RCS SULLE NOTE DELL'AIDA
di Tito Boeri 27.05.2009
La scorsa settimana Mediobanca ha deciso di alzare da “neutral” ad “outperform” il proprio rating di Rcs Mediagroup, “alla luce di un grande potenziale di crescita del titolo” (il cui target price è stato quasi raddoppiato, da 0,93 a 1,65 euro). Il tutto a pochi giorni dalla presentazione di una trimestrale disastrosa per il gruppo editoriale (perdite più che raddoppiate rispetto allo stesso trimestre del 2008, ricavi in calo quasi del 20 per cento e debito salito a 1,2 miliardi di euro). Di fronte a prospettive quanto mai incerte (per usare un eufemismo) per l’industria dell’editoria a livello globale. Solo sulla base di un piano di ristrutturazione (e di un aumento del prezzo di vendita di Corriere e El Mundo) ancora tutto da definire nei particolari e soprattutto da gestire. Il titolo che aveva molto sofferto in questi mesi, ha conosciuto una marcia trionfale sulle note dell’Aida: + 46% nel giro di due sedute. Molti i commenti (e le indiscrezioni) sulle motivazioni dell’upgrading di Mediobanca. Ma non abbiamo trovato da nessuna parte un rilievo molto semplice: è normale che l’azionista di maggioranza di Rcs Mediagroup, nonché membro del patto di sindacato che controlla il gruppo, faccia un upgrading di Rcs Mediagroup scatenando un rally del titolo? E perché nessuno, dicasi nessuno, ha sollevato il problema? Come mai il Presidente della Consob, così attivo in questi giorni sui giornali nel giustificare le incredibili norme anti-opa (leggasi a protezione degli attuali gruppi di controllo delle società italiane) da lui stesso sponsorizzate, non si è sentito in dovere di intervenire? Sono interrogativi inquietanti anche per l’indipendenza della carta stampata. Non vorremmo che un domani, il Corriere della Sera si sentisse un po’ in difficoltà quando dovrà commentare le scelte di Mediobanca e del suo discusso presidente.
Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
sabato 30 maggio 2009
Pierluigi Sullo: La rivoluzione che non si vede
La rivoluzione che non si vede
Data di pubblicazione: 28.05.2009
Autore: Sullo, Pierluigi
Partire dal consumo per comandare la produzione e, per questa via, fondare una nuova economia. Forse siamo ai primi passi. Il manifesto, 28 maggio 2009
Occupati come siamo a cercare di capire in che maniera Luigi Napoleone Berlusconi cercherà di uscire dalle trappole in cui si è cacciato, se con una qualche forma di colpo di stato o congedandosi educatamente, rischiamo di non vedere la rivoluzione che sta accadendo intorno a noi. Non la vediamo, aggiungo, nemmeno quando vi partecipiamo. E certo «rivoluzione» sembra una parola grossa. Prendiamo ad esempio l'indagine secondo la quale nell'ultimo periodo un italiano su due (il 53 per cento) ha cambiato le sue abitudini di consumo, visto che «tende ad abbandonare - fa sapere la Coldiretti, che ha commissionato l'inchiesta alla Swg di Trieste - il dettaglio fisso tradizionale per privilegiare i mercati rionali, le bancarelle e soprattutto gli acquisti diretti dai produttori», il che significa «farmers market», cioè i mercati gestiti direttamente dai produttori, e i Gruppi d'acquisto solidale (Gas), forme di commercio e consumo alternativi che hanno avuto nell'ultimo anno un vero e proprio boom. Esplosione che non si spiega solo con la crisi economica, con la ricerca di prodotti a buon mercato, ma anche e forse soprattutto con l'aspirazione a uno stile di vita che migliori sia il benessere individuale che quello sociale e ambientale.
La «tempesta perfetta», la somma di crisi climatica, economica e democratica, sta producendo i suoi effetti, anche in forma positiva. Così accade che quel che volonterose e intelligenti pattuglie hanno cominciato a fare già da diversi anni, come il commercio equo, l'agricoltura biologica o i gruppi d'acquisto solidali, e che parevano ai più (sinistre in testa) interessanti esperimenti inevitabilmente messi in minoranza dalla monocultura del supermercato e della produzione industriale, sono diventati nel frattempo i pilastri di un fenomeno di massa, di una rivoluzione appunto che sta cambiando profondamente le abitudini, le relazioni tra le persone e lo stesso lavoro dei produttori. Come nel caso di quella rete di Gas milanesi che non si è limitata a comprare prodotti agricoli, ma ha commissionato ad agricoltori piemontesi la coltivazione, su terreni da tempo abbandonati, di quella certa qualità di patate ormai cancellata dalla omologazione forzata: uno tra miriadi di esempi.
E insomma, pare naturale che quest'anno la mostra-fiera-mercato chiamata Terra futura, che si fa da anni con successo nella fiorentina Fortezza da Basso e che ha molto aiutato a preparare l'esplosione di oggi, dedichi la nuova edizione, che si tiene questo fine settimana, al «buen vivir», come gli indigeni sudamericani chiamano uno stile di vita che rispetti gli equilibri sociali e naturali, o alla «decrescita serena», come dice il titolo dell'ultimo libro di Serge Latouche. Il senso è: l'economia sociale non è più solo un auspicio, o l'oggetto di teorie forse attraenti ma inattuali: accade il contrario, ossia che credere di poter all'infinito riproporre il consumo di natura, di territorio e di socialità che abbiamo avuto nel secolo scorso, e che è il motore di base del capitalismo, appare a un numero crescente di persone un'utopia terrificante, un incubo dal quale è urgente svegliarsi. Dunque, i sostenitori della decrescita, che non è il crollo del Pil ma l'allusione a un altro genere di società, si stanno chiedendo - anche grazie a questa grande diffusione pratica dei nuovi stili di consumo - quali debbano essere le politiche concrete utili ad avvicinarsi a una società della decrescita.
Carta, come dice lo stesso Latouche con qualche enfasi, è stata tra le prime pubblicazioni in Italia a diffondere queste tesi, ed è quindi naturale che insieme a un paio di sorelle - Valori, la rivista legata a Banca etica, e il mensile Altreconomia - e con l'aiuto della Fondazione Banca etica e della Rete per la decrescita organizzi a Terra futura una intera giornata di discussione a largo raggio - dalla finanza all'energia, dal lavoro all'uso del territorio - con Edoardo Salzano, Tonino Perna, Gianni Tamino e altri. Si farà domenica 31, giornata conclusiva di Terra futura, alla Fortezza da Basso, dalle 10 alle 18. E di questo tema, anche con una intervista a Saskia Sassen, si occupa il nuovo numero del settimanale.
Data di pubblicazione: 28.05.2009
Autore: Sullo, Pierluigi
Partire dal consumo per comandare la produzione e, per questa via, fondare una nuova economia. Forse siamo ai primi passi. Il manifesto, 28 maggio 2009
Occupati come siamo a cercare di capire in che maniera Luigi Napoleone Berlusconi cercherà di uscire dalle trappole in cui si è cacciato, se con una qualche forma di colpo di stato o congedandosi educatamente, rischiamo di non vedere la rivoluzione che sta accadendo intorno a noi. Non la vediamo, aggiungo, nemmeno quando vi partecipiamo. E certo «rivoluzione» sembra una parola grossa. Prendiamo ad esempio l'indagine secondo la quale nell'ultimo periodo un italiano su due (il 53 per cento) ha cambiato le sue abitudini di consumo, visto che «tende ad abbandonare - fa sapere la Coldiretti, che ha commissionato l'inchiesta alla Swg di Trieste - il dettaglio fisso tradizionale per privilegiare i mercati rionali, le bancarelle e soprattutto gli acquisti diretti dai produttori», il che significa «farmers market», cioè i mercati gestiti direttamente dai produttori, e i Gruppi d'acquisto solidale (Gas), forme di commercio e consumo alternativi che hanno avuto nell'ultimo anno un vero e proprio boom. Esplosione che non si spiega solo con la crisi economica, con la ricerca di prodotti a buon mercato, ma anche e forse soprattutto con l'aspirazione a uno stile di vita che migliori sia il benessere individuale che quello sociale e ambientale.
La «tempesta perfetta», la somma di crisi climatica, economica e democratica, sta producendo i suoi effetti, anche in forma positiva. Così accade che quel che volonterose e intelligenti pattuglie hanno cominciato a fare già da diversi anni, come il commercio equo, l'agricoltura biologica o i gruppi d'acquisto solidali, e che parevano ai più (sinistre in testa) interessanti esperimenti inevitabilmente messi in minoranza dalla monocultura del supermercato e della produzione industriale, sono diventati nel frattempo i pilastri di un fenomeno di massa, di una rivoluzione appunto che sta cambiando profondamente le abitudini, le relazioni tra le persone e lo stesso lavoro dei produttori. Come nel caso di quella rete di Gas milanesi che non si è limitata a comprare prodotti agricoli, ma ha commissionato ad agricoltori piemontesi la coltivazione, su terreni da tempo abbandonati, di quella certa qualità di patate ormai cancellata dalla omologazione forzata: uno tra miriadi di esempi.
E insomma, pare naturale che quest'anno la mostra-fiera-mercato chiamata Terra futura, che si fa da anni con successo nella fiorentina Fortezza da Basso e che ha molto aiutato a preparare l'esplosione di oggi, dedichi la nuova edizione, che si tiene questo fine settimana, al «buen vivir», come gli indigeni sudamericani chiamano uno stile di vita che rispetti gli equilibri sociali e naturali, o alla «decrescita serena», come dice il titolo dell'ultimo libro di Serge Latouche. Il senso è: l'economia sociale non è più solo un auspicio, o l'oggetto di teorie forse attraenti ma inattuali: accade il contrario, ossia che credere di poter all'infinito riproporre il consumo di natura, di territorio e di socialità che abbiamo avuto nel secolo scorso, e che è il motore di base del capitalismo, appare a un numero crescente di persone un'utopia terrificante, un incubo dal quale è urgente svegliarsi. Dunque, i sostenitori della decrescita, che non è il crollo del Pil ma l'allusione a un altro genere di società, si stanno chiedendo - anche grazie a questa grande diffusione pratica dei nuovi stili di consumo - quali debbano essere le politiche concrete utili ad avvicinarsi a una società della decrescita.
Carta, come dice lo stesso Latouche con qualche enfasi, è stata tra le prime pubblicazioni in Italia a diffondere queste tesi, ed è quindi naturale che insieme a un paio di sorelle - Valori, la rivista legata a Banca etica, e il mensile Altreconomia - e con l'aiuto della Fondazione Banca etica e della Rete per la decrescita organizzi a Terra futura una intera giornata di discussione a largo raggio - dalla finanza all'energia, dal lavoro all'uso del territorio - con Edoardo Salzano, Tonino Perna, Gianni Tamino e altri. Si farà domenica 31, giornata conclusiva di Terra futura, alla Fortezza da Basso, dalle 10 alle 18. E di questo tema, anche con una intervista a Saskia Sassen, si occupa il nuovo numero del settimanale.
Felice Besostri: il socialismo europeo, punto di partenza, non di arrivo
Da Aprile
Il socialismo europeo punto di partenza, non di arrivo
Felice C. Besostri, 29 maggio 2009, 17:32
Dibattito Ragionando in un'ottica europea la debolezza della sinistra italiana risulta evidente e si capisce, che non data dal 2008 e neppure dalle sconfitte del 1994 e del 2001 o dalla scissione del PCI, ma che è una debolezza strutturale: nell'Italia del dopoguerra la sinistra, anche quando la somma dei voti socialisti e comunisti superava agevolmente il 40%, non è mai stata un'alternativa di governo, vuoi per ragioni internazionali, ma soprattutto per non aver mai potuto o voluto proporre un proprio programma ed un proprio leader per il governo del paese
Credo che un compromesso sarà trovato, dopo le elezioni europee, tra il PSE ed il PD. Quando sono in gioco interessi economici è più facile trovare una base politica d'intesa. Ci sono formulazioni, che hanno fortuna, malgrado le ambiguità, anzi grazie alle ambiguità: "Col PSE, ma non nel PSE" è una di queste. Sono formulazioni del tipo "Due popoli, due stati", come soluzione al conflitto israelo-palestinese, che, peraltro, è il frutto avvelenato di un altro detto memorabile "Una terra senza popolo, per un popolo senza terra". Con l'uscita dei conservatori britannici dal PPE il PSE ha la possibilità, se i partiti socialisti nazionali non saranno puniti nelle urne, di diventare il primo gruppo del Parlamento Europeo, purché i parlamentari italiani del PD ne facciano parte.
Questo obiettivo, che comporta vantaggi politici, in termini di presidenze di commissioni, ed economici, sotto forma di contributi ai gruppi, ha fatto aggio sulla coerenza politica e ideologica, tanto che l'abbandono al suo destino del PS, unico partito italiano del PSE, a favore di rapporti ambigui col PD è stata la linea di Martin Schulz. L'ambiguità arriva al limite dell'ipocrisia, perché i DS, che sono una partita IVA o, nel migliore dei casi, una fondazione, esistono ancora per il PSE e l'Internazionale Socialista. I giovani socialisti europei dell'ECOSY, all'insegna del detto talis pater, talis filius, sotto la regia degli Jungsozialisten tedeschi mantengono artificialmente in vita la Sinistra Giovanile, pur sciolta in Italia: quello che è vero al di qua delle Alpi non è vero al di là.
Il PDS prima ed i DS poi sono sempre stati membri di organizzazioni socialiste internazionali, con incarichi e ruoli di prestigio, i suoi parlamentari hanno sempre fatto parte dei gruppi socialisti, vuoi nel PE vuoi nell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa, ma non sono mai diventati un partito socialista in Italia, né, ripensandoci, hanno mai voluto esserlo: l'eredità comunista sotto l'aspetto psicologico, più che politico e men che meno ideologico, ha prevalso rispetto ad un processo di revisione, non più evitabile, delle stesse ragioni fondanti della divisione del movimento operaio tra comunisti e socialisti nel XX° secolo. Il punto principale è, o dovrebbe essere, questo: se la crisi della sinistra italiana non derivi tanto dal fatto, che si sia prodotta la divisione tra socialisti e comunisti, quanto nel fatto, che non si sia stati in grado di superarla, quando ne erano venute meno le ragioni[1].
A voler essere severi con la sinistra la prima occasione mancata è stata la Rivoluzione (per molti già l'uso di questa parola costituisce ancora oggi una provocazione, ma la partecipazione massiccia e prevalente di operai e studenti alla rivolta avrebbe dovuto far riflettere) ungherese del 1956, seguita dalla Primavera di Praga del 1968 e dal Colpo di stato del 1981 in Polonia: tutti sintomi premonitori della crisi e del successivo fallimento dell'esperienza comunista. Ci voleva il crollo del muro di Berlino per essere costretti, e non da parte di tutti, ad un avvio di revisione.
Tutte le revisioni che nascono all'insegna del contingente, cioè sotto la spinta degli avvenimenti e della dittatura del presente, sono affrettate ed incomplete, come è stata la svolta della Bolognina. Per di più queste svolte sono state caratterizzate dall'ossessione del cambio di nome in negativo, cioè dall'eliminazione del riferimento al comunismo, piuttosto che da una revisione ideologica.
Se la svolta doveva essere riassunta in un nuovo nome di partito, che avesse forza simbolica, allora non si poteva evitare il richiamo al socialismo. Questo è stato il percorso di tutti i partiti post-comunisti dell'Europa orientale, nei quali vi è stato l'innesto, più o meno riuscito, tra i revisionisti del partito già dominante con l'esilio socialdemocratico.
In Italia invece, il PCI è diventato PDS, Partito democratico della sinistra, e successivamente DS, Democratici di sinistra ed, infine, ha concluso il suo percorso nel PD, Partito democratico, fuoriuscendo dalla storia della sinistra.
Definirsi di sinistra è stato un modo per mantenere viva l'ambiguità del superamento del comunismo, che avrebbe significato andare oltre l'esperienza della socialdemocrazia, concepita ancora come l'avversaria storica del comunismo. Nel rifiuto del socialismo si sono incontrati la "sinistra" e la "destra" della nuova sinistra, quella derivante dall'innesto con l'ambientalismo e che diede vita alle elezioni del 2008 alla SINISTRA ARCOBALENO e dopo quella sconfitta si presenta ora come SINISTRA e LIBERTA'. Una volta di più si fanno compromessi nominalistici al ribasso, quando il punto di fondo era l'abbandono del tradizionale modello di sviluppo senza limite delle forze produttive, non la rinuncia ad una società diversa. L'abbandono nella teoria e nella prassi di un modello alternativo di società è la debolezza della sinistra, altrimenti inspiegabile di fronte alla crisi evidente e crescente del modello di sviluppo economico e finanziario del liberismo.
La gravità della sconfitta del 2008, che soltanto parzialmente potrà essere riscattata nelle elezioni europee del 2009, se tutte e due le formazioni della sinistra superassero la soglia del 4%, non poteva dar luogo ad una riflessione, di cui l'esponente più noto è Fausto Bertinotti. Una riflessione autocritica la sua e coraggiosa, perché gli è costata la leadership politica di Rifondazione, ma che non affronta ancora i nodi storici da superare per portare la sinistra italiana ad un livello europeo di consensi e di contendibilità del potere, cioè di proporsi con propri programmi e leader alla guida del paese. L'ultimo suo libro intervista, Devi augurarti che la strada sia lunga (Ponte alla Grazie, 2009), ne è l'esempio. Bertinotti, giustamente, colloca la sconfitta della sinistra non nel 2008 e neppure nel 2001, ma ne vede l'inizio nell'incapacità di affrontare i problemi posti dalla Primavera di Praga, ma soprattutto dalla sua sconfitta, segno della irriformabilità del sistema comunista dall'interno. L'altro errore prospettico è quello di giudicare lo stato di salute della sinistra dal consenso elettorale di Rifondazione, cioè dal successo od insuccesso di quel modello di partito: come credere che il proprio ombelico rappresenti il centro del mondo.
Nella fondazione di Rifondazione e nei suoi sviluppi erano presenti molteplici suggestioni, dalla mera nostalgia di un tempo che fu alla sperimentazione più spinta del partito movimento, comunismo sovietico e fuoriuscita "da sinistra" dalla crisi del sistema sovietico. Gli stessi riferimenti internazionali erano un coacervo di suggestioni dal castrismo al no-globalismo, senza mai rinunciare alla personificazione al limite del culto del leader mediatico dal Che Guevara (morto) al sub-comandante Marcos, per approdare al tonitruante Chavez, pronti ad abbandonare riferimenti di un tempo, come il brasiliano Lula, appena diventavano meno esotici.
L'Europa non è mai stata centrale nella sinistra alternativa per naturale diffidenza verso istituzioni nate per rafforzare la libertà di circolazione dei capitali in nome della concorrenza ed anche perché porre al centro l'Europa rendeva inevitabile il confronto con la socialdemocrazia.
Noi italiani fin da piccoli siamo stati abituati ad una rappresentazione del mondo, quella delle carte geografiche appese dietro le cattedre: un mondo con al centro l'Europa e con l'Italia al centro dell'area euro-mediterranea. Del tutto inconsciamente siamo portati a dilatare la nostra esperienza. In Italia è nata la tentazione dell'Ulivo mondiale e tuttora si scambia l'incapacità del PD di scegliere tra le grandi famiglie politiche europee per un'originalità, cui presto tutti dovranno rendere omaggio.
Bertinotti nelle numerose interviste per il lancio del suo ultimo libro fa affermazioni del tutto condivisibili: "Per la sinistra occorre unire le forze in Europa"[2] ovvero che occorra "Una sinistra, una sinistra sola.."[3]. Un bel passo avanti rispetto alla teorizzazione delle due sinistre tra di loro inconciliabili addirittura avversarie, sia pure senza la virulenza del "social-fascismo" di staliniana memoria.
Un rinnovamento effettivo della sinistra in Italia richiede un'operazione di modestia: Rifondazione ha avuto il più alto risultato elettorale con l'08,57% del 1996, prima della scissione del PdCI. Tale vetta non è mai stata superata, neppure sommando Rifondazione e Comunisti italiani, che appunto ottennero l'8,16% nel 2006. Per fare un confronto con l'altra novità politica italiana, la Lega Nord, quest'ultima ha avuto il suo picco con il 10,07% nel 1996 e ha quasi sempre battuto Rifondazione nelle regioni del Nord ed anche a livello nazionale, tranne che nel 2001 e nel 2006, pur essendo un partito geograficamente concentrato. L'importanza del consenso elettorale non sfugge a Bertinotti, se non altro dopo l'episodio dell'incontro, nel dicembre 2005, con il responsabile esteri del Partito Comunista Cinese, di cui parla nel suo ultimo libro (p. 209), che non riusciva a spiegarsi il basso consenso elettorale con la ricchezza delle analisi politiche.
La sinistra europea è in crisi, basta un raffronto con il 1999, quando nei 15 paesi dell'Ue 12 primi ministri erano socialisti ed il 13esimo si chiamava Prodi, ma allora ragioniamo di questo e non, come fa Bertinotti, traiamo speranze dai sondaggi, che danno la Linke tedesca sopra l'8% e sfiorare il 10% (la percentuale alla quale era accreditata la Sinistra Arcobaleno, secondo le previsioni).
Riesce difficile convincersi che questo sia un fatto positivo, se la SPD crollasse, ed il Labour Party pure, alle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo.
Ragionando in un'ottica europea la debolezza della sinistra italiana risulta evidente e si capisce, che non data dal 2008 e neppure dalle sconfitte del 1994 e del 2001 o dalla scissione del PCI, ma che è una debolezza strutturale: nell'Italia del dopoguerra la sinistra, anche quando la somma dei voti socialisti e comunisti superava agevolmente il 40%, non è mai stata un'alternativa di governo, vuoi per ragioni internazionali, ma soprattutto per non aver mai potuto o voluto proporre un proprio programma ed un proprio leader per il governo del paese. In questo senso è stata una sinistra anomala in Europa, dove i partiti socialisti democratici potevano essere confinati all'opposizione, anche per lunghissimi periodi, basta pensare alla Thatcher o a Kohl, ma potevano ritornare al potere.
Craxi è stato Primo ministro, ma in posizioni minoritaria, D'Alema ed Amato in seguito a crisi parlamentari, mai un leader di sinistra ha vinto le elezioni, anzi neppure si è mai candidato per vincere le elezioni a capo di uno schieramento maggioritario. La candidatura di Veltroni nel 2008 non è un'eccezione che conferma la regola e ciò per 2 ragioni: 1) non si definiva di sinistra e 2) si è posto a capo di uno schieramento (PD e IDV) con vocazione minoritaria.
La ricostruzione di una sinistra europea non può derivare dalla constatazione del fallimento del comunismo, ma anche della socialdemocrazia, come se fossero della stessa natura, rispetto ad un ideale rivoluzionario tradito. Su questo Bertinotti è chiaro: "... Anche i partiti socialdemocratici hanno subito una crisi ed una sconfitta, ma di altra natura. Essa non ha a che fare con una dimensione storica e ideologica, ma con una dimensione politica e programmatica"[4]: un riconoscimento, che nasconde una critica di fondo, cioè che la socialdemocrazia non era stato in grado di garantire il compromesso con il capitalismo.
Il XX° secolo è stato il secolo di massima espansione della socialdemocrazia, ma anche del comunismo e delle ideologie autoritarie e totalitarie, se facciamo il confronto tra periodi e popolazione governate, la socialdemocrazia, persino nella sua culla europea è stata minoritaria rispetto al comunismo ed ai fascismi, ma è l'unica forza che non sia stata radicalmente sconfitta: un qualche merito lo devono pur avere le sue politiche ed i suoi valori. Se non altro per questo bisogna ripartire da lì, piuttosto che da un'idea di sconfitta epocale e planetaria della sinistra. Il socialismo realmente esistente di sovietica memoria è stata un'esperienza tragica, che porta la responsabilità dell'allontanamento delle masse europee dal socialismo tout court, ma aveva almeno il merito di costringere di confrontarsi con la realtà terrena e non con idee dell'empireo.
Siamo in pieno fermento, nascono nuove aggregazioni, che possono morire all'indomani delle elezioni ovvero essere il cominciamento di un nuovo inizio, si lanciano iniziative editoriali all'insegna di una sinistra da buttare, come il quotidiano l'ALTRO, senza avere ben chiara la distinzione tra sinistra riformista (in cui colloca il PD di Franceschini) e sinistra radicale (di cui farebbe parte il quotidiano di Sansonetti), grande è la confusione sotto il cielo una ragione in più per avere in mente, con chiarezza, gli obiettivi da raggiungere. Tuttavia prima del punto di arrivo, c'è il punto di partenza e la direzione da seguire.
In questo senso, chi è convinto, che dal socialismo europeo si debba partire, dovrebbe smettere di invocare il PSE come un mantra, come se il problema fosse quello di iscriversi al PSE, cioè che un atto formale possa sostituire la revisione politica, programmatica ed ideologica. Se scambiamo il PSE per il socialismo europeo significa, che di quest'ultimo non abbiamo una grandissima opinione. Il PSE non è un partito socialista europeo, in ogni caso non è il partito, di cui ci sarebbe bisogno. Il PSE è una confederazione di gruppi dirigenti di partiti socialisti nazionali, come efficacemente denunziato dai circoli socialisti e libertari, che hanno costituito il Gruppo di Volpedo.
Interrogarsi sul socialismo europeo significa interrogarsi sull'unica sinistra possibile. Giuseppe Berta ha appena pubblicato un agile volumetto dal titolo "Eclisse della Socialdemocrazia"[5], che alcuni pasdaran socialisti hanno criticato per la mancanza di un punto interrogativo alla fine.
La critica non ha alcun fondamento astronomico perché caratteristica delle eclissi è proprio quella della loro limitata durata: il titolo quindi è ben augurante, semmai il sottotitolo dovrebbe destare qualche preoccupazione: "Ci si domanda come sia successo che anche la socialdemocrazia sia uscita travolta prima dalla globalizzazione di fine secolo e poi dalla sua crisi". Proprio la crisi sarà la cartina di tornasole della capacità della sinistra e perciò della sua parte maggioritaria in Europa di porre termine alla sua eclissi. In altri termini, parafrasando Keynes e con un altro ordine di importanza, bisognerà verificare se coniugando giustizia sociale, libertà individuale ed efficienza economica si metterà in moto una politica di sviluppo atta a far ripartire l'economia, ma in una società più giusta.
La sinistra, come l'araba fenice, può rinascere dalle sue ceneri, se ricominciasse, come pensa Fulvio Papi, non dai margini ma dal centro del discorso: il perché della crisi politica, le difficoltà e l'intervento pubblico, la formazione di una elite politica o la programmazione della vita sociale, in altre parole partire da temi (e trovare soluzioni) capaci di dare identità ad una sinistra, che l'ha perduta.
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[1] Per Silone le ragioni erano già venute meno negli anni 1944-1945, come scrisse sull'Avanti di Roma, con riferimento alle primitive ragioni ideologiche: non poteva presagire la guerra fredda, cioè ragioni di potenza.
[2] Epolis, 14/5/09, p. 4
[3] altro, 13/5/09, p. 4
[4] altro, 13/5/09, p. 4
[5] Il Mulino, 2009
Il socialismo europeo punto di partenza, non di arrivo
Felice C. Besostri, 29 maggio 2009, 17:32
Dibattito Ragionando in un'ottica europea la debolezza della sinistra italiana risulta evidente e si capisce, che non data dal 2008 e neppure dalle sconfitte del 1994 e del 2001 o dalla scissione del PCI, ma che è una debolezza strutturale: nell'Italia del dopoguerra la sinistra, anche quando la somma dei voti socialisti e comunisti superava agevolmente il 40%, non è mai stata un'alternativa di governo, vuoi per ragioni internazionali, ma soprattutto per non aver mai potuto o voluto proporre un proprio programma ed un proprio leader per il governo del paese
Credo che un compromesso sarà trovato, dopo le elezioni europee, tra il PSE ed il PD. Quando sono in gioco interessi economici è più facile trovare una base politica d'intesa. Ci sono formulazioni, che hanno fortuna, malgrado le ambiguità, anzi grazie alle ambiguità: "Col PSE, ma non nel PSE" è una di queste. Sono formulazioni del tipo "Due popoli, due stati", come soluzione al conflitto israelo-palestinese, che, peraltro, è il frutto avvelenato di un altro detto memorabile "Una terra senza popolo, per un popolo senza terra". Con l'uscita dei conservatori britannici dal PPE il PSE ha la possibilità, se i partiti socialisti nazionali non saranno puniti nelle urne, di diventare il primo gruppo del Parlamento Europeo, purché i parlamentari italiani del PD ne facciano parte.
Questo obiettivo, che comporta vantaggi politici, in termini di presidenze di commissioni, ed economici, sotto forma di contributi ai gruppi, ha fatto aggio sulla coerenza politica e ideologica, tanto che l'abbandono al suo destino del PS, unico partito italiano del PSE, a favore di rapporti ambigui col PD è stata la linea di Martin Schulz. L'ambiguità arriva al limite dell'ipocrisia, perché i DS, che sono una partita IVA o, nel migliore dei casi, una fondazione, esistono ancora per il PSE e l'Internazionale Socialista. I giovani socialisti europei dell'ECOSY, all'insegna del detto talis pater, talis filius, sotto la regia degli Jungsozialisten tedeschi mantengono artificialmente in vita la Sinistra Giovanile, pur sciolta in Italia: quello che è vero al di qua delle Alpi non è vero al di là.
Il PDS prima ed i DS poi sono sempre stati membri di organizzazioni socialiste internazionali, con incarichi e ruoli di prestigio, i suoi parlamentari hanno sempre fatto parte dei gruppi socialisti, vuoi nel PE vuoi nell'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa, ma non sono mai diventati un partito socialista in Italia, né, ripensandoci, hanno mai voluto esserlo: l'eredità comunista sotto l'aspetto psicologico, più che politico e men che meno ideologico, ha prevalso rispetto ad un processo di revisione, non più evitabile, delle stesse ragioni fondanti della divisione del movimento operaio tra comunisti e socialisti nel XX° secolo. Il punto principale è, o dovrebbe essere, questo: se la crisi della sinistra italiana non derivi tanto dal fatto, che si sia prodotta la divisione tra socialisti e comunisti, quanto nel fatto, che non si sia stati in grado di superarla, quando ne erano venute meno le ragioni[1].
A voler essere severi con la sinistra la prima occasione mancata è stata la Rivoluzione (per molti già l'uso di questa parola costituisce ancora oggi una provocazione, ma la partecipazione massiccia e prevalente di operai e studenti alla rivolta avrebbe dovuto far riflettere) ungherese del 1956, seguita dalla Primavera di Praga del 1968 e dal Colpo di stato del 1981 in Polonia: tutti sintomi premonitori della crisi e del successivo fallimento dell'esperienza comunista. Ci voleva il crollo del muro di Berlino per essere costretti, e non da parte di tutti, ad un avvio di revisione.
Tutte le revisioni che nascono all'insegna del contingente, cioè sotto la spinta degli avvenimenti e della dittatura del presente, sono affrettate ed incomplete, come è stata la svolta della Bolognina. Per di più queste svolte sono state caratterizzate dall'ossessione del cambio di nome in negativo, cioè dall'eliminazione del riferimento al comunismo, piuttosto che da una revisione ideologica.
Se la svolta doveva essere riassunta in un nuovo nome di partito, che avesse forza simbolica, allora non si poteva evitare il richiamo al socialismo. Questo è stato il percorso di tutti i partiti post-comunisti dell'Europa orientale, nei quali vi è stato l'innesto, più o meno riuscito, tra i revisionisti del partito già dominante con l'esilio socialdemocratico.
In Italia invece, il PCI è diventato PDS, Partito democratico della sinistra, e successivamente DS, Democratici di sinistra ed, infine, ha concluso il suo percorso nel PD, Partito democratico, fuoriuscendo dalla storia della sinistra.
Definirsi di sinistra è stato un modo per mantenere viva l'ambiguità del superamento del comunismo, che avrebbe significato andare oltre l'esperienza della socialdemocrazia, concepita ancora come l'avversaria storica del comunismo. Nel rifiuto del socialismo si sono incontrati la "sinistra" e la "destra" della nuova sinistra, quella derivante dall'innesto con l'ambientalismo e che diede vita alle elezioni del 2008 alla SINISTRA ARCOBALENO e dopo quella sconfitta si presenta ora come SINISTRA e LIBERTA'. Una volta di più si fanno compromessi nominalistici al ribasso, quando il punto di fondo era l'abbandono del tradizionale modello di sviluppo senza limite delle forze produttive, non la rinuncia ad una società diversa. L'abbandono nella teoria e nella prassi di un modello alternativo di società è la debolezza della sinistra, altrimenti inspiegabile di fronte alla crisi evidente e crescente del modello di sviluppo economico e finanziario del liberismo.
La gravità della sconfitta del 2008, che soltanto parzialmente potrà essere riscattata nelle elezioni europee del 2009, se tutte e due le formazioni della sinistra superassero la soglia del 4%, non poteva dar luogo ad una riflessione, di cui l'esponente più noto è Fausto Bertinotti. Una riflessione autocritica la sua e coraggiosa, perché gli è costata la leadership politica di Rifondazione, ma che non affronta ancora i nodi storici da superare per portare la sinistra italiana ad un livello europeo di consensi e di contendibilità del potere, cioè di proporsi con propri programmi e leader alla guida del paese. L'ultimo suo libro intervista, Devi augurarti che la strada sia lunga (Ponte alla Grazie, 2009), ne è l'esempio. Bertinotti, giustamente, colloca la sconfitta della sinistra non nel 2008 e neppure nel 2001, ma ne vede l'inizio nell'incapacità di affrontare i problemi posti dalla Primavera di Praga, ma soprattutto dalla sua sconfitta, segno della irriformabilità del sistema comunista dall'interno. L'altro errore prospettico è quello di giudicare lo stato di salute della sinistra dal consenso elettorale di Rifondazione, cioè dal successo od insuccesso di quel modello di partito: come credere che il proprio ombelico rappresenti il centro del mondo.
Nella fondazione di Rifondazione e nei suoi sviluppi erano presenti molteplici suggestioni, dalla mera nostalgia di un tempo che fu alla sperimentazione più spinta del partito movimento, comunismo sovietico e fuoriuscita "da sinistra" dalla crisi del sistema sovietico. Gli stessi riferimenti internazionali erano un coacervo di suggestioni dal castrismo al no-globalismo, senza mai rinunciare alla personificazione al limite del culto del leader mediatico dal Che Guevara (morto) al sub-comandante Marcos, per approdare al tonitruante Chavez, pronti ad abbandonare riferimenti di un tempo, come il brasiliano Lula, appena diventavano meno esotici.
L'Europa non è mai stata centrale nella sinistra alternativa per naturale diffidenza verso istituzioni nate per rafforzare la libertà di circolazione dei capitali in nome della concorrenza ed anche perché porre al centro l'Europa rendeva inevitabile il confronto con la socialdemocrazia.
Noi italiani fin da piccoli siamo stati abituati ad una rappresentazione del mondo, quella delle carte geografiche appese dietro le cattedre: un mondo con al centro l'Europa e con l'Italia al centro dell'area euro-mediterranea. Del tutto inconsciamente siamo portati a dilatare la nostra esperienza. In Italia è nata la tentazione dell'Ulivo mondiale e tuttora si scambia l'incapacità del PD di scegliere tra le grandi famiglie politiche europee per un'originalità, cui presto tutti dovranno rendere omaggio.
Bertinotti nelle numerose interviste per il lancio del suo ultimo libro fa affermazioni del tutto condivisibili: "Per la sinistra occorre unire le forze in Europa"[2] ovvero che occorra "Una sinistra, una sinistra sola.."[3]. Un bel passo avanti rispetto alla teorizzazione delle due sinistre tra di loro inconciliabili addirittura avversarie, sia pure senza la virulenza del "social-fascismo" di staliniana memoria.
Un rinnovamento effettivo della sinistra in Italia richiede un'operazione di modestia: Rifondazione ha avuto il più alto risultato elettorale con l'08,57% del 1996, prima della scissione del PdCI. Tale vetta non è mai stata superata, neppure sommando Rifondazione e Comunisti italiani, che appunto ottennero l'8,16% nel 2006. Per fare un confronto con l'altra novità politica italiana, la Lega Nord, quest'ultima ha avuto il suo picco con il 10,07% nel 1996 e ha quasi sempre battuto Rifondazione nelle regioni del Nord ed anche a livello nazionale, tranne che nel 2001 e nel 2006, pur essendo un partito geograficamente concentrato. L'importanza del consenso elettorale non sfugge a Bertinotti, se non altro dopo l'episodio dell'incontro, nel dicembre 2005, con il responsabile esteri del Partito Comunista Cinese, di cui parla nel suo ultimo libro (p. 209), che non riusciva a spiegarsi il basso consenso elettorale con la ricchezza delle analisi politiche.
La sinistra europea è in crisi, basta un raffronto con il 1999, quando nei 15 paesi dell'Ue 12 primi ministri erano socialisti ed il 13esimo si chiamava Prodi, ma allora ragioniamo di questo e non, come fa Bertinotti, traiamo speranze dai sondaggi, che danno la Linke tedesca sopra l'8% e sfiorare il 10% (la percentuale alla quale era accreditata la Sinistra Arcobaleno, secondo le previsioni).
Riesce difficile convincersi che questo sia un fatto positivo, se la SPD crollasse, ed il Labour Party pure, alle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo.
Ragionando in un'ottica europea la debolezza della sinistra italiana risulta evidente e si capisce, che non data dal 2008 e neppure dalle sconfitte del 1994 e del 2001 o dalla scissione del PCI, ma che è una debolezza strutturale: nell'Italia del dopoguerra la sinistra, anche quando la somma dei voti socialisti e comunisti superava agevolmente il 40%, non è mai stata un'alternativa di governo, vuoi per ragioni internazionali, ma soprattutto per non aver mai potuto o voluto proporre un proprio programma ed un proprio leader per il governo del paese. In questo senso è stata una sinistra anomala in Europa, dove i partiti socialisti democratici potevano essere confinati all'opposizione, anche per lunghissimi periodi, basta pensare alla Thatcher o a Kohl, ma potevano ritornare al potere.
Craxi è stato Primo ministro, ma in posizioni minoritaria, D'Alema ed Amato in seguito a crisi parlamentari, mai un leader di sinistra ha vinto le elezioni, anzi neppure si è mai candidato per vincere le elezioni a capo di uno schieramento maggioritario. La candidatura di Veltroni nel 2008 non è un'eccezione che conferma la regola e ciò per 2 ragioni: 1) non si definiva di sinistra e 2) si è posto a capo di uno schieramento (PD e IDV) con vocazione minoritaria.
La ricostruzione di una sinistra europea non può derivare dalla constatazione del fallimento del comunismo, ma anche della socialdemocrazia, come se fossero della stessa natura, rispetto ad un ideale rivoluzionario tradito. Su questo Bertinotti è chiaro: "... Anche i partiti socialdemocratici hanno subito una crisi ed una sconfitta, ma di altra natura. Essa non ha a che fare con una dimensione storica e ideologica, ma con una dimensione politica e programmatica"[4]: un riconoscimento, che nasconde una critica di fondo, cioè che la socialdemocrazia non era stato in grado di garantire il compromesso con il capitalismo.
Il XX° secolo è stato il secolo di massima espansione della socialdemocrazia, ma anche del comunismo e delle ideologie autoritarie e totalitarie, se facciamo il confronto tra periodi e popolazione governate, la socialdemocrazia, persino nella sua culla europea è stata minoritaria rispetto al comunismo ed ai fascismi, ma è l'unica forza che non sia stata radicalmente sconfitta: un qualche merito lo devono pur avere le sue politiche ed i suoi valori. Se non altro per questo bisogna ripartire da lì, piuttosto che da un'idea di sconfitta epocale e planetaria della sinistra. Il socialismo realmente esistente di sovietica memoria è stata un'esperienza tragica, che porta la responsabilità dell'allontanamento delle masse europee dal socialismo tout court, ma aveva almeno il merito di costringere di confrontarsi con la realtà terrena e non con idee dell'empireo.
Siamo in pieno fermento, nascono nuove aggregazioni, che possono morire all'indomani delle elezioni ovvero essere il cominciamento di un nuovo inizio, si lanciano iniziative editoriali all'insegna di una sinistra da buttare, come il quotidiano l'ALTRO, senza avere ben chiara la distinzione tra sinistra riformista (in cui colloca il PD di Franceschini) e sinistra radicale (di cui farebbe parte il quotidiano di Sansonetti), grande è la confusione sotto il cielo una ragione in più per avere in mente, con chiarezza, gli obiettivi da raggiungere. Tuttavia prima del punto di arrivo, c'è il punto di partenza e la direzione da seguire.
In questo senso, chi è convinto, che dal socialismo europeo si debba partire, dovrebbe smettere di invocare il PSE come un mantra, come se il problema fosse quello di iscriversi al PSE, cioè che un atto formale possa sostituire la revisione politica, programmatica ed ideologica. Se scambiamo il PSE per il socialismo europeo significa, che di quest'ultimo non abbiamo una grandissima opinione. Il PSE non è un partito socialista europeo, in ogni caso non è il partito, di cui ci sarebbe bisogno. Il PSE è una confederazione di gruppi dirigenti di partiti socialisti nazionali, come efficacemente denunziato dai circoli socialisti e libertari, che hanno costituito il Gruppo di Volpedo.
Interrogarsi sul socialismo europeo significa interrogarsi sull'unica sinistra possibile. Giuseppe Berta ha appena pubblicato un agile volumetto dal titolo "Eclisse della Socialdemocrazia"[5], che alcuni pasdaran socialisti hanno criticato per la mancanza di un punto interrogativo alla fine.
La critica non ha alcun fondamento astronomico perché caratteristica delle eclissi è proprio quella della loro limitata durata: il titolo quindi è ben augurante, semmai il sottotitolo dovrebbe destare qualche preoccupazione: "Ci si domanda come sia successo che anche la socialdemocrazia sia uscita travolta prima dalla globalizzazione di fine secolo e poi dalla sua crisi". Proprio la crisi sarà la cartina di tornasole della capacità della sinistra e perciò della sua parte maggioritaria in Europa di porre termine alla sua eclissi. In altri termini, parafrasando Keynes e con un altro ordine di importanza, bisognerà verificare se coniugando giustizia sociale, libertà individuale ed efficienza economica si metterà in moto una politica di sviluppo atta a far ripartire l'economia, ma in una società più giusta.
La sinistra, come l'araba fenice, può rinascere dalle sue ceneri, se ricominciasse, come pensa Fulvio Papi, non dai margini ma dal centro del discorso: il perché della crisi politica, le difficoltà e l'intervento pubblico, la formazione di una elite politica o la programmazione della vita sociale, in altre parole partire da temi (e trovare soluzioni) capaci di dare identità ad una sinistra, che l'ha perduta.
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[1] Per Silone le ragioni erano già venute meno negli anni 1944-1945, come scrisse sull'Avanti di Roma, con riferimento alle primitive ragioni ideologiche: non poteva presagire la guerra fredda, cioè ragioni di potenza.
[2] Epolis, 14/5/09, p. 4
[3] altro, 13/5/09, p. 4
[4] altro, 13/5/09, p. 4
[5] Il Mulino, 2009
Monica Maro: Crisi, le cifre
Da Aprile
Crisi, le cifre della difficoltà
Monica Maro, 28 maggio 2009, 15:58
Diritti globali La crisi finanziaria globale e i rischi del protezionismo, il mercato del lavoro e la precarietà, la sicurezza sul lavoro, il welfare, l'immigrazione, le guerre, l'ambiente e i diritti umani: il Rapporto annuale sulla globalizzazione e sui diritti nel mondo (che verrà presentato domani e di cui vi anticipiamo, in sintesi, i passaggi principali) fornisce le analisi più approfondite, i dati più aggiornati, il quadro più ampio. Fotografa e analizza la globalizzazione per quello che è, mettendo in luce i punti più critici e delineando al contempo le direzioni da seguire per dare concreta attuazione a un'inversione di rotta
Quest'anno il Rapporto sui diritti globali - un progetto di CGIL, ARCI, ActionAid, Antigone, CNCA, Forum Ambientalista, Gruppo Abele, Legambiente - giunto alla sua settima edizione, esce nel pieno degli effetti della crisi finanziaria mondiale sulle economie reali di tutti i Paesi del pianeta. Il castello di carte della finanza globalizzata, e infine impazzita come una maionese, è il frutto prevedibile e previsto di un sistema che drena ricchezze e risorse per concentrarle in poche mani. Le mani sono quelle delle corporation, dei potenti gruppi speculativi, degli imperi multinazionali che in questi decenni hanno attualizzato e imposto l'ideologia del liberismo senza regole e senza freni. Un pensiero unico che è riuscito a informare di sé e a soppiantare governi e sedi decisionali democratiche ed elettive, dunque la politica, gestendoli in proprio o trasformandoli in passivi e complici esecutori.
Con la crisi globale resta aperto e si drammatizza il nodo dei salari e, più in generale, la grande e rimossa questione dei diritti economici e sociali, nei Paesi poveri così come in quelli sviluppati. Ma le cronache dai mari di questi giorni, dei barconi gonfi di umanità violata e dolente, cinicamente rispediti in Libia, ci ricordano che oltre alla crisi dell'economia reale c'è un'altra crisi da affrontare, altrettanto grave: quella dei diritti umani e di cittadinanza, connessi anche alla questione ambientale. Anche questi diritti sono drasticamente peggiorati, sin dentro il cuore delle nostra città.
Anche quest'anno il Rapporto, un volume unico a livello internazionale per l'ampiezza e la sistematicità dei temi affrontati, fa il punto della situazione restituendoci lo stato di salute dei diritti nel mondo.
La crisi finanziaria globale e i rischi del protezionismo, il mercato del lavoro e la precarietà, la sicurezza sul lavoro, il welfare, l'immigrazione, le guerre, l'ambiente e i diritti umani: il rapporto fotografa e analizza la globalizzazione per quello che è, mettendo in luce i punti più critici e delineando al contempo le direzioni da seguire per dare concreta attuazione a un'inversione di rotta.
Il Rapporto ci ricorda la centralità dei diritti umani e sociali e l'importanza di un assetto sociale costruito sui concetti di uguaglianza, democrazia e ricchezza per tutti. Nuovi importanti fenomeni lasciano intravedere la possibilità di un cammino diverso: il nuovo mutualismo, la cittadinanza attiva, la finanza etica e i nuovi stili di vita, la decrescita e il consumo responsabile. Spinte positive che hanno però bisogno di essere accompagnate e potenziate perché diventino prassi comune condivisa dagli Stati e dal sistema-mondo nel suo complesso.
Di fronte ai fenomeni che segnano il nostro tempo, spesso lasciando ferite profonde,
bisogna riabituarsi a domandarsi, e domandare, il perché. Perché significa ricerca di responsabilità ma anche comprensione delle cause, senza la quale non vi sono correzioni e rimedi possibili. L'introduzione di Sergio Segio
Vi proponiamo alcuni stralci (in pdf) del Rapporto:
La politica salariale della miseria. Si dice che buona parte dei guai attuali hanno la loro origine nel dominio della finanza sull'economia reale. Ma esiste ancora l'economia reale?
Tra il 1980 e il 2006, gli asset della finanza sono passati dal 109% al 316% del valore della
produzione mondiale: la maggior parte delle grandi imprese sono controllate da attori finanziari
in una dimensione che vede in azione la tattica dei risultati immediati e non la strategia
di lungo periodo. Circolano più soldi sul mercato speculativo delle valute in una settimana che nel commercio tra Stati per beni e servizi in un anno. L'economia reale è diventata l'utile strumento della finanza del debito diffuso, ma le merci possono crescere indefinitamente solo nel Paese dei Balocchi. Case, automobili, vacanze sono state incentivate e pagate con i soldi di un nuovo Monopoli. Per questo si parla oggi di sovrapproduzione: non ci sono soldi veri per gli acquisti. Al di là delle considerazioni di carattere ambientale, i Paesi emergenti potrebbero rappresentare benissimo il terreno di una nuova domanda, non fossero stati saccheggiati in questi anni dalla politica salariale della miseria, che ha trascinato con sé al ribasso la quota salariale in tutto il mondo. Leggi qui.
Italiani soli, vulnerabili e a rischio. Sono sempre più soli, gli italiani: di fronte alla crisi, senza rete, e con un welfare che si ritrae. E corrono rischi contro cui non hanno protezione: l'11,8% (poco meno di tre milioni) possiede azioni o quote di fondi comuni ad alto rischio sul mercato finanziario, l'8,2% (circa milioni) ha un mutuo per la casa cui far fronte, con (stimate) 56.000 famiglie che saltano i pagamenti e 193.000 che fanno fatica a pagare le rate, il 12,8% (poco più di 3 milioni) che ricorre al credito al consumo. Leggi
Epifani: governo autoreferenziale. Il governo Berlusconi ha rinunciato a qualsiasi confronto con le rappresentanze sociali, una scelta "che conferma il profilo autoreferenziale di questo esecutivo": lo afferma il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, nella prefazione al Rapporto sui diritti globali 2009, che verrà presentato domani. "Senza il minimo confronto con le parti sociali - dice Epifani - si manomettono molti dei provvedimenti che il precedente esecutivo aveva adottato con il Protocollo sul welfare e si introducono modifiche pesanti in tema di relazioni sindacali, a cominciare dalle questioni relative ai tempi di lavoro, al lavoro notturno, ai riposi giornalieri".
Il leader della Cgil torna a spiegare il no del suo sindacato alla riforma contrattuale, parlando esplicitamente di una "strategia di attacco contro i lavoratori e contro la Cgil".
"L'attacco ai diritti - dice - si manifesta con il provvedimento che punta a limitare il diritto di sciopero, per ora solo nel trasporto pubblico. E' uno snodo, questo, di particolare rilevanza, che richiede massima attenzione e vigilanza perché tocca un principio nevralgico dei diritti dei lavoratori e dei cittadini, costituzionalmente garantito". Leggi
La globalizzazione ai tempi della crisi. L'esasperata finanziarizzazione dell'economia è stata individuata come la causa principale dell'esplosione della crisi, ma la "bolla" finanziaria spiega solo una parte del problema. In realtà, le cause della crisi sistemica sono più profonde e vanno ricercate nell'egemonia culturale del neoliberismo economico. Teorizzando l'assoluta capacità autoregolamentativa del mercato, l'approccio liberista estesosi a livello globale ha deregolamentato il sistema, depotenziato i necessari contropoteri annettendosi istituzioni e governi e, quel che è peggio, ha ignorato ogni etica della responsabilità. Lo stravolgimento dei principi del liberismo
classico ha portato alla degenerazione del neoliberismo, che ha caratterizzato la globalizzazione
sviluppatasi negli ultimi decenni. Ed è stato proprio questo modello di globalizzazione a esplodere, creando la crisi. Un fallimento annunciato. Leggi
L'Europa politica. Se il fenomeno xenofobo e razzista è diffuso in tutta Europa, è indubbia l'esistenza di un "caso italiano": è quanto sostiene il Rapporto, che denuncia l'esistenza in Italia di un razzismo "diffuso, vago e, spesso, non tematizzato".
La cifra degli abusi è l'assoluta ordinarietà con cui vengono perpetrati: "gli autori sembra che si sentano pienamente legittimati nel riservare trattamenti differenziati - dice il rapporto citando l'Unar - a seconda della nazionalità, dell'etnia o del colore della pelle".
Ancora più grave il fatto che, sottolinea il rapporto, non ci sia una consapevolezza reale nel Paese. In questa sorta di "normalizzazione" degli atti di discriminazione e di razzismo, i cittadini stranieri sembrano aver alzato il livello di sopportazione degli abusi. Di fronte al fenomeno dell'immigrazione, si registra un'inquietudine sociale tornata in Italia almeno ai livelli massimi registrati nel 1999, una "penisola della paura" in cui la paura è alimentata dall'uso politico dell'immigrazione. In questa situazione, chiedersi se gli italiani sono razzisti o no non serve a nulla, perché si rischia l'inazione per il senso d'impotenza di fronte all'enormità del fenomeno oppure la sottovalutazione di un problema che si ritiene inesistente e che invece è purtroppo grave. Leggi il rapporto
Donne, minori, migranti: prime vittime di violazioni. Un grave fenomeno globale, tra i più redditizi per le organizzazioni criminali dato un volume d'affari stimato in circa 32 miliardi di dollari l'anno, e che coinvolge secondo l'ONU 2,7 milioni di persone, nell'80% dei casi donne e bambini, è quello della tratta degli esseri umani. È quella «moderna schiavitù» di cui molti governi negano ancora l'esistenza e mostrano "negligenza nel perseguirla penalmente", secondo l'UNODC, che stima come nel 79% dei casi il traffico avvenga per sfruttamento sessuale e le vittime siano prevalentemente donne, anche giovanissime. Leggi.
Il ritorno degli Usa nella comunità internazionale. Ai tragici fallimenti dell'Amministrazione Bush/Cheney, il cui arrogante e unipolare progetto di democratizzazione del "Grande Medio Oriente" attraverso "l'effetto domino" provocato da "guerre giuste" ha reso ancora più instabile un'area da sempre problematica, causando al contempo l'aumento e la diffusione planetaria delle attività terroristiche, si trova a dover porre rimedio l'Amministrazione Obama, che ha subito avviato un'intensa attività diplomatica. Leggi
Ambiente: è codice rosso, speranza clima. Seppur in presenza di segnali positivi il mondo è arrivato all'appuntamento di Copenaghen, il prossimo dicembre per la Conferenza Onu sul clima, letteralmente sull'orlo del baratro. Per il documento, alla luce di questa emergenza "per salvare il Pianeta dagli effetti più drammatici del mutamento climatico l'impegno dei singoli Stati e della comunità internazionale tutta dovrà essere immediato, deciso e consistente. E, soprattutto, non ci sono vie alternative, ma l'unica speranza resta arrivare al post Kyoto nei tempi previsti". E il quadro internazionale "fa ben sperare". L'ambiente, inoltre, da un anno a questa parte, e ancor più negli anni a venire, secondo il Rapporto, si è rivelato in modo deciso come "nuovo soggetto politico".
Sul fronte ricette il Rapporto avvisa gli scettici: Risparmio energetico, efficienza, energia verde e tecnologie pulite sono così determinanti che investendo in questi settori si potrà soddisfare la domanda energetica prevista per metà secolo, riducendo le emissioni di anidride carbonica dal 60 all'80%. Leggi qui
Crisi, le cifre della difficoltà
Monica Maro, 28 maggio 2009, 15:58
Diritti globali La crisi finanziaria globale e i rischi del protezionismo, il mercato del lavoro e la precarietà, la sicurezza sul lavoro, il welfare, l'immigrazione, le guerre, l'ambiente e i diritti umani: il Rapporto annuale sulla globalizzazione e sui diritti nel mondo (che verrà presentato domani e di cui vi anticipiamo, in sintesi, i passaggi principali) fornisce le analisi più approfondite, i dati più aggiornati, il quadro più ampio. Fotografa e analizza la globalizzazione per quello che è, mettendo in luce i punti più critici e delineando al contempo le direzioni da seguire per dare concreta attuazione a un'inversione di rotta
Quest'anno il Rapporto sui diritti globali - un progetto di CGIL, ARCI, ActionAid, Antigone, CNCA, Forum Ambientalista, Gruppo Abele, Legambiente - giunto alla sua settima edizione, esce nel pieno degli effetti della crisi finanziaria mondiale sulle economie reali di tutti i Paesi del pianeta. Il castello di carte della finanza globalizzata, e infine impazzita come una maionese, è il frutto prevedibile e previsto di un sistema che drena ricchezze e risorse per concentrarle in poche mani. Le mani sono quelle delle corporation, dei potenti gruppi speculativi, degli imperi multinazionali che in questi decenni hanno attualizzato e imposto l'ideologia del liberismo senza regole e senza freni. Un pensiero unico che è riuscito a informare di sé e a soppiantare governi e sedi decisionali democratiche ed elettive, dunque la politica, gestendoli in proprio o trasformandoli in passivi e complici esecutori.
Con la crisi globale resta aperto e si drammatizza il nodo dei salari e, più in generale, la grande e rimossa questione dei diritti economici e sociali, nei Paesi poveri così come in quelli sviluppati. Ma le cronache dai mari di questi giorni, dei barconi gonfi di umanità violata e dolente, cinicamente rispediti in Libia, ci ricordano che oltre alla crisi dell'economia reale c'è un'altra crisi da affrontare, altrettanto grave: quella dei diritti umani e di cittadinanza, connessi anche alla questione ambientale. Anche questi diritti sono drasticamente peggiorati, sin dentro il cuore delle nostra città.
Anche quest'anno il Rapporto, un volume unico a livello internazionale per l'ampiezza e la sistematicità dei temi affrontati, fa il punto della situazione restituendoci lo stato di salute dei diritti nel mondo.
La crisi finanziaria globale e i rischi del protezionismo, il mercato del lavoro e la precarietà, la sicurezza sul lavoro, il welfare, l'immigrazione, le guerre, l'ambiente e i diritti umani: il rapporto fotografa e analizza la globalizzazione per quello che è, mettendo in luce i punti più critici e delineando al contempo le direzioni da seguire per dare concreta attuazione a un'inversione di rotta.
Il Rapporto ci ricorda la centralità dei diritti umani e sociali e l'importanza di un assetto sociale costruito sui concetti di uguaglianza, democrazia e ricchezza per tutti. Nuovi importanti fenomeni lasciano intravedere la possibilità di un cammino diverso: il nuovo mutualismo, la cittadinanza attiva, la finanza etica e i nuovi stili di vita, la decrescita e il consumo responsabile. Spinte positive che hanno però bisogno di essere accompagnate e potenziate perché diventino prassi comune condivisa dagli Stati e dal sistema-mondo nel suo complesso.
Di fronte ai fenomeni che segnano il nostro tempo, spesso lasciando ferite profonde,
bisogna riabituarsi a domandarsi, e domandare, il perché. Perché significa ricerca di responsabilità ma anche comprensione delle cause, senza la quale non vi sono correzioni e rimedi possibili. L'introduzione di Sergio Segio
Vi proponiamo alcuni stralci (in pdf) del Rapporto:
La politica salariale della miseria. Si dice che buona parte dei guai attuali hanno la loro origine nel dominio della finanza sull'economia reale. Ma esiste ancora l'economia reale?
Tra il 1980 e il 2006, gli asset della finanza sono passati dal 109% al 316% del valore della
produzione mondiale: la maggior parte delle grandi imprese sono controllate da attori finanziari
in una dimensione che vede in azione la tattica dei risultati immediati e non la strategia
di lungo periodo. Circolano più soldi sul mercato speculativo delle valute in una settimana che nel commercio tra Stati per beni e servizi in un anno. L'economia reale è diventata l'utile strumento della finanza del debito diffuso, ma le merci possono crescere indefinitamente solo nel Paese dei Balocchi. Case, automobili, vacanze sono state incentivate e pagate con i soldi di un nuovo Monopoli. Per questo si parla oggi di sovrapproduzione: non ci sono soldi veri per gli acquisti. Al di là delle considerazioni di carattere ambientale, i Paesi emergenti potrebbero rappresentare benissimo il terreno di una nuova domanda, non fossero stati saccheggiati in questi anni dalla politica salariale della miseria, che ha trascinato con sé al ribasso la quota salariale in tutto il mondo. Leggi qui.
Italiani soli, vulnerabili e a rischio. Sono sempre più soli, gli italiani: di fronte alla crisi, senza rete, e con un welfare che si ritrae. E corrono rischi contro cui non hanno protezione: l'11,8% (poco meno di tre milioni) possiede azioni o quote di fondi comuni ad alto rischio sul mercato finanziario, l'8,2% (circa milioni) ha un mutuo per la casa cui far fronte, con (stimate) 56.000 famiglie che saltano i pagamenti e 193.000 che fanno fatica a pagare le rate, il 12,8% (poco più di 3 milioni) che ricorre al credito al consumo. Leggi
Epifani: governo autoreferenziale. Il governo Berlusconi ha rinunciato a qualsiasi confronto con le rappresentanze sociali, una scelta "che conferma il profilo autoreferenziale di questo esecutivo": lo afferma il segretario generale della Cgil, Guglielmo Epifani, nella prefazione al Rapporto sui diritti globali 2009, che verrà presentato domani. "Senza il minimo confronto con le parti sociali - dice Epifani - si manomettono molti dei provvedimenti che il precedente esecutivo aveva adottato con il Protocollo sul welfare e si introducono modifiche pesanti in tema di relazioni sindacali, a cominciare dalle questioni relative ai tempi di lavoro, al lavoro notturno, ai riposi giornalieri".
Il leader della Cgil torna a spiegare il no del suo sindacato alla riforma contrattuale, parlando esplicitamente di una "strategia di attacco contro i lavoratori e contro la Cgil".
"L'attacco ai diritti - dice - si manifesta con il provvedimento che punta a limitare il diritto di sciopero, per ora solo nel trasporto pubblico. E' uno snodo, questo, di particolare rilevanza, che richiede massima attenzione e vigilanza perché tocca un principio nevralgico dei diritti dei lavoratori e dei cittadini, costituzionalmente garantito". Leggi
La globalizzazione ai tempi della crisi. L'esasperata finanziarizzazione dell'economia è stata individuata come la causa principale dell'esplosione della crisi, ma la "bolla" finanziaria spiega solo una parte del problema. In realtà, le cause della crisi sistemica sono più profonde e vanno ricercate nell'egemonia culturale del neoliberismo economico. Teorizzando l'assoluta capacità autoregolamentativa del mercato, l'approccio liberista estesosi a livello globale ha deregolamentato il sistema, depotenziato i necessari contropoteri annettendosi istituzioni e governi e, quel che è peggio, ha ignorato ogni etica della responsabilità. Lo stravolgimento dei principi del liberismo
classico ha portato alla degenerazione del neoliberismo, che ha caratterizzato la globalizzazione
sviluppatasi negli ultimi decenni. Ed è stato proprio questo modello di globalizzazione a esplodere, creando la crisi. Un fallimento annunciato. Leggi
L'Europa politica. Se il fenomeno xenofobo e razzista è diffuso in tutta Europa, è indubbia l'esistenza di un "caso italiano": è quanto sostiene il Rapporto, che denuncia l'esistenza in Italia di un razzismo "diffuso, vago e, spesso, non tematizzato".
La cifra degli abusi è l'assoluta ordinarietà con cui vengono perpetrati: "gli autori sembra che si sentano pienamente legittimati nel riservare trattamenti differenziati - dice il rapporto citando l'Unar - a seconda della nazionalità, dell'etnia o del colore della pelle".
Ancora più grave il fatto che, sottolinea il rapporto, non ci sia una consapevolezza reale nel Paese. In questa sorta di "normalizzazione" degli atti di discriminazione e di razzismo, i cittadini stranieri sembrano aver alzato il livello di sopportazione degli abusi. Di fronte al fenomeno dell'immigrazione, si registra un'inquietudine sociale tornata in Italia almeno ai livelli massimi registrati nel 1999, una "penisola della paura" in cui la paura è alimentata dall'uso politico dell'immigrazione. In questa situazione, chiedersi se gli italiani sono razzisti o no non serve a nulla, perché si rischia l'inazione per il senso d'impotenza di fronte all'enormità del fenomeno oppure la sottovalutazione di un problema che si ritiene inesistente e che invece è purtroppo grave. Leggi il rapporto
Donne, minori, migranti: prime vittime di violazioni. Un grave fenomeno globale, tra i più redditizi per le organizzazioni criminali dato un volume d'affari stimato in circa 32 miliardi di dollari l'anno, e che coinvolge secondo l'ONU 2,7 milioni di persone, nell'80% dei casi donne e bambini, è quello della tratta degli esseri umani. È quella «moderna schiavitù» di cui molti governi negano ancora l'esistenza e mostrano "negligenza nel perseguirla penalmente", secondo l'UNODC, che stima come nel 79% dei casi il traffico avvenga per sfruttamento sessuale e le vittime siano prevalentemente donne, anche giovanissime. Leggi.
Il ritorno degli Usa nella comunità internazionale. Ai tragici fallimenti dell'Amministrazione Bush/Cheney, il cui arrogante e unipolare progetto di democratizzazione del "Grande Medio Oriente" attraverso "l'effetto domino" provocato da "guerre giuste" ha reso ancora più instabile un'area da sempre problematica, causando al contempo l'aumento e la diffusione planetaria delle attività terroristiche, si trova a dover porre rimedio l'Amministrazione Obama, che ha subito avviato un'intensa attività diplomatica. Leggi
Ambiente: è codice rosso, speranza clima. Seppur in presenza di segnali positivi il mondo è arrivato all'appuntamento di Copenaghen, il prossimo dicembre per la Conferenza Onu sul clima, letteralmente sull'orlo del baratro. Per il documento, alla luce di questa emergenza "per salvare il Pianeta dagli effetti più drammatici del mutamento climatico l'impegno dei singoli Stati e della comunità internazionale tutta dovrà essere immediato, deciso e consistente. E, soprattutto, non ci sono vie alternative, ma l'unica speranza resta arrivare al post Kyoto nei tempi previsti". E il quadro internazionale "fa ben sperare". L'ambiente, inoltre, da un anno a questa parte, e ancor più negli anni a venire, secondo il Rapporto, si è rivelato in modo deciso come "nuovo soggetto politico".
Sul fronte ricette il Rapporto avvisa gli scettici: Risparmio energetico, efficienza, energia verde e tecnologie pulite sono così determinanti che investendo in questi settori si potrà soddisfare la domanda energetica prevista per metà secolo, riducendo le emissioni di anidride carbonica dal 60 all'80%. Leggi qui
Claude Turmes: La sinistra deve riconciliarsi con le emozioni
Da Cafebabel
Claude Turmes: «La sinistra deve riconciliarsi con le emozioni»
Convinto che passata la crisi il petrolio ritornerà a 250 euro al barile, il leader e candidato ecologista alle elezioni europee si rammarica del fatto che in Europa ci siano imprese che guadagnano a costo dello spreco energetico.
Claude Turmes, al centro, con due colleghi di partito (Foto: Parlamento europeo)
I dati interni di ogni partito verde europeo non sono lusinghieri di fronte alle elezioni europee. Le previsioni più audaci auspicano al massimo un leggero aumento di un paio di seggi sui 42 che hanno oggi. I rispettivi sondaggi nazionali, se aggregati su scala europea, diventano più severi e prevedono una leggera diminuzione. Tutto ciò, dopo i cinque anni durante i quali l’ideologia ecologista ha maggiormente impregnato la politica internazionale. La stessa cosa succede alla sinistra mondiale di fronte ai partiti liberali e conservatori in piena crisi del liberalismo economico.
Antifascismo, mulini a vento e yoga
El Green New Deal es la apuesta de futuro de los Verdes en Europa | Imagen del Partido Verde Europeo«Se la sinistra vuole vincere, dovrà riconciliarsi con la sua concezione delle emozioni». Lo afferma Claude Turmes, vicepresidente dei Verdi europei ed eurodeputato da 10 anni. Questo lussemburghese smilzo e slanciato, con i capelli brizzolati raccolti in parte da un codino, e con grandi occhiali da topo di biblioteca, trasmette senza parlare una certa aria di ascetismo mescolato a timidezza adolescenziale. È la sobrietà che ci possiamo attendere dall’ideologo della grande promessa elettorale dei verdi europei: il Green New Deal, ispirato alle grandi riforme che il nordamericano Franklin D.Roosevelt ha lanciato negli anni Trenta per uscire «dall’unica crisi che possiamo comparare con quella attuale». «La destra non ha mai rinnegato le emozioni. Il fatto è che si fonda su emozioni troppo primitive. Obama è un esempio di ciò che la sinistra deve fare in Europa: il suo discorso si basa anche sulle emozioni, come Roosevelt negli anni Trenta, che vinse due elezioni dando fiducia contro dei candidati di estrema destra, mentre l’Europa perdeva la sua battaglia contro il fascismo ed il nazismo». Sensibile allo sviluppo del mondo interiore di ogni persona, ha ben chiaro che il Green New Deal (Nuovo Patto verde) non può essere alimentato solamente da economia e fredda razionalità statistica. «Deve rappresentare un pilastro che promuova la crescita personale, come suonare il pianoforte, leggere o fare yoga», conclude Turmes.
La Corea del Sud e la Cina investono di più nel verde di Germania e Francia
En 2019 todas las nuevas construcciones deberán garantizar 0% de consumo de energía: una medida tomada por el parlamento tras años de presiones de Los Verdes | Imagen: Partido Verde EuropeoDai tempi di Roosevelt ad oggi, la classe media mondiale è passata da 300 milioni a 2 miliardi di individui. Questo fatto non solo esige un’entità di gran lunga maggiore per un piano di recupero mondiale, ma anche implica una pressione molto più incisiva da parte dei cittadini insoddisfatti. «Le energie ed i materiali rinnovabili devono essere il motore di questo piano di recupero», insiste, senza gran sorprese, Turmes, «poiché sono mercati locali che producono valore aggiunto e posti di lavoro laddove si investe». Contro coloro che annunciano che la bolla economica del futuro si sta creando oggi nel mercato delle energie rinnovabili, Turmes risponde che «sono necessari milioni di pannelli solari, milioni di mulini a vento e centinaia di impianti a biomassa». Non teme alcun surriscaldamento dell’economia in quanto «questi investimenti», riassume, «sono per l’economia reale». Anche se la crisi attuale ha avuto origine in America, l’Europa sta soffrendo di più. Nel primo trimestre del 2009, gli Stati Uniti hanno perso l’1,6% del proprio prodotto interno lordo, mentre l’Europa ha perso per la strada il 2,9%. Il piano di recupero di Obama è molto diverso da quello di Barroso in Europa, e molto più consistente. Tuttavia, quello che i verdi europei sottolineano è che, mentre la Corea del Sud impegna l’80% del proprio piano di recupero per la scommessa nelle tecnologie ed industrie verdi, e la Cina il 40%, Francia e Germania non superano il 15%. «Se continua così, l’Europa perderà la battaglia dell’economia mondiale, della rivoluzione verde, come ha già perso la battaglia delle tecnologie dell’informazione», avverte il nostro intervistato con molta calma. L’incognita è sapere come finanziare questa rivoluzione in piena contrazione del credito mondiale. Per questo, i Verdi propongono che la Banca europea degli investimenti destini 5mila milioni di euro del Piano Barroso in crediti per sviluppare il settore della eco-industria. «Dal momento in cui un mulino a vento inizia a funzionare, sta producendo e contribuendo ad una minore dipendenza dal gas russo».
Haga click aquí para consultar las acciones de los Verdes en la última legislatura | Imagen del Partido Verde EuropeoEd un’altra delle idee ricorrenti tra gli ecologisti europei è la ricerca dell’indipendenza dei settori: alimentare ed energetico. «Io non sono un isolazionista», previene Claude Turmes a modo di conclusione, «ma ogni anglo della Terra ha interesse ad essere sovrano dal punto di vista alimentare ed energetico per evitare i conflitti. Se c’è una guerra in Iraq è perché c’è il petrolio. La stessa cosa può accadere nel futuro con gli alimenti se continuiamo a considerarli come una mercanzia qualsiasi e permettiamo che si speculi sul prezzo del grano». Tutto questo eviterà all’Europa di dissanguarsi a forza di assegni destinati alla Russia o all’Arabia Saudita.
Claude Turmes: «La sinistra deve riconciliarsi con le emozioni»
Convinto che passata la crisi il petrolio ritornerà a 250 euro al barile, il leader e candidato ecologista alle elezioni europee si rammarica del fatto che in Europa ci siano imprese che guadagnano a costo dello spreco energetico.
Claude Turmes, al centro, con due colleghi di partito (Foto: Parlamento europeo)
I dati interni di ogni partito verde europeo non sono lusinghieri di fronte alle elezioni europee. Le previsioni più audaci auspicano al massimo un leggero aumento di un paio di seggi sui 42 che hanno oggi. I rispettivi sondaggi nazionali, se aggregati su scala europea, diventano più severi e prevedono una leggera diminuzione. Tutto ciò, dopo i cinque anni durante i quali l’ideologia ecologista ha maggiormente impregnato la politica internazionale. La stessa cosa succede alla sinistra mondiale di fronte ai partiti liberali e conservatori in piena crisi del liberalismo economico.
Antifascismo, mulini a vento e yoga
El Green New Deal es la apuesta de futuro de los Verdes en Europa | Imagen del Partido Verde Europeo«Se la sinistra vuole vincere, dovrà riconciliarsi con la sua concezione delle emozioni». Lo afferma Claude Turmes, vicepresidente dei Verdi europei ed eurodeputato da 10 anni. Questo lussemburghese smilzo e slanciato, con i capelli brizzolati raccolti in parte da un codino, e con grandi occhiali da topo di biblioteca, trasmette senza parlare una certa aria di ascetismo mescolato a timidezza adolescenziale. È la sobrietà che ci possiamo attendere dall’ideologo della grande promessa elettorale dei verdi europei: il Green New Deal, ispirato alle grandi riforme che il nordamericano Franklin D.Roosevelt ha lanciato negli anni Trenta per uscire «dall’unica crisi che possiamo comparare con quella attuale». «La destra non ha mai rinnegato le emozioni. Il fatto è che si fonda su emozioni troppo primitive. Obama è un esempio di ciò che la sinistra deve fare in Europa: il suo discorso si basa anche sulle emozioni, come Roosevelt negli anni Trenta, che vinse due elezioni dando fiducia contro dei candidati di estrema destra, mentre l’Europa perdeva la sua battaglia contro il fascismo ed il nazismo». Sensibile allo sviluppo del mondo interiore di ogni persona, ha ben chiaro che il Green New Deal (Nuovo Patto verde) non può essere alimentato solamente da economia e fredda razionalità statistica. «Deve rappresentare un pilastro che promuova la crescita personale, come suonare il pianoforte, leggere o fare yoga», conclude Turmes.
La Corea del Sud e la Cina investono di più nel verde di Germania e Francia
En 2019 todas las nuevas construcciones deberán garantizar 0% de consumo de energía: una medida tomada por el parlamento tras años de presiones de Los Verdes | Imagen: Partido Verde EuropeoDai tempi di Roosevelt ad oggi, la classe media mondiale è passata da 300 milioni a 2 miliardi di individui. Questo fatto non solo esige un’entità di gran lunga maggiore per un piano di recupero mondiale, ma anche implica una pressione molto più incisiva da parte dei cittadini insoddisfatti. «Le energie ed i materiali rinnovabili devono essere il motore di questo piano di recupero», insiste, senza gran sorprese, Turmes, «poiché sono mercati locali che producono valore aggiunto e posti di lavoro laddove si investe». Contro coloro che annunciano che la bolla economica del futuro si sta creando oggi nel mercato delle energie rinnovabili, Turmes risponde che «sono necessari milioni di pannelli solari, milioni di mulini a vento e centinaia di impianti a biomassa». Non teme alcun surriscaldamento dell’economia in quanto «questi investimenti», riassume, «sono per l’economia reale». Anche se la crisi attuale ha avuto origine in America, l’Europa sta soffrendo di più. Nel primo trimestre del 2009, gli Stati Uniti hanno perso l’1,6% del proprio prodotto interno lordo, mentre l’Europa ha perso per la strada il 2,9%. Il piano di recupero di Obama è molto diverso da quello di Barroso in Europa, e molto più consistente. Tuttavia, quello che i verdi europei sottolineano è che, mentre la Corea del Sud impegna l’80% del proprio piano di recupero per la scommessa nelle tecnologie ed industrie verdi, e la Cina il 40%, Francia e Germania non superano il 15%. «Se continua così, l’Europa perderà la battaglia dell’economia mondiale, della rivoluzione verde, come ha già perso la battaglia delle tecnologie dell’informazione», avverte il nostro intervistato con molta calma. L’incognita è sapere come finanziare questa rivoluzione in piena contrazione del credito mondiale. Per questo, i Verdi propongono che la Banca europea degli investimenti destini 5mila milioni di euro del Piano Barroso in crediti per sviluppare il settore della eco-industria. «Dal momento in cui un mulino a vento inizia a funzionare, sta producendo e contribuendo ad una minore dipendenza dal gas russo».
Haga click aquí para consultar las acciones de los Verdes en la última legislatura | Imagen del Partido Verde EuropeoEd un’altra delle idee ricorrenti tra gli ecologisti europei è la ricerca dell’indipendenza dei settori: alimentare ed energetico. «Io non sono un isolazionista», previene Claude Turmes a modo di conclusione, «ma ogni anglo della Terra ha interesse ad essere sovrano dal punto di vista alimentare ed energetico per evitare i conflitti. Se c’è una guerra in Iraq è perché c’è il petrolio. La stessa cosa può accadere nel futuro con gli alimenti se continuiamo a considerarli come una mercanzia qualsiasi e permettiamo che si speculi sul prezzo del grano». Tutto questo eviterà all’Europa di dissanguarsi a forza di assegni destinati alla Russia o all’Arabia Saudita.
venerdì 29 maggio 2009
SégolèNe Royal: L'Europe
Pour les Etats-Unis d'Europe,agissons !
Chresamies, chers amis,
Les Etats-Unis dEurope, dont jaiappel la cration lorsdu meeting de Rez, constituent le grand desseinpolitique mobilisateur que lEurope attend.
Vous avez t trs nombreux,militants,internautes me faire part de votre enthousiasme pour cettebelle ide. Des ditorialistes, comme BernardGuetta sur France inter, sen sontgalement fait lcho.
Oui, je veux pour lEurope un objectif politique de hautniveau.Il nous faut raliser enfin le rve que VictorHugo formulait lors du Congrs international de la Paix deParis.
Cest le mandat que doivent recevoir aujourd'hui lesdputs europens soutenus par lespeuples :quils semparent du projet dEtats-UnisdEurope et quils lui donnent vie.
Je lai dit Rez :
Saisissez loccasion, ne la laissez pas passer,elle serahistorique. Ncoutez pas le moment venu ceux quivousdiraient que ce nest pas votre mandat. Lesdlgus des Etatsgnrauxnavaient pas reu non plus le mandat dedcrter les droits de lhomme.
Et pourtant ils lont fait. Et qui songerait leur reproche ?
Nhsitez pas faire rentrerlEurope dans lhistoire.
Appelez les parlements nationaux en renfort. Ils vous rejoindront.
Appelez les peuples en soutien, ils convergeront.
Des obstacles vous en aurez. Les forces de largent vousbarreront le chemin. Et si vous trbuchez, relevez-vous.Reprenez votre souffle pour continuer leffortjusqu la ligne darrive.
Ce jour l, enlevez vos couteurs etcoutez letumulte des places et des rues, la joie et la fte, unlangagequi se passe de traduction, le langage des peuples unis.
Ce jour l vous proclamerez les Etats-UnisdEurope.
Ou lEurope marche vers lunitpolitique, ou ellese disloquera dans les nationalismes. Et souvenons-nous deFranois Mitterrand : le nationalisme cest laguerre.
On ne veut pas de la guerre conomique de tous contre tous,o lhomme devient un loup pour lhomme.
Aloppos, nous les connaissons les cimentspolitiques desEtats Unis dEurope : justice sociale au service delefficacit conomique,dmocratieexemplaire, combat cologique, liberts.
Les socialistes se sont donns la mission delEurope unie, sociale et humaniste.
Cest aux socialistes, fidles leurpromesse, de prparer le grand destin politiquequi attendles peuples du continent et cest nous de lecommencerdans le futur parlement europen dabord.
Vous aurez, futurs dputs europens,mandats par les peuples impatients, une granderesponsabilit.
Nous vous regarderons, nous vous soutiendrons.
Concentrez-vous sur lessentiel, car force desacrifierlessentiel lurgent, on oublielurgence delessentiel.
Rendez-vous le 7 juin, cest urgent, cestessentiel !
Que pas une voix ne manque.
Nous sommes la troisime gnration fairelEurope. Avant nous, il y a eu celle des Presfondateurs, qui ont construit lEurope aprs leshorreursde la guerre. Il y a eu aussi la gnration qui,aprs la chute du mur de Berlin, arunifi lecontinent. A nous daller plus loin aujourdhuidanslunit, avec les peuples et pour eux.
Cest pourquoi je vous invite faire vivre ledbat en ouvrant des Forum partout sur vos territoires et enfaisant signer des ptitions de soutien aux Etats-UnisdEurope, pour que le mouvement que jappelle demesvux fasse son chemin.
LEurope a besoin de nous. Alors pour les Etats-UnisdEurope, agissons !
Amitis,
Sgolne Royal
Chresamies, chers amis,
Les Etats-Unis dEurope, dont jaiappel la cration lorsdu meeting de Rez, constituent le grand desseinpolitique mobilisateur que lEurope attend.
Vous avez t trs nombreux,militants,internautes me faire part de votre enthousiasme pour cettebelle ide. Des ditorialistes, comme BernardGuetta sur France inter, sen sontgalement fait lcho.
Oui, je veux pour lEurope un objectif politique de hautniveau.Il nous faut raliser enfin le rve que VictorHugo formulait lors du Congrs international de la Paix deParis.
Cest le mandat que doivent recevoir aujourd'hui lesdputs europens soutenus par lespeuples :quils semparent du projet dEtats-UnisdEurope et quils lui donnent vie.
Je lai dit Rez :
Saisissez loccasion, ne la laissez pas passer,elle serahistorique. Ncoutez pas le moment venu ceux quivousdiraient que ce nest pas votre mandat. Lesdlgus des Etatsgnrauxnavaient pas reu non plus le mandat dedcrter les droits de lhomme.
Et pourtant ils lont fait. Et qui songerait leur reproche ?
Nhsitez pas faire rentrerlEurope dans lhistoire.
Appelez les parlements nationaux en renfort. Ils vous rejoindront.
Appelez les peuples en soutien, ils convergeront.
Des obstacles vous en aurez. Les forces de largent vousbarreront le chemin. Et si vous trbuchez, relevez-vous.Reprenez votre souffle pour continuer leffortjusqu la ligne darrive.
Ce jour l, enlevez vos couteurs etcoutez letumulte des places et des rues, la joie et la fte, unlangagequi se passe de traduction, le langage des peuples unis.
Ce jour l vous proclamerez les Etats-UnisdEurope.
Ou lEurope marche vers lunitpolitique, ou ellese disloquera dans les nationalismes. Et souvenons-nous deFranois Mitterrand : le nationalisme cest laguerre.
On ne veut pas de la guerre conomique de tous contre tous,o lhomme devient un loup pour lhomme.
Aloppos, nous les connaissons les cimentspolitiques desEtats Unis dEurope : justice sociale au service delefficacit conomique,dmocratieexemplaire, combat cologique, liberts.
Les socialistes se sont donns la mission delEurope unie, sociale et humaniste.
Cest aux socialistes, fidles leurpromesse, de prparer le grand destin politiquequi attendles peuples du continent et cest nous de lecommencerdans le futur parlement europen dabord.
Vous aurez, futurs dputs europens,mandats par les peuples impatients, une granderesponsabilit.
Nous vous regarderons, nous vous soutiendrons.
Concentrez-vous sur lessentiel, car force desacrifierlessentiel lurgent, on oublielurgence delessentiel.
Rendez-vous le 7 juin, cest urgent, cestessentiel !
Que pas une voix ne manque.
Nous sommes la troisime gnration fairelEurope. Avant nous, il y a eu celle des Presfondateurs, qui ont construit lEurope aprs leshorreursde la guerre. Il y a eu aussi la gnration qui,aprs la chute du mur de Berlin, arunifi lecontinent. A nous daller plus loin aujourdhuidanslunit, avec les peuples et pour eux.
Cest pourquoi je vous invite faire vivre ledbat en ouvrant des Forum partout sur vos territoires et enfaisant signer des ptitions de soutien aux Etats-UnisdEurope, pour que le mouvement que jappelle demesvux fasse son chemin.
LEurope a besoin de nous. Alors pour les Etats-UnisdEurope, agissons !
Amitis,
Sgolne Royal
Vittorio Melandri: Affari suoi...
Gli affari suoi ..... richiamati all’attenzione di chi li conosce bene.
I direttori di Corriere, Repubblica, Unità e manifesto
So bene di essere un cittadino che non conta un “cazzo”, non è per megalomania che ho inviato a quattro testate le inutili righe che seguono, è solo per “disperazione”, dinnanzi appunto al muro di gomma di cui mi sento circondato da ogni lato; spero di essere perdonato da chi mi legge e sono sicuro che i direttori chiamati in causa, se mai a loro volta leggeranno, spenderanno la loro “sufficienza” nei miei confronti, penso che non gliene manchi in dosi sufficienti.
Il Ministro alle pari opportunità Mara Carfagna, scrive al direttore del Corriere della Sera per magnificare le “doti …autentiche” di un Silvio Berlusconi “uomo leale, perbene e rispettoso … persona di garbo e gentilezza”, e indica con felicissima definizione come “affari suoi”, “il resto, tutto il resto”, che appartiene alla mirabile persona di cui sopra.
Una volta spesa una così impegnativa affermazione, fra “il resto, tutto il resto” non si può impedire ad alcuno di comprendere anche gli “affari suoi” che Giuseppe “Peppino” Fiori, sin dal 1995, ha descritto nel libro “Il venditore”.
All’epoca l’On. Ministro Carfagna aveva già vent’anni, ma non mi riesce di fargliene una colpa se non lo ha mai letto.
Penso invece e ancora con mesto quanto ingenuo raccapriccio, che ancora un anno dopo, il Parlamento uscito dalle elezioni che arrisero vincenti all’Ulivo, non seppe fare di quel libro nessun uso e anticipando di quasi tre lustri la “fermezza” del Ministro Carfagna, confermò all’unanimità, con le delibere della Giunta delle elezioni della Camera in cui era maggioranza, quanto precedentemente deciso, mercoledì 20 luglio 1994, dalla Giunta per le elezioni della Camera in cui era invece maggioranza il centrodestra, e cioè che era giusto archiviare per infondatezza i ricorsi e gli esposti presentati avverso l’eleggibilità del deputato Berlusconi.
Paolo Sylos Labini ed altri galantuomini sbatterono, con le loro denuncie degli “affari suoi”, contro un vero e proprio “muro di gomma”, e all’attuale Giunta presieduta dal 22 maggio 2008 dall’On. Maurizio Migliavacca, a suo tempo sherpa-fondatore del PD, si è pensato bene di non presentare nemmeno più un ricorso in merito.
Oggi che il Ministro delle pari opportunità, con una “grandine di parole”, per usare l’efficacissima proposizione di Michele Ainis, racchiude gli “affari suoi” in una specie di “tabernacolo”, di cui pochi sacerdoti addetti alla sua persona detengono le chiavi, sarebbe bene che da parte delle opposizioni almeno ci venisse risparmiato qualsiasi (oggi sempre più) ipocrita riferimento all’opacità delle sorgenti da cui sono zampillate le fortune del Cavaliere senza macchia che governa l’Italia.
Vittorio Melandri
I direttori di Corriere, Repubblica, Unità e manifesto
So bene di essere un cittadino che non conta un “cazzo”, non è per megalomania che ho inviato a quattro testate le inutili righe che seguono, è solo per “disperazione”, dinnanzi appunto al muro di gomma di cui mi sento circondato da ogni lato; spero di essere perdonato da chi mi legge e sono sicuro che i direttori chiamati in causa, se mai a loro volta leggeranno, spenderanno la loro “sufficienza” nei miei confronti, penso che non gliene manchi in dosi sufficienti.
Il Ministro alle pari opportunità Mara Carfagna, scrive al direttore del Corriere della Sera per magnificare le “doti …autentiche” di un Silvio Berlusconi “uomo leale, perbene e rispettoso … persona di garbo e gentilezza”, e indica con felicissima definizione come “affari suoi”, “il resto, tutto il resto”, che appartiene alla mirabile persona di cui sopra.
Una volta spesa una così impegnativa affermazione, fra “il resto, tutto il resto” non si può impedire ad alcuno di comprendere anche gli “affari suoi” che Giuseppe “Peppino” Fiori, sin dal 1995, ha descritto nel libro “Il venditore”.
All’epoca l’On. Ministro Carfagna aveva già vent’anni, ma non mi riesce di fargliene una colpa se non lo ha mai letto.
Penso invece e ancora con mesto quanto ingenuo raccapriccio, che ancora un anno dopo, il Parlamento uscito dalle elezioni che arrisero vincenti all’Ulivo, non seppe fare di quel libro nessun uso e anticipando di quasi tre lustri la “fermezza” del Ministro Carfagna, confermò all’unanimità, con le delibere della Giunta delle elezioni della Camera in cui era maggioranza, quanto precedentemente deciso, mercoledì 20 luglio 1994, dalla Giunta per le elezioni della Camera in cui era invece maggioranza il centrodestra, e cioè che era giusto archiviare per infondatezza i ricorsi e gli esposti presentati avverso l’eleggibilità del deputato Berlusconi.
Paolo Sylos Labini ed altri galantuomini sbatterono, con le loro denuncie degli “affari suoi”, contro un vero e proprio “muro di gomma”, e all’attuale Giunta presieduta dal 22 maggio 2008 dall’On. Maurizio Migliavacca, a suo tempo sherpa-fondatore del PD, si è pensato bene di non presentare nemmeno più un ricorso in merito.
Oggi che il Ministro delle pari opportunità, con una “grandine di parole”, per usare l’efficacissima proposizione di Michele Ainis, racchiude gli “affari suoi” in una specie di “tabernacolo”, di cui pochi sacerdoti addetti alla sua persona detengono le chiavi, sarebbe bene che da parte delle opposizioni almeno ci venisse risparmiato qualsiasi (oggi sempre più) ipocrita riferimento all’opacità delle sorgenti da cui sono zampillate le fortune del Cavaliere senza macchia che governa l’Italia.
Vittorio Melandri
giovedì 28 maggio 2009
Una lettera di Rino Formica
Lettera ai socialisti di Rino Formica
Care Compagne e Cari Compagni socialisti,
la diaspora socialista sta per finire.
Le nostre idee hanno segnato i tempi della modernizzazione italiana nel ‘900.
La drammatica interruzione degli ultimi 15 anni si va concludendo con un disastro morale e materiale per tutti i nostri storici avversari che hanno approfittato della nostra crisi per sgovernare l’Italia.
Oggi il nostro primo obiettivo è sfondare il muro del silenzio e dell’oblio che è stato costruito intorno a noi.
Il quorum del 4% deve essere superato per battere l’arrogante protervia del Pdl e l’autolesionismo miope del Pd.
La alleanza elettorale Sinistra e Libertà è imperfetta perché l’urgenza non ha favorito un’ampia convergenza ideale.
Resta la esigenza di fare fronte all’emergenza democratica.
Questa in Sinistra e Libertà è piena e convinta.
La democrazia o è plurale o non è.
I socialisti devono verificare nell’urna l’effettivo superamento della diaspora.
C’è una disseminazione culturale socialista a destra e a sinistra e ciò sarà utile per il domani.
Ma oggi i socialisti dispersi devono evitare che la disseminazione diventi una disperata dissipazione.
Il 6-7 giugno dobbiamo ricomporre la famiglia socialista nelle urne con Sinistra e Libertà.
Dopo avremo la forza di base per tirare l’Italia fuori dalla palude in cui è caduta.
Con animo fraterno e con rinnovata fiducia nel socialismo, che non è stato piegato dagli eventi e da una vittoria provvisoria dei suoi avversari, Vi invito a votare e far votare Sinistra e Libertà.
Rino Formica
Care Compagne e Cari Compagni socialisti,
la diaspora socialista sta per finire.
Le nostre idee hanno segnato i tempi della modernizzazione italiana nel ‘900.
La drammatica interruzione degli ultimi 15 anni si va concludendo con un disastro morale e materiale per tutti i nostri storici avversari che hanno approfittato della nostra crisi per sgovernare l’Italia.
Oggi il nostro primo obiettivo è sfondare il muro del silenzio e dell’oblio che è stato costruito intorno a noi.
Il quorum del 4% deve essere superato per battere l’arrogante protervia del Pdl e l’autolesionismo miope del Pd.
La alleanza elettorale Sinistra e Libertà è imperfetta perché l’urgenza non ha favorito un’ampia convergenza ideale.
Resta la esigenza di fare fronte all’emergenza democratica.
Questa in Sinistra e Libertà è piena e convinta.
La democrazia o è plurale o non è.
I socialisti devono verificare nell’urna l’effettivo superamento della diaspora.
C’è una disseminazione culturale socialista a destra e a sinistra e ciò sarà utile per il domani.
Ma oggi i socialisti dispersi devono evitare che la disseminazione diventi una disperata dissipazione.
Il 6-7 giugno dobbiamo ricomporre la famiglia socialista nelle urne con Sinistra e Libertà.
Dopo avremo la forza di base per tirare l’Italia fuori dalla palude in cui è caduta.
Con animo fraterno e con rinnovata fiducia nel socialismo, che non è stato piegato dagli eventi e da una vittoria provvisoria dei suoi avversari, Vi invito a votare e far votare Sinistra e Libertà.
Rino Formica
Michele Ainis: La sicurezza, grandine di parole
La Stampa
28/5/2009
La sicurezza grandine di parole
MICHELE AINIS
Passi per il lodo Alfano, o lodo Mills, lodatelo un po’ come vi pare. Dopotutto, pazienza se 4 italiani su 60 milioni vengono posti dalla legge al di sopra della legge, se possono al limite stuprare le vecchiette, con un salvacondotto stampato a caratteri di piombo sulla Gazzetta Ufficiale. Però, a noialtri rei e reietti, qualche grammo di coerenza renderebbe più lieve la giornata. Se l’indulgenza è il nuovo indirizzo di governo, che almeno sia plenaria, Urbi et Orbi.
E invece no, due pesi e due misure. Negli stessi giorni in cui il tribunale di Milano sparava a salve contro il premier, Brunetta bastonava con 5 anni di galera i medici che rilasciano false attestazioni ai dipendenti, e gli stessi dipendenti se si fanno timbrare il cartellino da un collega. Ossia se scimmiottano i pianisti, nome di battaglia di quei parlamentari che votano in luogo del compagno di partito assente, magari perché questo è in missione, così la diaria entra in busta paga. La settimana scorsa erano 47 i missionari della Camera, i pianisti al Senato chissà quanti, tanto non rischiano la galera, al massimo un rimbrotto. Sempre la Camera ha appena inasprito le pene detentive (fino a 3 anni) per il gioco online senza autorizzazione. E soprattutto ha licenziato il decreto sulla sicurezza, un diluvio di 29.150 parole scagliate come pietre sulla testa del popolo italiano.
Ecco, le parole. Poiché il diritto è intessuto di parole - diceva Adolf Merkl - la lingua rappresenta un po’ il portone attraverso cui la legge penetra le nostre esistenze collettive. E che lingua parla la nuova legge? Proviamo a farne un’analisi testuale. Il termine «pena» vi ricorre 44 volte, quasi sempre in compagnia di locuzioni come «la pena è aumentata», o altrimenti raddoppiata, triplicata. In altri 26 casi si contemplano «sanzioni», ora amministrative ora pecuniarie (vietate però quelle corporali). La parola «reclusione» rimbalza per 36 volte su e giù lungo quel testo. Le «aggravanti» vengono citate 9 volte, le «attenuanti» 4 (ma per escluderle). Per 5 volte risuonano «misure di sicurezza» del più vario conio. Infine tracima un lago di «delitti» (34) e di «reati» (89), come se non ne avessimo già abbastanza sul groppone.
Già, ma quante sono le fattispecie di reato sulle quali ogni italiano può inciampare? Qualche anno fa gli addetti ai lavori azzardavano una stima: 35 mila. Roba da stacanovisti del crimine: se dedichi un’ora a ciascun tipo di reato, ci metterai 4 anni prima di completare il giro. Eppure questa stima non è mai stata confutata, forse perché viziata per difetto. D’altronde il solo governo Berlusconi, nel primo anno della legislatura, è intervenuto 90 volte sul sistema penale. A propria volta i sindaci, con la benedizione del governo, hanno cucinato quasi 700 ordinanze per servirci un fritto misto di divieti. E tuttavia non basta, non basta mai. Il decreto sulla sicurezza menziona per 81 volte il codice penale, per 33 volte quello di procedura penale. Trasforma il disagio sociale in una questione d’ordine (non per nulla parla di «ordine» in 23 casi), istituendo per esempio il registro dei barboni presso il ministero dell’Interno. Infine dà libero sfogo alla fantasia punitiva dei signori della legge, introducendo - per fare un altro esempio - l’aggravante notturna per chi guida in stato d’ubriachezza dopo l’ora del tramonto. Domani sarà la volta dell’aggravante festiva per chi parcheggia in doppia fila di domenica, dell’aggravante anagrafica per chi sorpassa in curva sotto i quarant’anni. Anzi no, quella esiste già: l’ennesima invenzione del decreto-sicurezza.
Per ripararci dalla grandine, potremmo fare affidamento sulla proverbiale inefficienza dei controlli. Dopotutto questo rimane il Paese del «severamente vietato», dove però gli automobilisti hanno lo 0,1% di possibilità d’incontrare una volante, dove le verifiche sugli intermediari finanziari toccano lo 0,3% della categoria, dove chi affitta casa riceve la visita del Fisco nello 0,14% dei casi. Magra consolazione, tuttavia; anche perché la salvezza dipende unicamente dal capriccio della sorte. Chi invece si salva di sicuro sono i parlamentari. Hanno trasformato l’insindacabilità per le opinioni espresse nella licenza d’ingiuriare il prossimo: la Camera stoppa i giudici 92 volte su 100, il Senato 95 su 100. Ed è questo doppio registro, questa schizofrenia legislativa, il più incommestibile boccone. Speriamo che ci salvi uno psichiatra.
28/5/2009
La sicurezza grandine di parole
MICHELE AINIS
Passi per il lodo Alfano, o lodo Mills, lodatelo un po’ come vi pare. Dopotutto, pazienza se 4 italiani su 60 milioni vengono posti dalla legge al di sopra della legge, se possono al limite stuprare le vecchiette, con un salvacondotto stampato a caratteri di piombo sulla Gazzetta Ufficiale. Però, a noialtri rei e reietti, qualche grammo di coerenza renderebbe più lieve la giornata. Se l’indulgenza è il nuovo indirizzo di governo, che almeno sia plenaria, Urbi et Orbi.
E invece no, due pesi e due misure. Negli stessi giorni in cui il tribunale di Milano sparava a salve contro il premier, Brunetta bastonava con 5 anni di galera i medici che rilasciano false attestazioni ai dipendenti, e gli stessi dipendenti se si fanno timbrare il cartellino da un collega. Ossia se scimmiottano i pianisti, nome di battaglia di quei parlamentari che votano in luogo del compagno di partito assente, magari perché questo è in missione, così la diaria entra in busta paga. La settimana scorsa erano 47 i missionari della Camera, i pianisti al Senato chissà quanti, tanto non rischiano la galera, al massimo un rimbrotto. Sempre la Camera ha appena inasprito le pene detentive (fino a 3 anni) per il gioco online senza autorizzazione. E soprattutto ha licenziato il decreto sulla sicurezza, un diluvio di 29.150 parole scagliate come pietre sulla testa del popolo italiano.
Ecco, le parole. Poiché il diritto è intessuto di parole - diceva Adolf Merkl - la lingua rappresenta un po’ il portone attraverso cui la legge penetra le nostre esistenze collettive. E che lingua parla la nuova legge? Proviamo a farne un’analisi testuale. Il termine «pena» vi ricorre 44 volte, quasi sempre in compagnia di locuzioni come «la pena è aumentata», o altrimenti raddoppiata, triplicata. In altri 26 casi si contemplano «sanzioni», ora amministrative ora pecuniarie (vietate però quelle corporali). La parola «reclusione» rimbalza per 36 volte su e giù lungo quel testo. Le «aggravanti» vengono citate 9 volte, le «attenuanti» 4 (ma per escluderle). Per 5 volte risuonano «misure di sicurezza» del più vario conio. Infine tracima un lago di «delitti» (34) e di «reati» (89), come se non ne avessimo già abbastanza sul groppone.
Già, ma quante sono le fattispecie di reato sulle quali ogni italiano può inciampare? Qualche anno fa gli addetti ai lavori azzardavano una stima: 35 mila. Roba da stacanovisti del crimine: se dedichi un’ora a ciascun tipo di reato, ci metterai 4 anni prima di completare il giro. Eppure questa stima non è mai stata confutata, forse perché viziata per difetto. D’altronde il solo governo Berlusconi, nel primo anno della legislatura, è intervenuto 90 volte sul sistema penale. A propria volta i sindaci, con la benedizione del governo, hanno cucinato quasi 700 ordinanze per servirci un fritto misto di divieti. E tuttavia non basta, non basta mai. Il decreto sulla sicurezza menziona per 81 volte il codice penale, per 33 volte quello di procedura penale. Trasforma il disagio sociale in una questione d’ordine (non per nulla parla di «ordine» in 23 casi), istituendo per esempio il registro dei barboni presso il ministero dell’Interno. Infine dà libero sfogo alla fantasia punitiva dei signori della legge, introducendo - per fare un altro esempio - l’aggravante notturna per chi guida in stato d’ubriachezza dopo l’ora del tramonto. Domani sarà la volta dell’aggravante festiva per chi parcheggia in doppia fila di domenica, dell’aggravante anagrafica per chi sorpassa in curva sotto i quarant’anni. Anzi no, quella esiste già: l’ennesima invenzione del decreto-sicurezza.
Per ripararci dalla grandine, potremmo fare affidamento sulla proverbiale inefficienza dei controlli. Dopotutto questo rimane il Paese del «severamente vietato», dove però gli automobilisti hanno lo 0,1% di possibilità d’incontrare una volante, dove le verifiche sugli intermediari finanziari toccano lo 0,3% della categoria, dove chi affitta casa riceve la visita del Fisco nello 0,14% dei casi. Magra consolazione, tuttavia; anche perché la salvezza dipende unicamente dal capriccio della sorte. Chi invece si salva di sicuro sono i parlamentari. Hanno trasformato l’insindacabilità per le opinioni espresse nella licenza d’ingiuriare il prossimo: la Camera stoppa i giudici 92 volte su 100, il Senato 95 su 100. Ed è questo doppio registro, questa schizofrenia legislativa, il più incommestibile boccone. Speriamo che ci salvi uno psichiatra.
mercoledì 27 maggio 2009
Segnalazione: 5 giugno, diritto, bioetica, laicità
POLITEIA
Centro per la ricerca
e la formazione in politica ed etica
Con il patrocinio di
Tavola rotonda
Diritto, Bioetica, Laicità
Milano, 5 giugno 2009 − ore 16.00-19.00
Palazzo Greppi, Sala Napoleonica, via Sant’Antonio, 12
In occasione della pubblicazione del volume di Patrizia Borsellino,
Bioetica tra “morali” e diritto, Cortina Editore 2009
Presiede: Emilio D’Orazio (Centro Studi Politeia)
Intervengono: Vittorio Angiolini (Università degli Studi di Milano)
Domenico Pulitanò (Università di Milano Bicocca)
Eugenio Lecaldano (Università di Roma “La Sapienza”)
Massimo Reichlin (Università Vita Salute San Raffaele, Milano)
Giovanni Fornero (Storico della Filosofia)
Claudio Luzzati (Università degli Studi di Milano)
Discussione
Sarà presente l’Autore
La partecipazione è libera
Per informazioni: Politeia (www.politeia-centrostudi.org) Tel.: 02 58313988; Fax: 02 58314072;
e-mail: politeia@fildir.unimi.it
Centro per la ricerca
e la formazione in politica ed etica
Con il patrocinio di
Tavola rotonda
Diritto, Bioetica, Laicità
Milano, 5 giugno 2009 − ore 16.00-19.00
Palazzo Greppi, Sala Napoleonica, via Sant’Antonio, 12
In occasione della pubblicazione del volume di Patrizia Borsellino,
Bioetica tra “morali” e diritto, Cortina Editore 2009
Presiede: Emilio D’Orazio (Centro Studi Politeia)
Intervengono: Vittorio Angiolini (Università degli Studi di Milano)
Domenico Pulitanò (Università di Milano Bicocca)
Eugenio Lecaldano (Università di Roma “La Sapienza”)
Massimo Reichlin (Università Vita Salute San Raffaele, Milano)
Giovanni Fornero (Storico della Filosofia)
Claudio Luzzati (Università degli Studi di Milano)
Discussione
Sarà presente l’Autore
La partecipazione è libera
Per informazioni: Politeia (www.politeia-centrostudi.org) Tel.: 02 58313988; Fax: 02 58314072;
e-mail: politeia@fildir.unimi.it
segnalazione: 9 giugno, casa della cultura, il riformismo e il suo rovescio
martedì 9 giugno ore 18.00
FrancoAngeli e Casa della Cultura
Presentazione del libro:
IL RIFORMISMO E IL SUO ROVESCIO. Saggio di politica e storia
di PAOLO FAVILLI (FrancoAngeli).
Intervengono: ANDREA MARGHERI, MASSIMO SALVADORI, MICHELE SALVATI. Sarà presente l’autore.
FrancoAngeli e Casa della Cultura
Presentazione del libro:
IL RIFORMISMO E IL SUO ROVESCIO. Saggio di politica e storia
di PAOLO FAVILLI (FrancoAngeli).
Intervengono: ANDREA MARGHERI, MASSIMO SALVADORI, MICHELE SALVATI. Sarà presente l’autore.
Emanuele Macaluso: La lega del sud e il sonno della sinistra
Da La Stampa
27/5/2009
La lega del Sud
e il sonno della Sinistra
EMANUELE MACALUSO
Commentando l’iniziativa del presidente della Regione siciliana, Lombardo, di licenziare gli assessori per mettere in piedi un altro governo, alcuni giornali hanno parlato di «milazzismo». Il richiamo è dovuto al fatto che il «nuovo» governo non farebbe più riferimento alla larga maggioranza che sino a ieri ha sostenuto Lombardo (Mpa, Pdl, Udc), ma a un sostegno assembleare, senza riferimenti ai partiti. E il governo non sarebbe più costituito da una coalizione di partiti. Ma l’accostamento tra quel che vediamo oggi e la «rivolta» milazziana è improprio, se c’è una continuità va ricercata nella piaga del trasformismo tradizionale che oggi però tocca punte inimmaginabili. L’operazione Milazzo maturò nel 1958 dopo una lunga battaglia sui temi dello sviluppo, dell’industrializzazione e dell’autonomia, condotta da una forte opposizione della sinistra (Pci e Psi) unita e dal sindacato, che incideva anche nel mondo influenzato dalla Dc. Non fu un caso che parte rilevante di quel movimento che scosse la Sicilia l’ebbe la Sicindustria, diretta dall’ing. La Cavera, che si contrappose alla politica nordista della Confindustria sino alla rottura: La Cavera fu espulso dalla presidenza nazionale degli industriali. La Dc si spaccò e Silvio Milazzo, vecchio popolare sturziano eletto dall’Assemblea regionale siciliana in contrapposizione al candidato ufficiale del partito sostenuto da Fanfani, formò un governo «anomalo»: composto da dc scissionisti (che diedero vita a un partito autonomista) con la partecipazione di socialisti, un indipendente eletto dal Pci e di uomini della destra, appoggiato dall’esterno dal Pci. Una coalizione che fu sostenuta da un forte movimento di massa.
Nel 1959 si svolsero le elezioni regionali e la Dc, per tornare al governo, stipulò un «patto anticomunista» con la destra, ma Milazzo col suo partito ottenne un grande successo, fece un nuovo governo «monocolore» sostenuto solo dalla sinistra. Resse meno di un anno: il governo centrale e i poteri forti si mobilitarono e acquisirono per conto della destra siciliana alcuni assessori di Milazzo. Sarebbe lungo scrivere sulle cause più profonde di quella crisi che maturò mentre a Roma incubava il centrosinistra di cui il Psi sarebbe stato una componente fondamentale. Mi preme sottolineare la diversità su cui oggi matura la crisi in Sicilia. Non c’è più un forte movimento di massa paragonabile a quello che si manifestò a fine Anni 50. Oggi la crisi sembra maturare essenzialmente come contraddizione all’interno della maggioranza. Le cronache raccontano la guerriglia di potere scatenata all’interno del partito berlusconiano, la rottura tra il vecchio presidente della Regione, Cuffaro, e il nuovo, Lombardo, che ha sradicato un sistema di potere per costruirne un altro. Lo scontro tocca anche i vertici romani dato che il Pdl in Sicilia è governato dal presidente del Senato Schifani e dal ministro della Giustizia Alfano, attraverso un «coordinatore», Giuseppe Castiglione, definito «un farabutto» dal sottosegretario Miccichè, tutti uomini del Cavaliere.
Ma attenzione. La crisi ha anche un risvolto politico e sarebbe sbagliato non vederlo. Il «sicilianista» Lombardo aveva stretto un patto con Berlusconi (per la «rinascita» dell’Isola) e si ritrova a contrastare il governo più nordista che l’Italia abbia mai avuto. È l’accusa che l’on. Adriana Poli Bortone dalla Puglia ha fatto, motivando il suo distacco da An e dal Pdl e promuovendo un movimento per il Sud. L’intreccio tra motivazioni politiche e di potere è spesso stretto, ma occorre leggerne i caratteri. Oggi sembra che sia la debolezza dell’opposizione a sollecitare una lotta politica e di potere nel partito berlusconiano. Annibale non è alle porte e le guerriglie sono all’ordine del giorno. Tuttavia, questo panorama segnala un appannamento del ruolo di Berlusconi. Il quale è in difficoltà non solo per il «caso Noemi» ma per un certo mutamento del clima politico. La crisi economica si fa sempre più stringente. E le difficoltà politiche più serie possono venire dall’ulteriore emarginazione del Sud, dal riproporsi in termini nuovi di una questione meridionale, mentre si discute solo di una «questione settentrionale» nei termini imposti dalla Lega. La risposta, però, non può essere la Lega del Sud a cui forse pensano Lombardo e altri. Ma se la sinistra non si sveglia, in questo Paese, oggi tutto è possibile.
27/5/2009
La lega del Sud
e il sonno della Sinistra
EMANUELE MACALUSO
Commentando l’iniziativa del presidente della Regione siciliana, Lombardo, di licenziare gli assessori per mettere in piedi un altro governo, alcuni giornali hanno parlato di «milazzismo». Il richiamo è dovuto al fatto che il «nuovo» governo non farebbe più riferimento alla larga maggioranza che sino a ieri ha sostenuto Lombardo (Mpa, Pdl, Udc), ma a un sostegno assembleare, senza riferimenti ai partiti. E il governo non sarebbe più costituito da una coalizione di partiti. Ma l’accostamento tra quel che vediamo oggi e la «rivolta» milazziana è improprio, se c’è una continuità va ricercata nella piaga del trasformismo tradizionale che oggi però tocca punte inimmaginabili. L’operazione Milazzo maturò nel 1958 dopo una lunga battaglia sui temi dello sviluppo, dell’industrializzazione e dell’autonomia, condotta da una forte opposizione della sinistra (Pci e Psi) unita e dal sindacato, che incideva anche nel mondo influenzato dalla Dc. Non fu un caso che parte rilevante di quel movimento che scosse la Sicilia l’ebbe la Sicindustria, diretta dall’ing. La Cavera, che si contrappose alla politica nordista della Confindustria sino alla rottura: La Cavera fu espulso dalla presidenza nazionale degli industriali. La Dc si spaccò e Silvio Milazzo, vecchio popolare sturziano eletto dall’Assemblea regionale siciliana in contrapposizione al candidato ufficiale del partito sostenuto da Fanfani, formò un governo «anomalo»: composto da dc scissionisti (che diedero vita a un partito autonomista) con la partecipazione di socialisti, un indipendente eletto dal Pci e di uomini della destra, appoggiato dall’esterno dal Pci. Una coalizione che fu sostenuta da un forte movimento di massa.
Nel 1959 si svolsero le elezioni regionali e la Dc, per tornare al governo, stipulò un «patto anticomunista» con la destra, ma Milazzo col suo partito ottenne un grande successo, fece un nuovo governo «monocolore» sostenuto solo dalla sinistra. Resse meno di un anno: il governo centrale e i poteri forti si mobilitarono e acquisirono per conto della destra siciliana alcuni assessori di Milazzo. Sarebbe lungo scrivere sulle cause più profonde di quella crisi che maturò mentre a Roma incubava il centrosinistra di cui il Psi sarebbe stato una componente fondamentale. Mi preme sottolineare la diversità su cui oggi matura la crisi in Sicilia. Non c’è più un forte movimento di massa paragonabile a quello che si manifestò a fine Anni 50. Oggi la crisi sembra maturare essenzialmente come contraddizione all’interno della maggioranza. Le cronache raccontano la guerriglia di potere scatenata all’interno del partito berlusconiano, la rottura tra il vecchio presidente della Regione, Cuffaro, e il nuovo, Lombardo, che ha sradicato un sistema di potere per costruirne un altro. Lo scontro tocca anche i vertici romani dato che il Pdl in Sicilia è governato dal presidente del Senato Schifani e dal ministro della Giustizia Alfano, attraverso un «coordinatore», Giuseppe Castiglione, definito «un farabutto» dal sottosegretario Miccichè, tutti uomini del Cavaliere.
Ma attenzione. La crisi ha anche un risvolto politico e sarebbe sbagliato non vederlo. Il «sicilianista» Lombardo aveva stretto un patto con Berlusconi (per la «rinascita» dell’Isola) e si ritrova a contrastare il governo più nordista che l’Italia abbia mai avuto. È l’accusa che l’on. Adriana Poli Bortone dalla Puglia ha fatto, motivando il suo distacco da An e dal Pdl e promuovendo un movimento per il Sud. L’intreccio tra motivazioni politiche e di potere è spesso stretto, ma occorre leggerne i caratteri. Oggi sembra che sia la debolezza dell’opposizione a sollecitare una lotta politica e di potere nel partito berlusconiano. Annibale non è alle porte e le guerriglie sono all’ordine del giorno. Tuttavia, questo panorama segnala un appannamento del ruolo di Berlusconi. Il quale è in difficoltà non solo per il «caso Noemi» ma per un certo mutamento del clima politico. La crisi economica si fa sempre più stringente. E le difficoltà politiche più serie possono venire dall’ulteriore emarginazione del Sud, dal riproporsi in termini nuovi di una questione meridionale, mentre si discute solo di una «questione settentrionale» nei termini imposti dalla Lega. La risposta, però, non può essere la Lega del Sud a cui forse pensano Lombardo e altri. Ma se la sinistra non si sveglia, in questo Paese, oggi tutto è possibile.
martedì 26 maggio 2009
Stefano Rodotà: La menzogna in politica e il diritto alla verità
> Società e politica > I giornali del giorno > Articoli del 2009
La menzogna in politica e il diritto alla verità
Data di pubblicazione: 26.05.2009
Autore: Rodotà, Stefano
“Contro la menzogna bisogna lottare non solo per la sua intrinseca immoralità, ma per i suoi effetti distruttivi dello spazio della politica”. La Repubblica, 26 maggio 2009
Mai come in questi tempi spazio pubblico e spazio privato si sono così intensamente mescolati fin quasi a rendere indistinguibili i loro confini. Addirittura lo spazio privato sembra svanire nell´era di Facebook e di YouTube, delle infinite e continue tracce elettroniche, dell´impietosa radiografia mediatica d´ogni mossa, contatto, preferenza. Dobbiamo accettare la brutale semplificazione di chi ha affermato "la privacy è finita. Rassegnatevi"? O dobbiamo ridisegnarne i confini senza perdere i benefici della trasparenza che, soprattutto nella sfera della politica, le nuove tecnologie rendono possibili? La politica, appunto. Nel nuovissimo panorama tornano, intatte e ancor più ineludibili, antiche questioni. Quali sono i doveri dell´uomo pubblico? Quale dev´essere la sua moralità? Possono convivere vizi privati e pubbliche virtù? Può il politico coltivare la pretesa di stabilire egli stesso fin dove può giungere lo sguardo dei cittadini? E soprattutto: qual è il rapporto tra verità e politica nel tempo della comunicazione globale?
«La menzogna ci è familiare fin dagli albori della storia scritta. L´abitudine a dire la verità non è mai stata annoverata tra le virtù politiche e le menzogne sono state sempre considerate giustificabili negli affari politici». Così Hanna Arendt, che tuttavia in questa lunga abitudine non vedeva un dato da accettare in nome di un troppo facile realismo politico. Al contrario, contro la menzogna bisogna lottare non solo per la sua intrinseca immoralità, ma per i suoi effetti distruttivi proprio dello spazio della politica. Dove esiste un establishment, un ceto politico consapevole della necessità di mantenere la propria legittimità nei confronti dei cittadini, la pubblica menzogna sui propri fatti privati porta all´espulsione del mentitore. John Profumo è costretto a dimettersi perché ha mentito alla Camera dei Comuni sulla sua relazione con Christine Keeler. Gary Hart è costretto ad abbandonare la vita politica e le sue ambizioni di candidato alla presidenza degli Stati Uniti per aver sfidato la stampa sull´esistenza di sue relazioni sessuali, che i giornalisti, facendo bene il loro mestiere, impietosamente scoprono. Non un sussulto moralistico, ma l´affidabilità stessa del politico rende inammissibile la menzogna.
Questo significa che parlare del rapporto tra menzogna e politica esige distinzioni. Vi è la menzogna in nome della salute della Repubblica, quella su vicende private del politico, quella che vuol salvaguardare uno spazio di intimità di cui nessuno può essere espropriato. Né il primo, né l´ultimo caso possono essere invocati nella vicenda che coinvolge Silvio Berlusconi. Per quanto sia divenuta totalizzante l´identificazione sua con i destini del paese, non si può certo ritenere che il suo parlar franco sui rapporti con una giovane ragazza metta a rischio il sistema politico italiano. Al contrario, proprio le sue reticenze, i silenzi e le contraddizioni stanno producendo effetti perversi nella sfera pubblica. La difesa della privacy, il rifiuto di una politica fatta di un guardare nel buco della serratura? Chi ragiona in questo modo sembra ignorare il modo in cui la vicenda è stata resa pubblica, la denuncia circostanziata e impietosa di Veronica Lario, i suoi diretti riferimenti politici. Lì si parlava della figura pubblica di Berlusconi, non di qualche pettegolezzo privato. Da decenni, peraltro, è cosa nota e consolidata che i politici godono di una più ridotta "aspettativa di privacy", proprio perché la decisione di vivere in pubblico e di gestire la cosa pubblica impone loro di rendere possibile una conoscenza ampia e una valutazione continua proprio da parte di quei cittadini al cui giudizio il presidente del Consiglio sembra tenere tanto.
Chi, allora, ha "diritto alla verità"? Questo interrogativo, che divise Immanuel Kant e Benjamin Constant, è proprio quello che sta al centro della discussione italiana. Al deciso universalismo di Kant, Constant opponeva che «nessun uomo ha diritto a una verità che nuoccia ad altri». Qui possiamo astenerci dal ripercorrere quella storica discussione, perché proprio la rilevanza politica del caso esclude comunque che la verità possa nuocere a persona diversa dal presidente del Consiglio, mentre il silenzio o la menzogna pregiudicano proprio quel diritto di sapere che costituisce ormai uno dei caratteri della democrazia, che sfida il machiavelliano uso politico della menzogna come strumento per mantenere il potere. Molte volte si è sottolineato che le procedure di occultamento della verità hanno sempre accompagnato i regimi totalitari, mentre l´accesso alla verità è sempre stato una prerogativa delle libere assemblee, a partire dalla democrazia di Atene.
Il diritto alla verità, in questo caso più che mai, è diritto di tutti. È stato proprio il presidente del Consiglio a rendere ineludibile la questione con le sue reticenze, le doppie versioni, il distogliere lo sguardo da fatti incontestabili. Il suo rifiuto di rispondere a domande specifiche, e tutt´altro che pretestuose proprio perché riferite a dati precisi, assomiglia assai a quella "facoltà di non rispondere" di cui giustamente può giovarsi l´indagato o l´imputato. "Nemo ternetur se detegere", recita un´antica e civile formula giuridica, che si può spiegare con le parole di un vecchio commentatore: «non imporre a nessuno, neppure allo scellerato più infame, di rivelare il malfatto». Quali consiglieri, ammesso che ce ne siano, hanno suggerito al presidente del Consiglio di seguire una strada così scivolosa?
Una menzogna può acquietare i fedeli di un politico, ma lo spinge a rinserrarsi nel suo campo trincerato, corrode la fiducia dei cittadini in un tempo in cui proprio la produzione di fiducia è considerata un elemento indispensabile per restituire alla politica un vero consenso. Non è il moralismo a spingere verso questa conclusione, anche se oggi soffriamo proprio di un deficit spaventoso di moralità pubblica. La democrazia, ricordiamolo, non è solo governo del popolo, ma governo "in pubblico". Qui, in questa semplice e profonda verità, sta l´inammissibilità della menzogna in politica, che si trasforma proprio nella pretesa di non rendere conto dei propri comportamenti da parte di chi ha liberamente scelto di uscire dal rassicurante spazio privato per essere protagonista nello spazio pubblico.
La menzogna in politica e il diritto alla verità
Data di pubblicazione: 26.05.2009
Autore: Rodotà, Stefano
“Contro la menzogna bisogna lottare non solo per la sua intrinseca immoralità, ma per i suoi effetti distruttivi dello spazio della politica”. La Repubblica, 26 maggio 2009
Mai come in questi tempi spazio pubblico e spazio privato si sono così intensamente mescolati fin quasi a rendere indistinguibili i loro confini. Addirittura lo spazio privato sembra svanire nell´era di Facebook e di YouTube, delle infinite e continue tracce elettroniche, dell´impietosa radiografia mediatica d´ogni mossa, contatto, preferenza. Dobbiamo accettare la brutale semplificazione di chi ha affermato "la privacy è finita. Rassegnatevi"? O dobbiamo ridisegnarne i confini senza perdere i benefici della trasparenza che, soprattutto nella sfera della politica, le nuove tecnologie rendono possibili? La politica, appunto. Nel nuovissimo panorama tornano, intatte e ancor più ineludibili, antiche questioni. Quali sono i doveri dell´uomo pubblico? Quale dev´essere la sua moralità? Possono convivere vizi privati e pubbliche virtù? Può il politico coltivare la pretesa di stabilire egli stesso fin dove può giungere lo sguardo dei cittadini? E soprattutto: qual è il rapporto tra verità e politica nel tempo della comunicazione globale?
«La menzogna ci è familiare fin dagli albori della storia scritta. L´abitudine a dire la verità non è mai stata annoverata tra le virtù politiche e le menzogne sono state sempre considerate giustificabili negli affari politici». Così Hanna Arendt, che tuttavia in questa lunga abitudine non vedeva un dato da accettare in nome di un troppo facile realismo politico. Al contrario, contro la menzogna bisogna lottare non solo per la sua intrinseca immoralità, ma per i suoi effetti distruttivi proprio dello spazio della politica. Dove esiste un establishment, un ceto politico consapevole della necessità di mantenere la propria legittimità nei confronti dei cittadini, la pubblica menzogna sui propri fatti privati porta all´espulsione del mentitore. John Profumo è costretto a dimettersi perché ha mentito alla Camera dei Comuni sulla sua relazione con Christine Keeler. Gary Hart è costretto ad abbandonare la vita politica e le sue ambizioni di candidato alla presidenza degli Stati Uniti per aver sfidato la stampa sull´esistenza di sue relazioni sessuali, che i giornalisti, facendo bene il loro mestiere, impietosamente scoprono. Non un sussulto moralistico, ma l´affidabilità stessa del politico rende inammissibile la menzogna.
Questo significa che parlare del rapporto tra menzogna e politica esige distinzioni. Vi è la menzogna in nome della salute della Repubblica, quella su vicende private del politico, quella che vuol salvaguardare uno spazio di intimità di cui nessuno può essere espropriato. Né il primo, né l´ultimo caso possono essere invocati nella vicenda che coinvolge Silvio Berlusconi. Per quanto sia divenuta totalizzante l´identificazione sua con i destini del paese, non si può certo ritenere che il suo parlar franco sui rapporti con una giovane ragazza metta a rischio il sistema politico italiano. Al contrario, proprio le sue reticenze, i silenzi e le contraddizioni stanno producendo effetti perversi nella sfera pubblica. La difesa della privacy, il rifiuto di una politica fatta di un guardare nel buco della serratura? Chi ragiona in questo modo sembra ignorare il modo in cui la vicenda è stata resa pubblica, la denuncia circostanziata e impietosa di Veronica Lario, i suoi diretti riferimenti politici. Lì si parlava della figura pubblica di Berlusconi, non di qualche pettegolezzo privato. Da decenni, peraltro, è cosa nota e consolidata che i politici godono di una più ridotta "aspettativa di privacy", proprio perché la decisione di vivere in pubblico e di gestire la cosa pubblica impone loro di rendere possibile una conoscenza ampia e una valutazione continua proprio da parte di quei cittadini al cui giudizio il presidente del Consiglio sembra tenere tanto.
Chi, allora, ha "diritto alla verità"? Questo interrogativo, che divise Immanuel Kant e Benjamin Constant, è proprio quello che sta al centro della discussione italiana. Al deciso universalismo di Kant, Constant opponeva che «nessun uomo ha diritto a una verità che nuoccia ad altri». Qui possiamo astenerci dal ripercorrere quella storica discussione, perché proprio la rilevanza politica del caso esclude comunque che la verità possa nuocere a persona diversa dal presidente del Consiglio, mentre il silenzio o la menzogna pregiudicano proprio quel diritto di sapere che costituisce ormai uno dei caratteri della democrazia, che sfida il machiavelliano uso politico della menzogna come strumento per mantenere il potere. Molte volte si è sottolineato che le procedure di occultamento della verità hanno sempre accompagnato i regimi totalitari, mentre l´accesso alla verità è sempre stato una prerogativa delle libere assemblee, a partire dalla democrazia di Atene.
Il diritto alla verità, in questo caso più che mai, è diritto di tutti. È stato proprio il presidente del Consiglio a rendere ineludibile la questione con le sue reticenze, le doppie versioni, il distogliere lo sguardo da fatti incontestabili. Il suo rifiuto di rispondere a domande specifiche, e tutt´altro che pretestuose proprio perché riferite a dati precisi, assomiglia assai a quella "facoltà di non rispondere" di cui giustamente può giovarsi l´indagato o l´imputato. "Nemo ternetur se detegere", recita un´antica e civile formula giuridica, che si può spiegare con le parole di un vecchio commentatore: «non imporre a nessuno, neppure allo scellerato più infame, di rivelare il malfatto». Quali consiglieri, ammesso che ce ne siano, hanno suggerito al presidente del Consiglio di seguire una strada così scivolosa?
Una menzogna può acquietare i fedeli di un politico, ma lo spinge a rinserrarsi nel suo campo trincerato, corrode la fiducia dei cittadini in un tempo in cui proprio la produzione di fiducia è considerata un elemento indispensabile per restituire alla politica un vero consenso. Non è il moralismo a spingere verso questa conclusione, anche se oggi soffriamo proprio di un deficit spaventoso di moralità pubblica. La democrazia, ricordiamolo, non è solo governo del popolo, ma governo "in pubblico". Qui, in questa semplice e profonda verità, sta l´inammissibilità della menzogna in politica, che si trasforma proprio nella pretesa di non rendere conto dei propri comportamenti da parte di chi ha liberamente scelto di uscire dal rassicurante spazio privato per essere protagonista nello spazio pubblico.
lunedì 25 maggio 2009
Vi ricorda qualcosa? (le mamme non si arrabbino...)
il fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità. Il fascismo è demagogico ma padronale, retorico, xenofobo, odiatore di cultura, spregiatore della libertà e della giustizia, oppressore dei deboli, servo dei forti, sempre pronto a indicare negli “altri” le cause della sua impotenza o sconfitta. Il fascismo è lirico, gerontofobo, teppista se occorre, stupido sempre, ma alacre, plagiatore, manierista (...) Non ama l'amore, ma il possesso. Non ha senso religioso, ma vede nella religione il baluardo per impedire agli altri l'ascesa al potere. Intimamente crede in Dio, ma come ente col quale ha stabilito un concordato, do ut des. E' superstizioso, vuol essere libero di fare quel che gli pare, specialmente se a danno o a fastidio degli altri. Il fascista è disposto a tutto purchè gli si conceda che lui è il padrone, il padre. le madri sono generalmente fasciste
(Flaiano, Diario degli errori)
(Flaiano, Diario degli errori)
Vittorio Melandri: la mutazione del PD e altre disgrazie
La mutazione del PD e altre disgrazie
Si intrecciano molte disgraziate circostanze, in questi ultimi tempi, e il trionfale declino del “vecchio bavoso che telefona di notte alle ragazzine”, per dirla con le parole di Gad Lerner prese dal suo Blog, non è fra quelle più gravi, anche se occupa e occuperà ancora non si sa per quanto, il centro della scena.
Ad esempio trovo che sia un sintomo di ben più grave intensità leggere quanto segue: “Andreotti è stato, in passato, ingiustamente accusato di attività mafiosa (Palermo)”.
Inizia così un articolo su La Stampa di Carlo Federico Grosso, insigne avvocato e giurista illustre. Spiace molto, ad un “cittadino semplice” come me, leggerlo.
Cosa significa essere “ingiustamente” accusati di un qualsiasi reato. A mio profano parere, può solo significare cadere vittima di una costruzione artificiale e proditoria delle condizioni utili a rendere sostenibile una chiamata in giudizio. Ed anche in tal caso, non si potrebbe parlare di “ingiusta accusa” formulata, laddove un magistrato cadesse dapprincipio in una “trappola”, che solo il successivo fisiologico procedere del processo mettesse poi in evidenza.
Questo non esclude, al contrario, che ci possano essere magistrati felloni e fedifraghi che manipolano essi stessi le ragioni dell’accusa, commettendo così un reato gravissimo e infamante, ma non credo si possa parlare tout court di “accusa ingiusta”, solo perché questa può essere rivolta ad una persona che si rivelasse alla prova del processo, innocente.
A cosa servirebbero un apposito codice ed una specifica proceduta penale, potenzialmente articolata in tre gradi di giudizio, poste a base della “celebrazione” di quello che la Costituzione chiama “giusto processo”, se si avesse la certezza di poter formulare solo “accuse giuste”, cioè rivolte solo a colpevoli, individuati a priori dalla “giusta accusa”?
Non solo non sarebbero necessari tre gradi di giudizio, ma nemmeno il singolo processo, basterebbe l’accusa, appunto “giusta”, e la galera, possibilmente umana, perché comunque siamo pur sempre nel paese di Cesare Beccaria.
Nel caso citato in specie oltretutto, il Senatore Andreotti è stato ritenuto dalla Cassazione (Seconda Sezione Penale - Presidente G.M. Cosentino - Relatore M. Massera - Sentenza n. 49691 del 15 ottobre 2004 - depositata il 28 dicembre 2004), colpevole del reato di associazione mafiosa sino al 1980, data che ha comportato la prescrizione al momento della formulazione della sentenza stessa.
Siamo proprio ridotti ai minimi termini in questo Paese disgraziatissimo, se anche i “migliori” sbandano in questo modo, se per dire che non tutto è perduto ci si deve riferire alle qualità del Senatore Andreotti, che, penso anch’io essere persona “migliore” del Cav. Silvio Berlusconi, ma non per i meriti del primo, bensì solo per l’infimo valore del secondo.
Per altro anche al secondo capita di dire cose che potrebbero, se vere, essere considerate “buone”.
La dissoluzione del PD non sarebbe poi male ad esempio, oppure in alternativa, si potrebbe auspicare che anziché l’uscita di Rutelli e Letta (Enrico) dal PD cosa ahinoi smentita da tutti, fosse il PD ad uscire da Rutelli e Letta (Enrico).
Nel caso del PD novella “Balena bianca”, come definito con acuto grabo, penso infatti che vi si possa, come in filigrana, scorgere la trama del film di Don Siegel “Linvasione degli ultracorpi titolo originale Invasion of the Body Snatchers” del 1956.
Come molti appassionati e non, del genere, ricorderanno, nel film capita che alcuni esseri umani sembrano d’un colpo impediti a riconoscere parenti e amici più intimi. Rammento che la trovata del film consiste nell’apparizione di enormi baccelli all’interno dei quali venivano replicate copie di esseri umani viventi di cui prendevano poi il posto.
La copia però, rispetto all’originale, risultava privata della sua principale dotazione: la mente.
Il lieto fine del film è assicurato dalla presenza di un intrepido salvatore che si sottrae alla mutazione e salva la Terra dalle mira dei cattivi alieni. Mi chiedo se siamo ancora in tempo a salvare il PD prima che la sua mutazione si compia, e forse un segno di possibile salvezza, potrebbe appunto essere quello di vederlo “uscire” dal Rutelli e dal Letta (Enrico), perché peggio che morire democristiani, sarebbe sorte di gran lunga peggiore quella di morire “democristiani copiati”.
Vittorio Melandri
Si intrecciano molte disgraziate circostanze, in questi ultimi tempi, e il trionfale declino del “vecchio bavoso che telefona di notte alle ragazzine”, per dirla con le parole di Gad Lerner prese dal suo Blog, non è fra quelle più gravi, anche se occupa e occuperà ancora non si sa per quanto, il centro della scena.
Ad esempio trovo che sia un sintomo di ben più grave intensità leggere quanto segue: “Andreotti è stato, in passato, ingiustamente accusato di attività mafiosa (Palermo)”.
Inizia così un articolo su La Stampa di Carlo Federico Grosso, insigne avvocato e giurista illustre. Spiace molto, ad un “cittadino semplice” come me, leggerlo.
Cosa significa essere “ingiustamente” accusati di un qualsiasi reato. A mio profano parere, può solo significare cadere vittima di una costruzione artificiale e proditoria delle condizioni utili a rendere sostenibile una chiamata in giudizio. Ed anche in tal caso, non si potrebbe parlare di “ingiusta accusa” formulata, laddove un magistrato cadesse dapprincipio in una “trappola”, che solo il successivo fisiologico procedere del processo mettesse poi in evidenza.
Questo non esclude, al contrario, che ci possano essere magistrati felloni e fedifraghi che manipolano essi stessi le ragioni dell’accusa, commettendo così un reato gravissimo e infamante, ma non credo si possa parlare tout court di “accusa ingiusta”, solo perché questa può essere rivolta ad una persona che si rivelasse alla prova del processo, innocente.
A cosa servirebbero un apposito codice ed una specifica proceduta penale, potenzialmente articolata in tre gradi di giudizio, poste a base della “celebrazione” di quello che la Costituzione chiama “giusto processo”, se si avesse la certezza di poter formulare solo “accuse giuste”, cioè rivolte solo a colpevoli, individuati a priori dalla “giusta accusa”?
Non solo non sarebbero necessari tre gradi di giudizio, ma nemmeno il singolo processo, basterebbe l’accusa, appunto “giusta”, e la galera, possibilmente umana, perché comunque siamo pur sempre nel paese di Cesare Beccaria.
Nel caso citato in specie oltretutto, il Senatore Andreotti è stato ritenuto dalla Cassazione (Seconda Sezione Penale - Presidente G.M. Cosentino - Relatore M. Massera - Sentenza n. 49691 del 15 ottobre 2004 - depositata il 28 dicembre 2004), colpevole del reato di associazione mafiosa sino al 1980, data che ha comportato la prescrizione al momento della formulazione della sentenza stessa.
Siamo proprio ridotti ai minimi termini in questo Paese disgraziatissimo, se anche i “migliori” sbandano in questo modo, se per dire che non tutto è perduto ci si deve riferire alle qualità del Senatore Andreotti, che, penso anch’io essere persona “migliore” del Cav. Silvio Berlusconi, ma non per i meriti del primo, bensì solo per l’infimo valore del secondo.
Per altro anche al secondo capita di dire cose che potrebbero, se vere, essere considerate “buone”.
La dissoluzione del PD non sarebbe poi male ad esempio, oppure in alternativa, si potrebbe auspicare che anziché l’uscita di Rutelli e Letta (Enrico) dal PD cosa ahinoi smentita da tutti, fosse il PD ad uscire da Rutelli e Letta (Enrico).
Nel caso del PD novella “Balena bianca”, come definito con acuto grabo, penso infatti che vi si possa, come in filigrana, scorgere la trama del film di Don Siegel “Linvasione degli ultracorpi titolo originale Invasion of the Body Snatchers” del 1956.
Come molti appassionati e non, del genere, ricorderanno, nel film capita che alcuni esseri umani sembrano d’un colpo impediti a riconoscere parenti e amici più intimi. Rammento che la trovata del film consiste nell’apparizione di enormi baccelli all’interno dei quali venivano replicate copie di esseri umani viventi di cui prendevano poi il posto.
La copia però, rispetto all’originale, risultava privata della sua principale dotazione: la mente.
Il lieto fine del film è assicurato dalla presenza di un intrepido salvatore che si sottrae alla mutazione e salva la Terra dalle mira dei cattivi alieni. Mi chiedo se siamo ancora in tempo a salvare il PD prima che la sua mutazione si compia, e forse un segno di possibile salvezza, potrebbe appunto essere quello di vederlo “uscire” dal Rutelli e dal Letta (Enrico), perché peggio che morire democristiani, sarebbe sorte di gran lunga peggiore quella di morire “democristiani copiati”.
Vittorio Melandri
Andrea Romano: fine della socialdemocrazia?
andrearomano
Ieri 24 maggio 2009, 8.55.19
Fine della socialdemocrazia?
Ieri 24 maggio 2009, 11.50.00
Sono ormai molti anni che nel centrosinistra ci si rompe la testa su quale dovrebbe essere l’approdo europeo della transizione politica italiana, attribuendo ora al “socialismo europeo” ora a più vaghe “terre di mezzo” una funzione quasi sacrale di legittimazione ad uso interno. Ma di rado qualcuno si è interrogato a fondo su cosa fossero diventate quelle famiglie politiche a cui nella nostra confusione si è guardato con aspettative tanto salvifiche. Lo fa Giuseppe Berta in un libro piccolo e bello appena pubblicato dal Mulino (“Eclisse della socialdemocrazia”, pp.135, €10), lettura preziosa in questi giorni di vigilia elettorale in cui si discute di tutto tranne che di politica europea.
Storico dell’economia e commentatore per Sole 24 Ore e Stampa, Berta scrive di Europa guardando ad una delle sue grandi culture politiche. E raccontando ancora una volta la trasformazione di un’ideologia che fin dalla fine degli anni Settanta si dibatte in una crisi di strategia e identità, legata alla scomparsa dei suoi tradizionali insediamenti sociali e al completamento del progetto welfarista a cui sin dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale aveva dedicato la sua seconda e più felice stagione storica. Berta muove da qui per guardare in particolare al caso britannico e a quello tedesco, e dunque all’esperienza dei due partiti europei che più di altri hanno assunto durevoli responsabilità di governo nell’ultimo ventennio. Un accostamento ardito, quello tra Labour e SPD, che non troverebbe molti sostenitori in due partiti le cui ispirazioni e tradizioni culturali sono state nel tempo anche molto distanti le une dalle altre. Ma la domanda che si pone Berta supera la filologia storica e va direttamente al nodo politico di questi anni: “esiste oggi un profilo politico specificamente ascrivibile alla socialdemocrazia europea?”. È dunque naturale che, per rispondere, egli guardi alle due principali esperienze di governo del centrosinistra europeo di quest’ultimo ventennio.
“Nell’epoca della globalizzazione – scrive Berta – la socialdemocrazia al governo ha scoperto di dover aderire quasi plasticamente ai caratteri del capitalismo contemporaneo, abbandonando la pretesa di trasformarli”. È la principale imputazione che il libro muove al socialismo europeo nella sua forma contemporanea, la ragione che l’avrebbe condotto ad abbandonare la ricerca dell’eguaglianza. E dunque il tema con il quale è inevitabile fare i conti in piena franchezza. Innanzitutto perché si tratta di un’imputazione che poggia su basi di verità. È infatti vero oltre ogni dubbio che la sinistra europea più efficace, la sinistra che è riuscita a guadagnare consenso e progettualità dopo quella che Ralf Dahrendorf definì già nei primi anni Ottanta la “fine del secolo socialdemocratico”, ha saputo ritrovare nella rivitalizzazione del capitalismo la sua nuova ragion d’essere. Ma è altrettanto vero che altre strade non ce n’erano né potevano esserci, all’interno di partiti di nobile lignaggio che si erano trovati completamente spiazzati dal completamento del loro stesso disegno welfarista.
Si prenda ad esempio la vicenda del Labour britannico prima della rinascita di fine anni Ottanta, tenacemente voluta da quel leader coraggioso e misconosciuto che è stato Neil Kinnock. Prima del recupero di lucidità e metodo voluto da Kinnock, quasi un decennio prima che Blair e Brown s’inventassero il New Labour, il partito che nel 1945 aveva condiviso con la socialdemocrazia scandinava la costruzione del welfare europeo era sprofondato in una sorta di gorgo isolazionista, anticapitalista e cupamente antieuropeo. Ed era arrivato fin laggiù non certo per l’attivismo di frange estremistiche interne o tantomeno per una contaminazione comunista da cui il laburismo britannico era ben vaccinato, quanto per l’esaurirsi della spinta progettuale che l’aveva sorretto per decenni sulla base dell’originale intuizione welfarista. Un esaurirsi fisiologico, dovuto al raggiungimento già alla fine degli anni Cinquanta di molti degli obiettivi che il Labour si era dato nel 1945 e al quale la stagione del revisionismo ispirato più di altri da Anthony Crosland aveva poi tentato di fornire nuova linfa.
Ma comunque un esaurirsi inevitabile, che aveva lasciato campo libero al progetto thatcheriano e dopo il quale il Labour non aveva saputo per molti anni ritrovare la strada della rinascita politica. Quella strada doveva infine coincidere con la riscoperta della capacità di valorizzare gli aspetti creativi del capitalismo (il suo tratto ottimisticamente schumpeteriano, verrebbe da dire con Berta che dedica l’incipit del libro a Schumpeter e alla sua profezia sul declino del capitalismo nell’era della regolamentazione post-bellica) insieme allo sforzo di adattare l’originaria ispirazione egualitaria e universalistica all’obiettivo di generalizzare gli strumenti educativi per la realizzazione del potenziale di ognuno. I semi di tutto questo erano già in Kinnock e nella sua idea di trasformare il welfare tradizionale in “springboard”, “trampolino di lancio” per accorciare le distanze sociali per mezzo della riuscita individuale e di gruppo. E solo dopo quei semi sarebbero completamente fioriti nell’esaltazione della globalizzazione venuta con il New Labour.
Quel che è vero è che quella stagione si è associata, non solo in Gran Bretagna, ad un’era dell’ottimismo che oggi non può che apparirci arcaica e ingenua. Ma come ricorderemo di qui a dieci anni, se non come un’altra manifestazione di ingenuità per giunta aggravata dalla subalternità ad altre culture politiche, il revival di antimercatismo di cui dà prova dinanzi alla crisi una parte ormai maggioritaria del centrosinistra italiano prendendolo integralmente a prestito dal centrodestra protezionista? Perché proprio questo è un punto al quale conduce, forse senza neanche volerlo, la serrata riflessione di Berta. Nel suo tentativo di rinascere dalla crisi del welfarismo la socialdemocrazia ha creduto nel valore di liberazione umana del capitalismo più di quanto non abbia fatto la destra europea, che dopo il Kulturkampf thatcheriano l’ha letto essenzialmente in chiave di potenza nazionale e nazionalistica.
La socialdemocrazia in versione neoliberale ha investito sul capitalismo con un sovrappiù dell’entusiasmo tipico dei neofiti? È quanto è accaduto solo in alcuni casi. Perché, come ben ricorda l’ultimo capitolo di Berta dedicato a Keynes, alla stessa radice del progetto welfarista era l’aspirazione ad “una sostanziale riduzione della diseguaglianza all’interno della cornice delle istituzioni plasmate dalla tradizione liberale”. E dunque quell’intreccio tra liberalismo sociale e socialdemocrazia, che pure fu più esplicito nel caso britannico perché innervato nelle stesse origini storiche del Labour, non attendeva che di essere riscoperto e valorizzato dalla parte più lucida della sinistra europea dopo lo smarrimento politico di fine anni Settanta.
In questi tempi di crisi ogni parola di ottimismo rischia di stonare. Ma è difficile immaginare che una volta fuori dall’emergenza la sinistra europea trovi una strada diversa da quella della valorizzazione della dignità del lavoro e dell’eguaglianza delle opportunità, e dunque delle battaglie di libertà anche economica che ha saputo condurre nei suoi più recenti anni migliori, piuttosto che mettersi alla ricerca di fantomatici “insediamenti sociali” scomparsi una volta per sempre.
Ieri 24 maggio 2009, 8.55.19
Fine della socialdemocrazia?
Ieri 24 maggio 2009, 11.50.00
Sono ormai molti anni che nel centrosinistra ci si rompe la testa su quale dovrebbe essere l’approdo europeo della transizione politica italiana, attribuendo ora al “socialismo europeo” ora a più vaghe “terre di mezzo” una funzione quasi sacrale di legittimazione ad uso interno. Ma di rado qualcuno si è interrogato a fondo su cosa fossero diventate quelle famiglie politiche a cui nella nostra confusione si è guardato con aspettative tanto salvifiche. Lo fa Giuseppe Berta in un libro piccolo e bello appena pubblicato dal Mulino (“Eclisse della socialdemocrazia”, pp.135, €10), lettura preziosa in questi giorni di vigilia elettorale in cui si discute di tutto tranne che di politica europea.
Storico dell’economia e commentatore per Sole 24 Ore e Stampa, Berta scrive di Europa guardando ad una delle sue grandi culture politiche. E raccontando ancora una volta la trasformazione di un’ideologia che fin dalla fine degli anni Settanta si dibatte in una crisi di strategia e identità, legata alla scomparsa dei suoi tradizionali insediamenti sociali e al completamento del progetto welfarista a cui sin dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale aveva dedicato la sua seconda e più felice stagione storica. Berta muove da qui per guardare in particolare al caso britannico e a quello tedesco, e dunque all’esperienza dei due partiti europei che più di altri hanno assunto durevoli responsabilità di governo nell’ultimo ventennio. Un accostamento ardito, quello tra Labour e SPD, che non troverebbe molti sostenitori in due partiti le cui ispirazioni e tradizioni culturali sono state nel tempo anche molto distanti le une dalle altre. Ma la domanda che si pone Berta supera la filologia storica e va direttamente al nodo politico di questi anni: “esiste oggi un profilo politico specificamente ascrivibile alla socialdemocrazia europea?”. È dunque naturale che, per rispondere, egli guardi alle due principali esperienze di governo del centrosinistra europeo di quest’ultimo ventennio.
“Nell’epoca della globalizzazione – scrive Berta – la socialdemocrazia al governo ha scoperto di dover aderire quasi plasticamente ai caratteri del capitalismo contemporaneo, abbandonando la pretesa di trasformarli”. È la principale imputazione che il libro muove al socialismo europeo nella sua forma contemporanea, la ragione che l’avrebbe condotto ad abbandonare la ricerca dell’eguaglianza. E dunque il tema con il quale è inevitabile fare i conti in piena franchezza. Innanzitutto perché si tratta di un’imputazione che poggia su basi di verità. È infatti vero oltre ogni dubbio che la sinistra europea più efficace, la sinistra che è riuscita a guadagnare consenso e progettualità dopo quella che Ralf Dahrendorf definì già nei primi anni Ottanta la “fine del secolo socialdemocratico”, ha saputo ritrovare nella rivitalizzazione del capitalismo la sua nuova ragion d’essere. Ma è altrettanto vero che altre strade non ce n’erano né potevano esserci, all’interno di partiti di nobile lignaggio che si erano trovati completamente spiazzati dal completamento del loro stesso disegno welfarista.
Si prenda ad esempio la vicenda del Labour britannico prima della rinascita di fine anni Ottanta, tenacemente voluta da quel leader coraggioso e misconosciuto che è stato Neil Kinnock. Prima del recupero di lucidità e metodo voluto da Kinnock, quasi un decennio prima che Blair e Brown s’inventassero il New Labour, il partito che nel 1945 aveva condiviso con la socialdemocrazia scandinava la costruzione del welfare europeo era sprofondato in una sorta di gorgo isolazionista, anticapitalista e cupamente antieuropeo. Ed era arrivato fin laggiù non certo per l’attivismo di frange estremistiche interne o tantomeno per una contaminazione comunista da cui il laburismo britannico era ben vaccinato, quanto per l’esaurirsi della spinta progettuale che l’aveva sorretto per decenni sulla base dell’originale intuizione welfarista. Un esaurirsi fisiologico, dovuto al raggiungimento già alla fine degli anni Cinquanta di molti degli obiettivi che il Labour si era dato nel 1945 e al quale la stagione del revisionismo ispirato più di altri da Anthony Crosland aveva poi tentato di fornire nuova linfa.
Ma comunque un esaurirsi inevitabile, che aveva lasciato campo libero al progetto thatcheriano e dopo il quale il Labour non aveva saputo per molti anni ritrovare la strada della rinascita politica. Quella strada doveva infine coincidere con la riscoperta della capacità di valorizzare gli aspetti creativi del capitalismo (il suo tratto ottimisticamente schumpeteriano, verrebbe da dire con Berta che dedica l’incipit del libro a Schumpeter e alla sua profezia sul declino del capitalismo nell’era della regolamentazione post-bellica) insieme allo sforzo di adattare l’originaria ispirazione egualitaria e universalistica all’obiettivo di generalizzare gli strumenti educativi per la realizzazione del potenziale di ognuno. I semi di tutto questo erano già in Kinnock e nella sua idea di trasformare il welfare tradizionale in “springboard”, “trampolino di lancio” per accorciare le distanze sociali per mezzo della riuscita individuale e di gruppo. E solo dopo quei semi sarebbero completamente fioriti nell’esaltazione della globalizzazione venuta con il New Labour.
Quel che è vero è che quella stagione si è associata, non solo in Gran Bretagna, ad un’era dell’ottimismo che oggi non può che apparirci arcaica e ingenua. Ma come ricorderemo di qui a dieci anni, se non come un’altra manifestazione di ingenuità per giunta aggravata dalla subalternità ad altre culture politiche, il revival di antimercatismo di cui dà prova dinanzi alla crisi una parte ormai maggioritaria del centrosinistra italiano prendendolo integralmente a prestito dal centrodestra protezionista? Perché proprio questo è un punto al quale conduce, forse senza neanche volerlo, la serrata riflessione di Berta. Nel suo tentativo di rinascere dalla crisi del welfarismo la socialdemocrazia ha creduto nel valore di liberazione umana del capitalismo più di quanto non abbia fatto la destra europea, che dopo il Kulturkampf thatcheriano l’ha letto essenzialmente in chiave di potenza nazionale e nazionalistica.
La socialdemocrazia in versione neoliberale ha investito sul capitalismo con un sovrappiù dell’entusiasmo tipico dei neofiti? È quanto è accaduto solo in alcuni casi. Perché, come ben ricorda l’ultimo capitolo di Berta dedicato a Keynes, alla stessa radice del progetto welfarista era l’aspirazione ad “una sostanziale riduzione della diseguaglianza all’interno della cornice delle istituzioni plasmate dalla tradizione liberale”. E dunque quell’intreccio tra liberalismo sociale e socialdemocrazia, che pure fu più esplicito nel caso britannico perché innervato nelle stesse origini storiche del Labour, non attendeva che di essere riscoperto e valorizzato dalla parte più lucida della sinistra europea dopo lo smarrimento politico di fine anni Settanta.
In questi tempi di crisi ogni parola di ottimismo rischia di stonare. Ma è difficile immaginare che una volta fuori dall’emergenza la sinistra europea trovi una strada diversa da quella della valorizzazione della dignità del lavoro e dell’eguaglianza delle opportunità, e dunque delle battaglie di libertà anche economica che ha saputo condurre nei suoi più recenti anni migliori, piuttosto che mettersi alla ricerca di fantomatici “insediamenti sociali” scomparsi una volta per sempre.
Marco Vitale: Supercapitalismo
Marco Vitale
DAL SUPERCAPITALISMO ALL’ECONOMIA IMPRENDITORIALE
“Bellum cano perenne
between usura and the man
who wants to do a good job”
Ezra Pound
Mi ha felicemente sorpreso e molto favorevolmente colpito il Summit dei responsabili delle politiche sociali dei paesi del G8 promosso e realizzato a Roma dal Governo italiano e, in particolare, dal Ministro del Welfare Sacconi.
Si è trattato, infatti, di un primo tentativo di correggere il devastante paradigma etico-politico dominante negli ultimi decenni e che è alla base dello tsunami finanziario che sta infliggendo tante sofferenze a milioni di persone. Il tentativo è ben sintetizzato nel felice motto che ha caratterizzato il Summit: “people first”. Questo primo tentativo va compreso, sostenuto e incoraggiato perché indica una direzione di marcia molto promettente. Per la prima volta, in forma pubblica e solenne, si cerca di fare uno sforzo di pensiero verso una nuova strategia, superando le contingenze della crisi. La nuova strategia del “people first”, in realtà, ricupera e attualizza paradigmi molto antichi.
L’economia di mercato e imprenditoriale (nonostante quanto sostiene quella che Braudel definì la “favola” weberiana) nasce nei comuni italiani ed in tre secoli, dal 1200 al 1500, fece dell’Italia il centro della vita economica del mondo occidentale. Quando l’Italia si ripiega su se stessa nel corso del 1500, il testimone passa ai paesi anglosassoni e soprattutto al paese emergente, l’America di Franklin. Il paradigma etico di questa grande epopea che accomuna Franklin, con Alberti, Cotruglio, Albertano da Brescia, è quello di combinare un’economia di mercato imprenditoriale e competitiva con una visione umana e umanistica dell’attività economica. Il principio dominante resta: “Omnium rerum mensura homo”, l’uomo è la misura di tutte le cose.
Con il processo di industrializzazione sempre più spinto si inserisce nel panorama un nuovo paradigma etico-politico: “fiat productio et pereat homo” che caratterizza l’attuale cultura economica che eleva il mezzo a fine e si interessa solo dei processi, in una totale mancanza di interesse per il destino umano.
Con l’esplosione della finanza e la finanziarizzazione dell’economia si inserisce, infine, e diventa dominante anche sull’industria, un nuovo paradigma: “fiat capital gain et pereat omnia”. Questi paradigmi convivono e spesso si scontrano tra loro, ed è questa convivenza che rende la lettura della vita economica così complicata. Negli ultimi venti anni il dominio del paradigma “fiat capital gain et pereat omnia” era diventato schiacciante. La crisi che stiamo vivendo può anche essere letta come un grande urlo contro il dominio di questo paradigma, come un rumoroso crollo di un nuovo muro di Berlino. Se leggiamo la crisi in questi termini lo scoraggiamento scompare e ci appare nitida la via naturale da intraprendere verso la vetta. Dobbiamo ricostruire un mondo dove l’economia decentrata si muova attraverso i meccanismi del mercato e dell’impresa; ma dove ritorni con forza a prevalere il paradigma etico-politico: “Omnium rerum mensura homo”.
Nel “people first” io ho letto un segnale di pensiero in questa direzione. E’ uno sforzo che merita ogni appoggio perché è l’unica prospettiva positiva che emerge dalla polvere delle macerie, l’unica che inizia una ricostruzione. Si tratta di uno sforzo molto impegnativo perché il paradigma: “Fiat capital gain et pereat omnia” è molto radicato nella cultura e nella prassi economica. Le legioni di quelli che aspettano solo che passi la piena per ritornare a fare tutto come prima sono enormi e potenti e ancora dominanti soprattutto in America. La crisi li ha disturbati ma non sconfitti: siedono a fianco di Obama, imperversano sui grandi giornali; continuano a teorizzare astrattamente come talebani del mercato, continuano a distribuire ed a distribuirsi stipendi e bonus osceni e nessuno (salvo le ribellioni sociali che non sono, come si dice, populismo, ma una manifestazione semplice e rozza ma profonda di più che legittimi risentimenti sociali) li chiama a rendere conto, anche sul piano del pensiero, dei disastri da loro combinati, delle concezioni perverse che hanno diffuso ed alimentato.
Quello che stiamo vivendo è un tentativo di passaggio da un’economia dominata dal capitale, anzi dall’ultracapitalismo ad un’economia di mercato e imprenditoriale. Lo sforzo da fare è impegnativo, anche ed in primo luogo sul piano del pensiero, smantellando alcuni idoli che hanno dominato il pensiero economico negli ultimi venti anni e che la crisi ci dimostra, con la durezza delle sofferenze di milioni di persone, che si trattava di idoli falsi. Ma le basi per questo sforzo non mancano. In primo luogo la crisi stessa, la corretta analisi delle sue ragioni, della sua natura, delle sue conseguenze. E poi il grande pensiero economico di stampo liberale che non ha mai dubitato della possibilità anzi della necessità, di conciliare economia di mercato e imprenditoriale ed economia umana e umanistica. Parlo degli Einaudi, dei Röpke, degli Erhard, degli Eucken, di tutta la scuola di Friburgo e del grande filone dell’economia sociale di mercato, che ha vinto in Germania e che è, oggi, una delle poche concezioni economiche che hanno passato, con successo, tutte le prove, rimanendo salde e convincenti. E poi vi è il grande pensiero social – liberale così attento al “people first”. E infine vi è la Dottrina sociale della Chiesa che da sempre impegnata sul tema “omnium rerum mensura homo” ha, con la Centesimus Annus, raggiunto un vertice di grande profondità anche come pensiero economico (e prego con trepidazione che la nuova preannunciata enciclica sociale di Benedetto XVI non riporti indietro le lancette del pensiero della Chiesa anche in campo economico) ed ha chiaramente visto il passaggio dall’economia supercapitalista all’economia di mercato e dell’impresa:
“La risposta è ovviamente complessa. Se con “capitalismo” si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di “economia d’impresa” di “economia di mercato” e, semplicemente, di “economia libera”.
In questa prospettiva io pongo anche una rilettura evolutiva dell’art.1 della Costituzione: “l’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”. I lavoro dell’Assemblea Costituente evidenziano, con chiarezza, che questo articolo ebbe una precisa origine marxista, sia pure addolcita (rispetto alla prima versione inizialmente proposta) dal popolarismo democristiano. Ma se oggi leggiamo la parola lavoro non più riferita, come allora si pensava, solo ai lavoratori dipendenti e più particolarmente agli operai, ma, come oggi si conviene, a tutti i soggetti per i quali il motore principale della loro attività è nel loro lavoro, allora la lettura dell’art.1 può evolvere in direzione molto interessante. Allora l’attività imprenditoriale può rientrare appieno nel concetto allargato di lavoro e contrapporsi ad una visione dove il dominio è del capitale. Dunque “people first” e non “Roe first”. Questo cambio segna il passaggio dal capitalismo puro o supercapitalismo (che ha al centro il ROE) all’economia imprenditoriale che ha al centro l’uomo e il lavoro dell’uomo. Allora l’articolo 1 della Costituzione può leggersi, in modo più ampio ed attuale, più o meno così: “L’Italia è una Repubblica organizzata secondo il principio di legalità, il cui sistema economico è basato sul lavoro imprenditoriale, direttivo e dipendente svolto attraverso un sistema di imprese e di libero mercato con il rispetto della sicurezza del lavoro e della dignità umana. Il capitale finanziario è al servizio del sistema di impresa così definito”.
Questa è esattamente la direzione di marcia che la crisi e le ribellioni sociali contro gli avvoltoi del supercapitalismo ci indicano. In questa direzione metto anche il “people first” del recente Summit di Roma. Lavorare in questa direzione è un compito che spetta soprattutto all’Europa, perché Obama, è ormai chiaro, è irretito dagli gnomi di Wall Street, dai superstiti del “first capital gain et pereat omnia”.
Marco Vitale
www.marcovitale.it
DAL SUPERCAPITALISMO ALL’ECONOMIA IMPRENDITORIALE
“Bellum cano perenne
between usura and the man
who wants to do a good job”
Ezra Pound
Mi ha felicemente sorpreso e molto favorevolmente colpito il Summit dei responsabili delle politiche sociali dei paesi del G8 promosso e realizzato a Roma dal Governo italiano e, in particolare, dal Ministro del Welfare Sacconi.
Si è trattato, infatti, di un primo tentativo di correggere il devastante paradigma etico-politico dominante negli ultimi decenni e che è alla base dello tsunami finanziario che sta infliggendo tante sofferenze a milioni di persone. Il tentativo è ben sintetizzato nel felice motto che ha caratterizzato il Summit: “people first”. Questo primo tentativo va compreso, sostenuto e incoraggiato perché indica una direzione di marcia molto promettente. Per la prima volta, in forma pubblica e solenne, si cerca di fare uno sforzo di pensiero verso una nuova strategia, superando le contingenze della crisi. La nuova strategia del “people first”, in realtà, ricupera e attualizza paradigmi molto antichi.
L’economia di mercato e imprenditoriale (nonostante quanto sostiene quella che Braudel definì la “favola” weberiana) nasce nei comuni italiani ed in tre secoli, dal 1200 al 1500, fece dell’Italia il centro della vita economica del mondo occidentale. Quando l’Italia si ripiega su se stessa nel corso del 1500, il testimone passa ai paesi anglosassoni e soprattutto al paese emergente, l’America di Franklin. Il paradigma etico di questa grande epopea che accomuna Franklin, con Alberti, Cotruglio, Albertano da Brescia, è quello di combinare un’economia di mercato imprenditoriale e competitiva con una visione umana e umanistica dell’attività economica. Il principio dominante resta: “Omnium rerum mensura homo”, l’uomo è la misura di tutte le cose.
Con il processo di industrializzazione sempre più spinto si inserisce nel panorama un nuovo paradigma etico-politico: “fiat productio et pereat homo” che caratterizza l’attuale cultura economica che eleva il mezzo a fine e si interessa solo dei processi, in una totale mancanza di interesse per il destino umano.
Con l’esplosione della finanza e la finanziarizzazione dell’economia si inserisce, infine, e diventa dominante anche sull’industria, un nuovo paradigma: “fiat capital gain et pereat omnia”. Questi paradigmi convivono e spesso si scontrano tra loro, ed è questa convivenza che rende la lettura della vita economica così complicata. Negli ultimi venti anni il dominio del paradigma “fiat capital gain et pereat omnia” era diventato schiacciante. La crisi che stiamo vivendo può anche essere letta come un grande urlo contro il dominio di questo paradigma, come un rumoroso crollo di un nuovo muro di Berlino. Se leggiamo la crisi in questi termini lo scoraggiamento scompare e ci appare nitida la via naturale da intraprendere verso la vetta. Dobbiamo ricostruire un mondo dove l’economia decentrata si muova attraverso i meccanismi del mercato e dell’impresa; ma dove ritorni con forza a prevalere il paradigma etico-politico: “Omnium rerum mensura homo”.
Nel “people first” io ho letto un segnale di pensiero in questa direzione. E’ uno sforzo che merita ogni appoggio perché è l’unica prospettiva positiva che emerge dalla polvere delle macerie, l’unica che inizia una ricostruzione. Si tratta di uno sforzo molto impegnativo perché il paradigma: “Fiat capital gain et pereat omnia” è molto radicato nella cultura e nella prassi economica. Le legioni di quelli che aspettano solo che passi la piena per ritornare a fare tutto come prima sono enormi e potenti e ancora dominanti soprattutto in America. La crisi li ha disturbati ma non sconfitti: siedono a fianco di Obama, imperversano sui grandi giornali; continuano a teorizzare astrattamente come talebani del mercato, continuano a distribuire ed a distribuirsi stipendi e bonus osceni e nessuno (salvo le ribellioni sociali che non sono, come si dice, populismo, ma una manifestazione semplice e rozza ma profonda di più che legittimi risentimenti sociali) li chiama a rendere conto, anche sul piano del pensiero, dei disastri da loro combinati, delle concezioni perverse che hanno diffuso ed alimentato.
Quello che stiamo vivendo è un tentativo di passaggio da un’economia dominata dal capitale, anzi dall’ultracapitalismo ad un’economia di mercato e imprenditoriale. Lo sforzo da fare è impegnativo, anche ed in primo luogo sul piano del pensiero, smantellando alcuni idoli che hanno dominato il pensiero economico negli ultimi venti anni e che la crisi ci dimostra, con la durezza delle sofferenze di milioni di persone, che si trattava di idoli falsi. Ma le basi per questo sforzo non mancano. In primo luogo la crisi stessa, la corretta analisi delle sue ragioni, della sua natura, delle sue conseguenze. E poi il grande pensiero economico di stampo liberale che non ha mai dubitato della possibilità anzi della necessità, di conciliare economia di mercato e imprenditoriale ed economia umana e umanistica. Parlo degli Einaudi, dei Röpke, degli Erhard, degli Eucken, di tutta la scuola di Friburgo e del grande filone dell’economia sociale di mercato, che ha vinto in Germania e che è, oggi, una delle poche concezioni economiche che hanno passato, con successo, tutte le prove, rimanendo salde e convincenti. E poi vi è il grande pensiero social – liberale così attento al “people first”. E infine vi è la Dottrina sociale della Chiesa che da sempre impegnata sul tema “omnium rerum mensura homo” ha, con la Centesimus Annus, raggiunto un vertice di grande profondità anche come pensiero economico (e prego con trepidazione che la nuova preannunciata enciclica sociale di Benedetto XVI non riporti indietro le lancette del pensiero della Chiesa anche in campo economico) ed ha chiaramente visto il passaggio dall’economia supercapitalista all’economia di mercato e dell’impresa:
“La risposta è ovviamente complessa. Se con “capitalismo” si indica un sistema economico che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell’impresa, del mercato, della proprietà privata e della conseguente responsabilità per i mezzi di produzione, della libera creatività umana nel settore dell’economia, la risposta è certamente positiva, anche se forse sarebbe più appropriato parlare di “economia d’impresa” di “economia di mercato” e, semplicemente, di “economia libera”.
In questa prospettiva io pongo anche una rilettura evolutiva dell’art.1 della Costituzione: “l’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”. I lavoro dell’Assemblea Costituente evidenziano, con chiarezza, che questo articolo ebbe una precisa origine marxista, sia pure addolcita (rispetto alla prima versione inizialmente proposta) dal popolarismo democristiano. Ma se oggi leggiamo la parola lavoro non più riferita, come allora si pensava, solo ai lavoratori dipendenti e più particolarmente agli operai, ma, come oggi si conviene, a tutti i soggetti per i quali il motore principale della loro attività è nel loro lavoro, allora la lettura dell’art.1 può evolvere in direzione molto interessante. Allora l’attività imprenditoriale può rientrare appieno nel concetto allargato di lavoro e contrapporsi ad una visione dove il dominio è del capitale. Dunque “people first” e non “Roe first”. Questo cambio segna il passaggio dal capitalismo puro o supercapitalismo (che ha al centro il ROE) all’economia imprenditoriale che ha al centro l’uomo e il lavoro dell’uomo. Allora l’articolo 1 della Costituzione può leggersi, in modo più ampio ed attuale, più o meno così: “L’Italia è una Repubblica organizzata secondo il principio di legalità, il cui sistema economico è basato sul lavoro imprenditoriale, direttivo e dipendente svolto attraverso un sistema di imprese e di libero mercato con il rispetto della sicurezza del lavoro e della dignità umana. Il capitale finanziario è al servizio del sistema di impresa così definito”.
Questa è esattamente la direzione di marcia che la crisi e le ribellioni sociali contro gli avvoltoi del supercapitalismo ci indicano. In questa direzione metto anche il “people first” del recente Summit di Roma. Lavorare in questa direzione è un compito che spetta soprattutto all’Europa, perché Obama, è ormai chiaro, è irretito dagli gnomi di Wall Street, dai superstiti del “first capital gain et pereat omnia”.
Marco Vitale
www.marcovitale.it
Appello ai socialisti
ELEZIONI DEL PARLAMENTO EUROPEO
6-7 GIUGNO 2009
APPELLO AI SOCIALISTI
In queste elezioni europee dobbiamo combattere per il diritto di esistere come
socialisti e come europei, sconfiggendo il tentativo in atto di ridurre la democrazia italiana
a due soli partiti, dal funzionamento poco democratico e niente trasparente.
È pure importante che il Parlamento Europeo esca rafforzato dal voto
popolare, e che al suo interno si affermi una maggioranza sensibile alla
centralità del lavoro e dei lavori, del rispetto ambientale, della sicurezza
personale e sociale per tutti i cittadini, e del ritorno ad una economia sociale di
mercato non più abbandonata a favore dei banchieri e finanzieri.
Ciò è tanto più importante in vista dell'ormai imminente entrata in vigore del
trattato di Lisbona, che conferisce nuovi più ampi poteri al Parlamento stesso.
Finora l'euro è stato uno scudo contro la crisi. Ma adesso abbiamo bisogno di
una spinta europea, ispirata dai criteri socialdemocratici di buon governo e
giustizia sociale che metta fine al fanatismo liberista
che per troppi anni ha imperversato in Europa e in America.
Per queste ragioni noi socialisti, esponenti di diversi circoli ed associazioni
di area socialista del Piemonte e sottoscrittori dell'Appello di Volpedo,
chiamiamo al voto per
la cui costituzione speriamo sia il punto di partenza per il ritorno
del socialismo europeo nel panorama politico italiano.
Vogliamo che SINISTRA E LIBERTÀ non sia un occasionale schieramento
elettorale, ma una speranza per il futuro della nostra democrazia
e del socialismo democratico.
Per la circoscrizione Nord-Ovest (Piemonte-Vald'Aosta-Liguria-Lombardia)
invitiamo quindi a votare e a far votare i candidati:
Pia LOCATELLI
Renzo PENNA
Dorino PIRAS
Paola Bodojra (Ass.ne Frida Malan - TO), Bruno LoDuca, Mino Ramoni (Idea Socialista - VB),
Maria Franca Montini (Circolo Ettore Valli – TO), Domenico Ferraro (Unione Civica Riformatori - VC)
Claudio Bellavita, Roberto Nebiolo (Circolo Sandro Pertini - TO),
Dario Allamano, Emilio Delmastro, Marco Chiauzza (Labouratorio Piemonte - TO),
Mauro Beschi, Sergio Ferrari (Ass. Labour Riccardo Lombardi – AL)
Tullio Monti (Circ. Liberalsocialista Rosselli - TO)
6-7 GIUGNO 2009
APPELLO AI SOCIALISTI
In queste elezioni europee dobbiamo combattere per il diritto di esistere come
socialisti e come europei, sconfiggendo il tentativo in atto di ridurre la democrazia italiana
a due soli partiti, dal funzionamento poco democratico e niente trasparente.
È pure importante che il Parlamento Europeo esca rafforzato dal voto
popolare, e che al suo interno si affermi una maggioranza sensibile alla
centralità del lavoro e dei lavori, del rispetto ambientale, della sicurezza
personale e sociale per tutti i cittadini, e del ritorno ad una economia sociale di
mercato non più abbandonata a favore dei banchieri e finanzieri.
Ciò è tanto più importante in vista dell'ormai imminente entrata in vigore del
trattato di Lisbona, che conferisce nuovi più ampi poteri al Parlamento stesso.
Finora l'euro è stato uno scudo contro la crisi. Ma adesso abbiamo bisogno di
una spinta europea, ispirata dai criteri socialdemocratici di buon governo e
giustizia sociale che metta fine al fanatismo liberista
che per troppi anni ha imperversato in Europa e in America.
Per queste ragioni noi socialisti, esponenti di diversi circoli ed associazioni
di area socialista del Piemonte e sottoscrittori dell'Appello di Volpedo,
chiamiamo al voto per
la cui costituzione speriamo sia il punto di partenza per il ritorno
del socialismo europeo nel panorama politico italiano.
Vogliamo che SINISTRA E LIBERTÀ non sia un occasionale schieramento
elettorale, ma una speranza per il futuro della nostra democrazia
e del socialismo democratico.
Per la circoscrizione Nord-Ovest (Piemonte-Vald'Aosta-Liguria-Lombardia)
invitiamo quindi a votare e a far votare i candidati:
Pia LOCATELLI
Renzo PENNA
Dorino PIRAS
Paola Bodojra (Ass.ne Frida Malan - TO), Bruno LoDuca, Mino Ramoni (Idea Socialista - VB),
Maria Franca Montini (Circolo Ettore Valli – TO), Domenico Ferraro (Unione Civica Riformatori - VC)
Claudio Bellavita, Roberto Nebiolo (Circolo Sandro Pertini - TO),
Dario Allamano, Emilio Delmastro, Marco Chiauzza (Labouratorio Piemonte - TO),
Mauro Beschi, Sergio Ferrari (Ass. Labour Riccardo Lombardi – AL)
Tullio Monti (Circ. Liberalsocialista Rosselli - TO)
domenica 24 maggio 2009
Marco foroni: lo Statuto dei lavoratori e il socialismo keynesiano. e oggi?
Socialismo
Oggi 24 maggio 2009, 7 ore fa
Lo Statuto dei lavoratori e il socialismo keynesiano. E oggi?
Oggi 24 maggio 2009, 7 ore fa
Giacomo Brodolini
Mi capita in questo periodo di partecipare a dibattiti e di leggere di frequente proposte politico-economiche cui viene data una valenza e un contenuto da opzione rigorosamente anticapitalista. In particolare, da parte della sinistra comunista che si richiama alla GUE-Sinistra Europea, cui va comunque dato atto di prese di posizioni forti e chiare a difesa delle conquiste delle classi lavoratrici e per il rilancio della giustizia e dell’equità sociale; in ogni caso, direi, tra le pochissime nell’attuale modesto panorama politico italiano e a forte richiamo identitario per la sinistra del Paese.
Nello specifico, mi riferisco alle tematiche inerenti: -alla redistribuzione dei redditi attraverso una politica fiscale progressiva quale strumento pubblico di risposta alla polarizzazione della ricchezza dopo trenta anni di neoaccumulazione capitalista; -ai diritti sui luoghi di lavoro, con esplicito riferimento allo Statuto dei lavoratori.
In merito al primo aspetto, mi sembra di cogliere chiari richiami a princìpi economici propri del modello keynesiano e al complesso dei valori del liberalismo progressista einaudiano. In effetti sembra proprio un riproporsi del pensiero di Einaudi, laddove esprimeva che un regime di piena libertà può e deve includere, tra i suoi obiettivi, la realizzazione della giustizia sociale.
Quindi: vero che, come ha ri-confermato di recente l’OCSE (Rapporto sul prelievo fiscale sui salari 2007-2008) nel nostro Paese i salari sono drammaticamente bassi, ma certo l’applicazione di una politica fiscale a favore dei redditi bassi (in particolare da lavoro dipendente) non sarebbe misura sufficiente (seppur necessaria) per il superamento delle iniquità esistenti, come ho già evidenziato in un mio recente saggio. Ci ritorneremo più approfonditamente.
Più nel dettaglio, con riferimento invece alle riflessioni sulla genesi e l’approvazione dello Statuto dei lavoratori, questo certo non fu conseguito a seguito di attacchi del movimento anticapitalista e comunista, con l’obiettivo di intaccare (nel caso fossero stati) la stabilità dell’assetto capitalistico borghese.
Premesso che lo Statuto non derivò da trattative tra le parti sociali, la norma istitutiva dello stesso (la legge n. 300 del 1970) fu approvata in base alle linee ed ai contenuti scaturiti dai lavori della Commissione nazionale per la redazione di una bozza di statuto, denominato "Statuto dei diritti dei lavoratori", alla cui presidenza fu Gino Giugni, stimato docente universitario.
La Commissione fu istituita da Giacomo Brodolini, sindacalista socialista che fu Ministro del lavoro e che legò il suo nome anche alla importante riforma del 1969 della Previdenza sociale (legge n. 153 del 1969), nota come “Riforma Brodolini per la revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale”; la cosiddetta riforma delle pensioni che consolidò i principi di solidarietà tra lavoratori, con il passaggio dal sistema "a capitalizzazione" (oggi purtroppo tornato in auge, a seguito delle controriforme di matrice neoliberista) a quello "a ripartizione", dove i lavoratori attivi finanziano con i loro contributi i non più attivi.
Lo Statuto dei lavoratori rappresentò il massimo risultato in termini di applicazione di diritti fondamentali dei lavoratori come previsto dal dettato costituzionale e di riordino delle normative approvate negli anni ’60, nel quadro di un indirizzo coerente con il pensiero e la prassi politiche del riformismo socialista, maturato anche a seguito della spinta delle rivendicazioni e delle lotte sindacali di quegli anni e in particolare dell’autunno caldo del ’69.
Ora, dallo studio delle finalità e dei contenuti della legge 300, ritengo si possa persino affermare che tali norme non tendono affatto ad elidere il sistema economico capitalistico, ma lo regolamentano (rafforzandolo?) in base ai principi propri dello stato sociale riformista proprio del modello keynesiano.
Giova anche rammentare che tale riordino in materia di diritto del lavoro fu fortemente voluto da Pietro Nenni, che ne fece un cavallo di battaglia reputando potesse essere una delle vie idonee a condurre stabilmente i socialisti alla guida del Paese, con l’obiettivo politico strategico di marginalizzare proprio il Partito Comunista Italiano e le forze anticapitaliste sulle materie economiche e, conseguentemente, nel governo delle tematiche sul lavoro.
D’altronde, fin dal 1963 (avvio del primo centro-sinistra organico a guida Aldo Moro) i socialisti molto si adoperarono per l’approvazione di norme giuridiche miranti alla tutela, al rispetto e alla dignità dei lavoratori quali, ed esempio, quelle per la tutela delle donne lavoratrici con l’abolizione della cosiddetta “clausola del nubilato” (legge n. 7 del 1963), vietando il licenziamento per causa di matrimonio e consentendo l'accesso delle donne ai pubblici uffici e alle professioni.
Norme che nel loro corpus andavano a costituire il complesso contesto normativo idoneo alla ridefinizione di una nuova figura di lavoratore, perfettamente inserito e tutelato nell’efficace sistema di welfare in fase di costruzione in quel periodo storico nel Paese, che faceva seguito alla grande fase di industrializzazione fordista post-bellica.
Accompagnandosi, inoltre, alla prima seria azione di politica industriale e di programmazione economica, con il determinante ruolo del sistema delle partecipazioni statali, con conseguente rilevante proprietà pubblica dei mezzi di produzione in settori strategici; è in quegli anni, infatti, che si procede ad istituire l’omonimo ministero (legge n. 48 del 1967) più volte a guida di Antonio Giolitti.
Ora, voler dare a ciò un contenuto anticapitalista (ho difficoltà a vedere in Brodolini un bolscevico) e di attacco “destrutturante” al sistema borghese mi sembra, oltre che non rigoroso dal punto di vista storico, francamente eccessivo; ma ciò, sia nei contenuti propositivi e visto il contesto attuale dominato dal pensiero populista e reazionario delle destre al governo, si può anche accettare.
Sorge però, a questo punto, spontanea una riflessione. Ma se sono queste le opzioni di politica economica oggi cardine della sinistra comunista e anticapitalista, cosa mai ci potrà proporre la sinistra riformista moderata? Mala tempora currunt.
Marco Foroni
Docente di Organizzazione aziendale
Oggi 24 maggio 2009, 7 ore fa
Lo Statuto dei lavoratori e il socialismo keynesiano. E oggi?
Oggi 24 maggio 2009, 7 ore fa
Giacomo Brodolini
Mi capita in questo periodo di partecipare a dibattiti e di leggere di frequente proposte politico-economiche cui viene data una valenza e un contenuto da opzione rigorosamente anticapitalista. In particolare, da parte della sinistra comunista che si richiama alla GUE-Sinistra Europea, cui va comunque dato atto di prese di posizioni forti e chiare a difesa delle conquiste delle classi lavoratrici e per il rilancio della giustizia e dell’equità sociale; in ogni caso, direi, tra le pochissime nell’attuale modesto panorama politico italiano e a forte richiamo identitario per la sinistra del Paese.
Nello specifico, mi riferisco alle tematiche inerenti: -alla redistribuzione dei redditi attraverso una politica fiscale progressiva quale strumento pubblico di risposta alla polarizzazione della ricchezza dopo trenta anni di neoaccumulazione capitalista; -ai diritti sui luoghi di lavoro, con esplicito riferimento allo Statuto dei lavoratori.
In merito al primo aspetto, mi sembra di cogliere chiari richiami a princìpi economici propri del modello keynesiano e al complesso dei valori del liberalismo progressista einaudiano. In effetti sembra proprio un riproporsi del pensiero di Einaudi, laddove esprimeva che un regime di piena libertà può e deve includere, tra i suoi obiettivi, la realizzazione della giustizia sociale.
Quindi: vero che, come ha ri-confermato di recente l’OCSE (Rapporto sul prelievo fiscale sui salari 2007-2008) nel nostro Paese i salari sono drammaticamente bassi, ma certo l’applicazione di una politica fiscale a favore dei redditi bassi (in particolare da lavoro dipendente) non sarebbe misura sufficiente (seppur necessaria) per il superamento delle iniquità esistenti, come ho già evidenziato in un mio recente saggio. Ci ritorneremo più approfonditamente.
Più nel dettaglio, con riferimento invece alle riflessioni sulla genesi e l’approvazione dello Statuto dei lavoratori, questo certo non fu conseguito a seguito di attacchi del movimento anticapitalista e comunista, con l’obiettivo di intaccare (nel caso fossero stati) la stabilità dell’assetto capitalistico borghese.
Premesso che lo Statuto non derivò da trattative tra le parti sociali, la norma istitutiva dello stesso (la legge n. 300 del 1970) fu approvata in base alle linee ed ai contenuti scaturiti dai lavori della Commissione nazionale per la redazione di una bozza di statuto, denominato "Statuto dei diritti dei lavoratori", alla cui presidenza fu Gino Giugni, stimato docente universitario.
La Commissione fu istituita da Giacomo Brodolini, sindacalista socialista che fu Ministro del lavoro e che legò il suo nome anche alla importante riforma del 1969 della Previdenza sociale (legge n. 153 del 1969), nota come “Riforma Brodolini per la revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale”; la cosiddetta riforma delle pensioni che consolidò i principi di solidarietà tra lavoratori, con il passaggio dal sistema "a capitalizzazione" (oggi purtroppo tornato in auge, a seguito delle controriforme di matrice neoliberista) a quello "a ripartizione", dove i lavoratori attivi finanziano con i loro contributi i non più attivi.
Lo Statuto dei lavoratori rappresentò il massimo risultato in termini di applicazione di diritti fondamentali dei lavoratori come previsto dal dettato costituzionale e di riordino delle normative approvate negli anni ’60, nel quadro di un indirizzo coerente con il pensiero e la prassi politiche del riformismo socialista, maturato anche a seguito della spinta delle rivendicazioni e delle lotte sindacali di quegli anni e in particolare dell’autunno caldo del ’69.
Ora, dallo studio delle finalità e dei contenuti della legge 300, ritengo si possa persino affermare che tali norme non tendono affatto ad elidere il sistema economico capitalistico, ma lo regolamentano (rafforzandolo?) in base ai principi propri dello stato sociale riformista proprio del modello keynesiano.
Giova anche rammentare che tale riordino in materia di diritto del lavoro fu fortemente voluto da Pietro Nenni, che ne fece un cavallo di battaglia reputando potesse essere una delle vie idonee a condurre stabilmente i socialisti alla guida del Paese, con l’obiettivo politico strategico di marginalizzare proprio il Partito Comunista Italiano e le forze anticapitaliste sulle materie economiche e, conseguentemente, nel governo delle tematiche sul lavoro.
D’altronde, fin dal 1963 (avvio del primo centro-sinistra organico a guida Aldo Moro) i socialisti molto si adoperarono per l’approvazione di norme giuridiche miranti alla tutela, al rispetto e alla dignità dei lavoratori quali, ed esempio, quelle per la tutela delle donne lavoratrici con l’abolizione della cosiddetta “clausola del nubilato” (legge n. 7 del 1963), vietando il licenziamento per causa di matrimonio e consentendo l'accesso delle donne ai pubblici uffici e alle professioni.
Norme che nel loro corpus andavano a costituire il complesso contesto normativo idoneo alla ridefinizione di una nuova figura di lavoratore, perfettamente inserito e tutelato nell’efficace sistema di welfare in fase di costruzione in quel periodo storico nel Paese, che faceva seguito alla grande fase di industrializzazione fordista post-bellica.
Accompagnandosi, inoltre, alla prima seria azione di politica industriale e di programmazione economica, con il determinante ruolo del sistema delle partecipazioni statali, con conseguente rilevante proprietà pubblica dei mezzi di produzione in settori strategici; è in quegli anni, infatti, che si procede ad istituire l’omonimo ministero (legge n. 48 del 1967) più volte a guida di Antonio Giolitti.
Ora, voler dare a ciò un contenuto anticapitalista (ho difficoltà a vedere in Brodolini un bolscevico) e di attacco “destrutturante” al sistema borghese mi sembra, oltre che non rigoroso dal punto di vista storico, francamente eccessivo; ma ciò, sia nei contenuti propositivi e visto il contesto attuale dominato dal pensiero populista e reazionario delle destre al governo, si può anche accettare.
Sorge però, a questo punto, spontanea una riflessione. Ma se sono queste le opzioni di politica economica oggi cardine della sinistra comunista e anticapitalista, cosa mai ci potrà proporre la sinistra riformista moderata? Mala tempora currunt.
Marco Foroni
Docente di Organizzazione aziendale
Piero Ignazi: la costante overdose
La costante overdose
Piero Ignazi, Il Mulino, 24 maggio 2009
Il rumore delle vicende pubbliche e private del presidente del Consiglio continua ad assordarci. I giornali e le televisioni grondano di notizie su ogni parola, ogni sussurro e grido dell'indiscusso protagonista. Il quale, a sua volta, inerviene a ruota libera su qualsiasi argomento, sicuro che non mancheranno gazzettieri solerti pronti a rilanciare il verbo.
Una banale analisi dello spazio occupato sulla stampa quotidiana dalle dichiarazioni di Silvio Berlusconi dal 2006 ad oggi, ovvero in tempi di governo e di opposizione, dimostra ad abundantiam lo stato di occupazione permanente esercitato dal presidente. Ma questa overdose berlusconiana non sembra provocare alcuna crisi di rigetto. Anzi, per mantenere in equilibrio il sistema le dosi devono crescere continuamente, e non per nulla la presa della Rai consentirà di alzare ancora il livello di somministrazione di notizie a proposito delle vicende pubbliche e private di Berlusconi.
Il kombinat di potere economico, mediatico e politico nelle mani di un solo individuo dovrebbe scandalizzare e inquietare tutti i liberal-costituzionali – per riprendere una definizione di Nicola Matteucci – cioè tutti coloro che dovrebbero essere attenti alla lezione di Alexis de Tocqueville sui pericoli della degenerazioni della democrazia e della concentrazione del potere. Perché invece ciò non accade? Innanzitutto per effetto dell’assuefazione. Dopo quindici anni durante i quali nulla è stato fatto in merito al conflitto di interessi – e quanti sono stati gli ingenui convinti che il Cavaliere stesso l’avrebbe risolto! – si è sfiniti, stanchi di ripetere le stesse cose, mentre l’altro va beato e tranquillo per la sua strada irridendo coloro che sollevano il problema. Al punto che quasi nessuno ne parla più. Chi ancora lo fa suscita un moto di fastidio: non se ne può più, ancora questa storia… Tuttavia, occore ricordare che l’assuefazione è il primo segnale del cedimento di un sistema. Mutatis mutandis, si torna al vecchio motto: quel che è reale è razionale. Il resto sono ubbie di intellettuali invidiosi, senza donne belle e giovani al fianco.
Accade così, che anche notizie che in altri momenti sarebbero apparse come rilevanti, quale il declassamento dell'Italia da parte della Freedom House da Paese con stampa "libera" a Paese con stampa "parzialmente libera", scompaiono rapidamente dall’orizzonte del dibattito politico. In pratica, siamo iamo considerati al pari di Hong Kong, che vive sotto l’occhiuto controllo della Cina comunista. Una situazione inquietante. Ma anche a questo ci abitueremo, così come ad altro, poiché orami quasi nessuna si cura più di problemi astratti e astrusi come l’indipendenza dei media. Il nuovo editto del presidente del Consiglio su quella aula sordida e grigia che va modificata a furor di popolo affinché il suo governo possa finalmente lavorare sarà accolto dagli osanna dei teleplaudenti. In fondo, non è altro che il primo assaggio della salsa venezuelana con cui verrà “condito” il nostro Paese.
Piero Ignazi, Il Mulino, 24 maggio 2009
Il rumore delle vicende pubbliche e private del presidente del Consiglio continua ad assordarci. I giornali e le televisioni grondano di notizie su ogni parola, ogni sussurro e grido dell'indiscusso protagonista. Il quale, a sua volta, inerviene a ruota libera su qualsiasi argomento, sicuro che non mancheranno gazzettieri solerti pronti a rilanciare il verbo.
Una banale analisi dello spazio occupato sulla stampa quotidiana dalle dichiarazioni di Silvio Berlusconi dal 2006 ad oggi, ovvero in tempi di governo e di opposizione, dimostra ad abundantiam lo stato di occupazione permanente esercitato dal presidente. Ma questa overdose berlusconiana non sembra provocare alcuna crisi di rigetto. Anzi, per mantenere in equilibrio il sistema le dosi devono crescere continuamente, e non per nulla la presa della Rai consentirà di alzare ancora il livello di somministrazione di notizie a proposito delle vicende pubbliche e private di Berlusconi.
Il kombinat di potere economico, mediatico e politico nelle mani di un solo individuo dovrebbe scandalizzare e inquietare tutti i liberal-costituzionali – per riprendere una definizione di Nicola Matteucci – cioè tutti coloro che dovrebbero essere attenti alla lezione di Alexis de Tocqueville sui pericoli della degenerazioni della democrazia e della concentrazione del potere. Perché invece ciò non accade? Innanzitutto per effetto dell’assuefazione. Dopo quindici anni durante i quali nulla è stato fatto in merito al conflitto di interessi – e quanti sono stati gli ingenui convinti che il Cavaliere stesso l’avrebbe risolto! – si è sfiniti, stanchi di ripetere le stesse cose, mentre l’altro va beato e tranquillo per la sua strada irridendo coloro che sollevano il problema. Al punto che quasi nessuno ne parla più. Chi ancora lo fa suscita un moto di fastidio: non se ne può più, ancora questa storia… Tuttavia, occore ricordare che l’assuefazione è il primo segnale del cedimento di un sistema. Mutatis mutandis, si torna al vecchio motto: quel che è reale è razionale. Il resto sono ubbie di intellettuali invidiosi, senza donne belle e giovani al fianco.
Accade così, che anche notizie che in altri momenti sarebbero apparse come rilevanti, quale il declassamento dell'Italia da parte della Freedom House da Paese con stampa "libera" a Paese con stampa "parzialmente libera", scompaiono rapidamente dall’orizzonte del dibattito politico. In pratica, siamo iamo considerati al pari di Hong Kong, che vive sotto l’occhiuto controllo della Cina comunista. Una situazione inquietante. Ma anche a questo ci abitueremo, così come ad altro, poiché orami quasi nessuna si cura più di problemi astratti e astrusi come l’indipendenza dei media. Il nuovo editto del presidente del Consiglio su quella aula sordida e grigia che va modificata a furor di popolo affinché il suo governo possa finalmente lavorare sarà accolto dagli osanna dei teleplaudenti. In fondo, non è altro che il primo assaggio della salsa venezuelana con cui verrà “condito” il nostro Paese.
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