Crescita all’inverso. La crisi, occasione per un’altra sinistra
Data di pubblicazione: 23.05.2009
Autore: Ravaioli, Carla; Ruffolo, Giorgio
Il manifesto, 23 maggio 2009
Carla Ravaioli e Giorgio Ruffolo: un faccia a faccia a partire dalla crisi economica per ridefinire parole come «crescita», «sviluppo», «politica», «disarmo». E mettere al centro i «vituperati» limiti ambientali.
Carla Ravaioli.Di fronte al terremoto che scuote l’economia mondiale le sinistre non sembrano avere una risposta propria. Uscire dalla crisi, rilanciare l’economia, sono i loro obiettivi, gli stessi di tutti. Cosa da un lato comprensibile: cercar di contenere disoccupazione e precarietà già dilaganti, è compito loro. E tuttavia parrebbe naturale che le sinistre tentassero di spingere lo sguardo oltre l’immediato, per una lettura più approfondita della crisi, e anche per provare a pensarne un esito diverso da quel “superamento” in cui tutti sperano.
Giorgio Ruffolo. Da tempo la sinistra non è più in grado di dare risposte alla politica, e nemmeno di porre le domande giuste, irrigidita com’è su due posizioni: l’una riformista di breve periodo, l’altra contestativa in genere, rivoluzionaria ma solo a parole. Due debolezze in fondo, lontane dalle autentiche vocazioni della sinistra: quella progettuale, impegnata in un riformismo concreto, e quella ideale, orientata a pensare una società diversa.
C. Forse, appunto, la mancanza di una risposta adeguata è dovuta alla mancanza di domande giuste… Si tende, anche a sinistra, a vedere la crisi attuale come una delle tante ricorrenti nella storia del capitalismo. A me pare molto diversa… Se non altro perché in realtà le crisi che scuotono il mondo sono due: quella economica e quella ecologica… Le quali a me (e non a me solo) sembrano strettamente intrecciate…
G. La crisi attuale è crisi dell’accumulazione. L’accumulazione, che è la logica del capitalismo, è per natura illimitata. Di fatto, una logica impossibile, quindi illogica, dissennata. Che è la causa prima sia dei disastri finanziari, sia di quelli ambientali. E parrebbe ormai davvero il momento di recuperare l’etica dei limiti, di saper contrapporre qualità a quantità.
C. E questo è - parrebbe dover essere - compito soprattutto delle sinistre. Ma non sembra un’ipotesi probabile… In realtà uno dei “peccati” che non riesco a perdonare alle sinistre è la loro totale sordità nei confronti del problema ambiente. Che dura ancora oggi: per le sinistre come per tutti, la questione resta marginale. Né mai viene messa in relazione con la crisi economica: relazione che a me pare evidente…
G. Non c’è dubbio. Ambedue le crisi, sia quella finanziaria, poi ricaduta sulla economia “reale”, sia quella ecologica, costituiscono una minaccia gravissima, e ambedue dovrebbero essere affrontate con un’economia di nuovo tipo, capace di evitare da un lato l’indebitamento della finanza, dall’altro l’indebitamento con la natura. Una delle non poche affinità esistenti tra i due fenomeni è appunto il fatto che ambedue nascono da un indebitamento. La diffusione di falsi crediti, che non trovavano riscontro nell’economia reale e non potevano pertanto essere restituiti, è all’origine della crisi finanziaria. Ma anche la crisi ecologica nasce da crediti che non possono essere restituiti: i danni irreversibili recati agli ecosistemi dalla rapacità con cui la società industriale è andata usando le risorse naturali, sono in realtà dei prestiti senza copertura.
C. Già. Ma, per quanto l’ambientalismo insista nell’indicare questa insanabile aporia tra una produzione in crescita illimitata e i limiti del Pianeta, l’economia insiste nell’inseguimento della crescita. Far ripartire l’aumento del Pil è suo obiettivo primario. Le sinistre, i sindacati, si allineano…
G. Eppure non potremo mancare di affrontare una domanda-chiave: è possibile porre in essere un’economia che eviti sia l’indebitamento del denaro, sia quello con la natura? Una domanda che non può prescindere da una seria analisi del rapporto tra l’attuale tipo di sviluppo e la crisi in corso. Rapporto che si manifesta con tutta evidenza, ad esempio, nei modi in cui si tenta di far fronte alla scarsità energetica: spingendo la ricerca di carburanti fossili nei luoghi più remoti, impegnando la tecnologia nella ricerca sempre più attiva di energie rinnovabili, nella messa a punto della massima efficienza; eccetera. Tutte cose utili, ma che, di fatto, non si confrontano con il problema della scarsità; accettano un’economia come la nostra, che ignora ogni fine superiore e impone se stessa come fine; ignorando insomma che il progresso non si misura quantitativamente, in termini di crescita, ma qualitativamente, in termini di sviluppo.
C. Lo sai bene, queste tue posizioni sono anche mie. Da gran tempo. L’evolversi della situazione mondiale mi va però suscitando non poche perplessità circa la possibilità di porle in essere. Perché lo “sviluppo”, così come ormai viene concepito e perseguito, è in realtà sempre meno distinguibile dalla “crescita”. La quantità mi pare si sia ormai imposta come una categoria che pervade e conforma tutti gli ambiti, fino a dare forma a rapporti di ogni tipo, percorsi di vita, progetti di ogni futuro… Non a caso il consumo definisce, non solo nei testi di sociologia, la forma del nostro tempo. Il consumo impostosi come simbolo positivo dell’identità individuale; il reddito, in quanto capacità di consumo, assunto come obiettivo primo di ogni vita, da conseguire non importa come; una massa di consumi individuali che danno corpo e futuro all’accumulazione capitalistica… E’ una vera e propria mutazione antropologica che si è prodotta negli ultimi decenni. Superare questa realtà temo richieda un drastico mutamento di abitudini, modelli, categorie mentali prevalenti, una rottura storica insomma, una “rivoluzione”. Che d’altronde non immagino in alcun modo simile alle rivoluzioni del passato.
G. Io sono convinto che questo capitalismo sia insostenibile. E la crisi attuale lo dimostra. Però sono convinto anche della possibilità di un capitalismo qualitativo, credo insomma che si possa salvare il capitalismo da se stesso. Perché non è vero che l’unica via al capitalismo sia l’accumulazione. E non sono il solo a crederlo. Ad esempio se ne dice convinto anche Muhammad Yunus, il “banchiere dei poveri”, che parla della crisi come di un’opportunità di ridisegnare l’economia e il sistema finanziario, dando luogo a un “capitalismo ben temperato”, non finalizzato alla massimizzazione del profitto, ma alla diffusione del benessere; e a questo proposito ricorda che Adam Smith, oltre a “La ricchezza delle nazioni”, ha scritto anche “Teoria dei sentimenti morali”, un bellissimo libro, in cui si occupa della complessità della natura umana, capace non solo di egoismo, ma anche di sollecitudine per la felicità altrui. Cosa su cui hanno riflettuto grandi economisti italiani, come Federico Caffè, Giorgio Fuà, Paolo Sylos Labini; e che ha trovato attuazione nell’opera di grandi capitani di industria, come Adriano Olivetti e Enrico Mattei, i quali hanno costruito grandi fortune perseguendo ideali non identificabili solo con il danaro.
C. Tutto questo è vero, e anche molto affascinante… Ma francamente non so quale possibilità abbia di messa in opera, nella situazione attuale. Che è una situazione estrema. Sotto l’aspetto ambientale, con la vistosissima accelerazione dello squilibrio ecologico. E sotto l’aspetto sociale, con un crescente sfruttamento del lavoro, insieme a un aumento scandaloso delle disuguaglianze: secondo l’Ocse l’1% della popolazione mondiale detiene il 50% della ricchezza. Ma anche, forse soprattutto, per via del gravissimo guasto, morale, psicologico, mentale, che il dominio della quantità, cioè l’economia degli ultimi decenni, ha prodotto: di cui la corruzione capillarmente diffusa e ormai accettata come normale è un significativo esempio. In questa realtà non so se un riformismo del tipo di cui parli possa trovare spazio e seguito. In che modo convincere la gente che il consumo, simbolo e totem del nostro tempo, va abbandonato, o quanto meno fortemente contenuto?
G. E’ il problema che poni anche nel tuo ultimo libro, “Ambiente e pace – Una sola rivoluzione”. Libro che ho molto apprezzato nella “pars destruens”, ma che mi convince pochissimo nella proposta di disarmo dell’Europa ….
C. Ma l’idea era di iniziare con l’Europa, per poi affidarle il compito di portare avanti la proposta, coinvolgendo anche i molti paesi - soprattutto del Sud del mondo - dove il pacifismo è presente e attivo. Dopo tutto, se produrre meno è, secondo l’ambientalismo più qualificato, l’unica via di salvezza, incominciare tagliando la produzione di armi, non mi pareva sbagliato. E non mi pare nemmeno ora, devo dire. Solo che in un anno, da quando ho dato alle stampe il libro che citavi, ho in qualche modo cambiato, o piuttosto “allargato” la mia ipotesi. In due parole: la produzione di armi rappresenta ufficialmente il 3,5 % del Pil mondiale. Qualora gli umani la piantassero finalmente di risolvere i loro problemi ammazzandosi reciprocamente, e anche di usare la guerra per rimettere in marcia l’economia quando rallenta, questo (due ipotesi azzardatissime, certo) rappresenterebbe per l’ambiente una bella “ripulita”, no?
G. Certo che sarebbe una bella ripulita, ma questa ipotesi irenica (gli umani, tutti, diventati di colpo pacifici) non mi pare, francamente, meno utopistica del mio “capitalismo ben temperato”. A quello si può arrivare gradualmente, come sempre è avvenuto: dopo tutto il capitalismo attuale è ben diverso da quello dei “maitres des forges” del XIX secolo: mentre alla pace universale si può giungere solo con un accordo universale, che non vedo all’orizzonte. D’altra parte, cominciare con l’Europa mi pare fin troppo facile… L’Europa questa scelta l’ha già fatta da tempo, per quanto riguarda le sue “guerre civili”. Eppoi, una prospettiva di pace senza condizioni comporta la “pace con Hitler”: per intenderci, la rinuncia a difendersi da ogni tipo di aggressione. E’ moralmente sostenibile?
C. Se una persona della tua intelligenza e delle tue posizioni politiche risponde così a questa mia idea, dev’essere un’idea davvero sballata…Più di quanto io stessa credessi, ed era tanto… E però m’è capitato di accennarvi in diverse pubbliche occasioni e, certo, le obiezioni non sono mancate, anche molto dure. Esempio: e tutti quelli che nelle armi ci lavorano, che pensi di farne? Ma parlare di riduzione generalizzata degli orari già riportava il discorso a livelli di normale discussione. Oppure: chi pagherebbe tutto questo? E di nuovo bastava ricordare la mostruosa disparità dei redditi e il dovere di una distribuzione più equa, per tornare a ragionare. Eppoi Hitler, certo, sacrosanto combatterlo: e però il nazismo non è stato il prodotto della prima grande guerra? Non è che violenza chiama violenza?
G. Carla, quel che ti si deve riconoscere è il coraggio dell'utopia. Che è più concreta di tante "realistiche" chiacchiere. Al metro della storia, almeno, che è fatta di utopie realizzate. Come l'abolizione della schiavitù. Neppure la Chiesa aveva il coraggio di sostenerla. Del resto, la schiavitù, la praticava largamente. Dunque è giusto battersi per le cause difficili. Senza dimenticare - è questa la virtù del buon riformismo - che esistono vie laterali, anche se più lunghe. L'importante è lo scopo. E su questo mi pare che siamo largamente d'accordo.
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