L'ideologia della paura
di Paul Berman
dal CORRIERE DELLA SERA ,26 AGOSTO
Mentre vedevo passare i carri armati russi, mi si sono affollati nella mente sette spunti di riflessione.1) Il danno è già fatto, ed è vasto e irreversibile. Se le prime rivoluzioni di velluto del 1989 sono precipitate come una marea possente sulla scena mondiale, la seconda ondata ha atteso un impulso, l'intervento militare Usa nei Balcani. Il rovesciamento di Milosevic in Serbia, nel 2000, è stato seguito, di lì a poco, dalle «rivoluzioni dei colori».
Quella «rosa» in Georgia nel 2003, quella «arancione» in Ucraina nel 2004 — e da tutta una serie di sollevamenti minori, talvolta falliti, nell'ex area d'influenza sovietica. La terza ondata, in Medio Oriente nel 2005, si è rivelata più timida. La cosiddetta «primavera araba», se valutata su scala regionale, appare assai limitata. L'evento principale sono state le elezioni irachene del 2005, che hanno riportato al potere i partiti dell'estremismo religioso. Un risultato catastrofico. Eppure il voto iracheno, per quanto contraddittorio, esprimeva l'aspirazione democratica di milioni di coraggiosi elettori: un'ambiguità. E dalla «primavera araba» è scaturita la «rivoluzione dei cedri» nel marzo 2005 in Libano. La rivoluzione dei cedri ha conosciuto parecchi insuccessi dal 2005, ma il fallimento più clamoroso si è verificato ai primi di questo mese. Le milizie di Hezbollah hanno vinto il riconoscimento ufficiale in Libano e la loro legittimità è stata validata persino dai leader usciti semisconfitti della rivoluzione dei cedri. L'agosto del 2008 pertanto segna una battuta d'arresto sia per la rivoluzione «rosa» che per quella «dei cedri », eventi centrali della seconda e terza ondata di sollevamenti. E la marea si ritira. 2) Le vaste ripercussioni dell'invasione della Georgia si faranno sentire ovunque nell'ex blocco sovietico, e non solo. In ciascuno dei Paesi dell'ex blocco operano partiti filo russi, ostili alle rivoluzioni democratiche. I partiti filo russi possono contare su numerose e solide basi: sulle minoranze etniche russe presenti nei Paesi confinanti con la Russia; su tutta una gamma di interessi economici collegati alla Russia, derivanti dal gas e materie prime russe, oppure dalle reti di agenzie militari e poliziesche tramandate dall'era sovietica; su raggruppamenti nazionalisti filo slavi di vecchio stampo; e su alcuni eredi dell'antica tradizione politica comunista. Forti delle loro molteplici basi, i partiti filo russi sono in grado di lanciare vere e proprie offensive: gli attacchi informatici (già messi a segno contro l'Estonia, a nome della minoranza etnica russa presente in quel Paese, e, appena prima dell'invasione, contro la Georgia); la minaccia di sospendere l'erogazione del gas, che la Russia ha già utilizzato contro l'Ucraina; e, più vagamente, agitando lo spauracchio di non meglio definite tensioni politiche. Oggi i partiti filo russi nei Paesi confinanti con la Russia, come in quelli più lontani, contribuiscono ad aggravare la minaccia di ritorsione finale: l'invasione con divisioni corazzate. Va da sé che i partiti filo russi in questi Paesi hanno grandemente beneficiato dagli avvenimenti della scorsa settimana e ne usciranno rafforzati per molti anni a venire, anche se tutti i carri armati russi dovessero ritirarsi dalla Georgia domani stesso.
Il rafforzamento dei partiti filo russi si scontrerà, sulle prime, con la crescente ostilità dei partiti democratici — sia di quelli davvero democratici, come pure di alcuni che tanto democratici non sono. Le tensioni politiche pertanto sono destinate a salire in tutta la regione, non soltanto tra i Paesi dell'ex blocco e la Russia, ma anche all'interno di ciascuno di questi Paesi. L'aggravarsi delle tensioni interne avrà l'effetto inevitabile di rafforzare, nel breve raggio, la credibilità delle minacce espresse dai partiti filo russi. Si prevede perciò che nei prossimi mesi andrà intensificandosi la pressione sui partiti democratici per abbandonare ogni ostilità nei confronti dei partiti filo russi. Gli equilibri di potere si sposteranno verso i partiti filo russi a livello regionale, e non solo locale. La Polonia sembra un'eccezione alla regola, decisa com'è a opporsi con tutte le sue forze per non sottomettersi mai più alla Russia. I polacchi sono stati già minacciati apertamente di aggressione e persino di attacco nucleare dai vertici militari russi, in un rincorrersi di voci davvero sconcertanti. Più è grande il pericolo di attacco militare alla Polonia, più si acuiranno le tensioni politiche all'interno degli altri Paesi e meno prevedibili saranno le reazioni di paura e sgomento di ciascun Paese.
3) La posizione del regime iraniano impone all'Europa intera di fare pressioni sull'Iran per impedirgli di dotarsi di armi atomiche, e la via principale per ottenere ciò è fare pressioni sulla Russia, affinché non dia una mano all'Iran. Il balzo improvviso e impressionante dei partiti filo russi in una vasta fascia d'Europa impedirà all'Unione di adottare misure concrete. Così gli iraniani, almeno la fazione di Ahmadinejad, risulteranno rafforzati dall'invasione della Georgia. I successi dell'Iran peseranno indubbiamente sul dibattito in corso negli ambienti politici e militari in Israele, e certo non inviteranno alla pazienza e alla conciliazione. Gli avvenimenti dell'agosto 2008 rendono Israele più vulnerabile, non il contrario.
4) L'invasione della Georgia getta una luce allarmante sulla natura del pensiero politico all'interno della leadership russa, la quale sembra aderire a una nozione ottocentesca di interessi nazionali, appaiata a una solidarietà etnica stile secolo ventesimo. Nella controversia sulle regioni separatiste della Georgia, la Russia deve effettivamente affrontare una questione di interesse nazionale. Ma la Russia ha anche altri interessi da difendere — la pace e la tranquillità regionale, che favoriscono la crescita economica, e la certezza di poter sventare possibili eventi catastrofici. Mettere a ferro e fuoco mezzo mondo per difendere due enclave separatiste più piccole persino dello Schleswig-Holstein sembra una follia, nei calcoli convenzionali. Eppure la leadership russa ha deciso a favore dell'intervento armato. Perché?
Al giorno d'oggi, ogni qualvolta un vasto settore della popolazione si comporta in modo da contraddire la logica dei potenziali vantaggi e svantaggi, si dice che la gente in questione reagisce a un'«umiliazione » o sotto la spinta del «risentimento ». L'umiliazione però, presa come esperienza politica, esiste solo laddove essa è stata costruita ideologicamente, e non altrimenti. Si disse che la Germania, sconfitta nella Prima guerra mondiale, avesse subito un'«umiliazione», ma dopo la Seconda guerra mondiale, quando il Paese era stato sconfitto in modo dieci volte peggiore, nessuno rispolverò più il concetto di Paese «umiliato».Anche della Russia, uscita sconfitta dalla Guerra fredda, si dice sia stata «umiliata ». Ma io temo che i leader russi provino una sensazione assai peggiore, e cioè di paura. I leader russi dipingono il ritratto di un Paese tremendamente vulnerabile, non diversamente da come si vede Israele. La paura, e non l'umiliazione, ha spinto la Russia a invadere la Georgia, la paura della propria distruzione. Nel corso degli ultimi mesi, i diplomatici russi hanno espresso esplicitamente questo sentimento. Li ho sentiti di persona, mentre discutevano infervorati accusando la Georgia di rappresentare un «pericolo esistenziale» per la Russia.Eppure si tratta di un timore interamente ideologico, vale a dire immaginario. La situazione della Russia non coincide in realtà con quella di Israele. Nessuna potenza straniera, dalla fine della Guerra fredda, ha mai formulato piani di attaccare la Russia né di distruggerne la potenza e la ricchezza. Il timore dei russi si basa semplicemente su un'interpretazione piuttosto paranoide degli avvenimenti mondiali. Ma è difficile smontare i timori nati da interpretazioni paranoidi. L'accordo tacito siglato dal resto del mondo per consentire alla Russia di conquistare le regioni separatiste della Georgia e di insediare un regime fantoccio a Tbilisi, o in Ucraina, o altrove, non sortirà alcun effetto rassicurante e i leader russi continueranno a sentirsi minacciati. Ma perché i russi restano ancorati a tali interpretazioni? Si tratta di un arcaismo. Ad ogni modo, il prevalere di questa mentalità potrebbe suggerire che la Russia è assai più traballante di quanto non voglia dare a intendere. Una Russia stabile non si sentirebbe affatto minacciata dalla minuscola Georgia, né dalla Nato.
5) La politica estera americana dal 1989 a oggi si è basata in larghissima parte su un unico concetto: che l'interesse dell'America e il cammino della democrazia liberale nel mondo, a lungo termine, coincidono. Se non sono mai mancate critiche a questo modo di vedere negli stessi Stati Uniti, gli oppositori oggi si moltiplicano. Ma se l'America, nel prestare attenzione a queste critiche, si avvia in una direzione tradizionale e conservatrice — cioè se l'America si affida alla realpolitik e torna a corteggiare i dittatori — non ne beneficerà certamente la stabilità dell'Europa orientale, né tantomeno del Medio Oriente. Una virata conservatrice da parte dell'America servirà solo a indebolire le democrazie in altre parti del mondo, e perciò indebolirà le prospettive dei suoi fedeli alleati. Se verrà meno il sostegno americano alla solidarietà democratica, anche quello europeo ne uscirà zoppicante, producendo un effetto a cascata. Tuttavia, a meno che non si levi alta una voce per appoggiare con fermezza la solidarietà democratica, la tendenza conservatrice della realpolitik si farà certamente più marcata.
6) L'invasione della Georgia ci offre ancora una sconcertante dimostrazione di incompetenza da parte del governo Bush, che va a sommarsi agli insuccessi registrati nella gestione delle guerre in Iraq e Afghanistan, nei mancati soccorsi in seguito all'uragano Katrina, e nella crisi dei mutui. Il disastro in Georgia possiede però tutti i numeri per superare di gran lunga le precedenti catastrofi. È giusto e ragionevole, pertanto, addossare la responsabilità al governo Bush, ma solo per cinque minuti. Al sesto minuto, che è già arrivato, occorre rimboccarsi le maniche e prendere una decisione.
7) Una reazione semplice all'invasione russa non esiste. La risposta adeguata può essere solo complessa, di lungo periodo e globale. Occorre riconoscere che, al momento attuale, le questioni di principi democratici, sicurezza nazionale e crisi energetica sono confluite drasticamente. È cruciale innanzitutto sviluppare una nuova politica complessiva, che sappia riaffermare i principi della solidarietà democratica e affrontare con urgenza lo sviluppo di fonti energetiche alternative — facendone una questione di priorità nazionale — per indebolire la dittatura di Putin e di tanti altri nemici della democrazia che si nutrono di petrodollari. Oggi, è vero, dopo l'invasione della Georgia, finiremo col confermare un aspetto della paranoia russa. Il nostro obiettivo dovrà essere quello di smontare, a tutela dell'ambiente, l'elemento centrale della ricchezza assai primitiva della Russia. Un programma energetico alternativo ci costringerà a dare le spalle alla dottrina del libero mercato, e anche per questo la nuova politica non potrà essere tradizionalmente conservatrice: sarà necessaria una svolta a sinistra.
Ultimamente Barack Obama ha fatto riferimento all'«economia verde». La nuova politica estera ed energetica dovrà lavorare verso il medesimo scopo e incarnare, in qualsiasi variante, una politica di «democrazia verde» — verde, perché i carburanti fossili sono diventati il motore della reazione, in tutto il mondo; e democrazia, perché le guerre si combattono per qualcosa e la guerra in Georgia, malgrado tutti i discorsi sull'oppressione delle minoranze etniche filo russe, resta a conti fatti retaggio del 1989.(Traduzione di Rita Baldassarre)
26 agosto 2008
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