Non avrei dubbi, se ascoltassi la logica profonda e la Parola che muove tutto; non avrei dubbi, se potessi avere quell'orecchio potente e perfetto che solo chi ascolta Dio possiede; non avrei dubbi, se avessi quella fede che intimamente sa che ogni capello del nostro capo è contato e non possiamo aggiungere un solo giorno al nostro tempo. E il Padre di tutti ha detto: "Le terre non si venderanno per sempre; perché la terra è mia e voi state da me come stranieri e ospiti" (Levitico 25:23, traduzione della Nuova Riveduta); questa terra in realtà non è nostra, e non possiamo decidere che alcuni possono passare e altri no, alcuni venire altri no. Ma non riusciamo, non è possibile, probabilmente non è "saggio", utilizzare questa "logica impossibile" (ma credibile) quando ci troviamo a governare il mondo.
Abbiamo rinunciato, forse in un tempo che non è nel tempo, alla prossimità a Dio (chiamatelo peccato originale, se vi va; non è molto originale, ma funziona...); per questo ce la dobbiamo cavare con misure, logiche, approssimazioni; per questo dobbiamo reinventarci ogni giorno un'etica, per provare a renderci - inutilmente - più perfetti. E il dramma che vediamo in questi giorni sulle nostre acque ci fa toccare con mano l'impossibilità di costruire giustizia qui e ora, l'impossibilità di "salvarci" tutti assieme, poiché in qualche modo facciamo sempre pagare ad altri il nostro benessere.
Molte parole in più non vanno dette. Traggo dalla newsletter dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane una riflessione seria e pacata del Rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, che può aiutare - certo da un punto di vista non strettamente politico - a "mettere ordine" nella confusione di linguaggi, a tratti violenti, a tratti imprudenti, che si stanno accavallando in queste ore.
Di seguito anche il link dell'intervista a Piero Fassino rilasciata nei giorni scorsi al Corriere della Sera e la presa di posizione del Presidente della Camera Gianfranco Fini.
Francesco Maria Mariotti
Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma
L’onda emotiva del dibattito sull’immigrazione in Italia ha coinvolto e lacerato l’ebraismo italiano. Si è creato un intreccio di esigenze diverse: il rispetto della memoria e dell’unicità della shoà, che non può essere paragonata con leggerezza a ogni situazione, anche la più drammatica della storia; la complessità della questione immigrazione dove anche le migliori intenzioni di assistenza e integrazione si scontrano con realtà politiche che possono imporre scelte dure e dolorose; la buona regola che impone alle istituzioni ebraiche, attraverso i loro rappresentanti, di non fare scelte di parte politica, tanto più in periodi elettorali. Ma d’altra parte, e soprattutto, pesano la nostra memoria storica, che non può dimenticare la sofferenza dell’esilio, e la nostra tradizione religiosa, che già nella Torà ricorda il nostro essere “stranieri”, gherim, e per cinque volte ricorda che “siete stati stranieri in terra d’Egitto” (Shemot 22:20, 23:9, Waiqra 19:34, Devarim 10.19, 23:8) e proibisce di “restituire il servo al suo padrone” dal quale è fuggito (Devarim 23:16). Per cui niente confusioni con la shoà, niente interventi in politica, nessuna scelta di campo. Ma neppure niente silenzio, per il bene nostro e di questo Paese. I popoli di Amon e Moav si portano un marchio di infamia “perché non vi vennero incontro con il pane e con l’acqua nella strada quando eravate usciti dall’Egitto” (Devarim 23:5).
Piero Fassino: la sinistra cambi. Nel paese c'è rischio di una guerra fra poveri
Gianfranco Fini: rispettare il diritto d'asilo
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