La Repubblica, 9 maggio 2009
Se il Carroccio tradisce la vecchia anima di Milano
Curzio Maltese – la Repubblica
Al presidente Fini viene da rispondere che la proposta leghista di riservare posti per indigeni nella metropolitana di Milano, prima ancora di offendere la Costituzione, ferisce l’orgoglio di noi milanesi.
Per chi è cresciuto nella Milano degli anni Settanta, la metropolitana era la prova più fiera dell’internazionalità della città, della sua modernità, del suo essere "vicina all’Europa". Nessuna capitale italiana aveva una metrò decente. Quella romana era ed è rimasta un ghetto sociale sotterraneo. Quella di Milano è uguale a quelle di Parigi o Londra o Monaco. Quando l’Italia era lontana dall’essere una nazione multietnica, la metropolitana milanese era il luogo più interculturale e interclassista del paese. È la rete che collega tutti i simboli internazionali della città, la Borsa e la Fiera, il Piccolo e la Scala, la Triennale e lo stadio di San Siro. Ma una volta alla meta la gente si divideva. I sedili della metropolitana erano l’unico luogo della società italiana dove tutto e tutti s’incontravano. L’operaio di Sesto seduto accanto alla modella svedese, il broker della finanza e lo studente, la casalinga e l’intellettuale, l’immigrato e il barone universitario, il turista giapponese, l’hooligan e il violinista. Un crocevia di autentica urbanità. Perché poi si parlava, in un modo o nell’altro, molto più di quanto sia mai accaduto nei famosi capannelli di piazza del Duomo, dove vanno da sempre soltanto i pensionati.
Ora, la proposta di umiliare questo simbolo con l’affissione di cartelli più adatti all’Alabama degli anni Quaranta o alla Germania degli anni Trenta, dovrebbe far riflettere. È chiaro che non passerà mai. Per la maggioranza dei milanesi rimane ripugnante. Questa sì, straniera. Non c’entra con la storia di Milano. È roba venuta da fuori, una malapianta coltivata nelle aree dell’eterno fascismo pedemontano, che ha sempre visto con misto di rabbia provinciale e invidia la vocazione cosmopolita della capitale. I milanesi non sono razzisti per storia, cultura e anche per convenienza. Alla fine lo sanno che la ricchezza della città, rispetto alle altre capitali italiane, è frutto della sua internazionalità, del lavoro di immigrati italiani e stranieri, di soldi portati da fuori. Milano da sola attira il quaranta per cento di tutti i capitali stranieri investiti in Italia. Già questa notizia, rimbalzata sulla rete in giro per il mondo, è un danno enorme.
Eppure sarebbe sbagliato liquidare la proposta di Salvini come un delirio xenofobo. Si tratta piuttosto di un astuto ballon d’essai per tastare il livello di degrado civile del Paese e magari lavorarci ancora sopra. Salvini non è una camicia verde di seconda fila e nemmeno un personaggio pittoresco alla Borghezio. È il giovane capo dei leghisti milanesi, lanciato ai vertici di un partito che si prepara a festeggiare, sondaggi alla mano, il più grande trionfo elettorale della sua storia. E quanto più conquista consensi al Nord, nelle aree decisive del Paese, tanto meno si modera, anzi spinge sul pedale dell’estremismo xenofobo. Due passi avanti e uno indietro, è la tattica. Oggi vengono riconsegnati dei clandestini africani, che avrebbero diritto d’asilo, nelle mani dei loro aguzzini libici. La proposta dei posti riservati ai milanesi verrà ritirata. Ma intanto la reazione della società milanese lascia perplessi. Silenzi, timidezze, imbarazzi da tutti i palazzi del potere economico e politico. Uno non può credere che arrivi il giorno in cui i milanesi assisteranno senza vomitare alla scena di un anziano immigrato o di una donna africana incinta costretti a cedere il posto a un ragazzo bianco. Ma mese dopo mese, qualcuno ci sta abituando a trattare con gli incubi.
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