lunedì 18 agosto 2008

il fascismo non c'entra

da la stampa

15/8/2008
Il fascismo non c'entra

Ricordate Pietro Maso, il ragazzo che aveva ucciso entrambi i genitori per intascare i soldi dell’eredità? Una volta catturato, definì il suo gesto una «cazzata». Nello stesso modo uno degli assassini del Circeo (1976) ebbe a parlare del massacro di Rosaria Lopez e Donatella Colasanti, l’una uccisa e l’altra sopravvissuta per miracolo alle violenze. E nello stesso modo ancora altri innumerevoli autori di imprese nefande, una volta scoperti, hanno definito la devastazione di una scuola, l’incendio di un bosco, lo stupro di una ragazza, la violenza su un handicappato. Poco male, si potrebbe dire, perché il grave è quel che si fa, non come lo si chiama. E invece no, le parole contano, perché chiamare le cose con il nome sbagliato aggiunge male al male che si è già fatto. Classificare un gesto estremo e gravissimo nel novero delle bravate - termine desueto, giovanilmente tradotto nel più moderno «cazzate» - significa suggerire che tutto è sullo stesso piano. Suonare i campanelli dei citofoni alle due di notte, sgonfiare le gomme della bici di un compagno, mettere una bomboletta puzzolente sotto la cattedra della professoressa di greco. Oppure uccidere i genitori, violentare una ragazza, distruggere una scuola. Tutto uguale, tutte trasgressioni sciocche perché poi si rischia di essere scoperti e puniti. Così ci si abitua all’idea che sono cose che possono succedere, e che si tratta sempre della stessa sindrome, fatta di superficialità, disattenzione, trasgressività o esuberanza. Se è stata una cazzata, basterà chiedere scusa e naturalmente si ha pieno diritto al perdono. Chiamare le cose negative con il nome giusto è importante perché aiuta a classificarle bene. E classificarle bene è la precondizione per vincere il male, per combatterlo nel modo più incisivo. «Conoscere per decidere», diceva Luigi Einaudi; «non sbagliare la diagnosi per non sbagliare la cura», dice qualsiasi medico. Ma classificare bene non significa solo non chiamare raffreddore una polmonite. Significa anche l’esatto contrario: non chiamare polmonite un semplice raffreddore, non chiamare varicella un’orticaria. Dire che il paziente ha un male gravissimo non aiuta a concentrare l’attenzione sul malato, ma di per sé non aiuta a trovare la terapia giusta. Per essere curato, il male non va né declassato né amplificato, ma semplicemente diagnosticato in modo esatto. E proprio questa esattezza mi pare stia venendo meno da qualche anno in Italia. L’aggettivo «fascista», che quand’ero studente universitario veniva brandito contro chiunque la pensasse diverso (dal politicamente corretto del momento), viene ora dissepolto dal settimanale Famiglia Cristiana per stigmatizzare alcune decisioni del governo in carica, in particolare sull’esercito per le strade, le impronte ai bambini rom, la social card di Tremonti (bollata come «carità di stato»: paura di perdere il monopolio, cara Chiesa?). Ieri il Corriere della Sera ha pubblicato le foto di qualcosa come 26 personaggi pubblici che in varie forme hanno gridato al regime, al pericolo di ritorno del fascismo sotto più o meno mentite spoglie. Può anche darsi che, fra dieci, venti o trent’anni queste grida di dolore si rivelino profetiche, e gli scettici di oggi siano costretti a chiedere ammenda: nessuno sa che cosa ci riserva il futuro, e nessuno può essere sicuro al 100% delle sue diagnosi. Ma proprio perché anch’io non vedo di buon occhio molto di quel che la politica ci sta propinando in questi anni di seconda Repubblica, mi sembra importante non sbagliare la diagnosi. E le diagnosi che parlano di quel che sta avvenendo in Italia come una «rinascita del fascismo sotto altre forme» non mi convincono per niente. E’ senz’altro vero che l’esecutivo, di qualsiasi colore politico sia, è sempre meno espressione della volontà popolare, e agisce sempre più al di fuori di un vero controllo dell’opinione pubblica. E’ vero che i partiti si sono ridotti in gran parte a comitati elettorali. E’ vero che il Parlamento conta sempre di meno. Ma queste sono tendenze comuni a molte democrazie occidentali, e hanno ben poco a che fare con il fascismo. Quel che è specifico dell’Italia è il conflitto di interessi (di Berlusconi, ma non solo), la lenta ma inesorabile implosione delle istituzioni e delle grandi infrastrutture materiali, la tendenza di entrambi gli schieramenti a disfare quel che «gli altri» hanno fatto, ma anche la credenza bipartisan che il federalismo possa essere il rimedio a molti dei nostri mali. Che cosa c’entra tutto questo con il fascismo? E non è paradossale che quell’etichetta venga affibbiata a un paese che su una cosa soltanto sta guadagnando un ragionevole accordo, ossia sull’idea di darsi un assetto compiutamente federale, l’esatto contrario cioè del centralismo fascista? Si potrà forse obiettare che chi parla di pericolo di «rinascita del fascismo sotto altre forme» ha in mente le discriminazioni su base razziale (aggravante di clandestinità, impronte ai bambini rom), l'esercito per le strade e nelle piazze, lo «scandalo» dei campi di raccolta dei clandestini, un certo paternalismo nelle politiche sociali (la carta per i poveri di Tremonti). Ma chi ragiona così dimentica due cose. La prima è che molte delle misure rimproverate al governo saranno pure più o meno mal congegnate, ma comunque sono analoghe a misure dello stesso tipo adottate nei principali paesi occidentali. La seconda è che la gente comune spesso vede in tali misure semplicemente un modo per invertire il lungo trend di lassismo e superficialità che ha informato l’azione di tutti i governi da molto tempo a questa parte. E’ questo che rende popolari i militari per le strade, è questo che rende popolare la crociata del ministro Brunetta contro l'assenteismo nel pubblico impiego. Il fascismo non c’entra per nulla, ed è un peccato che a sinistra siano pochi a riconoscerlo francamente e senza mezzi termini (fra questi un vecchio e glorioso dirigente comunista come Pietro Ingrao). Quel che c’entra, semmai, è la lenta ma solida crescita, in Italia, di una domanda di autorità che - come ha scritto qualche giorno fa Baget Bozzo su questo giornale - contagia anche il popolo di sinistra e quindi consegna permanentemente i voti e l'egemonia alla destra. Ma autorità significa, nel lessico infantile della sinistra, autoritarismo. E autoritarismo uguale fascismo. Così la frittata è fatta, e il cerchio si chiude definitivamente. La nostra disinvoltura nel dare i nomi alle cose ci impedisce di capire quel che davvero succede. E, non facendoci capire, ci rende impotenti a influire sul corso delle cose.

Nessun commento: