Si cominciò a parlare, anni fa, dei “ragazzi di Salò”, e non da destra. Si donava loro, così, la particolare vaga luce benevola romantica e assolutoria che porta con la sé la parola “giovinezza” – non a caso, titolo di un famoso inno fascista.
Qualche giorno fa, a Trespiano, “Azione Giovani Firenze e Casaggì, in collaborazione con Alleanza Nazionale” ha commemorato “i franchi tiratori fiorentini nel 64 anniversario della “liberazione” di Firenze. I franchi tiratori, giovanissimi combattenti per l’Italia, si opposero strenuamente all’invasione alleata della città, resistendo eroicamente per giorni”. La citazione è letterale.
I franchi tiratori fiorentini erano i cecchini fascisti che, per lunghi giorni, nella Firenze ormai liberata, tirarono su truppe alleate, partigiani e popolazione civile – per es., sulle donne che andavano a prendere l’acqua o che trasportavano le masserizie. Disperati, impauriti, forse, ma irrimediabilmente fascisti.
Fascisti che vollero difendere fino in fondo se stessi dal risentimento verso le prepotenze commesse (dalle più “piccole”: vessazioni, ceffoni, prepotenze da bulletti di quartiere) fino alle più grandi: minacce, delazioni, collaborazionismo nella denuncia e nella cattura di antifascisti, di partigiani e di ebrei.
Fascisti che vollero difendere un regime dittatoriale che aveva represso, picchiato, offeso, ingiuriato, chiuso in galera per lunghissimi anni gli oppositori (il nostro Presidente partigiano, Sandro Pertini, vi passò 14 anni; Antonio Gramsci ve ne passò 11, e ne morì). Che aveva incendiato le case del popolo, privato del lavoro e costretto ad emigrare per sfuggire alle botte continue, alla fame e all’olio di ricino chi dissentiva. Che aveva massacrato gli oppositori (Piero Gobetti, Giovanni Amendola, i fratelli Rosselli, Giacomo Matteotti). Che aveva le basi nella corruzione eletta a regola di comportamento e di governo. Che mandò i suoi soldati al massacro, impreparati e male equipaggiati in luoghi estremi come la Russia. Che trascinò il paese in una guerra che lo rase al suolo. Che emanò quella vergogna immedicabile, incancellabile che furono le leggi razziali.
Fascisti che, dopo l’8 settembre, fornirono nomi, indirizzi e mappe ai tedeschi per andare a razziare le persone di religione ebraica. Che erano pronti, nei paesini e nelle città, ad indicare, sempre ai tedeschi, il partigiano, l’antifascista, il dissidente. Che, durante Salò, razziarono e deportarono in prima persona. Che collaborarono convinti a nutrire i campi di concentramento e di sterminio, le prigioni in cui si moriva per fame e i forni crematori. La Shoah è anche – è – un fatto italiano, fascista e italiano.
Questa è una descrizione rapsodica e per sommi capi di cosa sia stato il fascismo. Provo vergogna e rabbia al pensiero che qualcuno pensi che erano ugualmente rispettabili, il cecchino che spara sul partigiano, il repubblichino che razzia la famiglia ebrea e i ragazzi e le ragazze partigiani offesi, torturati, stuprati, uccisi, “abbandonati nelle piazze/sull’erba dura di ghiaccio”. Trovo intollerabile che, anche da parte di chi dice di non essere fascista, si civetti con quella storia, si cerchi di smussare le differenze, di addomesticarle, di confonderne i confini.
Trovo intollerabile che un partito oggi al governo nel nostro Paese collabori ad una iniziativa che commemora i franchi tiratori di Firenze, i cecchini fascisti. A Firenze, dove agì la fascistissima banda Carità, che violentò torturò e uccise al di là di ogni immaginazione. A Trespiano, dove sono sepolti i fratelli Rosselli, Gaetano Salvemini e Ernesto Rossi.
Il mio babbo era ragazzino nella Firenze in guerra. Ricorda sempre, nei giorni convulsi della Liberazione, quando suonò la Martinella per chiamare all’insurrezione, un partigiano giovanissimo, giù in strada, serrato nella rientranza di un portone, sotto tiro, appunto, dei cecchini fascisti. La gente gli gridava di scappare, ma lui rimaneva lì, forse doveva coprire la ritirata di altri compagni. Dice babbo che si vedeva dalla finestra quanto tremasse di paura: eppure, rimase lì, a fare il suo dovere. Il mio babbo lo ricorda e tuttora piange. Io so perché rimase: lo scrive Italo Calvino, ne “Il sentiero dei nidi di ragno”. È una discussione tra partigiani: “Quindi, lo spirito dei nostri... e quello della brigata nera... la stessa cosa?... - La stessa cosa [...]; - la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena. [...] C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo [...] L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e a perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi”.
Paola Meneganti
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