mercoledì 20 maggio 2009

Charles Taylor: La storia non è finita

La storia non è finita
di Charles Taylor - 19/05/2009

Fonte: Avvenire [scheda fonte]



Il rifiuto delle «storie della sottrazione» è uno dei lati dell’intuizione secondo cui gli esseri umani «costruiscono» nuove identità, nuovi immaginari e concezioni della loro posizione nel cosmo e nella storia. Le virgolette alla nozione di «costruzione» intendono segnalare che questo non è qualcosa che facciamo in modo deliberato e controllato. Noi siamo più come sonnambuli, che sono trasportati fra differenti costruzioni.

Vale a dire: vi è certo qualche elemento di intenzionalità (siamo catturati da nuove idee morali e religiose, come quella della sola fide), ma vi sono anche una gran quantità di conseguenze non volute. Nemmeno intendo dire con «costruzione» che i mutamenti non corrispondano a nulla nella realtà, che siano completamente arbitrari. Tutto questo fa forse di «costruzione» un termine inadatto, ma non ne ho trovato uno migliore. Con esso voglio indicare che un mutamento storico importante non sorge perché semplicemente diffondiamo alcune credenze o alcune delimitazioni concettuali, ma che noi siamo sempre impegnati nella ridefinizione della nostra capacità di agire e stiamo sempre modificando noi stessi. Come parlare di una direzione di cambiamento? Veniamo qui alla questione hegeliana, perché Hegel vede all’opera una direzione di cambiamento che muove la storia (lo spirito si dipana, la ragione realizza compiutamente se stessa). Ho detto che non ritengo che i cambiamenti siano puramente arbitrari.

Se qualcosa come la dottrina della sola fide ha potuto avere un tale grande impatto sulla storia, essa deve corrispondere a qualcosa di importante nella condizione umana, qualcosa a cui l’adozione di questa dottrina rispondeva. Impariamo a conoscere la nostra natura osservando che cosa è accaduto nella storia. Fin qui, la prospettiva è hegeliana. Tuttavia, dove Hegel sbaglia è nell’assumere che vi sia una sola direzione di cambiamento, che vi sia cioè una sola linea di sviluppo che ci trascina in avanti. Chiaramente, invece, la storia ci mostra che non è così. Ci sono larghe analogie fra i potenti itinerari di cambiamento che osserviamo nelle diverse civiltà, ma non possono essere tutte ricondotte a un’unica linea di sviluppo.

Prendiamo ad esempio il periodo assiale. Jaspers ha ragione nel sostenere che qui sia accaduto qualcosa di importante: un certo senso di trascendenza o di un bene più alto si presenta in diverse civiltà evolute. Queste hanno poi un enorme potere di trascinamento su coloro che vivono ai margini di queste civiltà. Tuttavia, è molto arduo mettere in luce quale sia l’elemento comune qui, per esempio fra i profeti ebraici, i filosofi greci, il Buddha e Confucio. Queste nuove aperture non possono essere messe a confronto lungo un asse che va da quelle che riflettono realmente il cambiamento storico e quelle che lo riflettono solo imperfettamente o solo in prima approssimazione. Questo tipo di gerarchia riflette la ristrettezza di pensiero e l’arroganza dell’Occidente e Hegel ne era soggiogato (non siamo però moralistici, era arduo non vederla così in Europa a quel tempo). In altri termini, è vero sia che certi sviluppi storici possono essere visti come il dipanarsi di un importante potenziale umano (e qui siamo certamente in territorio hegeliano), sia che la tavolozza di questi sviluppi è piuttosto ampia e non può essere ristretta in anticipo (e qui rompiamo con Hegel).

Certamente c’è spazio per ulteriori sorprese. Dovremmo anche aggiungere che queste dinamiche, benché corrispondano a un importante potenziale, quasi sempre comportano la perdita di altri potenziali umani. Per esempio, il «disincanto» del mondo non consiste solo nel nostro perdere alcune credenze bizzarre e improbabili sulle reliquie o sugli spiriti del bosco; esso consiste anche nel nostro sviluppare un nuovo modo di stare al mondo come «sé compressi» ( buffered selves); e questo significa la perdita di un certo tipo di sensibilità.

Così, Hegel ha ragione nel sostenere che

a) certi cambiamenti sono la realizzazione di importanti potenziali, ma egli ha torto

b) perché non vi è un’unica direzione per tali cambiamenti. Vi sono piuttosto forme rivali o analoghe, per indicare le quali fatichiamo a trovare un termine generale, come con le rivoluzioni del periodo assiale. Inoltre, Hegel ha torto

c) per il fatto che questi mutamenti comportano perdite e guadagni e spesso ci mettono di fronte a profondi dilemmi. La storia umana sembra orientata verso l’uniformità, perché alcuni sviluppi conferiscono un grande potere economico e militare alle società che li adottano.

Questo costringe altre società a sviluppare almeno degli equivalenti funzionali, se non vogliono essere sottomesse. Tuttavia, questi equivalenti funzionali devono essere sviluppati a partire dalle risorse culturali disponibili alle società stesse, cosicché noi abbiamo non una sola modernità, ma modernità multiple. Penso che la «postmodernità» sia soltanto la continuazione di certe tendenze della modernità. La modernità stessa è sempre stata qualcosa con cui abbiamo lottato, perché include nuove concezioni dell’ordine (come l’ordine morale moderno) e varie forme di ribellione contro queste ultime.

Entrambe queste istanze contengono una parte di verità, dal mio punto di vista. Abbiamo bisogno di una qualche versione dell’ordine morale moderno per vivere vite decenti, in cui certe forme di barbarie umana, di disuguaglianza, di sfruttamento possano essere ridotte al minimo; ma non possiamo avere un’adorazione feticistica per questi ordini, o pretendere che essi esauriscano le nostre vite normative. Ciò che sembra assurdo e talvolta ridicolo da questo punto di vista è la inesorabile «seriosità» ( sérieux) di questa lotta fra coloro che credono in un ordine assoluto e coloro che vogliono rifiutare qualsiasi ordine. Entrambe le posizioni sono ugualmente insostenibili ed è doloroso vedere tanta energia, anche fra le menti migliori, dispersa in questa inutile battaglia.

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