Attali: attenti all’“ideologia delle liberalizzazioni”
Ieri 30 agosto 2008, 12.30.00 Jacques Attali
Dal Meeting di Rimini l’economista Jacques Attali interviene a tutto campo si economia internazionale, energia, multiculturalismo, riforme. E auspica una ripresa del ruolo dello Stato: c’è una “ideologia delle liberalizzazioni”, attenti al “frazionamento dei poteri”(Pubblicato il 30/08/2008)Leggi il resoconto dell'incontroAscolta la conferenza stampa di Attali e Conti
Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
domenica 31 agosto 2008
venerdì 29 agosto 2008
Georgia
dal sito della delegazione italiana nel PSE
venerdì 29 agosto 2008
GEORGIA, RUSSIA, EUROPA - di Pasqualina Napoletano
(di Pasqualina Napoletano) - Il conflitto in Georgia e in Sud Ossezia ha colto di sorpresa l'Europa, per la tempistica e per la successione degli eventi. Le violenze sulle popolazioni, lo scoppio di una guerra guerreggiata ai confini dell'UE, la rottura così palese della legalità internazionale hanno bruscamente riportato l'Europa di fronte alle proprie responsabilità di attore internazionale.Le ragioni ed i sintomi della crisi erano presenti da tempo agli Stati europei, che ora sono chiamati a trovare un equilibrio difficile ed a gestire la situazione tenendo conto delle profonde conseguenze che il conflitto ha scatenato.Va dato atto alla Presidenza Francese di un grande attivismo e di essere riuscita ad ottenere alcuni importanti risultati. Ora però, dopo il cessate il fuoco, la situazione torna ad essere sul rischio di precipitare, con il riconoscimento unilaterale da parte della Russia dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud.Il Parlamento Europeo discuterà della crisi tra Georgia e Russia il prossimo lunedì, in concomitanza con il vertice straordinario dell'UE convocato a Bruxelles dal Presidente Sarkozy. Come socialisti europei chiederemo ai leader europei di impegnarsi a governare la situazione in modo unitario e, soprattutto, di commisurare le prossime azioni dell'UE alla necessità di non interrompere le relazioni con la Russia. Resta certamente la condanna per la reazione sproporzionata in Georgia e per il provocatorio riconoscimento unilaterale dell'Ossezia del Sud. Allo stesso tempo, crediamo che il contributo più utile all'abbassamento delle tensioni in tutta la regione passi in primo luogo per la continuazione del dialogo con Mosca, evitando un isolamento ed una sindrome da accerchiamento che non farebbe che irrigidire le posizioni in campo. E' da lasciar cadere nel vuoto, in questo senso, la provocazione di chi parla addirittura di sanzioni da imporre alla Russia.La Russia non è il nemico naturale dell'Europa, ne è semmai il partner.Siamo convinti pertanto che, così come noi abbiamo bisogno della Russia, anche la Russia non possa fare a meno della partnership con l'Europa. Anche in questa crisi, e lo dimostra d'altronde il riconoscimento delle due province georgiane, alcune mosse di Mosca dimostrino scarsa lungimiranza, se si pensa agli effetti che esso può avere sulle spinte centrifughe di territori all'interno dei confini russi, come Daghestan e Cecenia. Facciamo appello al Consiglio dell'UE perché trovi gli strumenti per governare una crisi che rischia di far divenire la regione del Caucaso quello che furono i Balcani poco più di un decennio fa. Rinnoviamo l'appello alla convocazione di una conferenza di pace, nel quadro dell'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa e con la partecipazione di tutti i partner della regione. Quello che preoccupa maggiormente, nell'escalation delle tensioni nella regione, è la crescita generalizzata delle pulsioni nazionaliste.Restiamo convinti che la risposta più lungimirante sia quella, più alta ed ambiziosa, della dimensione sovranazionale e della rottura degli schemi unilaterali. Già ai tempi della recente crisi sul riconoscimento del Kosovo avevamo denunciato i rischi di una nuova esplosione di nazionalismi e di un ritorno all'instabilità ai confini dell'Europa. Ora rilanciamo con forza, parallelamente alla convocazione di una conferenza di pace, il progetto di integrazione regionale per tutta l'area caucasica tramite la creazione di un'Unione per il Mar Nero, da affiancare alle strutture della politica europea di vicinato ed alle relazioni che l'Europa ha con i paesi dell'are a, comprese naturalmente la Russia e la Turchia.
Pasqualina Napoletano
venerdì 29 agosto 2008
GEORGIA, RUSSIA, EUROPA - di Pasqualina Napoletano
(di Pasqualina Napoletano) - Il conflitto in Georgia e in Sud Ossezia ha colto di sorpresa l'Europa, per la tempistica e per la successione degli eventi. Le violenze sulle popolazioni, lo scoppio di una guerra guerreggiata ai confini dell'UE, la rottura così palese della legalità internazionale hanno bruscamente riportato l'Europa di fronte alle proprie responsabilità di attore internazionale.Le ragioni ed i sintomi della crisi erano presenti da tempo agli Stati europei, che ora sono chiamati a trovare un equilibrio difficile ed a gestire la situazione tenendo conto delle profonde conseguenze che il conflitto ha scatenato.Va dato atto alla Presidenza Francese di un grande attivismo e di essere riuscita ad ottenere alcuni importanti risultati. Ora però, dopo il cessate il fuoco, la situazione torna ad essere sul rischio di precipitare, con il riconoscimento unilaterale da parte della Russia dell'Abkhazia e dell'Ossezia del Sud.Il Parlamento Europeo discuterà della crisi tra Georgia e Russia il prossimo lunedì, in concomitanza con il vertice straordinario dell'UE convocato a Bruxelles dal Presidente Sarkozy. Come socialisti europei chiederemo ai leader europei di impegnarsi a governare la situazione in modo unitario e, soprattutto, di commisurare le prossime azioni dell'UE alla necessità di non interrompere le relazioni con la Russia. Resta certamente la condanna per la reazione sproporzionata in Georgia e per il provocatorio riconoscimento unilaterale dell'Ossezia del Sud. Allo stesso tempo, crediamo che il contributo più utile all'abbassamento delle tensioni in tutta la regione passi in primo luogo per la continuazione del dialogo con Mosca, evitando un isolamento ed una sindrome da accerchiamento che non farebbe che irrigidire le posizioni in campo. E' da lasciar cadere nel vuoto, in questo senso, la provocazione di chi parla addirittura di sanzioni da imporre alla Russia.La Russia non è il nemico naturale dell'Europa, ne è semmai il partner.Siamo convinti pertanto che, così come noi abbiamo bisogno della Russia, anche la Russia non possa fare a meno della partnership con l'Europa. Anche in questa crisi, e lo dimostra d'altronde il riconoscimento delle due province georgiane, alcune mosse di Mosca dimostrino scarsa lungimiranza, se si pensa agli effetti che esso può avere sulle spinte centrifughe di territori all'interno dei confini russi, come Daghestan e Cecenia. Facciamo appello al Consiglio dell'UE perché trovi gli strumenti per governare una crisi che rischia di far divenire la regione del Caucaso quello che furono i Balcani poco più di un decennio fa. Rinnoviamo l'appello alla convocazione di una conferenza di pace, nel quadro dell'Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa e con la partecipazione di tutti i partner della regione. Quello che preoccupa maggiormente, nell'escalation delle tensioni nella regione, è la crescita generalizzata delle pulsioni nazionaliste.Restiamo convinti che la risposta più lungimirante sia quella, più alta ed ambiziosa, della dimensione sovranazionale e della rottura degli schemi unilaterali. Già ai tempi della recente crisi sul riconoscimento del Kosovo avevamo denunciato i rischi di una nuova esplosione di nazionalismi e di un ritorno all'instabilità ai confini dell'Europa. Ora rilanciamo con forza, parallelamente alla convocazione di una conferenza di pace, il progetto di integrazione regionale per tutta l'area caucasica tramite la creazione di un'Unione per il Mar Nero, da affiancare alle strutture della politica europea di vicinato ed alle relazioni che l'Europa ha con i paesi dell'are a, comprese naturalmente la Russia e la Turchia.
Pasqualina Napoletano
la rochelle, università d'estate del PS
da le Monde
La Rochelle, un rituelà la fois apprécié et contesté par les socialistes
Le PS, dont l'université d'été a débuté vendredi 29 août, s'interroge sur l'intérêt politique de son rendez-vous annuel.
La Rochelle, un rituelà la fois apprécié et contesté par les socialistes
Le PS, dont l'université d'été a débuté vendredi 29 août, s'interroge sur l'intérêt politique de son rendez-vous annuel.
martedì 26 agosto 2008
dal sito dello spiegel
Shevardnadze Speaks on the Georgia Crisis: 'This War Could Have Been Avoided'Eduard Shevardnadze, former Soviet foreign minister and president of Georgia prior to being overthrown by Mikhail Saakashvili, says that both sides made mistakes in the lead up to the war between Georgia and Russia. But NATO, he says, made one of the decisive errors. mehr...
Georgian Tanks vs. Ossetian Teenagers: The Story of Tskhinvali's Resistance
Photo Gallery: Teenagers Attacked Saakashvili's Tanks
Misplaced Suffrage Celebration: Second-Place Citizens
Georgian Tanks vs. Ossetian Teenagers: The Story of Tskhinvali's Resistance
Photo Gallery: Teenagers Attacked Saakashvili's Tanks
Misplaced Suffrage Celebration: Second-Place Citizens
primarie alla francese (e in altri paesi)
Terra Nova publie aujourd'hui "Pour une primaire à la française". La sortie de cet ouvrage est l'aboutissement du "Projet Primaires", un groupe de réflexion présidé par Olivier Ferrand et Olivier Duhamel, qui a étudié l'organisation des primaires dans différents pays.
Lire la synthèse de l'essai
Voir la présentation du groupe de travail
Berman
L'ideologia della paura
di Paul Berman
dal CORRIERE DELLA SERA ,26 AGOSTO
Mentre vedevo passare i carri armati russi, mi si sono affollati nella mente sette spunti di riflessione.1) Il danno è già fatto, ed è vasto e irreversibile. Se le prime rivoluzioni di velluto del 1989 sono precipitate come una marea possente sulla scena mondiale, la seconda ondata ha atteso un impulso, l'intervento militare Usa nei Balcani. Il rovesciamento di Milosevic in Serbia, nel 2000, è stato seguito, di lì a poco, dalle «rivoluzioni dei colori».
Quella «rosa» in Georgia nel 2003, quella «arancione» in Ucraina nel 2004 — e da tutta una serie di sollevamenti minori, talvolta falliti, nell'ex area d'influenza sovietica. La terza ondata, in Medio Oriente nel 2005, si è rivelata più timida. La cosiddetta «primavera araba», se valutata su scala regionale, appare assai limitata. L'evento principale sono state le elezioni irachene del 2005, che hanno riportato al potere i partiti dell'estremismo religioso. Un risultato catastrofico. Eppure il voto iracheno, per quanto contraddittorio, esprimeva l'aspirazione democratica di milioni di coraggiosi elettori: un'ambiguità. E dalla «primavera araba» è scaturita la «rivoluzione dei cedri» nel marzo 2005 in Libano. La rivoluzione dei cedri ha conosciuto parecchi insuccessi dal 2005, ma il fallimento più clamoroso si è verificato ai primi di questo mese. Le milizie di Hezbollah hanno vinto il riconoscimento ufficiale in Libano e la loro legittimità è stata validata persino dai leader usciti semisconfitti della rivoluzione dei cedri. L'agosto del 2008 pertanto segna una battuta d'arresto sia per la rivoluzione «rosa» che per quella «dei cedri », eventi centrali della seconda e terza ondata di sollevamenti. E la marea si ritira. 2) Le vaste ripercussioni dell'invasione della Georgia si faranno sentire ovunque nell'ex blocco sovietico, e non solo. In ciascuno dei Paesi dell'ex blocco operano partiti filo russi, ostili alle rivoluzioni democratiche. I partiti filo russi possono contare su numerose e solide basi: sulle minoranze etniche russe presenti nei Paesi confinanti con la Russia; su tutta una gamma di interessi economici collegati alla Russia, derivanti dal gas e materie prime russe, oppure dalle reti di agenzie militari e poliziesche tramandate dall'era sovietica; su raggruppamenti nazionalisti filo slavi di vecchio stampo; e su alcuni eredi dell'antica tradizione politica comunista. Forti delle loro molteplici basi, i partiti filo russi sono in grado di lanciare vere e proprie offensive: gli attacchi informatici (già messi a segno contro l'Estonia, a nome della minoranza etnica russa presente in quel Paese, e, appena prima dell'invasione, contro la Georgia); la minaccia di sospendere l'erogazione del gas, che la Russia ha già utilizzato contro l'Ucraina; e, più vagamente, agitando lo spauracchio di non meglio definite tensioni politiche. Oggi i partiti filo russi nei Paesi confinanti con la Russia, come in quelli più lontani, contribuiscono ad aggravare la minaccia di ritorsione finale: l'invasione con divisioni corazzate. Va da sé che i partiti filo russi in questi Paesi hanno grandemente beneficiato dagli avvenimenti della scorsa settimana e ne usciranno rafforzati per molti anni a venire, anche se tutti i carri armati russi dovessero ritirarsi dalla Georgia domani stesso.
Il rafforzamento dei partiti filo russi si scontrerà, sulle prime, con la crescente ostilità dei partiti democratici — sia di quelli davvero democratici, come pure di alcuni che tanto democratici non sono. Le tensioni politiche pertanto sono destinate a salire in tutta la regione, non soltanto tra i Paesi dell'ex blocco e la Russia, ma anche all'interno di ciascuno di questi Paesi. L'aggravarsi delle tensioni interne avrà l'effetto inevitabile di rafforzare, nel breve raggio, la credibilità delle minacce espresse dai partiti filo russi. Si prevede perciò che nei prossimi mesi andrà intensificandosi la pressione sui partiti democratici per abbandonare ogni ostilità nei confronti dei partiti filo russi. Gli equilibri di potere si sposteranno verso i partiti filo russi a livello regionale, e non solo locale. La Polonia sembra un'eccezione alla regola, decisa com'è a opporsi con tutte le sue forze per non sottomettersi mai più alla Russia. I polacchi sono stati già minacciati apertamente di aggressione e persino di attacco nucleare dai vertici militari russi, in un rincorrersi di voci davvero sconcertanti. Più è grande il pericolo di attacco militare alla Polonia, più si acuiranno le tensioni politiche all'interno degli altri Paesi e meno prevedibili saranno le reazioni di paura e sgomento di ciascun Paese.
3) La posizione del regime iraniano impone all'Europa intera di fare pressioni sull'Iran per impedirgli di dotarsi di armi atomiche, e la via principale per ottenere ciò è fare pressioni sulla Russia, affinché non dia una mano all'Iran. Il balzo improvviso e impressionante dei partiti filo russi in una vasta fascia d'Europa impedirà all'Unione di adottare misure concrete. Così gli iraniani, almeno la fazione di Ahmadinejad, risulteranno rafforzati dall'invasione della Georgia. I successi dell'Iran peseranno indubbiamente sul dibattito in corso negli ambienti politici e militari in Israele, e certo non inviteranno alla pazienza e alla conciliazione. Gli avvenimenti dell'agosto 2008 rendono Israele più vulnerabile, non il contrario.
4) L'invasione della Georgia getta una luce allarmante sulla natura del pensiero politico all'interno della leadership russa, la quale sembra aderire a una nozione ottocentesca di interessi nazionali, appaiata a una solidarietà etnica stile secolo ventesimo. Nella controversia sulle regioni separatiste della Georgia, la Russia deve effettivamente affrontare una questione di interesse nazionale. Ma la Russia ha anche altri interessi da difendere — la pace e la tranquillità regionale, che favoriscono la crescita economica, e la certezza di poter sventare possibili eventi catastrofici. Mettere a ferro e fuoco mezzo mondo per difendere due enclave separatiste più piccole persino dello Schleswig-Holstein sembra una follia, nei calcoli convenzionali. Eppure la leadership russa ha deciso a favore dell'intervento armato. Perché?
Al giorno d'oggi, ogni qualvolta un vasto settore della popolazione si comporta in modo da contraddire la logica dei potenziali vantaggi e svantaggi, si dice che la gente in questione reagisce a un'«umiliazione » o sotto la spinta del «risentimento ». L'umiliazione però, presa come esperienza politica, esiste solo laddove essa è stata costruita ideologicamente, e non altrimenti. Si disse che la Germania, sconfitta nella Prima guerra mondiale, avesse subito un'«umiliazione», ma dopo la Seconda guerra mondiale, quando il Paese era stato sconfitto in modo dieci volte peggiore, nessuno rispolverò più il concetto di Paese «umiliato».Anche della Russia, uscita sconfitta dalla Guerra fredda, si dice sia stata «umiliata ». Ma io temo che i leader russi provino una sensazione assai peggiore, e cioè di paura. I leader russi dipingono il ritratto di un Paese tremendamente vulnerabile, non diversamente da come si vede Israele. La paura, e non l'umiliazione, ha spinto la Russia a invadere la Georgia, la paura della propria distruzione. Nel corso degli ultimi mesi, i diplomatici russi hanno espresso esplicitamente questo sentimento. Li ho sentiti di persona, mentre discutevano infervorati accusando la Georgia di rappresentare un «pericolo esistenziale» per la Russia.Eppure si tratta di un timore interamente ideologico, vale a dire immaginario. La situazione della Russia non coincide in realtà con quella di Israele. Nessuna potenza straniera, dalla fine della Guerra fredda, ha mai formulato piani di attaccare la Russia né di distruggerne la potenza e la ricchezza. Il timore dei russi si basa semplicemente su un'interpretazione piuttosto paranoide degli avvenimenti mondiali. Ma è difficile smontare i timori nati da interpretazioni paranoidi. L'accordo tacito siglato dal resto del mondo per consentire alla Russia di conquistare le regioni separatiste della Georgia e di insediare un regime fantoccio a Tbilisi, o in Ucraina, o altrove, non sortirà alcun effetto rassicurante e i leader russi continueranno a sentirsi minacciati. Ma perché i russi restano ancorati a tali interpretazioni? Si tratta di un arcaismo. Ad ogni modo, il prevalere di questa mentalità potrebbe suggerire che la Russia è assai più traballante di quanto non voglia dare a intendere. Una Russia stabile non si sentirebbe affatto minacciata dalla minuscola Georgia, né dalla Nato.
5) La politica estera americana dal 1989 a oggi si è basata in larghissima parte su un unico concetto: che l'interesse dell'America e il cammino della democrazia liberale nel mondo, a lungo termine, coincidono. Se non sono mai mancate critiche a questo modo di vedere negli stessi Stati Uniti, gli oppositori oggi si moltiplicano. Ma se l'America, nel prestare attenzione a queste critiche, si avvia in una direzione tradizionale e conservatrice — cioè se l'America si affida alla realpolitik e torna a corteggiare i dittatori — non ne beneficerà certamente la stabilità dell'Europa orientale, né tantomeno del Medio Oriente. Una virata conservatrice da parte dell'America servirà solo a indebolire le democrazie in altre parti del mondo, e perciò indebolirà le prospettive dei suoi fedeli alleati. Se verrà meno il sostegno americano alla solidarietà democratica, anche quello europeo ne uscirà zoppicante, producendo un effetto a cascata. Tuttavia, a meno che non si levi alta una voce per appoggiare con fermezza la solidarietà democratica, la tendenza conservatrice della realpolitik si farà certamente più marcata.
6) L'invasione della Georgia ci offre ancora una sconcertante dimostrazione di incompetenza da parte del governo Bush, che va a sommarsi agli insuccessi registrati nella gestione delle guerre in Iraq e Afghanistan, nei mancati soccorsi in seguito all'uragano Katrina, e nella crisi dei mutui. Il disastro in Georgia possiede però tutti i numeri per superare di gran lunga le precedenti catastrofi. È giusto e ragionevole, pertanto, addossare la responsabilità al governo Bush, ma solo per cinque minuti. Al sesto minuto, che è già arrivato, occorre rimboccarsi le maniche e prendere una decisione.
7) Una reazione semplice all'invasione russa non esiste. La risposta adeguata può essere solo complessa, di lungo periodo e globale. Occorre riconoscere che, al momento attuale, le questioni di principi democratici, sicurezza nazionale e crisi energetica sono confluite drasticamente. È cruciale innanzitutto sviluppare una nuova politica complessiva, che sappia riaffermare i principi della solidarietà democratica e affrontare con urgenza lo sviluppo di fonti energetiche alternative — facendone una questione di priorità nazionale — per indebolire la dittatura di Putin e di tanti altri nemici della democrazia che si nutrono di petrodollari. Oggi, è vero, dopo l'invasione della Georgia, finiremo col confermare un aspetto della paranoia russa. Il nostro obiettivo dovrà essere quello di smontare, a tutela dell'ambiente, l'elemento centrale della ricchezza assai primitiva della Russia. Un programma energetico alternativo ci costringerà a dare le spalle alla dottrina del libero mercato, e anche per questo la nuova politica non potrà essere tradizionalmente conservatrice: sarà necessaria una svolta a sinistra.
Ultimamente Barack Obama ha fatto riferimento all'«economia verde». La nuova politica estera ed energetica dovrà lavorare verso il medesimo scopo e incarnare, in qualsiasi variante, una politica di «democrazia verde» — verde, perché i carburanti fossili sono diventati il motore della reazione, in tutto il mondo; e democrazia, perché le guerre si combattono per qualcosa e la guerra in Georgia, malgrado tutti i discorsi sull'oppressione delle minoranze etniche filo russe, resta a conti fatti retaggio del 1989.(Traduzione di Rita Baldassarre)
26 agosto 2008
di Paul Berman
dal CORRIERE DELLA SERA ,26 AGOSTO
Mentre vedevo passare i carri armati russi, mi si sono affollati nella mente sette spunti di riflessione.1) Il danno è già fatto, ed è vasto e irreversibile. Se le prime rivoluzioni di velluto del 1989 sono precipitate come una marea possente sulla scena mondiale, la seconda ondata ha atteso un impulso, l'intervento militare Usa nei Balcani. Il rovesciamento di Milosevic in Serbia, nel 2000, è stato seguito, di lì a poco, dalle «rivoluzioni dei colori».
Quella «rosa» in Georgia nel 2003, quella «arancione» in Ucraina nel 2004 — e da tutta una serie di sollevamenti minori, talvolta falliti, nell'ex area d'influenza sovietica. La terza ondata, in Medio Oriente nel 2005, si è rivelata più timida. La cosiddetta «primavera araba», se valutata su scala regionale, appare assai limitata. L'evento principale sono state le elezioni irachene del 2005, che hanno riportato al potere i partiti dell'estremismo religioso. Un risultato catastrofico. Eppure il voto iracheno, per quanto contraddittorio, esprimeva l'aspirazione democratica di milioni di coraggiosi elettori: un'ambiguità. E dalla «primavera araba» è scaturita la «rivoluzione dei cedri» nel marzo 2005 in Libano. La rivoluzione dei cedri ha conosciuto parecchi insuccessi dal 2005, ma il fallimento più clamoroso si è verificato ai primi di questo mese. Le milizie di Hezbollah hanno vinto il riconoscimento ufficiale in Libano e la loro legittimità è stata validata persino dai leader usciti semisconfitti della rivoluzione dei cedri. L'agosto del 2008 pertanto segna una battuta d'arresto sia per la rivoluzione «rosa» che per quella «dei cedri », eventi centrali della seconda e terza ondata di sollevamenti. E la marea si ritira. 2) Le vaste ripercussioni dell'invasione della Georgia si faranno sentire ovunque nell'ex blocco sovietico, e non solo. In ciascuno dei Paesi dell'ex blocco operano partiti filo russi, ostili alle rivoluzioni democratiche. I partiti filo russi possono contare su numerose e solide basi: sulle minoranze etniche russe presenti nei Paesi confinanti con la Russia; su tutta una gamma di interessi economici collegati alla Russia, derivanti dal gas e materie prime russe, oppure dalle reti di agenzie militari e poliziesche tramandate dall'era sovietica; su raggruppamenti nazionalisti filo slavi di vecchio stampo; e su alcuni eredi dell'antica tradizione politica comunista. Forti delle loro molteplici basi, i partiti filo russi sono in grado di lanciare vere e proprie offensive: gli attacchi informatici (già messi a segno contro l'Estonia, a nome della minoranza etnica russa presente in quel Paese, e, appena prima dell'invasione, contro la Georgia); la minaccia di sospendere l'erogazione del gas, che la Russia ha già utilizzato contro l'Ucraina; e, più vagamente, agitando lo spauracchio di non meglio definite tensioni politiche. Oggi i partiti filo russi nei Paesi confinanti con la Russia, come in quelli più lontani, contribuiscono ad aggravare la minaccia di ritorsione finale: l'invasione con divisioni corazzate. Va da sé che i partiti filo russi in questi Paesi hanno grandemente beneficiato dagli avvenimenti della scorsa settimana e ne usciranno rafforzati per molti anni a venire, anche se tutti i carri armati russi dovessero ritirarsi dalla Georgia domani stesso.
Il rafforzamento dei partiti filo russi si scontrerà, sulle prime, con la crescente ostilità dei partiti democratici — sia di quelli davvero democratici, come pure di alcuni che tanto democratici non sono. Le tensioni politiche pertanto sono destinate a salire in tutta la regione, non soltanto tra i Paesi dell'ex blocco e la Russia, ma anche all'interno di ciascuno di questi Paesi. L'aggravarsi delle tensioni interne avrà l'effetto inevitabile di rafforzare, nel breve raggio, la credibilità delle minacce espresse dai partiti filo russi. Si prevede perciò che nei prossimi mesi andrà intensificandosi la pressione sui partiti democratici per abbandonare ogni ostilità nei confronti dei partiti filo russi. Gli equilibri di potere si sposteranno verso i partiti filo russi a livello regionale, e non solo locale. La Polonia sembra un'eccezione alla regola, decisa com'è a opporsi con tutte le sue forze per non sottomettersi mai più alla Russia. I polacchi sono stati già minacciati apertamente di aggressione e persino di attacco nucleare dai vertici militari russi, in un rincorrersi di voci davvero sconcertanti. Più è grande il pericolo di attacco militare alla Polonia, più si acuiranno le tensioni politiche all'interno degli altri Paesi e meno prevedibili saranno le reazioni di paura e sgomento di ciascun Paese.
3) La posizione del regime iraniano impone all'Europa intera di fare pressioni sull'Iran per impedirgli di dotarsi di armi atomiche, e la via principale per ottenere ciò è fare pressioni sulla Russia, affinché non dia una mano all'Iran. Il balzo improvviso e impressionante dei partiti filo russi in una vasta fascia d'Europa impedirà all'Unione di adottare misure concrete. Così gli iraniani, almeno la fazione di Ahmadinejad, risulteranno rafforzati dall'invasione della Georgia. I successi dell'Iran peseranno indubbiamente sul dibattito in corso negli ambienti politici e militari in Israele, e certo non inviteranno alla pazienza e alla conciliazione. Gli avvenimenti dell'agosto 2008 rendono Israele più vulnerabile, non il contrario.
4) L'invasione della Georgia getta una luce allarmante sulla natura del pensiero politico all'interno della leadership russa, la quale sembra aderire a una nozione ottocentesca di interessi nazionali, appaiata a una solidarietà etnica stile secolo ventesimo. Nella controversia sulle regioni separatiste della Georgia, la Russia deve effettivamente affrontare una questione di interesse nazionale. Ma la Russia ha anche altri interessi da difendere — la pace e la tranquillità regionale, che favoriscono la crescita economica, e la certezza di poter sventare possibili eventi catastrofici. Mettere a ferro e fuoco mezzo mondo per difendere due enclave separatiste più piccole persino dello Schleswig-Holstein sembra una follia, nei calcoli convenzionali. Eppure la leadership russa ha deciso a favore dell'intervento armato. Perché?
Al giorno d'oggi, ogni qualvolta un vasto settore della popolazione si comporta in modo da contraddire la logica dei potenziali vantaggi e svantaggi, si dice che la gente in questione reagisce a un'«umiliazione » o sotto la spinta del «risentimento ». L'umiliazione però, presa come esperienza politica, esiste solo laddove essa è stata costruita ideologicamente, e non altrimenti. Si disse che la Germania, sconfitta nella Prima guerra mondiale, avesse subito un'«umiliazione», ma dopo la Seconda guerra mondiale, quando il Paese era stato sconfitto in modo dieci volte peggiore, nessuno rispolverò più il concetto di Paese «umiliato».Anche della Russia, uscita sconfitta dalla Guerra fredda, si dice sia stata «umiliata ». Ma io temo che i leader russi provino una sensazione assai peggiore, e cioè di paura. I leader russi dipingono il ritratto di un Paese tremendamente vulnerabile, non diversamente da come si vede Israele. La paura, e non l'umiliazione, ha spinto la Russia a invadere la Georgia, la paura della propria distruzione. Nel corso degli ultimi mesi, i diplomatici russi hanno espresso esplicitamente questo sentimento. Li ho sentiti di persona, mentre discutevano infervorati accusando la Georgia di rappresentare un «pericolo esistenziale» per la Russia.Eppure si tratta di un timore interamente ideologico, vale a dire immaginario. La situazione della Russia non coincide in realtà con quella di Israele. Nessuna potenza straniera, dalla fine della Guerra fredda, ha mai formulato piani di attaccare la Russia né di distruggerne la potenza e la ricchezza. Il timore dei russi si basa semplicemente su un'interpretazione piuttosto paranoide degli avvenimenti mondiali. Ma è difficile smontare i timori nati da interpretazioni paranoidi. L'accordo tacito siglato dal resto del mondo per consentire alla Russia di conquistare le regioni separatiste della Georgia e di insediare un regime fantoccio a Tbilisi, o in Ucraina, o altrove, non sortirà alcun effetto rassicurante e i leader russi continueranno a sentirsi minacciati. Ma perché i russi restano ancorati a tali interpretazioni? Si tratta di un arcaismo. Ad ogni modo, il prevalere di questa mentalità potrebbe suggerire che la Russia è assai più traballante di quanto non voglia dare a intendere. Una Russia stabile non si sentirebbe affatto minacciata dalla minuscola Georgia, né dalla Nato.
5) La politica estera americana dal 1989 a oggi si è basata in larghissima parte su un unico concetto: che l'interesse dell'America e il cammino della democrazia liberale nel mondo, a lungo termine, coincidono. Se non sono mai mancate critiche a questo modo di vedere negli stessi Stati Uniti, gli oppositori oggi si moltiplicano. Ma se l'America, nel prestare attenzione a queste critiche, si avvia in una direzione tradizionale e conservatrice — cioè se l'America si affida alla realpolitik e torna a corteggiare i dittatori — non ne beneficerà certamente la stabilità dell'Europa orientale, né tantomeno del Medio Oriente. Una virata conservatrice da parte dell'America servirà solo a indebolire le democrazie in altre parti del mondo, e perciò indebolirà le prospettive dei suoi fedeli alleati. Se verrà meno il sostegno americano alla solidarietà democratica, anche quello europeo ne uscirà zoppicante, producendo un effetto a cascata. Tuttavia, a meno che non si levi alta una voce per appoggiare con fermezza la solidarietà democratica, la tendenza conservatrice della realpolitik si farà certamente più marcata.
6) L'invasione della Georgia ci offre ancora una sconcertante dimostrazione di incompetenza da parte del governo Bush, che va a sommarsi agli insuccessi registrati nella gestione delle guerre in Iraq e Afghanistan, nei mancati soccorsi in seguito all'uragano Katrina, e nella crisi dei mutui. Il disastro in Georgia possiede però tutti i numeri per superare di gran lunga le precedenti catastrofi. È giusto e ragionevole, pertanto, addossare la responsabilità al governo Bush, ma solo per cinque minuti. Al sesto minuto, che è già arrivato, occorre rimboccarsi le maniche e prendere una decisione.
7) Una reazione semplice all'invasione russa non esiste. La risposta adeguata può essere solo complessa, di lungo periodo e globale. Occorre riconoscere che, al momento attuale, le questioni di principi democratici, sicurezza nazionale e crisi energetica sono confluite drasticamente. È cruciale innanzitutto sviluppare una nuova politica complessiva, che sappia riaffermare i principi della solidarietà democratica e affrontare con urgenza lo sviluppo di fonti energetiche alternative — facendone una questione di priorità nazionale — per indebolire la dittatura di Putin e di tanti altri nemici della democrazia che si nutrono di petrodollari. Oggi, è vero, dopo l'invasione della Georgia, finiremo col confermare un aspetto della paranoia russa. Il nostro obiettivo dovrà essere quello di smontare, a tutela dell'ambiente, l'elemento centrale della ricchezza assai primitiva della Russia. Un programma energetico alternativo ci costringerà a dare le spalle alla dottrina del libero mercato, e anche per questo la nuova politica non potrà essere tradizionalmente conservatrice: sarà necessaria una svolta a sinistra.
Ultimamente Barack Obama ha fatto riferimento all'«economia verde». La nuova politica estera ed energetica dovrà lavorare verso il medesimo scopo e incarnare, in qualsiasi variante, una politica di «democrazia verde» — verde, perché i carburanti fossili sono diventati il motore della reazione, in tutto il mondo; e democrazia, perché le guerre si combattono per qualcosa e la guerra in Georgia, malgrado tutti i discorsi sull'oppressione delle minoranze etniche filo russe, resta a conti fatti retaggio del 1989.(Traduzione di Rita Baldassarre)
26 agosto 2008
primarie alla francese
Le PS en quête d'un mode d'emploi pour la présidentielle
LE MONDE 26.08.08 14h09 • Mis à jour le 26.08.08 16h25
Confier aux sympathisants de gauche, et non plus aux seuls adhérents du PS, le soin de désigner le prochain candidat socialiste à l'élection présidentielle est une idée qui fait son chemin. Organiser des "primaires" au sein de l'électorat en s'inspirant du modèle américain mais aussi italien - pour se doter d'un leader, la très fragmentée gauche transalpine s'en est remise au suffrage universel - est devenu synonyme de modernité démocratique et la plupart des contributions d'avant-congrès évoquent, sans toutefois l'approfondir, une telle éventualité.
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Eclairage Gauche : des idées pour une refondation
En proie à une crise chronique de leadership, le PS - dont le mode de désignation de sa candidate, en 2006, n'a pas échappé aux effets pervers - est particulièrement concerné par ce débat qui pourrait rebondir au congrès de Reims. D'autant plus que beaucoup voient dans le fait de confier aux électeurs la désignation du candidat un moyen de déconnecter conquête du parti et désignation du présidentiable.
La fondation Terra Nova, qui se veut un laboratoire d'idées pour la gauche, se propose d'éclairer les choix du PS. Mardi 26 août, elle a rendu publique une étude destinée à jeter les bases de "primaires à la française", réalisée par un groupe de travail dirigé par le politologue Olivier Duhamel et par Olivier Ferrand, président de Terra Nova.
Celle-ci écarte l'organisation de primaires entre candidats issus des différents partis de gauche. "Séduisante sur le papier, cette option tirée de l'expérience italienne n'est pas réaliste en pratique et serait vraisemblablement contre-productive", estiment les auteurs de l'étude. Elle supposerait que les Verts, comme le Parti communiste, acceptent de renoncer à la visibilité et aux moyens financiers qu'offre la participation à la course présidentielle. En outre, organiser la compétition au sein de la gauche de gouvernement "libérerait un espace politique considérable au profit de la gauche radicale". Selon le groupe de travail, les primaires doivent donc juste mettre en selle le candidat socialiste.
L'ONCTION DU "PEUPLE DE GAUCHE"
Jugeant "trop étroit" le filtre d'accès à la candidature (obtenir le soutien de 15 % des membres du conseil national) arrêté en 2006, Terra Nova propose d'autoriser tout candidat ayant reçu le soutien de 10 % des parlementaires, des maires socialistes, des adhérents ou du conseil national à se présenter. Ce mode de désignation doit, aussi, encourager le renouvellement du personnel politique.
Le scrutin, constitué de deux tours sous l'égide des militants du PS, serait organisé en juin 2011. De grandes tentes faisant office de bureaux de vote seraient installées sur les lieux publics. Les participants - plusieurs millions - s'inscriraient sur des listes en versant un euro symbolique. Quant au "respect du principe de sincérité du scrutin, il pourrait être garanti par la mise en place d'une base de données en ligne mutualisée entre les bureaux de vote".
Cette "primaire à la française", dont l'issue serait entérinée par un congrès extraordinaire, vise à faire émerger un porte-drapeau rodé aux joutes électorales et ayant reçu l'onction du "peuple de gauche". A contrario, elle implique que les militants du PS acceptent de renoncer au monopole qu'ils exercent sur la désignation du candidat.
De même, cette option induit un conflit de légitimité entre le présidentiable et le premier secrétaire. Terra Nova suggère une solution alternative : faire élire par les seuls militants le leader du PS en début de législature, indépendamment du congrès, comme le fait le parti travailliste au Royaume-Uni. Une proposition qui aboutit à séparer le choix du premier secrétaire et celui de la ligne politique alors que les statuts du PS prévoient aujourd'hui exactement l'inverse. Et qui laisse entière la question de la désignation, quatre ans plus tard, du candidat à l'élection présidentielle.
Jean-Michel Normand
LE MONDE 26.08.08 14h09 • Mis à jour le 26.08.08 16h25
Confier aux sympathisants de gauche, et non plus aux seuls adhérents du PS, le soin de désigner le prochain candidat socialiste à l'élection présidentielle est une idée qui fait son chemin. Organiser des "primaires" au sein de l'électorat en s'inspirant du modèle américain mais aussi italien - pour se doter d'un leader, la très fragmentée gauche transalpine s'en est remise au suffrage universel - est devenu synonyme de modernité démocratique et la plupart des contributions d'avant-congrès évoquent, sans toutefois l'approfondir, une telle éventualité.
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En proie à une crise chronique de leadership, le PS - dont le mode de désignation de sa candidate, en 2006, n'a pas échappé aux effets pervers - est particulièrement concerné par ce débat qui pourrait rebondir au congrès de Reims. D'autant plus que beaucoup voient dans le fait de confier aux électeurs la désignation du candidat un moyen de déconnecter conquête du parti et désignation du présidentiable.
La fondation Terra Nova, qui se veut un laboratoire d'idées pour la gauche, se propose d'éclairer les choix du PS. Mardi 26 août, elle a rendu publique une étude destinée à jeter les bases de "primaires à la française", réalisée par un groupe de travail dirigé par le politologue Olivier Duhamel et par Olivier Ferrand, président de Terra Nova.
Celle-ci écarte l'organisation de primaires entre candidats issus des différents partis de gauche. "Séduisante sur le papier, cette option tirée de l'expérience italienne n'est pas réaliste en pratique et serait vraisemblablement contre-productive", estiment les auteurs de l'étude. Elle supposerait que les Verts, comme le Parti communiste, acceptent de renoncer à la visibilité et aux moyens financiers qu'offre la participation à la course présidentielle. En outre, organiser la compétition au sein de la gauche de gouvernement "libérerait un espace politique considérable au profit de la gauche radicale". Selon le groupe de travail, les primaires doivent donc juste mettre en selle le candidat socialiste.
L'ONCTION DU "PEUPLE DE GAUCHE"
Jugeant "trop étroit" le filtre d'accès à la candidature (obtenir le soutien de 15 % des membres du conseil national) arrêté en 2006, Terra Nova propose d'autoriser tout candidat ayant reçu le soutien de 10 % des parlementaires, des maires socialistes, des adhérents ou du conseil national à se présenter. Ce mode de désignation doit, aussi, encourager le renouvellement du personnel politique.
Le scrutin, constitué de deux tours sous l'égide des militants du PS, serait organisé en juin 2011. De grandes tentes faisant office de bureaux de vote seraient installées sur les lieux publics. Les participants - plusieurs millions - s'inscriraient sur des listes en versant un euro symbolique. Quant au "respect du principe de sincérité du scrutin, il pourrait être garanti par la mise en place d'une base de données en ligne mutualisée entre les bureaux de vote".
Cette "primaire à la française", dont l'issue serait entérinée par un congrès extraordinaire, vise à faire émerger un porte-drapeau rodé aux joutes électorales et ayant reçu l'onction du "peuple de gauche". A contrario, elle implique que les militants du PS acceptent de renoncer au monopole qu'ils exercent sur la désignation du candidat.
De même, cette option induit un conflit de légitimité entre le présidentiable et le premier secrétaire. Terra Nova suggère une solution alternative : faire élire par les seuls militants le leader du PS en début de législature, indépendamment du congrès, comme le fait le parti travailliste au Royaume-Uni. Une proposition qui aboutit à séparer le choix du premier secrétaire et celui de la ligne politique alors que les statuts du PS prévoient aujourd'hui exactement l'inverse. Et qui laisse entière la question de la désignation, quatre ans plus tard, du candidat à l'élection présidentielle.
Jean-Michel Normand
Brunetta
Fuori! È finita così la conversazione con il responsabile della Funzione Pubblica Renato Brunetta. Domande troppo scomode? O il potere oggi si aspetta interviste in ginocchio? Ecco come un politico decide le questioni che si possono affrontare e quelle da evitare. Dopo 35 minuti di intervista, il titolare della Funzione Pubblica Renato Brunetta ci ha buttato fuori dalla sua stanza. Non per impellenti impegni istituzionali, ma perché - così ha detto - «non si può andare da un ministro senza chiedergli cosa ha fatto nei tre mesi precedenti. Andatevelo a leggere nelle slide sul sito del ministero…». Poi è scomparso dalla sua scrivania, ed è riapparso davanti alla porta aperta, per stringerci nervosamente la mano prima di richiuderla dietro di noi. Nulla di grave, un intervistato che si arrabbia fa parte dei rischi del mestiere. E crediamo che il ministro abbia ben altre crociate a cui pensare, che lo distoglieranno dall’emettere un editto bulgaro nei nostri confronti. Al resto, poi, penserà il taglio dei contributi all’editoria, che rischia di mandare al macero decine di testate coi rispettivi giornalisti.
Non vale la pena neppure litigare col portavoce, che fuori dalla stanza ci dice: «Buon per voi, siete giovani, avete imparato come ci si rapporta a un ministro». Certamente pubblicheremo anche la recensione del suo ultimo libro dedicato a Enzo Tortora, come ci aveva chiesto prima di farci entrare nella stanza di Brunetta.Poi, tornati in redazione, diamo uno sguardo alle agenzie. E ci accorgiamo di non essere soli. A differenza nostra non l’ha presa con filosofia una giornalista del gruppo l’Espresso, buttata fuori dallo splendido studio affrescato del ministro appena dopo la prima domanda. E ha mandato all’Ansa un comunicato infuocato, stimolando la reazione di Franco Siddi, presidente nazionale della Federazione della stampa: «Il ministro Brunetta deve capire che non basta un decreto di nomina per essere ministro, ma serve rispetto per le istituzioni, per le persone e per il loro lavoro», ha chiosato Siddi. Raggelante la risposta di Brunetta: «Le risposte bisogna meritarsele con domande serie».Dal canto nostro, crediamo di aver posto al ministro alcune domande fondate e altrettante gliene avremmo fatte se ci avesse concesso di abusare ancora un po’ della sua pazienza. Siamo un giornale di sinistra, e la possibilità di intervistare quello che i quotidiani hanno chiamato “la Lorella Cuccarini del governo”, cioè il più amato tra i ministri, ci è parsa un’opportunità imperdibile. A un patto, però: domande sincere e niente propaganda. Il portavoce si era detto entusiasta: «Accogliamo la sfida». E ci aveva avvertito: «Attenti, è un professore, gli piacciono i giornalisti preparati». Così abbiamo studiato per due intere giornate, mettendo da parte quella che in gergo si chiama “la macchina”, cioè il lavoro, un po’ noioso, di tagli / correggi / titola / metti in pagina. Abbiamo letto i titoli su quattro colonne dei giornali, che annunciavano un calo del 30 per cento nelle assenze della P.a., dovuto all’«effetto annuncio fannulloni», cioè proprio alla campagna di stampa lanciata dal ministro e ripresa dai media. Ci siamo accorti che i dati riguardavano solo 27 amministrazioni su 9mila, 7 Comuni su 8mila, circa il tre per cento dei lavoratori impegnati nella Pubblica amministrazione. Abbiamo letto le dichiarazioni del ministro che parlavano di una crescita dei salari dei dipendenti pubblici del 35 per cento negli ultimi 7 anni. Poi, dopo una telefonata con un ricercatore dell’Istat, ci siamo accorti che erano calcolati a prezzi costanti, cioè esclusa l’inflazione. I dati ufficiali del pubblico impiego evidenziano che i giorni persi mediamente per malattia sono 10,8.Secondo Federmeccanica nel privato sono 9,6.Non c'è una grande differenza.Un giorno all'anno per dipendente.Inoltre nel conteggio tra le assenze retribuite vengono conteggiati anche la gravidanza e le cure ai figli sotto i 3 anni.E su tutte le assenze per malattia le donne influiscono oltre al 60% si tratta solo di fannulloni o anche di difficoltà di conciliare lavoro e famiglia?Di tutto ciò abbiamo chiesto spiegazione al ministro.Finché ha gradito rispondere. Pubblichiamo la mezza “intervista” concessaci dal ministro e quanto alle questioni che non ci ha concesso di sottoporgli, le proponiamo di seguito in un articolo, dedicato ai numeri, che raramente possiedono la virtù della certezza così spesso loro accordata. Quando nessuno ha il tempo o la voglia di metterli in discussione. E di chiederne conto a un ministro.
http://www.avvenimentionline.it/content/view/2251/1/L'intervista è leggibile sul settimanale Left.
Non vale la pena neppure litigare col portavoce, che fuori dalla stanza ci dice: «Buon per voi, siete giovani, avete imparato come ci si rapporta a un ministro». Certamente pubblicheremo anche la recensione del suo ultimo libro dedicato a Enzo Tortora, come ci aveva chiesto prima di farci entrare nella stanza di Brunetta.Poi, tornati in redazione, diamo uno sguardo alle agenzie. E ci accorgiamo di non essere soli. A differenza nostra non l’ha presa con filosofia una giornalista del gruppo l’Espresso, buttata fuori dallo splendido studio affrescato del ministro appena dopo la prima domanda. E ha mandato all’Ansa un comunicato infuocato, stimolando la reazione di Franco Siddi, presidente nazionale della Federazione della stampa: «Il ministro Brunetta deve capire che non basta un decreto di nomina per essere ministro, ma serve rispetto per le istituzioni, per le persone e per il loro lavoro», ha chiosato Siddi. Raggelante la risposta di Brunetta: «Le risposte bisogna meritarsele con domande serie».Dal canto nostro, crediamo di aver posto al ministro alcune domande fondate e altrettante gliene avremmo fatte se ci avesse concesso di abusare ancora un po’ della sua pazienza. Siamo un giornale di sinistra, e la possibilità di intervistare quello che i quotidiani hanno chiamato “la Lorella Cuccarini del governo”, cioè il più amato tra i ministri, ci è parsa un’opportunità imperdibile. A un patto, però: domande sincere e niente propaganda. Il portavoce si era detto entusiasta: «Accogliamo la sfida». E ci aveva avvertito: «Attenti, è un professore, gli piacciono i giornalisti preparati». Così abbiamo studiato per due intere giornate, mettendo da parte quella che in gergo si chiama “la macchina”, cioè il lavoro, un po’ noioso, di tagli / correggi / titola / metti in pagina. Abbiamo letto i titoli su quattro colonne dei giornali, che annunciavano un calo del 30 per cento nelle assenze della P.a., dovuto all’«effetto annuncio fannulloni», cioè proprio alla campagna di stampa lanciata dal ministro e ripresa dai media. Ci siamo accorti che i dati riguardavano solo 27 amministrazioni su 9mila, 7 Comuni su 8mila, circa il tre per cento dei lavoratori impegnati nella Pubblica amministrazione. Abbiamo letto le dichiarazioni del ministro che parlavano di una crescita dei salari dei dipendenti pubblici del 35 per cento negli ultimi 7 anni. Poi, dopo una telefonata con un ricercatore dell’Istat, ci siamo accorti che erano calcolati a prezzi costanti, cioè esclusa l’inflazione. I dati ufficiali del pubblico impiego evidenziano che i giorni persi mediamente per malattia sono 10,8.Secondo Federmeccanica nel privato sono 9,6.Non c'è una grande differenza.Un giorno all'anno per dipendente.Inoltre nel conteggio tra le assenze retribuite vengono conteggiati anche la gravidanza e le cure ai figli sotto i 3 anni.E su tutte le assenze per malattia le donne influiscono oltre al 60% si tratta solo di fannulloni o anche di difficoltà di conciliare lavoro e famiglia?Di tutto ciò abbiamo chiesto spiegazione al ministro.Finché ha gradito rispondere. Pubblichiamo la mezza “intervista” concessaci dal ministro e quanto alle questioni che non ci ha concesso di sottoporgli, le proponiamo di seguito in un articolo, dedicato ai numeri, che raramente possiedono la virtù della certezza così spesso loro accordata. Quando nessuno ha il tempo o la voglia di metterli in discussione. E di chiederne conto a un ministro.
http://www.avvenimentionline.it/content/view/2251/1/L'intervista è leggibile sul settimanale Left.
emigrazione: dal sito del partito socialista europeo
Published Monday, August 25, 2008 at 16:14by julian_schaerbeek (61 views and 0 comments)Three cheers for Poul Nyrup Rasmussen and Antonio Vitorino, for starting a debate on socialist migration policies. The right wing is losing the plot, and going too far. Take Italy. What is happening is embarassingly bad. In recent months: Berlusconi and his government have repeatedly linked alleged increases in crime to illegal immigrants and roma people (as if Italy did not have serious crime problems of its own);A law was passed by Silvio Berlusconi’s right-wing Government enabling judges to give illegal immigrants convicted of crimes longer jail sentences than to Italians;The interior Minister proposed the fingerprinting of all members of the Roma community including children.
Now Berlusconi’s coalition partners – the Lega Nord – has proposed a law requiring local referendums before planning permission for mosques can be given, and an outright ban on minarets! The Catholic ‘Famiglia Cristiana’ magazine recently warned that there was a danger of fascism resurfacing in Italy in another guise. When Berlusconi’s allies criticized the comment the Pope replied with a speech on the need to fight racism! The racism and exaggerated fear of illegal immigrants whipped up by the right-wing Government is not tolerable - even the Catholic Church is turning agazist the extremism of Berlusconi and his racist allies. As someone of Italian origin, I am glad I was never as badly in the country where I was born & brought up as the Italian Government is now treating foreigners. We on the left who have always fought racism can show there is a better way than right-wing prejudice and fear.
Now Berlusconi’s coalition partners – the Lega Nord – has proposed a law requiring local referendums before planning permission for mosques can be given, and an outright ban on minarets! The Catholic ‘Famiglia Cristiana’ magazine recently warned that there was a danger of fascism resurfacing in Italy in another guise. When Berlusconi’s allies criticized the comment the Pope replied with a speech on the need to fight racism! The racism and exaggerated fear of illegal immigrants whipped up by the right-wing Government is not tolerable - even the Catholic Church is turning agazist the extremism of Berlusconi and his racist allies. As someone of Italian origin, I am glad I was never as badly in the country where I was born & brought up as the Italian Government is now treating foreigners. We on the left who have always fought racism can show there is a better way than right-wing prejudice and fear.
ossezia: lucia sgueglia dal sito lettera 22
OSSEZIA DEL SUD, SCENE E VOCI DI UN RITIRO 26/08/08
Dal tunnel di Roki sono passati l'8 agosto i 150 carriarmati russi diretti a Tskhinvali e oltre, per «difendere i peacekeepers dall'attacco georgiano». Di qui sono tornati indietro, in molti, da due giornidall'inviata in Ossezia del Sud
Lucia Sgueglia
Martedi' 26 Agosto 2008 Roki Tunnel (Ossezia del Sud) - Grazie Russia - una grande scritta dipinta a vernice sulla roccia - è la prima immagine sparata negli occhi appena si vien sputati fuori dal tunnel di Roki. Quattro chilometri in lieve salita, 3mila metri di altezza sui monti aspri del Caucaso, lunghi minuti di semioscurità polvere e respiro difficile per uno stretto valico. Alle spalle l’Ossezia del nord, Russia, davanti a noi valli di un verde mozzafiato e monti dove abitano i “fratelli” ossetini del sud, che furono Georgia e adesso? Di qui sono passati l’8 agosto i 150 carriarmati russi diretti a Tskhinvali e oltre, per “difendere i peacekeepers dall’attacco georgiano”. Di qui li abbiamo visti tornare indietro, in molti, da due giorni: eccolo il ritiro, almeno visto da qui, dopo giorni di altalena, sfilano a decine in colonna, contando tutti i mezzi militari sono circa 200 dice il collega di France Presse che ci si è messo d’impegno, risalgono le curve della montagna con la flemma dei vincitori. Sembra lascino qui ancora i mezzi leggeri e parecchie truppe, mescolate al corpo di pace e ai ‘soldati osseti’, quelli che Tbilisi chiama “milizie” e ritiene illegali. Rimbombano nella valle i cingoli, stazza grossa e d’antan ma robusta, sulle torrette stanno sdraiate e sonencchiose sotto il sole rovente leve giovanissime, volti asiatici o caucasici, c’e’ che viene dalla Siberia e chi dal Daghestan, la nuova Armata russa, la prima volta in guerra, sorridono e salutano, contenti di tornare a casa. “Quale verita’ siete venuti a raccontare?", fa un giovane in attesa. "Tutti i corrispondenti stranieri stavano dall’altra parte, in Georgia, mentre qui si moriva. Le nostre vittime, le nostre rovine, perché nessuno viene a vederle?”. Monta nell’auto con targa rossagiallobianca, i colori bandiera della “repubblica sudosseta” in questi giorni ostentati ovunque, fin sulle borsette delle donne: “questa è già Russia”, ci dice. Scendendo decine di tank aspettano in fila di passare; c’è chi fa il bucato tra le radure, chi sosta svestito sotto gli alberi. Di qui sono passati i primi giornalisti entrati a Tskhinvali, russi, embedded con le truppe, a raccontare la versione russa del conflitto bombardando di immagini i telespettatori della Federazione; tra loro i primi due reporter caduti sul campo.Qui tutti la chiamano “aggressione georgiana” come Putin e Medvedev. “Reazione eccessiva? Se non fosse stato per i russi oggi l’Ossezia del Sud non esisterebbe più, ci hanno messo fin troppo ad arrivare” e’ convinto Tamas, tassista nordosseto che fa la spola da Vladikavkaz. “Quando abbiamo sentito che i georgiani attaccavano, siamo scesi anche noi armati alla bell’e meglio, in tanti, volevamo dare una mano; ma quando ci si è messa l’artiglieria pesante, i carri e gli aerei di qua e di là siam tornati indietro impauriti”.Il tunnel è da sempre l’unico legame della regione con la Russia, esile cordone ombelicale tra chi si sente piccolo figlio separato da una grande madrepatria: di qui passavano dagli anni 90 dopo L’Urss aiuti, denari e, denuncia Saakashvili, “armi per i ribelli”. Oggi passano anche decine di enormi camion con gli “aiuti umanitari” inviati da Mosca; il ministero dell’emergenza (protezione civile russa) è sbarcato qui con volontari, pacchi, materiali da costruzione; cibo. “Vicini a Tskhinvali” si leggeva sugli striscioni per le vie di Mosca. Altre organizzazioni umanitarie non ci sono. Perché impedite dai russi, denunciano Croce Rossa e Medici senza Frontiere; “perché non gli interessiamo”, crede una donna che aspetta di passare rassegnata: il 9 è scappata dai parenti a Vladikavkaz, ora torna a vedere cosa ne è stato della sua casa. Ma i più sembrano fare da sé. Cominciano a tornare i profughi, dal 7 agosto in poi pare siano fuggiti a migliaia verso nord, a cercare protezione dalla ‘madre’ che ha allestito per loro tendopoli. Qualcuno si è fatto tutto il tunnel a piedi, ci dicono. In fuga dai razzi georgiani che salivano da sud. hanno puntato anche l’imbocco del tunnel, fallendo: in caso contrario, non ci sarebbe stata nessuna “operazione di costrizione alla pace” da parte russa. All’incrocio per Java c’è confusione, altri civili aspettano di tornare a Tskhinvali. “Da tre giorni” piange una donna con un neonato in braccio che “ha solo 10 giorni, e il fratello di due non parla più da quando ha sentito le salve georgiane”. Il villaggio osseto di Java è circondato da borghi georgiani, "là", dice un milite con una divisa senza mostrine né segni di riconoscimento, "ci sono ancora i banditi”. Georgiani, intende. Più avanti ai lati della strada i segni di quella che qualcuno chiama “contropulizia etnica”, risposta, dicono, a ciò che è accaduto a sud a rovescio, georgiani contro osseti: decine di case e interi villaggi bruciati, un paio ardono davanti ai nostri occhi, in lontananza si leva fumo: in caratteri georgiani il cartello col nome del villaggio tradotto sotto in russo (Tamarashevo), cosi’ l’insegna di un salone di bellezza, e Bank of Georgia si legge su un piccolo edificio nuovissimo ma deserto, surreale nella sua integrità. Succede da giorni ci dice chi è passato di qui piu volte: “Giusto” ci fa un uomo sui 50; “Tristissimo", dice una donna seduta sotto un pero, in testa il fazzoletto nero, "perché qui vivevamo bene coi georgiani come vicini e amici senza nessun problema, quel pazzo di Saakashvili ci si è messo in mezzo e ora? Non ho nulla contro di loro, nessuno dei civili voleva questa assurda guerra. Ma e' difficile dimenticare quei giorni di terrore. Inutile”. In un giardinetto tra le case spunta ritto un busto di Josip Vissarionovich Stalin.La “capitale” sudosseta Tskhinvali non è che un grosso borgo nato dall’unione di vari villaggi. A lungo città fantasma simbolo della “guerra dei 5 giorni”, inafferrabile e impenetrabile ai giornalisti fino al cessate il fuoco ufficiale, corpo esausto da una guerra delle parole intorno alla sua sorte: rasa al suolo o no? Di certo malmessa. Si ricomincia a vivere anche se manca l’acqua, l’elettricità sta tornando, venerdi per sollevare gli animi c’e stato un concerto-requiem nella piazza principale organizzato da Mosca, che ci ha portato apposta i giornalisti; sabato una partita di calcio, ossetini del sud contro settentrionali. Ma di normale c’è ben poco. Polvere e macerie son padrone, Ossezia is not for sale si legge sopra il portone sbarrato di una dacha: da un lato i colori osseti dall’altro la bandiera russa. Interamente in frantumi e’ la città vecchia, piccola Kabul, nemmeno una casa in piedi: il governo osseto ci porta tutti i giornalisti e domenica e’ sbarcato Thomas Hammarberg Commissario Ue per i diritti umani. Qualcuno è rimasto nonostante tutto, rifugiandosi nell’ex stalla come Ruslan ed Ezra, sui 60, con le loro galline. Ora che succederà, volete l’indipendenza o l’annessione alla Russia? “Certo, prima l’indipendenza. Poi si vedrà”. Saakashvili è un terrorista dice lei, anche di là son morti tanti semplici cittadini … grazie ai russi ora ricostruiremo la nostra città, poi si vedrà”. Mosca ha detto che la ricostruzione ufficiale inizierà il primo settembre. Un giorno simbolico per la Russia: è l’anniversario della strage di Beslan, una manciata di chilometri da queste valli. In lontananza si sente un boato, da ieri sono stati tanti, uno ha mandato in pezzi i vetri non lontano da noi. Ma non era finita? Qui tutti sono convinti che i colpi vengano da Tbilisi.In un cortile otto donne siedono intorno a un tavolo di legno sotto i meli, a pelar patate e tagliar cipolle e peperoni. “Finalmente siete qui! Voi occidentali continuate a dire che la Russia ha bombardato Tiblisi e anche Tskhinvali per dar la colpa ai georgiani, vero? - fa Uljena Kazjeva, 60 anni e il peso, dice, di quello che tutti qui chiamano”terzo genocidio” nella storia osseta (dopo gli anni 20 e la guerra del 1992). Cifre e colpe restano un optional, ma qui e in Russia tutti sanno (dalle tv che mandavano a nastro rassegne stampa internazionali) tutto di come Usa ed Europa han raccontato questa guerra, “uno scandalo” per Alina, 40anni e occhi di brace, veemente: “Condoleeza Rice dice che Sud Ossezia e Abkhazia sono Georgia? Venga qui a vedere cosa ci hanno fatto. L’America vuole insidiare i confini della Russia e piazzare una base qui contro l’Iran, ma non ce la faranno perché i russi sono forti, ci hanno aiutato, mentre la Georgia ha piu volte chiuso i canali con noi, tagliandoci persino l’acqua”.Più a sud verso il “confine” con la Georgia c’è la base dei peacekeepers, russi e fino a due settimane fa pure qualche georgiano che poi ha preso il volo. Qui sono morti i primi 12 russi mentre dormivano a notte del primo attacco, sulla caserma sventrata e affumicata corone di fiori, un giovane in divisa ci avvicina: “Ce l’hai un amico caro? Uno con cui dividi il pane a colazione tutti i giorni. Se un giorno uccide un tuo parente cosa fai?”. Ed eccola la “frontiera”, a pochi passi. Khetogurovo, un villaggio tra i campi, sul comune trivellato al primo piano e operativo al secondo le bandiere russa e osseta. “Da qui sono entrati i georgiani quella notte, con molti carri e mezzi. Hanno rapito 6 nostri uomini, nessuno ci dice che fine han fatto, se dobbiamo andare a Mosca lo faremo”. “Mosca, sempre Mosca… scusateci ma non è nostra competenza, son prigionieri civili e non militari” fa un ufficiale. Degli scambi di prigionieri promessi ancora si sa poco. “Passeggiavamo insieme qui coi georgiani – ci tira in disparte Volodja Mamiev seduto sotto un pero coi nipoti piegati sui talloni intorno, alla caucasica – qui vivevano 10 famiglie loro. E ora?”.Dopo pranzo arriva l’annuncio da Mosca, la Duma e’ pronta a riconoscere l’indipendenza, la voce corre sulla piazza del Teatro in centro dove c’e’ il bollletino ufficiale: un camioncino che spara dagli altoparlanti la radio russa, unica fonte di notizie. Un gruppetto sparuto di giovani arriva con caroselli e bandiere locali, si stappa spumante a uso e consumo dei giornalisti: le bandiere gliele ha date il governo osseto, ammettono senza problemi.Una versione ridotta dell'articolo è oggi anche su La Stampa
Dal tunnel di Roki sono passati l'8 agosto i 150 carriarmati russi diretti a Tskhinvali e oltre, per «difendere i peacekeepers dall'attacco georgiano». Di qui sono tornati indietro, in molti, da due giornidall'inviata in Ossezia del Sud
Lucia Sgueglia
Martedi' 26 Agosto 2008 Roki Tunnel (Ossezia del Sud) - Grazie Russia - una grande scritta dipinta a vernice sulla roccia - è la prima immagine sparata negli occhi appena si vien sputati fuori dal tunnel di Roki. Quattro chilometri in lieve salita, 3mila metri di altezza sui monti aspri del Caucaso, lunghi minuti di semioscurità polvere e respiro difficile per uno stretto valico. Alle spalle l’Ossezia del nord, Russia, davanti a noi valli di un verde mozzafiato e monti dove abitano i “fratelli” ossetini del sud, che furono Georgia e adesso? Di qui sono passati l’8 agosto i 150 carriarmati russi diretti a Tskhinvali e oltre, per “difendere i peacekeepers dall’attacco georgiano”. Di qui li abbiamo visti tornare indietro, in molti, da due giorni: eccolo il ritiro, almeno visto da qui, dopo giorni di altalena, sfilano a decine in colonna, contando tutti i mezzi militari sono circa 200 dice il collega di France Presse che ci si è messo d’impegno, risalgono le curve della montagna con la flemma dei vincitori. Sembra lascino qui ancora i mezzi leggeri e parecchie truppe, mescolate al corpo di pace e ai ‘soldati osseti’, quelli che Tbilisi chiama “milizie” e ritiene illegali. Rimbombano nella valle i cingoli, stazza grossa e d’antan ma robusta, sulle torrette stanno sdraiate e sonencchiose sotto il sole rovente leve giovanissime, volti asiatici o caucasici, c’e’ che viene dalla Siberia e chi dal Daghestan, la nuova Armata russa, la prima volta in guerra, sorridono e salutano, contenti di tornare a casa. “Quale verita’ siete venuti a raccontare?", fa un giovane in attesa. "Tutti i corrispondenti stranieri stavano dall’altra parte, in Georgia, mentre qui si moriva. Le nostre vittime, le nostre rovine, perché nessuno viene a vederle?”. Monta nell’auto con targa rossagiallobianca, i colori bandiera della “repubblica sudosseta” in questi giorni ostentati ovunque, fin sulle borsette delle donne: “questa è già Russia”, ci dice. Scendendo decine di tank aspettano in fila di passare; c’è chi fa il bucato tra le radure, chi sosta svestito sotto gli alberi. Di qui sono passati i primi giornalisti entrati a Tskhinvali, russi, embedded con le truppe, a raccontare la versione russa del conflitto bombardando di immagini i telespettatori della Federazione; tra loro i primi due reporter caduti sul campo.Qui tutti la chiamano “aggressione georgiana” come Putin e Medvedev. “Reazione eccessiva? Se non fosse stato per i russi oggi l’Ossezia del Sud non esisterebbe più, ci hanno messo fin troppo ad arrivare” e’ convinto Tamas, tassista nordosseto che fa la spola da Vladikavkaz. “Quando abbiamo sentito che i georgiani attaccavano, siamo scesi anche noi armati alla bell’e meglio, in tanti, volevamo dare una mano; ma quando ci si è messa l’artiglieria pesante, i carri e gli aerei di qua e di là siam tornati indietro impauriti”.Il tunnel è da sempre l’unico legame della regione con la Russia, esile cordone ombelicale tra chi si sente piccolo figlio separato da una grande madrepatria: di qui passavano dagli anni 90 dopo L’Urss aiuti, denari e, denuncia Saakashvili, “armi per i ribelli”. Oggi passano anche decine di enormi camion con gli “aiuti umanitari” inviati da Mosca; il ministero dell’emergenza (protezione civile russa) è sbarcato qui con volontari, pacchi, materiali da costruzione; cibo. “Vicini a Tskhinvali” si leggeva sugli striscioni per le vie di Mosca. Altre organizzazioni umanitarie non ci sono. Perché impedite dai russi, denunciano Croce Rossa e Medici senza Frontiere; “perché non gli interessiamo”, crede una donna che aspetta di passare rassegnata: il 9 è scappata dai parenti a Vladikavkaz, ora torna a vedere cosa ne è stato della sua casa. Ma i più sembrano fare da sé. Cominciano a tornare i profughi, dal 7 agosto in poi pare siano fuggiti a migliaia verso nord, a cercare protezione dalla ‘madre’ che ha allestito per loro tendopoli. Qualcuno si è fatto tutto il tunnel a piedi, ci dicono. In fuga dai razzi georgiani che salivano da sud. hanno puntato anche l’imbocco del tunnel, fallendo: in caso contrario, non ci sarebbe stata nessuna “operazione di costrizione alla pace” da parte russa. All’incrocio per Java c’è confusione, altri civili aspettano di tornare a Tskhinvali. “Da tre giorni” piange una donna con un neonato in braccio che “ha solo 10 giorni, e il fratello di due non parla più da quando ha sentito le salve georgiane”. Il villaggio osseto di Java è circondato da borghi georgiani, "là", dice un milite con una divisa senza mostrine né segni di riconoscimento, "ci sono ancora i banditi”. Georgiani, intende. Più avanti ai lati della strada i segni di quella che qualcuno chiama “contropulizia etnica”, risposta, dicono, a ciò che è accaduto a sud a rovescio, georgiani contro osseti: decine di case e interi villaggi bruciati, un paio ardono davanti ai nostri occhi, in lontananza si leva fumo: in caratteri georgiani il cartello col nome del villaggio tradotto sotto in russo (Tamarashevo), cosi’ l’insegna di un salone di bellezza, e Bank of Georgia si legge su un piccolo edificio nuovissimo ma deserto, surreale nella sua integrità. Succede da giorni ci dice chi è passato di qui piu volte: “Giusto” ci fa un uomo sui 50; “Tristissimo", dice una donna seduta sotto un pero, in testa il fazzoletto nero, "perché qui vivevamo bene coi georgiani come vicini e amici senza nessun problema, quel pazzo di Saakashvili ci si è messo in mezzo e ora? Non ho nulla contro di loro, nessuno dei civili voleva questa assurda guerra. Ma e' difficile dimenticare quei giorni di terrore. Inutile”. In un giardinetto tra le case spunta ritto un busto di Josip Vissarionovich Stalin.La “capitale” sudosseta Tskhinvali non è che un grosso borgo nato dall’unione di vari villaggi. A lungo città fantasma simbolo della “guerra dei 5 giorni”, inafferrabile e impenetrabile ai giornalisti fino al cessate il fuoco ufficiale, corpo esausto da una guerra delle parole intorno alla sua sorte: rasa al suolo o no? Di certo malmessa. Si ricomincia a vivere anche se manca l’acqua, l’elettricità sta tornando, venerdi per sollevare gli animi c’e stato un concerto-requiem nella piazza principale organizzato da Mosca, che ci ha portato apposta i giornalisti; sabato una partita di calcio, ossetini del sud contro settentrionali. Ma di normale c’è ben poco. Polvere e macerie son padrone, Ossezia is not for sale si legge sopra il portone sbarrato di una dacha: da un lato i colori osseti dall’altro la bandiera russa. Interamente in frantumi e’ la città vecchia, piccola Kabul, nemmeno una casa in piedi: il governo osseto ci porta tutti i giornalisti e domenica e’ sbarcato Thomas Hammarberg Commissario Ue per i diritti umani. Qualcuno è rimasto nonostante tutto, rifugiandosi nell’ex stalla come Ruslan ed Ezra, sui 60, con le loro galline. Ora che succederà, volete l’indipendenza o l’annessione alla Russia? “Certo, prima l’indipendenza. Poi si vedrà”. Saakashvili è un terrorista dice lei, anche di là son morti tanti semplici cittadini … grazie ai russi ora ricostruiremo la nostra città, poi si vedrà”. Mosca ha detto che la ricostruzione ufficiale inizierà il primo settembre. Un giorno simbolico per la Russia: è l’anniversario della strage di Beslan, una manciata di chilometri da queste valli. In lontananza si sente un boato, da ieri sono stati tanti, uno ha mandato in pezzi i vetri non lontano da noi. Ma non era finita? Qui tutti sono convinti che i colpi vengano da Tbilisi.In un cortile otto donne siedono intorno a un tavolo di legno sotto i meli, a pelar patate e tagliar cipolle e peperoni. “Finalmente siete qui! Voi occidentali continuate a dire che la Russia ha bombardato Tiblisi e anche Tskhinvali per dar la colpa ai georgiani, vero? - fa Uljena Kazjeva, 60 anni e il peso, dice, di quello che tutti qui chiamano”terzo genocidio” nella storia osseta (dopo gli anni 20 e la guerra del 1992). Cifre e colpe restano un optional, ma qui e in Russia tutti sanno (dalle tv che mandavano a nastro rassegne stampa internazionali) tutto di come Usa ed Europa han raccontato questa guerra, “uno scandalo” per Alina, 40anni e occhi di brace, veemente: “Condoleeza Rice dice che Sud Ossezia e Abkhazia sono Georgia? Venga qui a vedere cosa ci hanno fatto. L’America vuole insidiare i confini della Russia e piazzare una base qui contro l’Iran, ma non ce la faranno perché i russi sono forti, ci hanno aiutato, mentre la Georgia ha piu volte chiuso i canali con noi, tagliandoci persino l’acqua”.Più a sud verso il “confine” con la Georgia c’è la base dei peacekeepers, russi e fino a due settimane fa pure qualche georgiano che poi ha preso il volo. Qui sono morti i primi 12 russi mentre dormivano a notte del primo attacco, sulla caserma sventrata e affumicata corone di fiori, un giovane in divisa ci avvicina: “Ce l’hai un amico caro? Uno con cui dividi il pane a colazione tutti i giorni. Se un giorno uccide un tuo parente cosa fai?”. Ed eccola la “frontiera”, a pochi passi. Khetogurovo, un villaggio tra i campi, sul comune trivellato al primo piano e operativo al secondo le bandiere russa e osseta. “Da qui sono entrati i georgiani quella notte, con molti carri e mezzi. Hanno rapito 6 nostri uomini, nessuno ci dice che fine han fatto, se dobbiamo andare a Mosca lo faremo”. “Mosca, sempre Mosca… scusateci ma non è nostra competenza, son prigionieri civili e non militari” fa un ufficiale. Degli scambi di prigionieri promessi ancora si sa poco. “Passeggiavamo insieme qui coi georgiani – ci tira in disparte Volodja Mamiev seduto sotto un pero coi nipoti piegati sui talloni intorno, alla caucasica – qui vivevano 10 famiglie loro. E ora?”.Dopo pranzo arriva l’annuncio da Mosca, la Duma e’ pronta a riconoscere l’indipendenza, la voce corre sulla piazza del Teatro in centro dove c’e’ il bollletino ufficiale: un camioncino che spara dagli altoparlanti la radio russa, unica fonte di notizie. Un gruppetto sparuto di giovani arriva con caroselli e bandiere locali, si stappa spumante a uso e consumo dei giornalisti: le bandiere gliele ha date il governo osseto, ammettono senza problemi.Una versione ridotta dell'articolo è oggi anche su La Stampa
lunedì 25 agosto 2008
Samir Amin e la finanziarizzazione dell'economia
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Oggi 25 agosto 2008, 19.05.29
La «financiarisation» de l'économie mondiale est-elle «viable» ?
Oggi 25 agosto 2008, 54 minuti fa Samir Amin
Par Samir Amin, économiste et président du World Forum for Alternatives. La «financiarisation» de l’économie mondiale n’est ni le moyen d’assurer une meilleure allocation des ressources, ni celui d’encourager la croissance. Mais est-elle au moins «viable» au sens restreint qu’elle aurait l’avantage de réduire les risques de catastrophes financières ?
F. Morin démontre que cet avantage prétendu est largement illusoire. Certes la haute finance a inventé des moyens qui permettent aux opérateurs sur les marchés financiers de se protéger individuellement de beaucoup des risques en question. L'invention des «dérivés» dont les techniques nombreuses et complexes ne sont guère connues et maîtrisées que par ces opérateurs, répondait à ce besoin. Cette invention a dopé les flux financiers qui ont pris l'ampleur signalée plus haut. Le rapport entre les opérations de couverture à celles occasionnées par la production et les échanges internationaux est de 28 à 1 en 2002. Une disproportion qui s'accuse régulièrement depuis une vingtaine d'années et qu'on n'avait jamais connu auparavant dans toute l'histoire du capitalisme. Mais la réduction des risques pour les opérateurs considérés individuellement se traduit par une augmentation du risque collectif. L'indicateur de la croissance de ce risque est donné par le gonflement incessant de la bulle financière, dont le volume a été multiplié par dix au cours de la décennie 1993-2003. En dépit de ce risque grandissant, qui conduira probablement à une crise financière globale d'une ampleur non maîtrisable, les politiques économiques et sociales mises en œuvre par les États pour servir les objectifs de domination de la haute finance sont de nature à transférer le risque du capital au travail. Là encore les moyens sont connus : reconstitution d'une armée de réserve de chômeurs importante, précarisation des emplois, réduction des droits des travailleurs et de leurs avantages sociaux, substitution de méthodes d'indexation des retraites sur celui du produit des placements financiers (en lieu et place de la retraite par répartition). Ces moyens sont accompagnés par des politiques de construction d'une pseudo-solidarité entre les couches moyennes, le patronat en général et la haute finance. L'encouragement au placement de l'épargne sur le marché financier des actions et obligations privées vise à créer cette apparence de solidarité. Une «théorie» du capitalisme patrimonial – un capitalisme dont les «propriétaires» seraient un peu tout le monde – a été fabriquée pour donner crédibilité et légitimité apparentes au report du risque sur les «petits actionnaires» et sur les travailleurs.
Le système en question, pris dans son ensemble, se présente comme un colosse certes, mais aux pieds d'argile. Il s'effondrera à coup sûr. Mais comment ? Par l'effet de quelles causes majeures ? Au bénéfice de quelle alternative ? L'effondrement financier – toujours inattendu quand il survient – ne constitue pas, à mon avis, la raison principale de non durabilité du système. Le système n'est pas viable pour d'autres raisons, de nature sociale et politique. Les politiques d'accompagnement que la domination de la haute finance exige entraînent une inégalité croissante indéfinie dans la répartition du revenu. Au delà des conséquences strictement économiques d'une évolution se poursuivant en permanence dans ce sens – à savoir l'installation du système dans l'atonie faute de demande solvable – un modèle de ce genre n'est pas tolérable socialement et ne le sera probablement pas politiquement. Au plan mondial le système entraîne une polarisation accentuée, la mise sous tutelle permanente des pays dits «émergents» du Sud (la Chine, l'Inde, l'Asie du Sud Est, l'Amérique latine) et la destruction (quasi génocide) des pays dits «marginalisés» (l'Afrique en particulier) dont les peuples sont devenus inutiles pour la poursuite de l'accumulation et dont seules les ressources naturelles (pétrole, minerais, bois, eau) intéressent le capital dominant. Il y a tout lieu de penser que les conflits sociaux et politiques internes, dans toutes les régions du monde Nord et Sud, et les conflits internationaux (Nord contre Sud) doivent conduire à mettre un terme à la domination de la haute finance en place. Lire les deux premiers articles de cette suite intitulée «Économie de marché ou capitalisme des oligopoles ?»
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Oggi 25 agosto 2008, 19.05.29
La «financiarisation» de l'économie mondiale est-elle «viable» ?
Oggi 25 agosto 2008, 54 minuti fa Samir Amin
Par Samir Amin, économiste et président du World Forum for Alternatives. La «financiarisation» de l’économie mondiale n’est ni le moyen d’assurer une meilleure allocation des ressources, ni celui d’encourager la croissance. Mais est-elle au moins «viable» au sens restreint qu’elle aurait l’avantage de réduire les risques de catastrophes financières ?
F. Morin démontre que cet avantage prétendu est largement illusoire. Certes la haute finance a inventé des moyens qui permettent aux opérateurs sur les marchés financiers de se protéger individuellement de beaucoup des risques en question. L'invention des «dérivés» dont les techniques nombreuses et complexes ne sont guère connues et maîtrisées que par ces opérateurs, répondait à ce besoin. Cette invention a dopé les flux financiers qui ont pris l'ampleur signalée plus haut. Le rapport entre les opérations de couverture à celles occasionnées par la production et les échanges internationaux est de 28 à 1 en 2002. Une disproportion qui s'accuse régulièrement depuis une vingtaine d'années et qu'on n'avait jamais connu auparavant dans toute l'histoire du capitalisme. Mais la réduction des risques pour les opérateurs considérés individuellement se traduit par une augmentation du risque collectif. L'indicateur de la croissance de ce risque est donné par le gonflement incessant de la bulle financière, dont le volume a été multiplié par dix au cours de la décennie 1993-2003. En dépit de ce risque grandissant, qui conduira probablement à une crise financière globale d'une ampleur non maîtrisable, les politiques économiques et sociales mises en œuvre par les États pour servir les objectifs de domination de la haute finance sont de nature à transférer le risque du capital au travail. Là encore les moyens sont connus : reconstitution d'une armée de réserve de chômeurs importante, précarisation des emplois, réduction des droits des travailleurs et de leurs avantages sociaux, substitution de méthodes d'indexation des retraites sur celui du produit des placements financiers (en lieu et place de la retraite par répartition). Ces moyens sont accompagnés par des politiques de construction d'une pseudo-solidarité entre les couches moyennes, le patronat en général et la haute finance. L'encouragement au placement de l'épargne sur le marché financier des actions et obligations privées vise à créer cette apparence de solidarité. Une «théorie» du capitalisme patrimonial – un capitalisme dont les «propriétaires» seraient un peu tout le monde – a été fabriquée pour donner crédibilité et légitimité apparentes au report du risque sur les «petits actionnaires» et sur les travailleurs.
Le système en question, pris dans son ensemble, se présente comme un colosse certes, mais aux pieds d'argile. Il s'effondrera à coup sûr. Mais comment ? Par l'effet de quelles causes majeures ? Au bénéfice de quelle alternative ? L'effondrement financier – toujours inattendu quand il survient – ne constitue pas, à mon avis, la raison principale de non durabilité du système. Le système n'est pas viable pour d'autres raisons, de nature sociale et politique. Les politiques d'accompagnement que la domination de la haute finance exige entraînent une inégalité croissante indéfinie dans la répartition du revenu. Au delà des conséquences strictement économiques d'une évolution se poursuivant en permanence dans ce sens – à savoir l'installation du système dans l'atonie faute de demande solvable – un modèle de ce genre n'est pas tolérable socialement et ne le sera probablement pas politiquement. Au plan mondial le système entraîne une polarisation accentuée, la mise sous tutelle permanente des pays dits «émergents» du Sud (la Chine, l'Inde, l'Asie du Sud Est, l'Amérique latine) et la destruction (quasi génocide) des pays dits «marginalisés» (l'Afrique en particulier) dont les peuples sont devenus inutiles pour la poursuite de l'accumulation et dont seules les ressources naturelles (pétrole, minerais, bois, eau) intéressent le capital dominant. Il y a tout lieu de penser que les conflits sociaux et politiques internes, dans toutes les régions du monde Nord et Sud, et les conflits internationaux (Nord contre Sud) doivent conduire à mettre un terme à la domination de la haute finance en place. Lire les deux premiers articles de cette suite intitulée «Économie de marché ou capitalisme des oligopoles ?»
se ci fosse un partito socialista
dovrebbe porre questo tema...
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A conti fatti
Torna il tema della redistribuzione
L' Italia del pensiero unico ha ammesso l' esistenza della questione salariale solo quando la Banca centrale ha annunciato che il potere d' acquisto dei salari era rimasto fermo tra il 2000 e il 2006 mentre quello degli autonomi aumentava del 13,6%. Ma a questo riconoscimento è seguita solo la detassazione degli straordinari, limitata e per i lavoratori poveri. Come mai? Gli economisti ortodossi spiegano ogni cosa con il calo della produttività delle imprese, e dunque condizionano gli aumenti retributivi a un recupero di efficienza e di redditività. Chiedere una diversa redistribuzione del reddito dato sarebbe autolesionismo veteromarxista perché farebbe aumentare l' inflazione e deprimerebbe gli investimenti. Sulla carta il discorso non fa una grinza. Ma la nuova realtà dell' industria e del Nord-Centro, dove vivono 40 milioni di italiani, è un' altra. Sarebbe bastato seguire i conti dei primi 20 gruppi italiani, come abbiamo fatto per anni, per accorgersi che da tre lustri sempre più valore aggiunto va al capitale e sempre meno al lavoro. Ora gli economisti di banca allargano il quadro. Mediobanca contesta il declino della produttività e offre una base statistica alle richieste di redistribuzione (Dati cumulativi di 2020 imprese italiane, 2008). Negli ultimi 10 anni la produttività manifatturiera è cresciuta del 19% con le punte maggiori laddove si è ridotto il personale. Tra il 1999 e il 2003, al lavoro andava l' 87% della maggior produttività. Tra il 2003 e il 2007 il 32. E nel 2007 solo il 5%. Che il conflitto di classe non sia finito con il Novecento? L' ufficio studi di Intesa Sanpaolo alimenta il dubbio (Corinna Olearo e Lorenzo Stanca, La questione salariale: problema di produttività o di confronto contrattuale?). Per quanto sia reso flessibile, il lavoro è sempre un po' più rigido del capitale. Se va male, un' impresa può non distribuire dividendi, ma non può licenziare tutti i dipendenti, altrimenti scompare. Nelle crisi gravi, dunque, il lavoro finisce per aggiudicarsi quote maggiori di un valore aggiunto che frena. Con la ripresa, il capitale recupera su un valore crescente. Ma, dopo le riforme di Treu e di Maroni, la regola non funziona più. Nelle vecchie crisi (1981-83 e 1992-93) il lavoro si era aggiudicato il 4-5% in più di valore aggiunto. Nell' ultimo tempo gramo (2001-04) è rimasto al palo. Perché? Dal 1998 il numero degli occupati è aumentato dell' 1,3% medio annuo, quasi sempre a salari marginali più bassi. Di qui, minor disoccupazione e maggior povertà degli occupati. È il costo sociale della globalizzazione in un' Italia dove, in generale, il lavoro dipendente ottiene il 40% del prodotto interno lordo, mentre in Spagna, Francia, Germania e Regno Unito ha tra il 46 e il 55%. In questo pesa l' ampiezza del popolo delle partite Iva che si aggiudica il 26% del Pil contro l' 11 di Francia e Germania e il 17 della Spagna. Ma la schiera dei microimprenditori, non di rado fittizi, è stata ampliata anche dalla destrutturazione del mercato del lavoro. La questione della redistribuzione, insomma, non è superata. Semmai lo sono gli strumenti con cui viene affrontata. mmucchetti@corriere.it
Mucchetti Massimo
Pagina 35(24 agosto 2008) - Corriere della Sera
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Torna il tema della redistribuzione
L' Italia del pensiero unico ha ammesso l' esistenza della questione salariale solo quando la Banca centrale ha annunciato che il potere d' acquisto dei salari era rimasto fermo tra il 2000 e il 2006 mentre quello degli autonomi aumentava del 13,6%. Ma a questo riconoscimento è seguita solo la detassazione degli straordinari, limitata e per i lavoratori poveri. Come mai? Gli economisti ortodossi spiegano ogni cosa con il calo della produttività delle imprese, e dunque condizionano gli aumenti retributivi a un recupero di efficienza e di redditività. Chiedere una diversa redistribuzione del reddito dato sarebbe autolesionismo veteromarxista perché farebbe aumentare l' inflazione e deprimerebbe gli investimenti. Sulla carta il discorso non fa una grinza. Ma la nuova realtà dell' industria e del Nord-Centro, dove vivono 40 milioni di italiani, è un' altra. Sarebbe bastato seguire i conti dei primi 20 gruppi italiani, come abbiamo fatto per anni, per accorgersi che da tre lustri sempre più valore aggiunto va al capitale e sempre meno al lavoro. Ora gli economisti di banca allargano il quadro. Mediobanca contesta il declino della produttività e offre una base statistica alle richieste di redistribuzione (Dati cumulativi di 2020 imprese italiane, 2008). Negli ultimi 10 anni la produttività manifatturiera è cresciuta del 19% con le punte maggiori laddove si è ridotto il personale. Tra il 1999 e il 2003, al lavoro andava l' 87% della maggior produttività. Tra il 2003 e il 2007 il 32. E nel 2007 solo il 5%. Che il conflitto di classe non sia finito con il Novecento? L' ufficio studi di Intesa Sanpaolo alimenta il dubbio (Corinna Olearo e Lorenzo Stanca, La questione salariale: problema di produttività o di confronto contrattuale?). Per quanto sia reso flessibile, il lavoro è sempre un po' più rigido del capitale. Se va male, un' impresa può non distribuire dividendi, ma non può licenziare tutti i dipendenti, altrimenti scompare. Nelle crisi gravi, dunque, il lavoro finisce per aggiudicarsi quote maggiori di un valore aggiunto che frena. Con la ripresa, il capitale recupera su un valore crescente. Ma, dopo le riforme di Treu e di Maroni, la regola non funziona più. Nelle vecchie crisi (1981-83 e 1992-93) il lavoro si era aggiudicato il 4-5% in più di valore aggiunto. Nell' ultimo tempo gramo (2001-04) è rimasto al palo. Perché? Dal 1998 il numero degli occupati è aumentato dell' 1,3% medio annuo, quasi sempre a salari marginali più bassi. Di qui, minor disoccupazione e maggior povertà degli occupati. È il costo sociale della globalizzazione in un' Italia dove, in generale, il lavoro dipendente ottiene il 40% del prodotto interno lordo, mentre in Spagna, Francia, Germania e Regno Unito ha tra il 46 e il 55%. In questo pesa l' ampiezza del popolo delle partite Iva che si aggiudica il 26% del Pil contro l' 11 di Francia e Germania e il 17 della Spagna. Ma la schiera dei microimprenditori, non di rado fittizi, è stata ampliata anche dalla destrutturazione del mercato del lavoro. La questione della redistribuzione, insomma, non è superata. Semmai lo sono gli strumenti con cui viene affrontata. mmucchetti@corriere.it
Mucchetti Massimo
Pagina 35(24 agosto 2008) - Corriere della Sera
domenica 24 agosto 2008
Havel
23/08/2008
Vaclav Havel, Considerazioni sull'anno 1968
DAL BLOG girodivite Vaclav Havel - Considerazioni sull’anno 1968Pubblichiamo un’intervista in esclusiva italiana al Premio Nobel Vaclav Havel realizzata da Martin Vidlák e Petr Jančárek; tradotta in italiano da Petra Sifnerova; e corretta da Simone Buontempi e Paolo Polesellomercoledì 20 agosto 2008, di Emanuele G. Domanda: Gli eventi dell’anno 1968 non possono venire estrapolati dagli avvenimenti degli anni ’60. Che cosa ci direbbe in proposito?Vaclav Havel: E’ generalmente riconosciuto che gli anni ’60 sono stati caratterizzati da un’atmosfera densa di una coscienza morale e spirituale particolari. I motivi per cui il periodo della contestazione govanile contro l’establishment si e’sviluppato proprio negli anni ’60 sono molteplici. Una delle ragioni risiede nel fatto che entrava a far parte della vita pubblica una generazione che per motivi anagrafici non aveva svolto un ruolo attivo durante la seconda guerra mondiale. I rappresentanti di questa generazione, non avendo l’esatta percezione dei meccanismi della guerra fredda, avevano un modo di guardare al mondo diverso, come da un punto di vista piu’ ’’fresco’’.Cio’ é molto interessante. L’epoca é stata segnata da un suo stile, una sua moda,e a tutt’oggi e’ inconfondibile l’ eredita’,anche visuale che ci é pervenuta. Io attraversavo un’ eta’ in cui provavo questi sentimenti con molta intensita’ e in un certo modo partecipavo, perche’ negli anni ’60 si cominciarono a rappresentare i miei primi drammi che poi si sono diffusi da Praga in tutto il mondo. Non era esattamente un’epoca di concetti alternativi in senso assoluto, nessuno proponeva un nuovo modello della costituzione sociale, o qualche nuova dottrina o ideologia.Si trattava piuttosto di una rivolta contro l’ ”esistente” (contro quello che gia’ c’era), contro i meccanismi “fossili” del mondo precostituito, contro la politica rigida della guerra fredda, contro la burocrazia.Tutto questo aveva anche una sua sfumatura poetica. In Cecoslovacchia si compiva la Primavera di Praga, io finalmente avevo il passaporto(che non avevo potuto mai possedere in precedenza) e quindi viaggiavo in America. Sono stato presente alla prima di un mio dramma, ho vissuto gli scioperi degli studenti e le dimostrazioni imponenti a Central Park. All’ Universita’ di Columbia ho persino preso parte a dei dibattiti con gli studenti in sciopero,esordendo con queste testuali parole: “Spero di non essere un crumiro.” Tutti gli spettatori delle rappresentazioni a Broadway portavano la collana, si vestivano con vestiti coloratissimi, avevano i capelli lunghi,in pratica quello che in “Hair” veniva rappresentato in scena diveniva d’attualita’ anche nelle assemblee, sulla strada e a Central Park. Naturalmente molti di quelli che avevano vissuto questo periodo in prima persona,in seguito si sono calmati, si sono fatti tagliare i capelli, hanno cominciato a portare la cravatta,hanno intrapreso le carriere di burocrati o abili manager. Questo e’ indubbio. Mi sembra tuttavia, che da qualche parte qualcosa sia restato, e che l’esperienza degli anni ’60 abbia influito notevolmente sugli avvenimenti pubblici e politici dei decenni successivi.Un politico che ho avuto l’opportunita’ di conoscere abbastanza da vicino e in cui ho potuto avvertire la presenza –magari inconsapevole– di una esemplare coscienza morale tipica degli anni ’60, e’ Bill Clinton. Qualcosa di simile ho sperimentato anche a Parigi. Mi ricordo dello sciopero all’aeroporto, durante il quale ricordo che stavo cercando la mia valigia con cui ero arrivato dall’America. Mi accompagnava Pavel Tigrid che si e’ offerto di accompagnarmi a Bruxelles da dove avrei potuto prendere un volo per Praga.Un impiegato dell’aeroporto ha cercato nell’immenso sotterraneo tra mille valigie la mia. Siamo usciti fuori sulla pista di volo. Non c’era nessuno, nessuno in arrivo, nessuno che saliva a bordo, e quell’uomo mi ha mostrato la pista dove c’erano immobili i grandi aeroplani: “Guardi: come uccelli morti.” Questo e’ stato per me un evento caratteristico della rivoluzione di maggio a Parigi, anche per la sua dimensione poetica Tutto cio’aveva naturalmente, anche una sua dimensione rivoluzionaria, che pero’ talvolta oltrepassava i miei limiti. Non simpatizzavo per chi frantumava le macchine e le vetrine.Fu pero’ un movimento di portata mondiale.Era l’era dei Beatles, Lou Reed, Andy Warhol, l’epoca dei movimenti studenteschi autonomi. Da noi questo aveva un risvolto particolare perche’ fino ad allora era esistito solo il ČSM (l’Unione della gioventu’ cecoslovacca), vale a dire l’organo ufficiale comunista della gioventu’.Grazie all’iniziativa dei giovani improvvisamente si svilupparono organizzazioni indipendenti ed apartitiche e nessuno poteva piu’condizionarli nelle scelte ideologiche o politiche. Anche precedentemente,negli anni ’50 ,erano accaduti fatti molto significativi,gli intellettuali si mobilitarono e varie sommosse popolari furono soffocate.I rivoluzionari di allora pero’ si conformavano agli schemi e ai concetti fondamentali dell’ideologia dominante. Adesso invece subentrava una generazione che avrebbe buttato all’aria tutto quanto. L’anno ’68 - per mezzo degli scioperi degli studenti in America, della rivoluzione di maggio a Parigi e degli avvenimenti in Cecoslovacchia – e’ assurto a simbolo di questi movimenti di portata mondiale.Domanda:il fenomeno della rivolta giovanile negli anni ’60, quale impatto ha avuto sulla generazione precedente?Forse essa si e’ sentita piu’sollevata e libera della zavorra culturale ereditata nell’immediato dopoguerra?Vaclav Havel: Questo tipo di atteggiamento variava molto da persona a persona. Ho un ricordo specifico: in America ho visitato Ferdinand Peroutka, probabilmente il nostro miglior giornalista del XX. Secolo.Egli rappresentava naturalmente una grande autorita’ per me, e nella sua casa di campagna in Connecticut ho avuto con lui lunghe discussioni. Durante i nostri dibattiti mi sono accorto di quanto fosse diversa la visione del mondo di Ferdinand Peroutka rispetto alla mia. Era un uomo figlio della Prima Repubblica (i.e. 1918-1938), era stato internato in un campo di concentramento, aveva vissuto il golpe comunista, era emigrato in occidente e viveva in esilio. Lui era un uomo che non poteva apprezzare i giovani agghindati con i fiori ed i capelli lunghi . Non ha mai nascosto quanto questo fosse per lui strano, incomprensibile, affermava che il fatto di contestare tutto e tutti fosse inconcepibile. Era un uomo appartenente ad un altra epoca. Quali fossero le opinioni degli americani che facevano parte delle generazioni precedenti, non saprei dirlo con esattezza.Ho avuto modo di osservare atteggiamenti v erso i giovani tra i piu’svariati .Anche per esempio di sostegno per cosi’dire un po’ ’’affettatto’’.Mezz’ora prima della piu’ grande dimostrazione a New York nella 5. Avenue, sono stato invitato in un appartamento di proprieta’ di qualche milionario, dove esponenti dell’alta-societa’ e dell’elite di New York bevevano drink.Poi siamo usciti tutti insieme per aggiungerci alla folla. Ho delle foto di quando abbiamo marciato sulla 5. Avenue e li’ ho potuto constatare l’adesione snobistica dei piu’ anziani alla rivolta dei giovani.Sicuramente esisteva inoltre un ceto che manifestava simpatie per la politica di stampo- tra virgolette -“nixoniano”, questo e’ naturale. Ma l’America e’ un paese cosi’ grande,variegato ed eterogeneo e quindi e’ troppo pericoloso emettere giudizi perentori.Domanda: Lei pensa che anche in Cecoslovacchia il panorama politico sia stato altrettanto variegato e che anche da noi la generazione precedente a quella del ’68 abbia tratto un sospiro di sollievo ?Vaclav Havel: Da noi naturalmente il processo si é sviluppato secondo un diverso procedimento.La Primavera di Praga ,con il tentativo di pervenire ad un comunismo ’’dal volto umano’’ indubbiamente ebbe risonanza internazionale ed influenzo’ i movimenti comunisti di tutto il mondo.Spesso abbiamo sentito dire che questi sforzi siano stati dovuti ai comunisti riformisti che appartenevano alla nuova generazione che all’ interno del partito avevano soppiantato quelli piu’ conservatori. Non voglio sminuire i loro meriti, ma vorrei sottolineare il fatto che, quello che abbiamo fatto, e’ stato compiuto grazie alla pressione di tutta la societa’ e rafforzato dalla presa di coscienza dei fenomeni di crisi nella societa’stessa. Le voci critiche erano cosi’ tante che il potere, al pari dei giovani oramai consapevoli, ha dovuto riflettere sulla situazione. Mi ricordo che Jiří Pelikán mi consiglio’ di fondare un partito d’opposizione, come se il potere desiderasse ora la pluralita’, democratica e regolare, quella che loro stessi non avrebbero poi introdotto e non avrebbero potuto costituire,non essendo probabilmente nemmeno in grado di procedere in tal senso.Il processo di autoliberazione, che aveva i suoi nuclei radicati gia’ da molto tempo nei centri d’ ’’autoconsapevolezza civica’’,si rafforzo’, come se all’improvviso fosse cresciuto di per se’ ed avesse iniziato ad influire massicciamente anche all’interno del partito comunista,in relazione al modo di pensare dei suoi dirigenti e delle piu’ importanti personalita’. Tutto questo ha portato ai cambiamenti dell’anno ’68. Il momento cruciale della svolta e’ stato il congresso degli scrittori nel ’67 , dove e’ successa una cosa piuttosto interessante. Alcuni colleghi, Milan Kundera, Ludvík Vaculík, Pavel Kohout e gli altri ex-comunisti – (i membri dell’Unione degli scrittori non comunisti erano solo una minoranza) – hanno espresso dei concetti molto belli, radicali, rivoluzionari,in virtu’ dei quali piu’ tardi sarebbero stati puniti.Le opinioni con cui pero’ intendevano porsi a confronto diretto con l’ideologia del regime erano subordinate all’accettazione di un riconoscimento di legittimita’ dell’ ideologia stessa del regime.Cio’ mi imbarazzava non poco – non condividevo per esempio il dogma secondo il quale il socialismo rappresenterebbe un valore massimo assoluto,accettato universalmente senza nemmeno sapere cosa cio’ significhi realmente. Oppure la poetica socialista. Che cosa e’? L’apologia della nazionalizzazione? Proprio questi dogmi avevano dovuto parzialmente accettare. Io appartenevo a quelli che avrebbero preferito parlare di altri temi piuttosto che perdermi in sterili compromessi . Mi sembrava che fosse necessario parlare delle cose concrete, soddisfare esigenze concrete e non perdermi nel dissenso ideologico, attraverso il quale c’era soltanto da perdere. Ho quindi parlato degli scrittori censurati e arrestati, delle riviste abolite, ho proposto di accettare le nuove regole dell’Unione degli scrittori in cui sarebbe stata permessa la pluralita’ interna invece del ruolo autoritario dei gruppi (partgroup) del partito comunista ( i comitati che si riunivano precedentemente, organizzati prima di ogni congresso, sempre in linea con la strategia del partito). Mi sono opposto a cose concrete: come l’abolizione della rivista Tvář (La Faccia), ho chiesto inoltre come mai i piu’ bravi personaggi della nostra letteratura – come il prof. Černý, Jindřich Chalupecký, Jiří Kolář, non erano membri dell’Unione degli scrittori,mentre ne facevano parte parecchi pseudoscrittori che ancora dieci anni prima avevano tessuto le lodi di Stalin e pur avendo dovuto cambiare da un pezzo le posizioni d’allora erano restati in carica. Tutti questi fattori contribuirono allo scompiglio ed alla tensione dell’epoca.Da una parte l’opposizione dei comunisti riformisti all’interno del partito, basata sulla fedelta’ a questa ideologia,dall’altra l’opposizione di coloro che ne erano completamente fuori.I punti di vista,seppur differenti,talvolta si incontravano e contribuirono a trovare un avvicinamento. Pero’ e’ necessario considerare entrambe le posizioni e non bisognerebbe favorirne una a scapito dell’altra,come purtroppo succede spesso. Possiamo avallare la tesi secondo la quale i comunisti riformisti rivendicano la paternita’degli eventi del ’68,ma anche dar credito all’opinione contraria, per cui gli anticomunisti si proclamano gli autentici fautori del movimento.Domanda: Si puo’ parlare di un’ opposizione non comunista, dell’esistenza di qualche struttura organizzata?Vaclav Havel: Si’, c’era gente fuori dal partito comunista, che percepiva l’avvicinamento del momento in cui avrebbe dovuto impegnarsi attivamente. Era pero’ veramente molto difficile, perche’ tutte le strutture amministrative erano basate sul principio del ruolo egemonico del Partito comunista. La Democrazia socialista provava a riciclarsi:furono fondati il K231 e il KAN.Questo fu un tentativo di costruire una forza politica democratica vera, che non aveva niente in comune con il comunismo. Di tutto questo si scriveva, si facevano considerazioni, se ne parlava. Ci furono innumerevoli dibattiti, tanti incontri. Mi ricordo un incontro convenuto da noi dopo che avevo scritto un lungo articolo dal titolo “Sul tema dell’opposizione” (Literarni listy No. 6/1968). Ma i tempi non erano ancora maturi e l’ occupazione e’ avvenuta troppo presto , quindi tutto questo non ha avuto il tempo necessario per cristallizzarsi. Non c’erano le strutture necessarie, niente segretarie ed uffici, neanche chi avrebbe pagato. Per questo tutto era ancora piu’ difficile.Domanda: Lei come ha vissuto l’estate del ’68 e il momento specifico in cui e’ venuto a sapere della nostra occupazione?Vaclav Havel: In quel tempo solo pochi si erano accorti delle conseguenze derivanti dagli avvenimenti dell’inverno del ’68 ,dopo la celebre Assemblea (del Partito comunista) di gennaio. Neanche i fautori stessi di questi cambiamenti all’interno del Partito comunista, come Dubček, Smrkovský ed altri, avevano percepito con esattezza come sarebbe andata a finire. Ma cosi’ funzionano le cose durante il comunismo:non appena qualcuno apre la porta , la societa’ ci mette subito il piede.La stessa cosa é avvenuta durante il governo di Gorbacov. All’inizio Alexandr Dubček era agli occhi delll’opinione pubblica soltanto uno dei tanti burocrati.Della differenza esistente tra lui e Vasil Bil’ak,inizialmente se ne sono accorti in pochi.Sotto la pressione della gente e sull’onda del processo di liberalizzazione dei mass-media,i comunisti riformisti hanno dovuto prendere atto dei desideri dell’ opinione pubblica e andare incontro al volere popolare. E con sorpresa hanno scoperto che avrebbero potuto godere del consenso della gente e dell’acclamazione del popolo in maniera spontanea,senza che il consenso dovesse essere organizzato dai nuclei comunisti come i ’’pionieri’’ ( l’ organizzazione di propaganda comunista che raggruppava tutti i ragazzi in Cecoslovacchia). E questa constatazione li conquisto’, perche’ sapevano che l’appoggio era spontaneo ed autentico.Cominciarono ad intraprendere le prime timide riforme, ma contemporaneamente gia’ stava cominciando il dissidio ideologico con Mosca.Questa e’ la storia a proposito dell’incontro di Dresda. Furono momenti drammatici ed intensi, naturalmente anch’io ho partecipato attivamente. Nell’Unione degli scrittori abbiamo fondato, in opposizione al gruppo forte del partito, il “Circolo degli scrittori indipendenti”, che univa gli autori che non erano mai stati iscritti al partito. Io l’ho fondato, ne ho elaborato il programma, ne ero il presidente, mi sono dedicato alle varie attivita’connesse.A capo dell’intero movimento di protesta comunque non ero io,ma altri. Viaggiavo molto, e secondo la mia abitudine trascorrevo l’estate nella nostra casa in montagna a Hrádeček nei Krkonoše (le montagne della Boemia del nord). Da noi veniva parecchia gente, arrivavano in visita gli amici: i coniugi Tříska (Jan Tříska era un attore, emigrato dopo il ’68 negli USA), Věra Linhartová (una scrittrice ceca, che dopo il ’68 é emigrata in Francia), Libor Fára (pittore, scenografo, disegnatore di costumi per teatro), Zdeněk Urbánek (scrittore e traduttore, dopo il ’68 non ha piu’ potuto pubblicare) e molti altri. Era un’epoca di grande eccitazione, di grande gioia e anche di apprensione e paura per come tutto avrebbe potuto concludersi.Facevamo fdei falo’ in giardino,organizzavamo feste e, sebbene non volessimo ammetterlo, inconsciamente abbiamo dovuto fare i conti con la possibilita’ che il movimento sarebbe stato oppresso e calpestato. Ogni giorno ascoltavamo la radio e la tv, cosa fino ad allora impensabile,considerato il fatto che i mass media di regime in precedenza non avevano trasmesso mai alcunche’ di interesssante. Mi ricordo che il mio amico, l’attore Jan Tříska,a quei tempi disse: ”E’ un estate troppo bella, non puo’ finire bene.” Un giorno siamo andati a Liberec a vedere dei nostri giovani amici, come l’architetto Masák del SIAL (uno studio architettonico) a Liberec e li’, durante una festa, ci ha sorpreso l’occupazione, che poi abbiamo vissuto per intero in citta’. Con Jan Tříska siamo stati immediatamente coinvolti nella lotta di resistenza. A Liberec e’ stato un massacro. Nella piazza piena di gente sono arrivati i carri armati che sono deliberatamente andati adosso ad alcune persone. Io stesso ho visto un tank sparare. C’erano ragazzi esterrefatti, che non sapevano piu’ nemmeno dove si trovassero e non capivano cosa stesse succedendo.In seguito a questo conflitto, che di certo fu molto sanguinoso e piu’cruento che in altre citta’, non e’ stato costituito nessun presidio permanente tramite l’occupazione delle caserme a garantire il controllo della citta’di Liberec . I carri armati erano solo in transito. Grazie a questo ha potuto fiorire la resistenza sottoforma di manifestazioni di folklore popolare, con le sottoscrizioni, le canzoni, le assemblee e tutto il resto. Al palazzo municipale, assieme al sindaco sig. Moulis, ch’era un uomo di buon cuore, abbiamo fondato un nucleo.Io scrivevo i commenti quotidiani per la radio locale. Sul monte Ještěd addirittura era stata costruita la stazione televisiva e anche li’ ci siamo dati da fare. Mi ricordo che una volta ho scritto un appello ai cittadini con le istruzioni su come affrontare l’occupazione.L’appello e’ stato firmato dal comitato provinciale del Partito comunista, dal Comitato nazionale provinciale e dal Comitato provinciale del Fronte nazionale (il FN riuniva tutte le organizzazioni legali in Cecoslovacchia)oltre che da altre organizzazioni simili.Un cosi’ vasto consenso da parte praticamente di tutte le istituzioni non aveva precedenti.Naturalmente anche a Liberec era presente la repressione.Noi della radio dovevamo nasconderci e uscire segretamente dall’albergo in auto accerchiati da altre macchine a protezione. L’edificio della radio era stato circondato da lastre per costruzione in calcestruzzo,cosi’da proteggerlo da una facile conquista.Nelle fabbriche ci hanno distribuito delle tessere per poterci confondere tra gli operai in caso di necessita’.Fu molto interessante constatare la passione con cui partecipava alla rivolta la generazione dei giovani, gli hippies. Ce n’era uno soppranominato “il Prete”che era il capo di un gruppo di capelluti, dal quale la cittadinanza era invero un po’ intimidita. Mi ricordo che sulle scale del municipio hanno suonato Massachusetts ed altre canzoni popolari. E questo Prete e’andato il primo giorno dell’occupazione dal sindaco Moulis e gli ha detto: capo, siamo a Sua disposizione, cosa possiamo fare? Hanno quindi ricevuto l’incarico di rimuovere tutte le targhette coi numeri civici dalle case , cosi’ l’occupante avrebbe faticato per orientarsi a dovere in citta’.Durante una sola notte tutte le targhette sono state tolte e la mattina furono messe in fila nel corridoio del municipio.Il Prete ha domandato:cos’altro possiamo fare adesso, sindaco? Questo sono miei ricordi privati,alcuni di quelli che si sono fissati nella memoria, forse perche’ raccontano qualcosa di peculiare dell’epoca, degli anni ’60 e di quello che e’ successo da noi.Domanda: Quanto tempo é durata la Sua collaborazione presso la radio di Liberec?Václav Havel: Tutti gli avvenimenti si sono svolti ad una velocita’ mozzafiato.A partire dall’arrivo dei carri armati che hanno attraversavato Liberec verso alle undici di sera,per poi continuare incessantemente fino al ritorno della nostra delegazione da Mosca (il 27.8.). In tv abbiamo potuto trasmettere ancora un comunicato che fu molto critico circa i Protocolli di Mosca.Con quest’ultimo atto s’e’conclusa una settimana febbrile e siamo tornati a Hrádeček. Poi e’ cominciato un altro periodo, totalmente diverso, anch’ esso molto particolare. Dai Protocolli di Mosca fino all’instaurazione del régime di Husák un’anno piu’ tardi,abbiamo vissuto un periodo eccezzionale, lacerante,in cui rientra anche il suicidio di Jan Palach che si diede fuoco. Si puo’ capire qualcosa in proposito,solo se si é a conoscenza dei retroscena dell’epoca.La volonta’di tutta una nazione veniva impudentemente ignorata e derisa dagli oppressori,evidentemente spinti da ambizioni personali di carriera,quando non da impulsi criminali.I momenti culminanti furono le partite di hockey su ghiaccio e la seduta plenaria (del PC) in aprile,durante la quale si insedio’al potere il Dr.Husák. Alexandr Dubček sarebbe restato ancora per un breve periodo il Presidente dell’Assemblea Federale,poi le cose presero un’altra piega molto rapidamente.Cominciate le grandi epurazioni, tutti dovettero sottoscrivere l’accettazione dell’occupazione e giurare fedelta’ al nuovo régime. Fu un periodo di forte repressione e l’ inizio di un periodo di immensa frustrazione per tutta la societa’. Ho preso parte ad innumerevoli dibattiti presso le varie, facolta’ perche’ questo fu anche il periodo degli scioperi e delle proteste studentesche.Le critiche mosse in America sei mesi prima contro il governo (the Establishment) di uno stato democratico, erano adesso indirizzate contro il potere comunista costituito di recente e gli studenti anche in quest’ occasione hanno svolto un ruolo importante. In quel periodo furono abolite tutte le organizzazioni non filo-governative, inclusa l’Unione degli scrittori.Diverse furono le prese di posizione :chi collaborava, chi andava all’ opposizione, chi temporeggiava in attesa di vedere come sarebbe andata a finire.Anche dal punto di vista psicologico fu assai interessante osservare come gli uomini cambiavano atteggiamento. Gia’ sotto il régime di Husák, forse nell’anno ’69, ci furono i primi dissidenti imprigionati e noi abbiamo scritto La Petizione degli scrittori per la loro liberazione. Io ero uno dei raccoglitori di sottoscrizioni ed ebbi l’opportunita’ di osservare come gli uomini cominciavano a cambiare. Alcuni fecero marcia indietro adducendo a pretesto le tante sofferenze gia’vissute in passato,non potevano firmare-dissero- perche’ diventando vecchi desideravano solo la pace; altri spiegarono che in questo modo si indulgeva alla mera provocazione senza arrivare ad un esito finale,a loro avviso solo una strategia piu’ discreta e meno spiccia avrebbe potuto sortire un effetto piu’ funzionale. Altri pero’ hanno firmato il nostro documento consapevoli del fatto che probabilmente sarebbero diventati per lunghi anni scrittori proibiti dalla censura o dissidenti. Fu possibile osservare come si scindeva la comunita’ degli scrittori, e questo era solo uno dei molteplici aspetti dei processi tanto comuni all’interno della societa’.Sono tornato piu’ tardi sull’ argomento nel mio dramma La Protesta, ispirato proprio da questi fatti.Domanda:Questo periodo e’ culminato nel primo anniversario, secondo Lei a quell’epoca ,i cechi gia’ stavano contro i cechi e gli slovacchi contro gli slovacchi?Václav Havel: Si’. Questo fu molto triste. Io insistevo di continuo affermando che era un errore urlare pateticamente slogan come “Morte agli invasori e ai traditori della nazione” o “vogliamo un processo contro Bil’ak e i traditori della Patria”. Sapevo che quelli che gridavano cosi’ non avrebbero resistito, e che sarebbero stati i primi a scappare a gambe levate. Ero favorevole invece ad un atteggiamento calmo, equilibrato, maggiormente risoluto rispetto ad un atteggiamento piu’eclatante e vistoso.L’attitudine di piangersi addosso lamentando di essere dei poveretti,delle vittime della storia,avrebbe potuto servire da alibi,quale argomento valido a frenare una resistenza meno appariscente e nondimeno concreta e permanente.Domanda: Si ricorda, Presidente, un dettaglio concreto dei giorni d’agosto, qualcosa che e’ rimasto nella Sua memoria, qualche evento particolare che si sia fissato indelebilmente?Václav Havel: Fu come un’improvvisa esplosione di tutte le buone qualita’ insite negli uomini e nella societa’. Fu un periodo affascinante di solidarieta’ universale e senso comune di appartenenza reciproca. Un periodo in cui anche i ladri nelle carceri scrivevano manifesti in cui affermavano che non avrebbero mai piu’ rubato. Era chiaro ,naturalmente, che non sarebbe durato in eterno: qualcosa di simile succede da noi una volta ogni vent’anni e solo per un istante. Pero’ questo e’ il mio ricordo personale piu’importante di quei giorni.Domanda: Si ricorda quali furono le reazioni dall’estero? Per esempio l’Austria e la Germania avevano lasciato i confini aperti. E gli USA, la Gran Bretagna o la Francia?Václav Havel: So che ci furono paesi che si aprirono generosamente agli esuli, come la Svizzera o l’Austria.Le reazioni di alcuni altri paesi furono invece deprecabili, altri ancora assunsero un atteggiamento piu’ prudente. Pero’ non credo che sia esistito un accordo segreto tra l’Occidente ed il Cremlino,come si e’ detto in qualche occasione. Non escludo la possibilita’ che l’ambasciatore sovietico a Washington si sia recato un paio di ore prima dell’ arrivo dei carri armati ad informare lo State Department,allo scopo di preavvisarli. Questo non lo escludo, lo considero possibile. Pero’non voglio immaginare nessuna congiura e nessun accordo clandestino,atto a prevenire che gli Americani potessero accorrere in nostro aiuto.No, non mi sembra sia il caso. Era evidente all’epoca che cio’non sarebbe stato possibile. Non si volle scatenare una nuova guerra mondiale ne’ dopo gli eventi della rivoluzione in Ungheria, ,ne’ in seguito all’oppressione della Primavera di Praga.Domanda: Neanche le reazioni del blocco comunista furono le stesse. La Jugoslavia ha certamente agito differentemente rispetto all’Unione sovietica, altrettanto fece la Romania, dal momento che Ceausescu era contrario all’intervento.Václav Havel: Si’,certo.Domanda: Come si puo’ definire il retaggio culturale relativo al ’68? I lettori di paesi lontani potrebbero far confusione tra i fenomeni tipici del ’68 e quelli relativi alla caduta della cortina di ferro nell’anno ’89. Puo’ dirci, per favore, dove sta la differenza?Václav Havel:Il crollo della cortina di ferro con la caduta del comunismo nell’ anno ’89 e gli eventi del ’68,hanno avuto un fattore scatenante in comune:la pressione di una societa’ che voleva vivere in liberta’ e non sopportava piu’ il totalitarismo che umilia gli uomini dalla mattina alla sera e conduce alla decadenza economica. In comune c’e’ quindi la rivolta contro il regime dittatoriale di tipo comunista.Altri aspetti relativi al ’68 e ’89 sono certamente diversissimi.Innanzitutto l’anno ’68 e’ stato caratterizzato dalla ricerca ideologica di un comunismo riformato. Il governo,con l’appoggio silenzioso dell’ opinione pubblica, sottolineava che voleva solo migliorare il socialismo. Ribadiva che non avrebbero rinnegato l’appartenenza al blocco monolitico sovietico, non intendevano andare contro di esso, non avrebbero proceduto alla privatizzazione o introdotto il capitalismo. Questa ideologia nuova di socialismo riformato era, dall’estero, la manifestazione piu’ visibile della Primavera di Praga. Pero’ nell’anno ’89 la situazione era ormai completamente differente. La gente non desiderava alcun socialismo dal volto umano, voleva la liberta’. Di questa differenza me ne sono accorto molto bene e ho dovuto renderne conto personalmente. Nel Foro civile (Občanské fórum), un movimento nazionale improvvisato,erano presenti anche i comunisti riformisti, quelli che erano stati nei venti anni precedenti perseguitati perche’avevano aderito alla Charta 77,oppure avevano manifestato il loro dissenso in modo diverso.In quel periodo il loro modo di intendere la politica, il loro linguaggio, non trovarono nel pubblico nessun consenso e nessuna reazione adeguata. Anche se per tanti anni erano stati contro i dirigenti del partito, venivano ora inibiti e perseguitati. Diversi professori avevano per punizione dovuto lavorare come operai, eppure mantenevano ugualmente le abitudini tipiche del periodo comunista. Per esempio la tendenza ad una politica ’’esclusiva’’di gabinetto, il bisogno di discutere tutto prima tra loro per mettersi d’accordo sulla tattica da seguire e solo in seguito negoziare con gli altri.Avevano conservato quest’attitudine e lo si notava subito.Ma soprattutto ormai l’opinione pubblica non riconosceva piu’ le argomentazioni del régime. Il messaggio lanciato alla televisione da Zdeněk Mlynář suscito’ generale indignazione. Non entusiasmarono nemmeno il comizio di Alexandr Dubček in piazza San Venceslao , ne’ quello di Adamec a Letna’. Il popolo chiedeva di piu’.Domanda:Ciononostante si puo’ probabilmente affermare che a conferire maggior velocita’ agli avvenimenti dell’anno ’89 abbiano contribuito le circostanze inerenti la passata ’’normalizzazione’’,in concorso con il comportamento bigotto dei rappresentanti comunisti al vertice, oltre al ricordo sempre vivo degli avvenimenti dell’anno ’68.Vaclav Havel: Si’, in questo senso l’anno ’68 ha sicuramente svolto un ruolo importante, perche’dopo la Primavera di Praga tutte le persone un minimo acculturate erano state rimosse dai loro incarichi e dalle loro posizioni. Centinaia di migliaia di uomini,dai direttori delle fabbriche ai manager, dagli insegnanti ai professori, furono esautorati delle loro mansioni ed al loro posto si sono insediati dei ’’camaleonti’’ che dal punto di vista professionale furono come minimo di seconda scelta . Al potere si ritrovo’ quindi una classe dirigente d’infima categoria, quelli piu’ conservatori e primitivi, quelli che negli anni della normalizzazione erano passati sui cadaveri di coloro che erano stati eliminati. Anche per questo la rivolta contro il regime e’ stata piu’ visibile, piu’ prepotente ed ha condotto al successo piu’ velocemente che in qualsiasi altro paese, dove non c’era stata una inversione di tendenza tanto netta come da noi nell’anno ’68 e dove a ricoprire le funzioni piu’ importani dello Stato, del partito e dell’economia c’erano uomini che avevano provveduto saggiamente ad attuare delle riforme.Domanda: Lei quando si e’ accorto che la Primavera di Praga volgeva alla fine?E stato nel ’69, in concomitanza con il primo anniversario oppure gia’ prima? Oppure l’ha capito subito, nello stesso momento in cui in Cecoslovacchia sono entrati i soldati russi? Quando ha maturato la convinzione che non ci fossero piu’speranze?Václav Havel: Mi ricordo il momento in cui ci hanno telefonato alle undici di sera e ci hanno detto di accendere la radio dove davano lettura della proclama della presidenza del Comitato centrale del Partito comunista , in cui si comunicava che le armate stavano occupando il nostro Paese. Siamo subito corsi in strada. L’amico Jiří Seifert, oggi non piu’ vivente, era in un tale stato animo per cui ha affrontato un carro armato come se volesse impedirgli di andare avanti. Questo non rivelava solo il suo carattere emotivo, ma rappresentava un atteggiamento caratteristico di quel periodo. La gente da una parte non credeva ai propri occhi,non comprendeva come fosse possibile che all’ improvviso centinaia di tank e migliaia di soldati potessero assediare il Paese con tanta brutalita’ senza un motivo plausibile.Dall’altra parte forse intuiva che quel che stava accadendo preludeva al disastro e avrebbe significato la fine per un periodo a venire lunghissimo. Naturalmente nessuno era in grado di immaginare le conseguenze e la portata di questi avvenimenti, ma tutti percepivano che stava accadendo qualcosa di estremamente negativo. Pero’ allo stesso tempo tra gli uomini c’era ancora una speranza. E’ difficile dire con esattezza che tipo di speranza.Del forte sentimento di solidarieta’ ne ho gia’ parlato, dell’unita’, della voglia di aiutarsi – (per esempio ci portarono dall’ospedale in radio dei farmaci senza che ne avessimo avuto bisogno solo perche’ la gente sentiva il bisogno di aiutare) –l’atmosfera che si respirava contribuiva a rafforzare la speranza.Ricordo che si scriveva uno slogan “lo spirito vince la forza bruta”. Gli uomini semplicemente credevano che tutto dipendesse da loro. Anche se fossero arrivati un milione di carri armati non sarebbero stati in grado di fare nulla, mentre la gente sarebbe stata unita e compatta e si sarebbe comportata con senno, ingegno ed accortezza. Io ero tra quelli che invitavano a non rilassarsi mai, dopo che tanto bene ci eravamo comportati durante la prima settimana d’occupazione. Era necessario difendere tutto, anche le cose piu’ piccole ma pur sempre concrete, e difenderle per sempre. Le illusioni, soprattutto dopo la firma dei Protocolli di Mosca avrebbero potuto rivelarsi controproducenti e noi non volevamo ubriacarci come in precedenza, con il pretesto che,essendo il presente disperato, non vale la pena di fare qualcosa .Domanda: Mi e’ venuta in mente un ultima cosa,quantomai d’ attualita’. Nell’anno ’68 ci furono le Olimpiadi in Messico e la Cecoslovacchia vi e’ arrivata come il paese vittima dell’ aggressione straniera. La Sua amica, Věra Čáslavská, ha brillato in Messico raccogliendo medaglie. Puo’dirci quali analogie potrebbero esserci tra la spedizione olimpica cecoslovacca del ’68(con le reazioni internazionali conseguenti),e le Olimpiadi in programma in Cina?Vaclav Havel: Le Olimpiadi in Messico sono stato un evento indimenticabile. Tutta la nazione sentiva profondamente le vittorie di Věra Čáslavská che hanno sensibilizzato l’ opinione pubblica internazionale piu’ che tutti i proclami dei politici. Le Olimpiadi infatti sono state seguite da miliardi di persone.Fu meraviglioso,e per noi, nella nostra situazione significo’ un notevole incoraggiamento.Il pubblico spontaneamente intendeva dimostrare il proprio appoggio alla piccola Cecoslovacchia,circostanza di grande rilievo politico internazionale. E Věra merita un riconoscimento assoluto per il suo comportamento d’allora. Poi anche lei ha passato i suoi guai.In Cina sara’ piu’ complicato. Forse qualcosa succedera’, non lo so. L’ esperienza pero’ mi dice che l’ indifferenza verso le condizioni di vita nel Paese esercitata in nome dell’ideale olimpico, nega alla fine l’ideale olimpico stesso. Per esempio sono venuto a sapere da alcuni amici miei russi, democratici, dissidenti e capi dell’opposizione quale sostegno morale fu a suo tempo per loro il boicottaggio dell’Occidente delle Olimpiadi di Mosca. Sappiamo al contrario quale sostegno al regime rappresentarono negli anni ‘30 per Hitler le Olimpiadi a Berlino con tutta la loro propaganda megalomane nazista. La posizione di Hitler si rafforzo’ soprattutto perche’ la gente pensava che il regime e le Olimpiadi fossero due cose ben distinte che non andavano mischiate. Questa e’ un’idea molto pericolosa.GrazieFondazione Vaclav Havel
Vaclav Havel, Considerazioni sull'anno 1968
DAL BLOG girodivite Vaclav Havel - Considerazioni sull’anno 1968Pubblichiamo un’intervista in esclusiva italiana al Premio Nobel Vaclav Havel realizzata da Martin Vidlák e Petr Jančárek; tradotta in italiano da Petra Sifnerova; e corretta da Simone Buontempi e Paolo Polesellomercoledì 20 agosto 2008, di Emanuele G. Domanda: Gli eventi dell’anno 1968 non possono venire estrapolati dagli avvenimenti degli anni ’60. Che cosa ci direbbe in proposito?Vaclav Havel: E’ generalmente riconosciuto che gli anni ’60 sono stati caratterizzati da un’atmosfera densa di una coscienza morale e spirituale particolari. I motivi per cui il periodo della contestazione govanile contro l’establishment si e’sviluppato proprio negli anni ’60 sono molteplici. Una delle ragioni risiede nel fatto che entrava a far parte della vita pubblica una generazione che per motivi anagrafici non aveva svolto un ruolo attivo durante la seconda guerra mondiale. I rappresentanti di questa generazione, non avendo l’esatta percezione dei meccanismi della guerra fredda, avevano un modo di guardare al mondo diverso, come da un punto di vista piu’ ’’fresco’’.Cio’ é molto interessante. L’epoca é stata segnata da un suo stile, una sua moda,e a tutt’oggi e’ inconfondibile l’ eredita’,anche visuale che ci é pervenuta. Io attraversavo un’ eta’ in cui provavo questi sentimenti con molta intensita’ e in un certo modo partecipavo, perche’ negli anni ’60 si cominciarono a rappresentare i miei primi drammi che poi si sono diffusi da Praga in tutto il mondo. Non era esattamente un’epoca di concetti alternativi in senso assoluto, nessuno proponeva un nuovo modello della costituzione sociale, o qualche nuova dottrina o ideologia.Si trattava piuttosto di una rivolta contro l’ ”esistente” (contro quello che gia’ c’era), contro i meccanismi “fossili” del mondo precostituito, contro la politica rigida della guerra fredda, contro la burocrazia.Tutto questo aveva anche una sua sfumatura poetica. In Cecoslovacchia si compiva la Primavera di Praga, io finalmente avevo il passaporto(che non avevo potuto mai possedere in precedenza) e quindi viaggiavo in America. Sono stato presente alla prima di un mio dramma, ho vissuto gli scioperi degli studenti e le dimostrazioni imponenti a Central Park. All’ Universita’ di Columbia ho persino preso parte a dei dibattiti con gli studenti in sciopero,esordendo con queste testuali parole: “Spero di non essere un crumiro.” Tutti gli spettatori delle rappresentazioni a Broadway portavano la collana, si vestivano con vestiti coloratissimi, avevano i capelli lunghi,in pratica quello che in “Hair” veniva rappresentato in scena diveniva d’attualita’ anche nelle assemblee, sulla strada e a Central Park. Naturalmente molti di quelli che avevano vissuto questo periodo in prima persona,in seguito si sono calmati, si sono fatti tagliare i capelli, hanno cominciato a portare la cravatta,hanno intrapreso le carriere di burocrati o abili manager. Questo e’ indubbio. Mi sembra tuttavia, che da qualche parte qualcosa sia restato, e che l’esperienza degli anni ’60 abbia influito notevolmente sugli avvenimenti pubblici e politici dei decenni successivi.Un politico che ho avuto l’opportunita’ di conoscere abbastanza da vicino e in cui ho potuto avvertire la presenza –magari inconsapevole– di una esemplare coscienza morale tipica degli anni ’60, e’ Bill Clinton. Qualcosa di simile ho sperimentato anche a Parigi. Mi ricordo dello sciopero all’aeroporto, durante il quale ricordo che stavo cercando la mia valigia con cui ero arrivato dall’America. Mi accompagnava Pavel Tigrid che si e’ offerto di accompagnarmi a Bruxelles da dove avrei potuto prendere un volo per Praga.Un impiegato dell’aeroporto ha cercato nell’immenso sotterraneo tra mille valigie la mia. Siamo usciti fuori sulla pista di volo. Non c’era nessuno, nessuno in arrivo, nessuno che saliva a bordo, e quell’uomo mi ha mostrato la pista dove c’erano immobili i grandi aeroplani: “Guardi: come uccelli morti.” Questo e’ stato per me un evento caratteristico della rivoluzione di maggio a Parigi, anche per la sua dimensione poetica Tutto cio’aveva naturalmente, anche una sua dimensione rivoluzionaria, che pero’ talvolta oltrepassava i miei limiti. Non simpatizzavo per chi frantumava le macchine e le vetrine.Fu pero’ un movimento di portata mondiale.Era l’era dei Beatles, Lou Reed, Andy Warhol, l’epoca dei movimenti studenteschi autonomi. Da noi questo aveva un risvolto particolare perche’ fino ad allora era esistito solo il ČSM (l’Unione della gioventu’ cecoslovacca), vale a dire l’organo ufficiale comunista della gioventu’.Grazie all’iniziativa dei giovani improvvisamente si svilupparono organizzazioni indipendenti ed apartitiche e nessuno poteva piu’condizionarli nelle scelte ideologiche o politiche. Anche precedentemente,negli anni ’50 ,erano accaduti fatti molto significativi,gli intellettuali si mobilitarono e varie sommosse popolari furono soffocate.I rivoluzionari di allora pero’ si conformavano agli schemi e ai concetti fondamentali dell’ideologia dominante. Adesso invece subentrava una generazione che avrebbe buttato all’aria tutto quanto. L’anno ’68 - per mezzo degli scioperi degli studenti in America, della rivoluzione di maggio a Parigi e degli avvenimenti in Cecoslovacchia – e’ assurto a simbolo di questi movimenti di portata mondiale.Domanda:il fenomeno della rivolta giovanile negli anni ’60, quale impatto ha avuto sulla generazione precedente?Forse essa si e’ sentita piu’sollevata e libera della zavorra culturale ereditata nell’immediato dopoguerra?Vaclav Havel: Questo tipo di atteggiamento variava molto da persona a persona. Ho un ricordo specifico: in America ho visitato Ferdinand Peroutka, probabilmente il nostro miglior giornalista del XX. Secolo.Egli rappresentava naturalmente una grande autorita’ per me, e nella sua casa di campagna in Connecticut ho avuto con lui lunghe discussioni. Durante i nostri dibattiti mi sono accorto di quanto fosse diversa la visione del mondo di Ferdinand Peroutka rispetto alla mia. Era un uomo figlio della Prima Repubblica (i.e. 1918-1938), era stato internato in un campo di concentramento, aveva vissuto il golpe comunista, era emigrato in occidente e viveva in esilio. Lui era un uomo che non poteva apprezzare i giovani agghindati con i fiori ed i capelli lunghi . Non ha mai nascosto quanto questo fosse per lui strano, incomprensibile, affermava che il fatto di contestare tutto e tutti fosse inconcepibile. Era un uomo appartenente ad un altra epoca. Quali fossero le opinioni degli americani che facevano parte delle generazioni precedenti, non saprei dirlo con esattezza.Ho avuto modo di osservare atteggiamenti v erso i giovani tra i piu’svariati .Anche per esempio di sostegno per cosi’dire un po’ ’’affettatto’’.Mezz’ora prima della piu’ grande dimostrazione a New York nella 5. Avenue, sono stato invitato in un appartamento di proprieta’ di qualche milionario, dove esponenti dell’alta-societa’ e dell’elite di New York bevevano drink.Poi siamo usciti tutti insieme per aggiungerci alla folla. Ho delle foto di quando abbiamo marciato sulla 5. Avenue e li’ ho potuto constatare l’adesione snobistica dei piu’ anziani alla rivolta dei giovani.Sicuramente esisteva inoltre un ceto che manifestava simpatie per la politica di stampo- tra virgolette -“nixoniano”, questo e’ naturale. Ma l’America e’ un paese cosi’ grande,variegato ed eterogeneo e quindi e’ troppo pericoloso emettere giudizi perentori.Domanda: Lei pensa che anche in Cecoslovacchia il panorama politico sia stato altrettanto variegato e che anche da noi la generazione precedente a quella del ’68 abbia tratto un sospiro di sollievo ?Vaclav Havel: Da noi naturalmente il processo si é sviluppato secondo un diverso procedimento.La Primavera di Praga ,con il tentativo di pervenire ad un comunismo ’’dal volto umano’’ indubbiamente ebbe risonanza internazionale ed influenzo’ i movimenti comunisti di tutto il mondo.Spesso abbiamo sentito dire che questi sforzi siano stati dovuti ai comunisti riformisti che appartenevano alla nuova generazione che all’ interno del partito avevano soppiantato quelli piu’ conservatori. Non voglio sminuire i loro meriti, ma vorrei sottolineare il fatto che, quello che abbiamo fatto, e’ stato compiuto grazie alla pressione di tutta la societa’ e rafforzato dalla presa di coscienza dei fenomeni di crisi nella societa’stessa. Le voci critiche erano cosi’ tante che il potere, al pari dei giovani oramai consapevoli, ha dovuto riflettere sulla situazione. Mi ricordo che Jiří Pelikán mi consiglio’ di fondare un partito d’opposizione, come se il potere desiderasse ora la pluralita’, democratica e regolare, quella che loro stessi non avrebbero poi introdotto e non avrebbero potuto costituire,non essendo probabilmente nemmeno in grado di procedere in tal senso.Il processo di autoliberazione, che aveva i suoi nuclei radicati gia’ da molto tempo nei centri d’ ’’autoconsapevolezza civica’’,si rafforzo’, come se all’improvviso fosse cresciuto di per se’ ed avesse iniziato ad influire massicciamente anche all’interno del partito comunista,in relazione al modo di pensare dei suoi dirigenti e delle piu’ importanti personalita’. Tutto questo ha portato ai cambiamenti dell’anno ’68. Il momento cruciale della svolta e’ stato il congresso degli scrittori nel ’67 , dove e’ successa una cosa piuttosto interessante. Alcuni colleghi, Milan Kundera, Ludvík Vaculík, Pavel Kohout e gli altri ex-comunisti – (i membri dell’Unione degli scrittori non comunisti erano solo una minoranza) – hanno espresso dei concetti molto belli, radicali, rivoluzionari,in virtu’ dei quali piu’ tardi sarebbero stati puniti.Le opinioni con cui pero’ intendevano porsi a confronto diretto con l’ideologia del regime erano subordinate all’accettazione di un riconoscimento di legittimita’ dell’ ideologia stessa del regime.Cio’ mi imbarazzava non poco – non condividevo per esempio il dogma secondo il quale il socialismo rappresenterebbe un valore massimo assoluto,accettato universalmente senza nemmeno sapere cosa cio’ significhi realmente. Oppure la poetica socialista. Che cosa e’? L’apologia della nazionalizzazione? Proprio questi dogmi avevano dovuto parzialmente accettare. Io appartenevo a quelli che avrebbero preferito parlare di altri temi piuttosto che perdermi in sterili compromessi . Mi sembrava che fosse necessario parlare delle cose concrete, soddisfare esigenze concrete e non perdermi nel dissenso ideologico, attraverso il quale c’era soltanto da perdere. Ho quindi parlato degli scrittori censurati e arrestati, delle riviste abolite, ho proposto di accettare le nuove regole dell’Unione degli scrittori in cui sarebbe stata permessa la pluralita’ interna invece del ruolo autoritario dei gruppi (partgroup) del partito comunista ( i comitati che si riunivano precedentemente, organizzati prima di ogni congresso, sempre in linea con la strategia del partito). Mi sono opposto a cose concrete: come l’abolizione della rivista Tvář (La Faccia), ho chiesto inoltre come mai i piu’ bravi personaggi della nostra letteratura – come il prof. Černý, Jindřich Chalupecký, Jiří Kolář, non erano membri dell’Unione degli scrittori,mentre ne facevano parte parecchi pseudoscrittori che ancora dieci anni prima avevano tessuto le lodi di Stalin e pur avendo dovuto cambiare da un pezzo le posizioni d’allora erano restati in carica. Tutti questi fattori contribuirono allo scompiglio ed alla tensione dell’epoca.Da una parte l’opposizione dei comunisti riformisti all’interno del partito, basata sulla fedelta’ a questa ideologia,dall’altra l’opposizione di coloro che ne erano completamente fuori.I punti di vista,seppur differenti,talvolta si incontravano e contribuirono a trovare un avvicinamento. Pero’ e’ necessario considerare entrambe le posizioni e non bisognerebbe favorirne una a scapito dell’altra,come purtroppo succede spesso. Possiamo avallare la tesi secondo la quale i comunisti riformisti rivendicano la paternita’degli eventi del ’68,ma anche dar credito all’opinione contraria, per cui gli anticomunisti si proclamano gli autentici fautori del movimento.Domanda: Si puo’ parlare di un’ opposizione non comunista, dell’esistenza di qualche struttura organizzata?Vaclav Havel: Si’, c’era gente fuori dal partito comunista, che percepiva l’avvicinamento del momento in cui avrebbe dovuto impegnarsi attivamente. Era pero’ veramente molto difficile, perche’ tutte le strutture amministrative erano basate sul principio del ruolo egemonico del Partito comunista. La Democrazia socialista provava a riciclarsi:furono fondati il K231 e il KAN.Questo fu un tentativo di costruire una forza politica democratica vera, che non aveva niente in comune con il comunismo. Di tutto questo si scriveva, si facevano considerazioni, se ne parlava. Ci furono innumerevoli dibattiti, tanti incontri. Mi ricordo un incontro convenuto da noi dopo che avevo scritto un lungo articolo dal titolo “Sul tema dell’opposizione” (Literarni listy No. 6/1968). Ma i tempi non erano ancora maturi e l’ occupazione e’ avvenuta troppo presto , quindi tutto questo non ha avuto il tempo necessario per cristallizzarsi. Non c’erano le strutture necessarie, niente segretarie ed uffici, neanche chi avrebbe pagato. Per questo tutto era ancora piu’ difficile.Domanda: Lei come ha vissuto l’estate del ’68 e il momento specifico in cui e’ venuto a sapere della nostra occupazione?Vaclav Havel: In quel tempo solo pochi si erano accorti delle conseguenze derivanti dagli avvenimenti dell’inverno del ’68 ,dopo la celebre Assemblea (del Partito comunista) di gennaio. Neanche i fautori stessi di questi cambiamenti all’interno del Partito comunista, come Dubček, Smrkovský ed altri, avevano percepito con esattezza come sarebbe andata a finire. Ma cosi’ funzionano le cose durante il comunismo:non appena qualcuno apre la porta , la societa’ ci mette subito il piede.La stessa cosa é avvenuta durante il governo di Gorbacov. All’inizio Alexandr Dubček era agli occhi delll’opinione pubblica soltanto uno dei tanti burocrati.Della differenza esistente tra lui e Vasil Bil’ak,inizialmente se ne sono accorti in pochi.Sotto la pressione della gente e sull’onda del processo di liberalizzazione dei mass-media,i comunisti riformisti hanno dovuto prendere atto dei desideri dell’ opinione pubblica e andare incontro al volere popolare. E con sorpresa hanno scoperto che avrebbero potuto godere del consenso della gente e dell’acclamazione del popolo in maniera spontanea,senza che il consenso dovesse essere organizzato dai nuclei comunisti come i ’’pionieri’’ ( l’ organizzazione di propaganda comunista che raggruppava tutti i ragazzi in Cecoslovacchia). E questa constatazione li conquisto’, perche’ sapevano che l’appoggio era spontaneo ed autentico.Cominciarono ad intraprendere le prime timide riforme, ma contemporaneamente gia’ stava cominciando il dissidio ideologico con Mosca.Questa e’ la storia a proposito dell’incontro di Dresda. Furono momenti drammatici ed intensi, naturalmente anch’io ho partecipato attivamente. Nell’Unione degli scrittori abbiamo fondato, in opposizione al gruppo forte del partito, il “Circolo degli scrittori indipendenti”, che univa gli autori che non erano mai stati iscritti al partito. Io l’ho fondato, ne ho elaborato il programma, ne ero il presidente, mi sono dedicato alle varie attivita’connesse.A capo dell’intero movimento di protesta comunque non ero io,ma altri. Viaggiavo molto, e secondo la mia abitudine trascorrevo l’estate nella nostra casa in montagna a Hrádeček nei Krkonoše (le montagne della Boemia del nord). Da noi veniva parecchia gente, arrivavano in visita gli amici: i coniugi Tříska (Jan Tříska era un attore, emigrato dopo il ’68 negli USA), Věra Linhartová (una scrittrice ceca, che dopo il ’68 é emigrata in Francia), Libor Fára (pittore, scenografo, disegnatore di costumi per teatro), Zdeněk Urbánek (scrittore e traduttore, dopo il ’68 non ha piu’ potuto pubblicare) e molti altri. Era un’epoca di grande eccitazione, di grande gioia e anche di apprensione e paura per come tutto avrebbe potuto concludersi.Facevamo fdei falo’ in giardino,organizzavamo feste e, sebbene non volessimo ammetterlo, inconsciamente abbiamo dovuto fare i conti con la possibilita’ che il movimento sarebbe stato oppresso e calpestato. Ogni giorno ascoltavamo la radio e la tv, cosa fino ad allora impensabile,considerato il fatto che i mass media di regime in precedenza non avevano trasmesso mai alcunche’ di interesssante. Mi ricordo che il mio amico, l’attore Jan Tříska,a quei tempi disse: ”E’ un estate troppo bella, non puo’ finire bene.” Un giorno siamo andati a Liberec a vedere dei nostri giovani amici, come l’architetto Masák del SIAL (uno studio architettonico) a Liberec e li’, durante una festa, ci ha sorpreso l’occupazione, che poi abbiamo vissuto per intero in citta’. Con Jan Tříska siamo stati immediatamente coinvolti nella lotta di resistenza. A Liberec e’ stato un massacro. Nella piazza piena di gente sono arrivati i carri armati che sono deliberatamente andati adosso ad alcune persone. Io stesso ho visto un tank sparare. C’erano ragazzi esterrefatti, che non sapevano piu’ nemmeno dove si trovassero e non capivano cosa stesse succedendo.In seguito a questo conflitto, che di certo fu molto sanguinoso e piu’cruento che in altre citta’, non e’ stato costituito nessun presidio permanente tramite l’occupazione delle caserme a garantire il controllo della citta’di Liberec . I carri armati erano solo in transito. Grazie a questo ha potuto fiorire la resistenza sottoforma di manifestazioni di folklore popolare, con le sottoscrizioni, le canzoni, le assemblee e tutto il resto. Al palazzo municipale, assieme al sindaco sig. Moulis, ch’era un uomo di buon cuore, abbiamo fondato un nucleo.Io scrivevo i commenti quotidiani per la radio locale. Sul monte Ještěd addirittura era stata costruita la stazione televisiva e anche li’ ci siamo dati da fare. Mi ricordo che una volta ho scritto un appello ai cittadini con le istruzioni su come affrontare l’occupazione.L’appello e’ stato firmato dal comitato provinciale del Partito comunista, dal Comitato nazionale provinciale e dal Comitato provinciale del Fronte nazionale (il FN riuniva tutte le organizzazioni legali in Cecoslovacchia)oltre che da altre organizzazioni simili.Un cosi’ vasto consenso da parte praticamente di tutte le istituzioni non aveva precedenti.Naturalmente anche a Liberec era presente la repressione.Noi della radio dovevamo nasconderci e uscire segretamente dall’albergo in auto accerchiati da altre macchine a protezione. L’edificio della radio era stato circondato da lastre per costruzione in calcestruzzo,cosi’da proteggerlo da una facile conquista.Nelle fabbriche ci hanno distribuito delle tessere per poterci confondere tra gli operai in caso di necessita’.Fu molto interessante constatare la passione con cui partecipava alla rivolta la generazione dei giovani, gli hippies. Ce n’era uno soppranominato “il Prete”che era il capo di un gruppo di capelluti, dal quale la cittadinanza era invero un po’ intimidita. Mi ricordo che sulle scale del municipio hanno suonato Massachusetts ed altre canzoni popolari. E questo Prete e’andato il primo giorno dell’occupazione dal sindaco Moulis e gli ha detto: capo, siamo a Sua disposizione, cosa possiamo fare? Hanno quindi ricevuto l’incarico di rimuovere tutte le targhette coi numeri civici dalle case , cosi’ l’occupante avrebbe faticato per orientarsi a dovere in citta’.Durante una sola notte tutte le targhette sono state tolte e la mattina furono messe in fila nel corridoio del municipio.Il Prete ha domandato:cos’altro possiamo fare adesso, sindaco? Questo sono miei ricordi privati,alcuni di quelli che si sono fissati nella memoria, forse perche’ raccontano qualcosa di peculiare dell’epoca, degli anni ’60 e di quello che e’ successo da noi.Domanda: Quanto tempo é durata la Sua collaborazione presso la radio di Liberec?Václav Havel: Tutti gli avvenimenti si sono svolti ad una velocita’ mozzafiato.A partire dall’arrivo dei carri armati che hanno attraversavato Liberec verso alle undici di sera,per poi continuare incessantemente fino al ritorno della nostra delegazione da Mosca (il 27.8.). In tv abbiamo potuto trasmettere ancora un comunicato che fu molto critico circa i Protocolli di Mosca.Con quest’ultimo atto s’e’conclusa una settimana febbrile e siamo tornati a Hrádeček. Poi e’ cominciato un altro periodo, totalmente diverso, anch’ esso molto particolare. Dai Protocolli di Mosca fino all’instaurazione del régime di Husák un’anno piu’ tardi,abbiamo vissuto un periodo eccezzionale, lacerante,in cui rientra anche il suicidio di Jan Palach che si diede fuoco. Si puo’ capire qualcosa in proposito,solo se si é a conoscenza dei retroscena dell’epoca.La volonta’di tutta una nazione veniva impudentemente ignorata e derisa dagli oppressori,evidentemente spinti da ambizioni personali di carriera,quando non da impulsi criminali.I momenti culminanti furono le partite di hockey su ghiaccio e la seduta plenaria (del PC) in aprile,durante la quale si insedio’al potere il Dr.Husák. Alexandr Dubček sarebbe restato ancora per un breve periodo il Presidente dell’Assemblea Federale,poi le cose presero un’altra piega molto rapidamente.Cominciate le grandi epurazioni, tutti dovettero sottoscrivere l’accettazione dell’occupazione e giurare fedelta’ al nuovo régime. Fu un periodo di forte repressione e l’ inizio di un periodo di immensa frustrazione per tutta la societa’. Ho preso parte ad innumerevoli dibattiti presso le varie, facolta’ perche’ questo fu anche il periodo degli scioperi e delle proteste studentesche.Le critiche mosse in America sei mesi prima contro il governo (the Establishment) di uno stato democratico, erano adesso indirizzate contro il potere comunista costituito di recente e gli studenti anche in quest’ occasione hanno svolto un ruolo importante. In quel periodo furono abolite tutte le organizzazioni non filo-governative, inclusa l’Unione degli scrittori.Diverse furono le prese di posizione :chi collaborava, chi andava all’ opposizione, chi temporeggiava in attesa di vedere come sarebbe andata a finire.Anche dal punto di vista psicologico fu assai interessante osservare come gli uomini cambiavano atteggiamento. Gia’ sotto il régime di Husák, forse nell’anno ’69, ci furono i primi dissidenti imprigionati e noi abbiamo scritto La Petizione degli scrittori per la loro liberazione. Io ero uno dei raccoglitori di sottoscrizioni ed ebbi l’opportunita’ di osservare come gli uomini cominciavano a cambiare. Alcuni fecero marcia indietro adducendo a pretesto le tante sofferenze gia’vissute in passato,non potevano firmare-dissero- perche’ diventando vecchi desideravano solo la pace; altri spiegarono che in questo modo si indulgeva alla mera provocazione senza arrivare ad un esito finale,a loro avviso solo una strategia piu’ discreta e meno spiccia avrebbe potuto sortire un effetto piu’ funzionale. Altri pero’ hanno firmato il nostro documento consapevoli del fatto che probabilmente sarebbero diventati per lunghi anni scrittori proibiti dalla censura o dissidenti. Fu possibile osservare come si scindeva la comunita’ degli scrittori, e questo era solo uno dei molteplici aspetti dei processi tanto comuni all’interno della societa’.Sono tornato piu’ tardi sull’ argomento nel mio dramma La Protesta, ispirato proprio da questi fatti.Domanda:Questo periodo e’ culminato nel primo anniversario, secondo Lei a quell’epoca ,i cechi gia’ stavano contro i cechi e gli slovacchi contro gli slovacchi?Václav Havel: Si’. Questo fu molto triste. Io insistevo di continuo affermando che era un errore urlare pateticamente slogan come “Morte agli invasori e ai traditori della nazione” o “vogliamo un processo contro Bil’ak e i traditori della Patria”. Sapevo che quelli che gridavano cosi’ non avrebbero resistito, e che sarebbero stati i primi a scappare a gambe levate. Ero favorevole invece ad un atteggiamento calmo, equilibrato, maggiormente risoluto rispetto ad un atteggiamento piu’eclatante e vistoso.L’attitudine di piangersi addosso lamentando di essere dei poveretti,delle vittime della storia,avrebbe potuto servire da alibi,quale argomento valido a frenare una resistenza meno appariscente e nondimeno concreta e permanente.Domanda: Si ricorda, Presidente, un dettaglio concreto dei giorni d’agosto, qualcosa che e’ rimasto nella Sua memoria, qualche evento particolare che si sia fissato indelebilmente?Václav Havel: Fu come un’improvvisa esplosione di tutte le buone qualita’ insite negli uomini e nella societa’. Fu un periodo affascinante di solidarieta’ universale e senso comune di appartenenza reciproca. Un periodo in cui anche i ladri nelle carceri scrivevano manifesti in cui affermavano che non avrebbero mai piu’ rubato. Era chiaro ,naturalmente, che non sarebbe durato in eterno: qualcosa di simile succede da noi una volta ogni vent’anni e solo per un istante. Pero’ questo e’ il mio ricordo personale piu’importante di quei giorni.Domanda: Si ricorda quali furono le reazioni dall’estero? Per esempio l’Austria e la Germania avevano lasciato i confini aperti. E gli USA, la Gran Bretagna o la Francia?Václav Havel: So che ci furono paesi che si aprirono generosamente agli esuli, come la Svizzera o l’Austria.Le reazioni di alcuni altri paesi furono invece deprecabili, altri ancora assunsero un atteggiamento piu’ prudente. Pero’ non credo che sia esistito un accordo segreto tra l’Occidente ed il Cremlino,come si e’ detto in qualche occasione. Non escludo la possibilita’ che l’ambasciatore sovietico a Washington si sia recato un paio di ore prima dell’ arrivo dei carri armati ad informare lo State Department,allo scopo di preavvisarli. Questo non lo escludo, lo considero possibile. Pero’non voglio immaginare nessuna congiura e nessun accordo clandestino,atto a prevenire che gli Americani potessero accorrere in nostro aiuto.No, non mi sembra sia il caso. Era evidente all’epoca che cio’non sarebbe stato possibile. Non si volle scatenare una nuova guerra mondiale ne’ dopo gli eventi della rivoluzione in Ungheria, ,ne’ in seguito all’oppressione della Primavera di Praga.Domanda: Neanche le reazioni del blocco comunista furono le stesse. La Jugoslavia ha certamente agito differentemente rispetto all’Unione sovietica, altrettanto fece la Romania, dal momento che Ceausescu era contrario all’intervento.Václav Havel: Si’,certo.Domanda: Come si puo’ definire il retaggio culturale relativo al ’68? I lettori di paesi lontani potrebbero far confusione tra i fenomeni tipici del ’68 e quelli relativi alla caduta della cortina di ferro nell’anno ’89. Puo’ dirci, per favore, dove sta la differenza?Václav Havel:Il crollo della cortina di ferro con la caduta del comunismo nell’ anno ’89 e gli eventi del ’68,hanno avuto un fattore scatenante in comune:la pressione di una societa’ che voleva vivere in liberta’ e non sopportava piu’ il totalitarismo che umilia gli uomini dalla mattina alla sera e conduce alla decadenza economica. In comune c’e’ quindi la rivolta contro il regime dittatoriale di tipo comunista.Altri aspetti relativi al ’68 e ’89 sono certamente diversissimi.Innanzitutto l’anno ’68 e’ stato caratterizzato dalla ricerca ideologica di un comunismo riformato. Il governo,con l’appoggio silenzioso dell’ opinione pubblica, sottolineava che voleva solo migliorare il socialismo. Ribadiva che non avrebbero rinnegato l’appartenenza al blocco monolitico sovietico, non intendevano andare contro di esso, non avrebbero proceduto alla privatizzazione o introdotto il capitalismo. Questa ideologia nuova di socialismo riformato era, dall’estero, la manifestazione piu’ visibile della Primavera di Praga. Pero’ nell’anno ’89 la situazione era ormai completamente differente. La gente non desiderava alcun socialismo dal volto umano, voleva la liberta’. Di questa differenza me ne sono accorto molto bene e ho dovuto renderne conto personalmente. Nel Foro civile (Občanské fórum), un movimento nazionale improvvisato,erano presenti anche i comunisti riformisti, quelli che erano stati nei venti anni precedenti perseguitati perche’avevano aderito alla Charta 77,oppure avevano manifestato il loro dissenso in modo diverso.In quel periodo il loro modo di intendere la politica, il loro linguaggio, non trovarono nel pubblico nessun consenso e nessuna reazione adeguata. Anche se per tanti anni erano stati contro i dirigenti del partito, venivano ora inibiti e perseguitati. Diversi professori avevano per punizione dovuto lavorare come operai, eppure mantenevano ugualmente le abitudini tipiche del periodo comunista. Per esempio la tendenza ad una politica ’’esclusiva’’di gabinetto, il bisogno di discutere tutto prima tra loro per mettersi d’accordo sulla tattica da seguire e solo in seguito negoziare con gli altri.Avevano conservato quest’attitudine e lo si notava subito.Ma soprattutto ormai l’opinione pubblica non riconosceva piu’ le argomentazioni del régime. Il messaggio lanciato alla televisione da Zdeněk Mlynář suscito’ generale indignazione. Non entusiasmarono nemmeno il comizio di Alexandr Dubček in piazza San Venceslao , ne’ quello di Adamec a Letna’. Il popolo chiedeva di piu’.Domanda:Ciononostante si puo’ probabilmente affermare che a conferire maggior velocita’ agli avvenimenti dell’anno ’89 abbiano contribuito le circostanze inerenti la passata ’’normalizzazione’’,in concorso con il comportamento bigotto dei rappresentanti comunisti al vertice, oltre al ricordo sempre vivo degli avvenimenti dell’anno ’68.Vaclav Havel: Si’, in questo senso l’anno ’68 ha sicuramente svolto un ruolo importante, perche’dopo la Primavera di Praga tutte le persone un minimo acculturate erano state rimosse dai loro incarichi e dalle loro posizioni. Centinaia di migliaia di uomini,dai direttori delle fabbriche ai manager, dagli insegnanti ai professori, furono esautorati delle loro mansioni ed al loro posto si sono insediati dei ’’camaleonti’’ che dal punto di vista professionale furono come minimo di seconda scelta . Al potere si ritrovo’ quindi una classe dirigente d’infima categoria, quelli piu’ conservatori e primitivi, quelli che negli anni della normalizzazione erano passati sui cadaveri di coloro che erano stati eliminati. Anche per questo la rivolta contro il regime e’ stata piu’ visibile, piu’ prepotente ed ha condotto al successo piu’ velocemente che in qualsiasi altro paese, dove non c’era stata una inversione di tendenza tanto netta come da noi nell’anno ’68 e dove a ricoprire le funzioni piu’ importani dello Stato, del partito e dell’economia c’erano uomini che avevano provveduto saggiamente ad attuare delle riforme.Domanda: Lei quando si e’ accorto che la Primavera di Praga volgeva alla fine?E stato nel ’69, in concomitanza con il primo anniversario oppure gia’ prima? Oppure l’ha capito subito, nello stesso momento in cui in Cecoslovacchia sono entrati i soldati russi? Quando ha maturato la convinzione che non ci fossero piu’speranze?Václav Havel: Mi ricordo il momento in cui ci hanno telefonato alle undici di sera e ci hanno detto di accendere la radio dove davano lettura della proclama della presidenza del Comitato centrale del Partito comunista , in cui si comunicava che le armate stavano occupando il nostro Paese. Siamo subito corsi in strada. L’amico Jiří Seifert, oggi non piu’ vivente, era in un tale stato animo per cui ha affrontato un carro armato come se volesse impedirgli di andare avanti. Questo non rivelava solo il suo carattere emotivo, ma rappresentava un atteggiamento caratteristico di quel periodo. La gente da una parte non credeva ai propri occhi,non comprendeva come fosse possibile che all’ improvviso centinaia di tank e migliaia di soldati potessero assediare il Paese con tanta brutalita’ senza un motivo plausibile.Dall’altra parte forse intuiva che quel che stava accadendo preludeva al disastro e avrebbe significato la fine per un periodo a venire lunghissimo. Naturalmente nessuno era in grado di immaginare le conseguenze e la portata di questi avvenimenti, ma tutti percepivano che stava accadendo qualcosa di estremamente negativo. Pero’ allo stesso tempo tra gli uomini c’era ancora una speranza. E’ difficile dire con esattezza che tipo di speranza.Del forte sentimento di solidarieta’ ne ho gia’ parlato, dell’unita’, della voglia di aiutarsi – (per esempio ci portarono dall’ospedale in radio dei farmaci senza che ne avessimo avuto bisogno solo perche’ la gente sentiva il bisogno di aiutare) –l’atmosfera che si respirava contribuiva a rafforzare la speranza.Ricordo che si scriveva uno slogan “lo spirito vince la forza bruta”. Gli uomini semplicemente credevano che tutto dipendesse da loro. Anche se fossero arrivati un milione di carri armati non sarebbero stati in grado di fare nulla, mentre la gente sarebbe stata unita e compatta e si sarebbe comportata con senno, ingegno ed accortezza. Io ero tra quelli che invitavano a non rilassarsi mai, dopo che tanto bene ci eravamo comportati durante la prima settimana d’occupazione. Era necessario difendere tutto, anche le cose piu’ piccole ma pur sempre concrete, e difenderle per sempre. Le illusioni, soprattutto dopo la firma dei Protocolli di Mosca avrebbero potuto rivelarsi controproducenti e noi non volevamo ubriacarci come in precedenza, con il pretesto che,essendo il presente disperato, non vale la pena di fare qualcosa .Domanda: Mi e’ venuta in mente un ultima cosa,quantomai d’ attualita’. Nell’anno ’68 ci furono le Olimpiadi in Messico e la Cecoslovacchia vi e’ arrivata come il paese vittima dell’ aggressione straniera. La Sua amica, Věra Čáslavská, ha brillato in Messico raccogliendo medaglie. Puo’dirci quali analogie potrebbero esserci tra la spedizione olimpica cecoslovacca del ’68(con le reazioni internazionali conseguenti),e le Olimpiadi in programma in Cina?Vaclav Havel: Le Olimpiadi in Messico sono stato un evento indimenticabile. Tutta la nazione sentiva profondamente le vittorie di Věra Čáslavská che hanno sensibilizzato l’ opinione pubblica internazionale piu’ che tutti i proclami dei politici. Le Olimpiadi infatti sono state seguite da miliardi di persone.Fu meraviglioso,e per noi, nella nostra situazione significo’ un notevole incoraggiamento.Il pubblico spontaneamente intendeva dimostrare il proprio appoggio alla piccola Cecoslovacchia,circostanza di grande rilievo politico internazionale. E Věra merita un riconoscimento assoluto per il suo comportamento d’allora. Poi anche lei ha passato i suoi guai.In Cina sara’ piu’ complicato. Forse qualcosa succedera’, non lo so. L’ esperienza pero’ mi dice che l’ indifferenza verso le condizioni di vita nel Paese esercitata in nome dell’ideale olimpico, nega alla fine l’ideale olimpico stesso. Per esempio sono venuto a sapere da alcuni amici miei russi, democratici, dissidenti e capi dell’opposizione quale sostegno morale fu a suo tempo per loro il boicottaggio dell’Occidente delle Olimpiadi di Mosca. Sappiamo al contrario quale sostegno al regime rappresentarono negli anni ‘30 per Hitler le Olimpiadi a Berlino con tutta la loro propaganda megalomane nazista. La posizione di Hitler si rafforzo’ soprattutto perche’ la gente pensava che il regime e le Olimpiadi fossero due cose ben distinte che non andavano mischiate. Questa e’ un’idea molto pericolosa.GrazieFondazione Vaclav Havel
sinistra: idee per una rifondazione
Gauche : des idées pour une refondation
LE MONDE 2 22.08.08 17h56 • Mis à jour le 23.08.08 09h02
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Dix-sept millions de Français ont voté pour la gauche en 2007. Après les échecs à répétition, électeurs, sympathisants, militants, attendaient des responsables politiques des réflexions neuves, un puissant travail de refondation. Or qu'entendent-ils? Une extrême gauche protestataire qui persiste à refuser l'économie de marché. Des écologistes affaiblis par leur propre incurie. Un Parti socialiste aphone qui a laissé s'imposer une politique de droite dure comme s'il s'agissait du seul projet de société moderniste et économiquement viable. Alors quoi, la gauche républicaine et ses idéaux égalitaires, ses traditions sociales, libérales, fraternelles, la gauche " progressiste " née en 1905, celle de 1936 et du Front populaire, de l'élection de François Mitterrand en 1981, n'a plus de projet de société? Les socialistes, qui ont emporté vingt régions sur vingt-deux et la majorité des grandes villes en 2008, seraient incapables de proposer une alternative — politique? Loin des tribunes, on assiste pourtant à une véritable ébullition intellectuelle, presque à une rage de réflexion, tant la déception a été cruelle en 2007. Chercheurs, intellectuels, élus, chefs d'entreprise, syndicalistes, militants de toutes obédiences s'organisent en fondations, clubs de réflexion, collectifs de propositions, think tanks ou think boxes – les " boîtes à idées " politiques nées aux Etats-Unis pendant les années 1960 –, groupes de soutien à telle ou telle personnalité. On en compte une centaine. Il y a des sites proposant des idées neuves et des observatoires : le Club Changer la gauche, l'Observatoire des inégalités du philosophe Patrick Savidan, le site de l'économiste Frédéric Lordon pour réformer le capital financier… Des groupements de militants cherchant des stratégies — politiques, organisant des débats sur le fond : La Forge, autour de Noël Mamère et Hugues Nancy, Cercle21, autour de Manuel Valls, Institut Edgar-Quinet, autour de Vincent Peillon… D'autres cercles coagulent autour d'expériences réussies au niveau régional, rassemblant des acteurs de terrain : à Lille autour de Martine Aubry, à Nantes avec Jean-Marc Ayrault, etc.
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SUR LE MÊME SUJET
Compte rendu A Lille, l'écologie est un levier pour le mieux-vivre
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IDÉES NEUVES
Restent les think tanks — proprement dits, les groupes de réflexion rassemblant experts économiques, enquêteurs sociaux, universitaires, chercheurs, chefs d'entreprise, personnalités politiques. Certains sont soutenus par des subventions d'Etat, comme la Fondation Jean-Jaurès. D'autres sont financés par des associations ou les directions de grandes entreprises. Leurs fonctions? Produire des analyses élaborées, des propositions de programme, des enquêtes de société, des expertises économiques. La République des idées, dirigée depuis 2002 par l'historien Pierre Rosanvallon, ancien président de la Fondation Saint-Simon – le creuset du centre gauche intellectuel français –, est déjà célèbre pour ses contributions de haut niveau et sa collection d'essais (au Seuil). Des chercheurs réputés y collaborent comme le sociologue Eric Maurin (L'Egalité des possibles, 2002), l'économiste Jean Peyrelevade (Le Capitalisme total, 2005) ou l'historien Patrick Weil (La République et sa diversité, 2005). Leur site laviedesidées.fr publie chaque jour une contribution. Dans son bureau de l'Ecole des hautes études en sciences sociales (EHESS), Pierre Rosanvallon explique : " La République des idées se veut d'abord un laboratoire de recherche, un lieu de production, un espace de rencontre entre des chercheurs. Elle n'a pas l'ambition d'écrire un programme politique, elle s'attache à montrer la force des idées neuves. " Directement associée au Parti socialiste, la Fondation Jean-Jaurès, dont le président est Pierre Mauroy et le président du conseil d'orientation l'économiste Daniel Cohen, a pour tâche de préserver l'histoire du socialisme démocratique. Elle publie tous les mois des analyses solides : " Les jurys citoyens ", " De nouveaux droits pour l'opposition? ", etc. Les Gracques forment un petit groupe de hauts fonctionnaires, d'anciens membres du cabinet Strauss-Kahn comme Bernard Spitz, rejoint par Denis Olivennes, l'ancien patron de la Fnac devenu directeur général du Nouvel Observateur.
Club de réflexion indépendant, les Gracques produisent peu d'analyses, mais participent au site d'idées entempsreel.com animé par des personnalités telles que Pascal Lamy, directeur de l'OMC, Philippe Crouzet, directeur adjoint de Saint-Gobain, Laurent Joffrin, directeur de Libération. Plus à gauche, la fondation Copernic (" Pour remettre à l'endroit ce que le libéralisme fait fonctionner à l'envers "), proche du mouvement Attac, travaille depuis dix ans sur les dossiers négligés par le PS (chez Syllepse) : Résister au sécuritaire, Revendiquer et s'organiser!, Homosexualité, mariage et filiation. Au printemps dernier, ce paysage a été bouleversé par l'apparition de la Fondation Terra Nova. Créée sous l'impulsion d'Olivier Ferrand, un ancien du — cabinet Jospin, ce think tank impressionne par un " collège universitaire " de cinquante intellectuels de haut vol.Ainsi, parmi eux Philippe Aghion, professeur d'économie à l'université Harvard, Michel Wieviorka, sociologue à l'EHESS, Daniel Cohen, professeur d'économie à l'Ecole normale supérieure (ENS) et éditorialiste au Monde ou le constitutionnaliste Olivier Duhamel. Terra Nova a commencé de produire des notes intéressantes. La dernière est une critique sévère de la réforme de la constitution. Ce panorama brossé à grands traits, partons pour un voyage à la recherche des idées neuves de la gauche française.
INVESTIR MASSIVEMENT DANS L'ÉCONOMIE DE LA CONNAISSANCE
Philippe Aghion parle en bolide, veut vous communiquer sa vision d'une nouvelle société. Economiste nobélisable, professeur à Harvard, écouté des cercles socialistes, il a travaillé sur les théories de la croissance associée à l'innovation selon Joseph Schumpeter. Membre du prestigieux Conseil d'analyse économique (CAE, financé par l'Etat), co-auteur en 2007 d'une recherche sur Les Leviers de la croissance française (Documentation française-CAE) avec l'économiste Jean Pisani-Ferry, membre de la Commission pour la libération de la croissance française dite commission Attali, Philippe Aghion a montré comment un pays ne décolle pas économiquement s'il reste éloigné de la " frontière technologique ". Il ne peut pas, alors, résister à la concurrence mondiale. Ce constat drastique implique, en France comme ailleurs, une politique radicale de développement. Philippe Aghion appelle ce programme : " Investir dans l'économie de la connaissance ". Ecoutons-le : " Nous n'allons pas rivaliser avec la Chine et l'Inde et leur main-d'œuvre bon marché en rivalisant au seul niveau industriel, en délocalisant, ou en gagnant deux heures supplémentaires. Nous allons gagner en développant les meilleures universités du monde, la recherche la plus pointue, les niveaux d'emplois les plus demandés, les entreprises les plus innovantes. C'est seulement à ce prix que nous resterons en lice. Pour réussir, nous devons lancer toutes nos forces dans l'économie de la connaissance. Ce doit être la ligne numéro un du budget. Sous Sarkozy, nous en sommes loin. A gauche aussi… "
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Frédéric Joignot
LE MONDE 2 22.08.08 17h56 • Mis à jour le 23.08.08 09h02
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Dix-sept millions de Français ont voté pour la gauche en 2007. Après les échecs à répétition, électeurs, sympathisants, militants, attendaient des responsables politiques des réflexions neuves, un puissant travail de refondation. Or qu'entendent-ils? Une extrême gauche protestataire qui persiste à refuser l'économie de marché. Des écologistes affaiblis par leur propre incurie. Un Parti socialiste aphone qui a laissé s'imposer une politique de droite dure comme s'il s'agissait du seul projet de société moderniste et économiquement viable. Alors quoi, la gauche républicaine et ses idéaux égalitaires, ses traditions sociales, libérales, fraternelles, la gauche " progressiste " née en 1905, celle de 1936 et du Front populaire, de l'élection de François Mitterrand en 1981, n'a plus de projet de société? Les socialistes, qui ont emporté vingt régions sur vingt-deux et la majorité des grandes villes en 2008, seraient incapables de proposer une alternative — politique? Loin des tribunes, on assiste pourtant à une véritable ébullition intellectuelle, presque à une rage de réflexion, tant la déception a été cruelle en 2007. Chercheurs, intellectuels, élus, chefs d'entreprise, syndicalistes, militants de toutes obédiences s'organisent en fondations, clubs de réflexion, collectifs de propositions, think tanks ou think boxes – les " boîtes à idées " politiques nées aux Etats-Unis pendant les années 1960 –, groupes de soutien à telle ou telle personnalité. On en compte une centaine. Il y a des sites proposant des idées neuves et des observatoires : le Club Changer la gauche, l'Observatoire des inégalités du philosophe Patrick Savidan, le site de l'économiste Frédéric Lordon pour réformer le capital financier… Des groupements de militants cherchant des stratégies — politiques, organisant des débats sur le fond : La Forge, autour de Noël Mamère et Hugues Nancy, Cercle21, autour de Manuel Valls, Institut Edgar-Quinet, autour de Vincent Peillon… D'autres cercles coagulent autour d'expériences réussies au niveau régional, rassemblant des acteurs de terrain : à Lille autour de Martine Aubry, à Nantes avec Jean-Marc Ayrault, etc.
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Compte rendu A Lille, l'écologie est un levier pour le mieux-vivre
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IDÉES NEUVES
Restent les think tanks — proprement dits, les groupes de réflexion rassemblant experts économiques, enquêteurs sociaux, universitaires, chercheurs, chefs d'entreprise, personnalités politiques. Certains sont soutenus par des subventions d'Etat, comme la Fondation Jean-Jaurès. D'autres sont financés par des associations ou les directions de grandes entreprises. Leurs fonctions? Produire des analyses élaborées, des propositions de programme, des enquêtes de société, des expertises économiques. La République des idées, dirigée depuis 2002 par l'historien Pierre Rosanvallon, ancien président de la Fondation Saint-Simon – le creuset du centre gauche intellectuel français –, est déjà célèbre pour ses contributions de haut niveau et sa collection d'essais (au Seuil). Des chercheurs réputés y collaborent comme le sociologue Eric Maurin (L'Egalité des possibles, 2002), l'économiste Jean Peyrelevade (Le Capitalisme total, 2005) ou l'historien Patrick Weil (La République et sa diversité, 2005). Leur site laviedesidées.fr publie chaque jour une contribution. Dans son bureau de l'Ecole des hautes études en sciences sociales (EHESS), Pierre Rosanvallon explique : " La République des idées se veut d'abord un laboratoire de recherche, un lieu de production, un espace de rencontre entre des chercheurs. Elle n'a pas l'ambition d'écrire un programme politique, elle s'attache à montrer la force des idées neuves. " Directement associée au Parti socialiste, la Fondation Jean-Jaurès, dont le président est Pierre Mauroy et le président du conseil d'orientation l'économiste Daniel Cohen, a pour tâche de préserver l'histoire du socialisme démocratique. Elle publie tous les mois des analyses solides : " Les jurys citoyens ", " De nouveaux droits pour l'opposition? ", etc. Les Gracques forment un petit groupe de hauts fonctionnaires, d'anciens membres du cabinet Strauss-Kahn comme Bernard Spitz, rejoint par Denis Olivennes, l'ancien patron de la Fnac devenu directeur général du Nouvel Observateur.
Club de réflexion indépendant, les Gracques produisent peu d'analyses, mais participent au site d'idées entempsreel.com animé par des personnalités telles que Pascal Lamy, directeur de l'OMC, Philippe Crouzet, directeur adjoint de Saint-Gobain, Laurent Joffrin, directeur de Libération. Plus à gauche, la fondation Copernic (" Pour remettre à l'endroit ce que le libéralisme fait fonctionner à l'envers "), proche du mouvement Attac, travaille depuis dix ans sur les dossiers négligés par le PS (chez Syllepse) : Résister au sécuritaire, Revendiquer et s'organiser!, Homosexualité, mariage et filiation. Au printemps dernier, ce paysage a été bouleversé par l'apparition de la Fondation Terra Nova. Créée sous l'impulsion d'Olivier Ferrand, un ancien du — cabinet Jospin, ce think tank impressionne par un " collège universitaire " de cinquante intellectuels de haut vol.Ainsi, parmi eux Philippe Aghion, professeur d'économie à l'université Harvard, Michel Wieviorka, sociologue à l'EHESS, Daniel Cohen, professeur d'économie à l'Ecole normale supérieure (ENS) et éditorialiste au Monde ou le constitutionnaliste Olivier Duhamel. Terra Nova a commencé de produire des notes intéressantes. La dernière est une critique sévère de la réforme de la constitution. Ce panorama brossé à grands traits, partons pour un voyage à la recherche des idées neuves de la gauche française.
INVESTIR MASSIVEMENT DANS L'ÉCONOMIE DE LA CONNAISSANCE
Philippe Aghion parle en bolide, veut vous communiquer sa vision d'une nouvelle société. Economiste nobélisable, professeur à Harvard, écouté des cercles socialistes, il a travaillé sur les théories de la croissance associée à l'innovation selon Joseph Schumpeter. Membre du prestigieux Conseil d'analyse économique (CAE, financé par l'Etat), co-auteur en 2007 d'une recherche sur Les Leviers de la croissance française (Documentation française-CAE) avec l'économiste Jean Pisani-Ferry, membre de la Commission pour la libération de la croissance française dite commission Attali, Philippe Aghion a montré comment un pays ne décolle pas économiquement s'il reste éloigné de la " frontière technologique ". Il ne peut pas, alors, résister à la concurrence mondiale. Ce constat drastique implique, en France comme ailleurs, une politique radicale de développement. Philippe Aghion appelle ce programme : " Investir dans l'économie de la connaissance ". Ecoutons-le : " Nous n'allons pas rivaliser avec la Chine et l'Inde et leur main-d'œuvre bon marché en rivalisant au seul niveau industriel, en délocalisant, ou en gagnant deux heures supplémentaires. Nous allons gagner en développant les meilleures universités du monde, la recherche la plus pointue, les niveaux d'emplois les plus demandés, les entreprises les plus innovantes. C'est seulement à ce prix que nous resterons en lice. Pour réussir, nous devons lancer toutes nos forces dans l'économie de la connaissance. Ce doit être la ligne numéro un du budget. Sous Sarkozy, nous en sommes loin. A gauche aussi… "
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Frédéric Joignot
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