autonoma e non alienante la loro vera essenza. Così da passare da uno stato di necessità al regno hegelo-marxiano della libertà.

Splendori e miserie del capitalismo vanno ugualmente riconosciuti. Ma non certo accettati. Se l’attuale meccanismo del mercato, soggetto com’è all’azione interessata di potenti gruppi organizzati, lasciato a se stesso non è in grado di risolvere i grandi problemi sociali della nostra epoca, non si deve necessariamente pensare di abolirlo. Se si ritiene che esso svolga una funzione economica insostituibile, si deve cercare di regolamentarlo, per renderlo socialmente più accettabile.

Lungo questa strada, penso che nuove prospettive si siano aperte, dopo l’ultima grande crisi del sistema capitalistico, per attuare una convergenza tattica tra la sinistra e una parte dei neoliberisti. C’è oggi un neoliberismo di stampo conservatore, che si limita a difendere delle posizioni di privilegio, comunque acquisite, e che avversa il keynesismo. Ma c’è anche un neoliberismo progressista, che si avvicina molto al keynesismo. Keynes, come è noto, si dichiarava un ‘liberal’. Ed era un membro autorevole del Liberal Party.

Negli ultimi anni, una parte del liberismo si è mossa in una direzione progressista. Il prefisso ‘neo’ sta ora a indicare non qualcosa di perso e di ritrovato, o di rinnovato, ma qualcosa di definitivamente superato. Non si fa più riferimento alla vecchia idea di un ordine economico naturale e perfetto, da non ostacolare, ma a una concezione diametralmente opposta. Quella di chi, rendendosi conto che non esiste un ordine naturale e perfetto, auspica la realizzazione di un ordinamento economico consapevolmente creato dagli uomini e basato su un esplicito rifiuto della deregulation e del lassismo fiscale.

Negli anni ’30 del secolo scorso il liberismo classico fu riproposto in Inghilterra, in termini simili a quelli tradizionali, alla London School of Economics di Robbins e Hayek. Ma la reazione non si fece attendere. Nel 1938 ebbe luogo a Parigi un famoso incontro, il Colloquio Walter Lippmann, che è oggi considerato come il momento iniziale del neoliberismo progressista. Poi, con la seconda guerra mondiale, il processo di diffusione della nuova ideologia liberista subì un’interruzione.

Il dopoguerra vide una ripresa del liberismo classico di stampo conservatore. Nel 1947 fu fondata la Mont Pélerin Society, per iniziativa di Hayek, Mises, Popper e altri. Nel 1955 sorse a Londra l’Institute of Economic Affairs, creato per contrastare il keynesismo allora imperante. Assieme alla Chicago School e al monetarismo di Friedman, esso ispirò il programma di politica economica del governo conservatore di Margaret Thatcher e quello dell’amministrazione repubblicana di Ronald Reagan.

Dopo un periodo di relativo declino, legato alla fine ingloriosa del sistema aureo e del suo sostituto, il gold exchange standard, il liberismo di stampo conservatore è stato oggetto negli anni ’80 di un tentativo di rilancio operato negli USA, con il nome di ‘Washington consensus’. Si tratta di un indirizzo di politica internazionale ispirato alla ‘nuova sintesi neoclassica’, chiaramente subalterno agli interessi economici americani e politicamente impegnato nella difesa di posizioni storicamente acquisite attraverso un meccanismo di divisione internazionale del lavoro che apprestava uno schema di specializzazione produttiva fondamentalmente ingiusto, a vantaggio dei paesi che si erano industrializzati per primi e a danno degli altri. Questo liberismo dai connotati conservatori è stato purtroppo sostenuto dal IMF, dalla World Bank e dal WTO, organismi che erano stati creati per fornire un aiuto finanziario ai paesi con bilancia dei pagamenti in forte disavanzo e per promuovere lo sviluppo economico e la liberalizzazione del commercio internazionale, ma che finora non sono apparsi all’altezza dei compiti istituzionali loro assegnati.

Ma torniamo al mercato. Per rilevare che, lasciato a se stesso, esso non appare in grado di assicurare un utilizzo razionale delle risorse produttive. I prezzi di mercato delle merci non esprimono adeguatamente le scarsità relative; la struttura dei consumi è distorta dall’azione interessata dei produttori; vi sono sprechi dovuti alla presenza di posizioni oligopolistiche, che comportano la creazione di capacità produttiva in eccesso. Inoltre le intese tra produttori tendono a rallentare il ritmo di introduzione del progresso tecnico e la distribuzione sperequata della ricchezza fa sì che la domanda solvibile dei vari beni e servizi non rifletta l’urgenza relativa dei bisogni dei diversi individui. Se si considera che il capitalismo è storicamente caratterizzato da una distribuzione del reddito poco uniforme e da una propensione al risparmio maggiore da parte dei percettori dei redditi più elevati e minore da parte dei percettori dei redditi più bassi, è facile comprendere come possa accadere che la domanda globale stenti a tenere il passo con la produzione e che il sistema dell’economia di mercato vada incontro a difficoltà di realizzo e a conseguente disoccupazione di massa, un fenomeno che comporta alti costi individuali e sociali.

Non solo. Nelle economie di mercato di tipo capitalistico anche la capacità di lavoro dell’uomo è una merce, e come tale forma oggetto di scambio sul mercato. Essa è però una merce di tipo particolare, perché a differenza delle altre merci la forza-lavoro non è separabile dalla persona che la presta. In un’economia di mercato i posti di lavoro si creano e si distruggono non in base alle esigenze lavorative della popolazione, ma in base alla convenienza economica delle imprese, che reagiscono a impulsi di natura esogena provenienti dalla domanda. La disoccupazione non è quindi l’esito di una scelta volontaria operata da individui che non hanno voglia di lavorare, o che non accettano di lavorare al saggio di salario corrente, ritenendolo troppo basso, come credevano gli economisti classici e neoclassici, ma è in larga parte frutto dell’insufficienza della domanda aggregata, dovuta alla maldistribuzione del reddito. In un sistema sociale caratterizzato da una più equa distribuzione del reddito, la disoccupazione da insufficienza della domanda probabilmente non esisterebbe.

Sul piano internazionale, i maggiori difetti del capitalismo odierno sono da ricondurre alla sua incapacità di risolvere in modo soddisfacente i due problemi del controllo della liquidità internazionale e dell’indebitamento dei paesi del terzo mondo. La sostituzione all’oro del dollaro, non più convertibile, come mezzo usuale di pagamento internazionale ha presentato il grave inconveniente di attribuire a un solo paese, gli USA, il controllo sulla creazione della liquidità e di porre tutti gli altri paesi in condizioni di inferiorità e di vulnerabilità. Il paese la cui moneta costituisce valuta di riserva internazionale può infatti vivere tranquillamente al di sopra dei propri mezzi e stampare e cedere propria moneta per colmare senza alcun costo un disavanzo della sua bilancia dei pagamenti. Può quindi vivere meglio, a spese del resto del mondo, che è costretto a cedergli risorse reali e ad accordargli un prestito irredimibile illimitato e totalmente privo di interessi. E può così addossare ad altri paesi anche il costo di sciagurate imprese avventuristiche, come le guerre preventive.

L’indebitamento di molti paesi in via di sviluppo si è nel frattempo aggravato fino a diventare insostenibile. Ciò è avvenuto anche per l’atteggiamento poco responsabile tenuto dal Fondo Monetario Internazionale, che ha per lungo tempo concesso credito ai paesi in via di sviluppo con eccessiva facilità. Salvo poi imporre loro condizioni pesantissime per ottenere il rifinanziamento dei debiti pregressi, onde tutelare gli interessi dei paesi creditori.

I disastrosi risultati di questo stato di cose sono davanti agli occhi di tutti. Quando il dollaro si deprezza, un’eccessiva liquidità si riversa in tutto il mondo sui mercati delle attività patrimoniali, reali e finanziarie. Con la conseguenza di accrescere la domanda, generando una pressione inflazionistica, e di ‘drogare’ artificialmente l’economia. Quando invece il dollaro aumenta di valore, il mercato delle attività tende a deprimersi. E questo a sua volta genera una recessione su scala mondiale.

A complicare le cose si aggiunge l’impossibilità per gli USA stessi di esercitare un controllo sugli enormi flussi di dollari messi in circolazione, una volta che questi siano usciti dal loro paese. Quantità ingenti e incontrollabili di capitali a breve termine (hot money) sono così destinate a spostarsi rapidamente in tempo reale sui mercati finanziari di tutto il mondo, verso i famigerati paradisi fiscali, alla ricerca di tassi di rendimento più elevati e non soggetti a tassazione. Con effetti fortemente destabilizzanti per l’economia mondiale.

La grave crisi globale del sistema capitalistico, oggi in atto, è stata affrontata in modo del tutto inadeguato. I tentativi di salvataggio compiuti in tutto il mondo dalle autorità responsabili della politica economica hanno interessato essenzialmente le grandi banche di affari, le compagnie di assicurazione e le principali agenzie di mutui immobiliari. Si è cioè ricapitalizzato con fondi pubblici il sistema finanziario preesistente, primo responsabile della crisi. Molto meno si è fatto per sostenere le attività produttive delle imprese (soprattutto di quelle medie e piccole) e i consumi della popolazione.

In queste condizioni, non meraviglia che il neoliberismo odierno si presenti, in una sua importante componente, come regolazionista. E quindi come assai diverso dal vecchio liberismo classico. Vero è che un’altra parte dei liberisti oggi invoca l’intervento pubblico non per porre fine a delle posizioni di privilegio, ma per tentare di conservarle. Basti considerare gli ostacoli che i liberisti più conservatori stanno ponendo al progetto di Barack Obama di dotare i ceti meno abbienti di un’assicurazione sanitaria, a spese pubbliche. Ma questo non fa che rendere più urgente l’esigenza di fornire un sostegno ai liberisti di sinistra. Nel nostro paese si è da tempo auspicato l’avvento di un nuovo ‘liberismo di sinistra’, riformista e dotato di precise regole. Ad esso mi sembrano essersi recentemente ispirati Francesco Giavazzi e Alberto Alesina. E anche, aggiungerei, Giulio Tremonti, notoriamente contrario a una globalizzazione incontrollata dei mercati finanziari. Di cosa si tratta? Di una politica che, praticata in un sistema di libero mercato, meritocratico e dotato di un’elevata mobilità sociale, dovrebbe consentire ai ceti sociali meno abbienti di migliorare stabilmente la loro posizione economica, attraverso l’impegno e il lavoro. Malgrado le differenze di opportunità individuali. In queste proposte non vi è nulla di nuovo. L’idea che una maggiore liberalizzazione dei mercati si tradurrebbe non solo in una maggiore efficienza del sistema produttivo, ma anche in una maggiore equità, è vecchia come il cucco. L’hanno a suo tempo sostenuta in Inghilterra Beveridge e Laski, in Francia Rueff e Allais, in Germania Rüstow, Röpke e la scuola ordo-liberista di Friburgo, che ha denunciato i disastri del capitalismo storico e patrocinato una sorta di economia sociale di mercato.

Ma queste proposte sono state respinte da molti esponenti della sinistra, che le hanno ritenute un tipico esempio di trickle-down theory, basata sull’idea, già sostenuta dai fautori della supply-side economics, che aiutare i ricchi a diventare ancora più ricchi finisca, quasi per un effetto di osmosi (il principio fisico dei vasi comunicanti), con l’avvantaggiare anche i poveri. E in ultima analisi col ridurre le differenze di reddito. Credo che non occorra spendere molte parole per chiarire che questo non è vero. La maggior parte dei dati statistici disponibili mostra che in genere tra efficienza ed equità intercorre una relazione inversa. Più libertà di mercato si accompagna a una maggiore disuguaglianza, anche se il reddito medio delle famiglie aumenta.

La tesi in questione è quindi chiaramente erronea. Ma l’idea di fondo dei liberisti di sinistra – quella che un sistema economico liberista, efficacemente regolamentato, sia preferibile all’attuale capitalismo selvaggio e possa consentire di migliorare anche le condizioni di vita delle classi più svantaggiate – mi pare pienamente condivisibile. Non vedo alcun valido motivo perché la sinistra debba respingerla. Come invece mi sembra che stia avvenendo.

Fortunatamente, esponenti di una cultura liberale disposta a guardare a sinistra, piuttosto che a destra, ci sono sempre stati in Italia. Anche in tempi più duri di questi. Si pensi al socialismo liberale di Carlo Rosselli, Piero Gobetti, Ernesto Rossi, Guido Calogero, Aldo Capitini, Norberto Bobbio, Ugo La Malfa e degli esponenti del vecchio ‘Partito d’azione’, che intendevano conciliare liberismo e politica sociale.

Il problema è che in Italia, a differenza di altri paesi, non c’è mai stata una vera rivoluzione liberale e progressista. Nel senso gobettiano dell’espressione. Stiamo ancora aspettandola. Cerchiamo quindi di realizzarla, con l’aiuto di quanti sono disposti a collaborare a tal fine. Non è necessario considerare la rivoluzione liberale un punto d’arrivo. Chi vuole, a sinistra, può guardare ad essa come a un obiettivo intermedio. Avrà poi tempo per pensare a ulteriori miglioramenti dell’assetto economico e sociale.



*Professore ordinario di economia politica nell’Università di Firenze.

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