sabato 8 gennaio 2011

Renato Fioretti: Il lavoro che verrà

Il lavoro che verrà: chi dimentica, chi bara e Pietro Ichino
(di Renato Fioretti)
Come da consolidata tradizione, gli ultimi giorni dell’anno hanno sempre rappresentato l’occasione per “tirare le somme” su quanto realizzatosi e interrogarsi sul futuro. Riprendendo il testo di una canzone reso celebre da Lucio Dalla, ci si potrebbe anche esercitare a immaginare un nuovo anno nel quale “anche i preti potranno sposarsi ma soltanto a una certa età” e “senza grandi disturbi qualcuno sparirà, forse i troppo furbi e i cretini di ogni età”. Ma non riusciremmo, comunque, ad affrancarci da coloro che dimenticano, di quanti barano e di chi mente sapendo di mentire!
In questo senso, il tema del lavoro - di quello che non c’è, insieme alla qualità di quello disponibile - si presta ad alcune interessanti considerazioni.
Tra quelli che hanno dimenticato, o (forse) fanno finta di averlo fatto, annovero tutti coloro che - tanto dal versante dell’attuale opposizione al Berlusconi IV, quanto da quello sindacale - hanno, attraverso il lento e inesorabile trascorrere del tempo, “diluito” e “ammorbidito” la posizione di sostanziale indisponibilità alla diffusione e generalizzazione della “flessibilità”.
Non saprei definire altrimenti coloro che, da “centrosinistra”, alternano parziali “vuoti di memoria” a vere e proprie (irreversibili) amnesie rispetto a un tema tanto “caldo” da caratterizzare le ultime campagne elettorali.
All’epoca, in effetti, a sentir parlare di “aggiornamento”, “sistemazione”, “rivisitazione” o, addirittura, “superamento” - piuttosto che “cancellazione” - della legge 30/03, se (anche) produceva qualche disorientamento, dimostrava, comunque, che tutti gli esponenti di quello schieramento politico - di là dalle specifiche e più articolate posizioni di parte - concordavano su almeno un punto; di carattere fondamentale.
Quello secondo il quale il mercato del lavoro - anche in un paese occidentale inserito nel sistema capitalistico - non potesse continuare a essere regolato da norme che, così come indicato dal decreto legislativo 276/03 (art. 1, comma 1), postulano la necessità di rispettare le esigenze delle aziende e (in subordine, evidentemente) le aspettative dei lavoratori!
In questo senso, sostenere il ripristino della centralità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e l’opportunità di disincentivare il ricorso a tipologie contrattuali che mascherassero forme di lavoro subordinato, equivaleva - a giudizio di molti - alla volontà politica di intervenire sui meccanismi della legge 30/03 e del suo decreto applicativo.
Il tutto, ferma restando l’esigenza di alcune forme di flessibilità “compatibile”, al fine di impedire che la stessa potesse degenerare in sostanziali (e diffuse) forme di “precarietà”.
Dallo stesso versante sindacale, addirittura da parte dello stesso Segretario generale della Cisl - lo stesso che oggi auspica non una ma dieci, cento mille Pomigliano (!) - si operava un sottile distinguo: “Tra il sostenere i cardini della legge Biagi e condividerne la sua applicazione” (intervista a “La Repubblica”, del 26 luglio 2007).
Senza dimenticare la Cgil che al Congresso nazionale, nell’anno del centenario della sua fondazione, aveva ancora ribadito - con rinnovata forza e determinazione - la necessità di superare la filosofia della legge-delega 30/03!
Purtroppo, gli ultimi giorni del 2010, confermano un dato incontrovertibile.
Il “primato” della coerenza va (esclusivamente) assegnato a Maurizio Sacconi. Al ministro che - in nome di un riformismo “pret a porter” e fedele all’anatema scagliato contro i critici della legge 30/03: “Il nome di Marco Biagi peserà come una maledizione su coloro i quali volessero cancellarne l’opera o la memoria” (intervista a “La Repubblica”, del 16 aprile 2007) - sta “scrupolosamente” operando per realizzare le linee-guida del Libro bianco del 2001.
Dal sostanziale superamento del contratto collettivo nazionale di lavoro, alla revisione dello Statuto dei lavoratori; senza dimenticare gli accordi “separati” e, perché no, il salario minimo legale all’americana, i contratti di lavoro individuali e una nuova versione delle famigerate “gabbie salariali”.
Naturalmente, come già anticipato, agli “smemorati” si affiancano coloro che, fidando sui processi di amnesia individuale, svolgono una sostanziale opera di rimozione collettiva e - come nel classico gioco “delle tre carte” - mirano a distrarre l’interlocutore attraverso falsi obiettivi.
E’ il caso di quanti, con inattendibile senso di responsabilità e in condizioni di sostanziale acquiescenza allo “status quo”, si limitano a proporre di rendere più onerosi i rapporti di lavoro “atipici” per ridurne le caratteristiche concorrenziali - almeno dal punto di vista economico - rispetto al c. d. lavoro “standard” (a tempo pieno e indeterminato).
Costoro, lungi dal prevedere e richiedere interventi tesi a realizzare condizioni di regolarità nella gestione delle diverse tipologie contrattuali, unitamente al ripristino di misure meno permissive, ad esempio - in termini di causali e reiterazione - nei rapporti di lavoro a termine, prediligono contrabbandare maggiori oneri (datoriali) per misure capaci di incidere sull’ormai intollerabile livello di flessibilità/precarietà!
Tra l’altro, considerata questa misura la posizione ufficiale del Pd, è sconfortante prendere atto della pochezza politica di un partito che (pur) afferma di voler porre al centro della propria azione le problematiche relative al tema del lavoro!
Anche le più recenti vicende sindacali, relative ai lavoratori degli stabilimenti Fiat, hanno confermato, purtroppo, l’incapacità elaborativa di quanti - in sostanza - si limitano a fare professione d’ignavia.
In questo senso, considero vergognoso l’atteggiamento e l’inedia politica cui si votano coloro che - dal versante dell’attuale (pseudo) centrosinistra - si dichiarano favorevoli agli accordi sottoscritti per Pomigliano e Mirafiori e limitano le loro proteste all’esclusione della Fiom dalle future trattative aziendali.
Da un lato, la “non sorpresa” di un D’Alema che ha ormai definitivamente adottato quale strategia - piuttosto che tattica - quella “doppiezza politica” che tanto contribuì alle fortune dei suoi numerosi (ex) eroi; da Stalin a Ceausescu, passando attraverso altre innominabili compagnie.
Dall’altro, la sostanziale dichiarazione d’impotenza che caratterizza, a mio avviso, le dichiarazioni di Bersani, Veltroni e Fassino. Tutti d’accordo nel denunciare l’esclusione della Fiom; ma poi?
Sulla riduzione delle pause, sulla mensa a fine turno, sulla malattia “non pagata”, sulla libertà di sciopero, sulla novità della newco - preludio all’ormai prossimo contratto di lavoro “ad personam” - è tutto ok? Nulla da dichiarare?
Non meno negativo, rispetto alla vicenda Fiat, è il mio giudizio sulla posizione assunta dalla Cgil.
Considerata scontata, per esperienza personale (diretta e reiterata), l’assoluta irrilevanza e modestia nell’elaborazione strategica delle iniziative sindacali - piuttosto che politiche (a esclusiva vocazione “pro Bassolino”) - delle rappresentanze locali (provinciale e regionale) della Cgil Campania, anche la posizione assunta dai vertici nazionali della Confederazione appare tutt’altro che condivisibile.
Personalmente, ritengo che invitare Landini a prendere atto dell’eventuale “Si” al referendum che si terrà a Mirafiori a metà gennaio (dall’esito, a mio parere, assolutamente scontato a favore dell’intesa “separata” già sottoscritta) e apporre, quindi, una firma “tecnica”, che consenta il rientro della Fiom tra le Rsa, rappresenta un esercizio di profonda ipocrisia.
Un intollerabile invito, attraverso il quale, utilizzando l’espediente di prendere “formalmente” atto della volontà (coartata) dei lavoratori - stante il sostanziale ricatto che sovraintende l’oggetto del quesito referendario: ”Preferisci rinunciare alle tutele o al lavoro?” - si abdica, in realtà, al ruolo di rappresentanza delle esigenze collettive!
Non meno deplorevole appare la posizione di chi arriva, addirittura, a negare l’esistenza stessa di un problema di diffusa “precarietà”.
In questo senso, un vero e proprio “primatista” è, senza alcun dubbio, Pietro Ichino.
Lo stesso che, in sede di “dichiarazione di voto”, all’epoca della seconda “lettura” al Senato del ddl 1481 (Collegato lavoro), pur di non contestare l’ennesimo provvedimento a danno dei lavoratori - la c.d. “forfetizzazione del danno”, a favore dei datori di lavoro condannati per impropria apposizione dei termini in un contratto a tempo determinato irregolare - e fingendo di fraintendere la reale volontà del governo, accusava il relatore di maggioranza di nutrire, addirittura, intenzioni punitive nei confronti delle aziende cui s’intendevano, piuttosto, duplicare le sanzioni!
In questo senso, l’ultima performance di Ichino risale ad appena qualche settimana fa.
Infatti, nel corso di un’intervista rilasciata a un quotidiano locale (“Il Trentino”, del 13 dicembre 2010), il parlamentare Pd, in risposta ad una specifica domanda, circa le responsabilità da assegnare alle tipologie contrattuali “atipiche” e al contratto a termine - in funzione del diffuso stato di precarizzazione dei rapporti di lavoro - si limitava ad affermare: “No, sia il contratto a termine, sia i contratti di lavoro autonomo continuativo sono sempre esistiti”. Appare evidente che Ichino - deliberatamente - ometteva di precisare che la normativa che attualmente regola i contratti di lavoro a tempo determinato, così come profondamente riformata (in pejus) dal decreto legislativo 368/2001, rappresenta tutt’altra cosa rispetto alla “sempre esistita” legge 230/62.
Non diversa, è la sorte riservata alle co.co.co. e al lavoro a progetto. Un conto è parlare di lavoro - effettivamente e regolarmente - autonomo continuativo, altra cosa sarebbe, invece, rilevare le molteplici distorsioni e i tanti abusi che caratterizzano e rendono spesso “evanescenti” gli aspetti qualificanti i rapporti di lavoro comunemente definiti “parasubordinati”.
D’altra parte, Ichino, già in passato, aveva dimostrato di essere capace di negare anche l’evidenza.
Lo aveva fatto - nel corso di un nostro confronto epistolare attraverso le pagine web di “Micromega” - arrivando a contestare il carattere precario del c.d. lavoro “ripartito”. Finanche rispetto alla concreta ipotesi - da me paventata - dei due lavoratori costretti a sperare - tutti i giorni - che il “coobbligato” non si dimetta o sia licenziato. Pena la possibile estinzione del vincolo contrattuale per entrambi!
Uguali, immotivate e assolutamente discutibili, certezze Ichino le aveva espresse anche rispetto alle norme che regolano il part-time e la cessione di ramo d’azienda.
Nello specifico, risultava davvero insopportabile condividere la posizione secondo la quale il superamento della previgente “autonomia funzionale” del ramo d’azienda ceduto, non rappresentasse - nemmeno in via residuale - un palese elemento di precarizzazione dei rapporti di lavoro.
In questo contesto, c’è poco da stare allegri; resta solo la certezza che: ” L’anno che sta arrivando tra un anno passerà”.

4 commenti:

claudio ha detto...

il saggio di Fioretti è interessante, ma è anche un esempio di come oggi in
Italia non si può più affrontare un problema economico. Elencare una
minuziosa serie di posizioni e personaggi da anatemizzare è il compito
tradizionale della Congregazione per la Dottrina della fede, non di chi
cerca una soluzione ai problemi del lavoro non svantaggiosa per i lavoratori
precari e per quelli a tempo indeterminato che ne sentono la concorrenza.
La prima da cosa da fare è vedere in che modo è trattato il problema negli
altri paesi dell'Europa. Se, come mi risulta, esiste in forma massiccia ed è
in genere regolato meglio che in Italia, vediamo di imitare anzichè salire
sul pulpito a proclamare "il lavoro precario non deve esistere e pertanto
non ce ne occupiamo, e maledetto sia chi lo fa"
Non ho un quadro completo, ma so che in Francia, dove non esiste CIG, c'è un
mix tra reddito di cittadinanza e lavoro precario protetto. In altri paesi
ci sono regole che rendono quel tipo di lavoro effettivamente precario,
perchè non conviene a nessun imprenditore tenere un precario per un anno,
perchè gli viene a costare di più che se fosse a tempo determinato.
Poi ci sono le infami cooperative di lavoro, cui gli enti locali e molte
pubbliche amministrazioni esternalizzano un numero crescente di compiti.
Crepa se mai il sindacato del pubblico impiego ha posto il problema,
rinnovando un contratto, del loro graduale assorbimento: stavano zitti in
cambio di un aumento per i loro inutili uscieri. Si vergognino, e la
piantino di chiedere solidarietà, visto che non la danno.

mario ha detto...

Claudio affronta il tema in modo pragmatico sforzandosi di contestualizzare o di fare in modo che si contestualizzi. Personalmente occupandomi di queste cose e vivendo spesso le contraddizioni del confronto illùminista devo confessarvi di rimanere basito leggendo i "dovere essere" i "principi storici da confermare e rilanciare" esattamente come mi lasciano senza parole (e irritato) i commenti o le proposte dei "socialisti" Sacconi e Brunetta cosi a-ideologiche da fare dubitare a fondo sull'onestà intellettuale di questi signori. Purtroppo a furia di "dovere essere" o di "é così se vi pare" si perde l'ennesima opporrtunità per fare politica vera, concreta, attuabile e ci si rintana in soliti triti e ritriti distinguo su chi ha più socilismo nei geni. Brutta storia! Il tema è complesso ma sinteticamente porta a dovere affrontare i concetti di: produttività; condizioni di lavoro;regole; remunerazione; creazione e distribuzione del valore; ruoli dei soggetti coinvolti e dei loro rappresentanti. Sono temi che non possono oggi essere affrontati guardando a Marx e all'800, non possono essere affrontati dichiarandosi contrari o favorevoli al lavoro "precario". Facciamo un esempio sul valore generato: si può ipotizzare che generare valore possa e debba obbligatoriamente portare a distribuzione economica, a distribuzione nella qualità del lavoro, distribuzione nelle occasioni di nuovo lavoro? Si bene su qs concetti si può investire sotto il cappello "teorico-pratico" di partecipazione che é diverso dall'assurda richiesta di "conoscere i piani di investimento del famoso miliardo". Oppure x essere provocatorio sul tema produttività siamo in grado di valutare il concetto riferito ad un sistema produttivo europeo? Se non lo siamo prima di scagliarci contro gli accordi studiamo e cerchiamo di capire se esistono modalità diverse per produrre un numero congruo di auto a Mirafiori e se qs passa attraverso azioni congiunti forti contro tassi di assenteismo allucinanti anche cercando di agire sulla loro genesi. Basta dovere essere non é di sinistra giocare solo sull-lluministico confronto sui dna e sui sacri principi del socialismo. Ci si fa solo male. Giriamo pagina e lavoriamo progettualmente sui diversi temi. Certo come suggerisce Claudio guardiamo alle esperienze europee c'è tanto di interessante da vedere ma attenzione vorrei buttare in faccia a tutti voi il fallimento del "movimento sindacale europeo" in vw (Germania) i sindacati hanno pesantemente osteggiato ogni ipotesi di distribuzione di capacità produttiva (lavoro) fuori dalle fabbriche tedesche difendendo alla morte i loro privilegi. Sarebbe "ideale" un'azione europea che so sulla definizione del numero massimo lavorabili x lavoratore-anno, purtroppo i sindacati tedeschi preferiscono lavorare sulla remunerazione piuttosto che su qs fronte, cosi salta ogni politica europea sulla creazione di nuovi posti pure in presenza di nuove opportunità di lavoro! Mi piacerebbe si smettesse di farsi l'esame del sangue e ci si confrontasse su temi e concetti accettando l'idea che 2011 sia diverso da 1960 (o peggio).

renato ha detto...

Accolgo le cortesi critiche di Claudio Bellavita con grande disponibilità.
Sarò estremamente sintetico (per capitoli).
Non possiedo alcuna certezza, nè tantomeno la propensione a rivolgermi "urbi
et orbi".
Non ho mai sostenuto l'esigenza (per lo meno stupida) di un lavoro
"standard" (a tempo pieno e indeterminato) per tutti.
Le problematiche legate al lavoro "flessibile" e "precario" rappresentano
uno dei miei interessi principali (argomento di almeno due libri ed
innumerevoli pubblicazioni).
Lungi da me la pur minima tentazione di confondermi con Sacconi (copiando la
politica degli anatemi contro chi è semplicemente di un'altra opinione).
Il c.d. "reddito di cittadinanza" ha poco a che vedere con la questione
della precarietà. La sua natura ha tutt'altra origine.
Credo sia sempre opportuno offrire ai lettori un quadro più o meno completo
delle diverse posizioni; non vedo il legame con alcun tipo di Congregazione.
L'ipotesi del Pd - circa la risoluzione della precarietà attraverso
l'aggravio (economico) delle tipologie contrattuali "atipiche" -
rappresenta, ancora una volta, l'esaltazione dell'ignavia!
I datori di lavoro non avrebbero alcun problema nel pagare di più qualcosa
che gli permetterebbe, come oggi, di continuare a godere, comunque, di
enormi vantaggi - di carattere normativo - nei confronti della forza lavoro.
Perchè non pensare, invece, di pretendere il superamento di quelle norme
che, ad esempio, permettono la reiterazione di rapporti di lavoro a termine
che non hanno alcuna "causale" oggettiva?
Non sarebbe giusto pretendere di abolire l'assurda norma - nel lavoro
ripartito - che prevede la risoluzione di entrambi i rapporti di lavoro nel
caso in cui uno dei due "coobbligati" si dimetta o venga licenziato?
Quale persona (onesta e di buon senso) sarebbe contraria all'esclusione
della possibilità del ricorso a forme di lavoro "parasubordinato" in tutti i
casi in cui esse coincidano con l'oggetto sociale dell'azienda?
Non sarebbe opportuno fare riferimento ai parametri contrattuali
(collettivi) del corrispondente settore produttivo per la determinazione dei
compensi spettanti al lavoratori a progetto?
Tutto questo - solo per fare qualche esempio pratico - senza alcuna
intenzione di precludere la possibilità ai datori di lavoro di contare su
una sufficiente dose di "flessibilità".
Flessibilità che, però, non continui a rappresentare sinonimo di
"precarietà"!
Soprattutto se, grazie al vero e proprio "supermarket" delle tipologie
contrattuali oggi disponibile, essa è destinata a rappresentare una
"spirale" senza fine.
Con rinnovata disponibilità a qualsiasi tipo di confronto.
Renato Fioretti

claudio ha detto...

"I datori di lavoro non avrebbero alcun problema nel pagare di più qualcosa
che gli permetterebbe, come oggi, di continuare a godere, comunque, di
enormi vantaggi - di carattere normativo - nei confronti della forza
lavoro."

ammetto che non è una meraviglia, ma intanto i precari avrebbero qualche
soldo in più, le cooperative potrebbero far lavorare a termine solo i soci e
un giorno o l'altro ci sarà qualche giovane precario che gli insegnerà che i
soci possono impadronirsi della cooperativa. Poichè non è lavoro per il
sindacato, e la lega coop è un ente inutile, lo spiegheremo ai volontari,
che se invece di assistere i missionari assistono gli immigrati che son
finiti a farsi sfruttare dalle coop fanno un'opera migliore..
Io voglio rompere il circolo vizioso tra comuni, pubblici dipendenti e coop,
che funziona così: il comune promuove i dipendenti che fanno un lavoro
disagevole in cambio dell'assenso dei sindacati a esternalizzare quel
lavoro, con gli ex addetti non sistemati altrimenti che fanno da
supervisori. Che schifo.