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Io: un socialista in Sinistra e Libertà
Post n°320 pubblicato il 24 Novembre 2009 da socialismoesinistra
Passato il momento di rabbia (misto ad amarezza) per la decisione di Nencini (e presumo dell’intera segreteria del PS (I!) ) di rompere con Sinistra e Libertà, credo che debba subentrare in me un momento di riflessione più pacata cercando di capire cosa è veramente accaduto. Non perché io possa attenuare i giudizi fortemente critici su come il gruppo dirigente del PS ha impostato il suo rapporto con Sinistra e Libertà. Ma perché credo che io e tutti coloro che credono sinceramente nel Progetto di SeL ci si debba interrogare su quali possono essere le prospettive di un progetto politico che ritengo non possa essere assolutamente abbandonato, pena la definitiva scomparsa di una sinistra riconoscibile e seria in Italia.
Io non ho mai creduto che Nencini e gran parte del gruppo dirigente che viene dallo SDI (e meno che mai di quelli che provengono dal Nuovo PSI) abbiano mai creduto sul serio in SeL. SeL è il frutto della legge sullo sbarramento al 4%. E’ stata concepita come un cartello elettorale.
Ma il buon risultato (buono se consideriamo il quadro di contorno) e una passione comune tra militanti provenienti da soggetti politici diversi che si sono incontrati ed hanno fatto massa critica durante la campagna elettorale. Ecco perché SeL è stata diversa da altre esperienze puramente elettoralistiche come La Rosa nel Pugno ed ancor più la Sinistra Arcobaleno, subito svanite dopo le elezioni.
SeL , come ha detto un bravissimo compagno di provenienza PCI, Spartaco Innocenzi, ha innanzi tutto iniziato a far crollare quel muro odioso fatto di diffidenze ed ostilità reciproche tra compagni di provenienza socialista e comunista. Un muro costruito ad arte dai ceti politici, da ceti politici entrambi sconfitti dalla storia. Ha fatto emergere che in questo spaccato parziale di popolo della sinistra c’è molto più quello che unisce di ciò che divide, e il ciò che divide fa parte della normale dialettica politica che è di per sé fonte perenne di vitalità democratica.
Quindi mi ero convinto che l’esperienza di SeL sarebbe andata avanti, sia pur tra problemi e contraddizioni non risolte. Invece oggi si rischia che il processo vada sì avanti (ed io sono perché vada comunque avanti) ma rischia di perdere qualcosa della sua originalità se non si chiariscono alcuni problemi di fondo.
Non c’è dubbio che una grossa responsabilità la porti con sé Nencini e quelli della maggioranza del suo partito. La vicenda toscana ha dato luogo a legittimi sospetti che andavano chiariti immediatamente. Nencini voleva una SeL in forma federativa (cosa che non condivido) , ma a Bagnoli di fatto (pur con le incompletezze e le ambiguità del documento finale), l’ipotesi federativa era stata di fatto superata; pur con gradualità SeL si avviava ad essere un soggetto politico unitario e non una federazione. Vi sono state delle prese di posizioni di Nencini che apparivano talvolta provocatorie e volte a creare un clima artificioso di tensione interna; la stessa decisione della direzione PS di aggiungere la I andava nel senso di marcare un malinteso identitarismo. Fra l’altro appariva a tratti evidente che vi fosse un dissenso politico tra Nencini e Di Lello (quest’ultimo appariva nettamente più favorevole ad SeL quale soggetto vero).
Ma non possiamo ignorare che ambiguità e lacune serie hanno riguardato anche gli altri soggetti politici che hanno dato vita a Sinistra e Libertà.
Io sono un ammiratore di Nichi Vendola. E sul serio (anche se non mi piacciono le tifoserie lideristiche che gli stanno dietro). Per la sua grande capacità di comunicare e coinvolgere emotivamente non su slogan monotoni ma su questioni profonde e serie, per sua grande capacità di analisi della società italiana di oggi e della profonda crisi della politica; per il suo innato senso di sintesi politica. Vendola per me è il leader giusto per ricostruire la sinistra italiana.
Ma, per l’appunto, deve scegliere se fare il leader o il governatore della Puglia. Vendola non è uomo di potere. Se lui insiste implicitamente nel voler fare contemporaneamente le due cose è perché probabilmente sa che la carica di governatore da più visibilità a Sinistra e Libertà in tempi dove purtroppo il dato mediatico è fondamentale. Ma è evidente che il mancato scioglimento di tale nodo è un peso per il percorso politico.
Problemi ve ne sono anche in SD dove, dopo la incredibile scelta di Salvi, si è attenuato il carattere socialista del movimento, e con Fava si è spesso scivolato su un terreno che liscia il pelo al giustizialismo. Sulla contrapposizione al dipietrismo ed al qualunquismo giustizialista sono molto più d’accordo con Vendola e Sansonetti che con Fava. Così come mi preoccupano le voci di una avvicinamento al PD di alcuni esponenti SD.
La vicenda è quindi complessa.
Io resto persuaso che la strada resta quella tracciata a Bagnoli: costruire un nuovo soggetto politico della sinistra. SeL non sarà assolutamente la panacea di tutti mali ma può essere il primo mattone per ricostruire la sinistra italiana distrutta prima da Craxi e poi da D’Alema e Veltroni.
E’ una esigenza del paese.
Se voi avete seguito la tv negli ultimi mesi vi accorgete che non c’è opposizione. Non c’è da parte del PD che, nonostante la elezione di Bersani, è ben lontano dall’aver risolto le formidabili contraddizioni su cui si fondata la sua nascita. Non c’è da parte di Di Pietro perché il suo è un puro antiberlusconismo urlato (ma poi in parlamento spesso s’acconcia). Insomma sia da parte del PD che da parte di Di Pietro manca un progetto politico alternativo al centrodestra ed aggiungo a qualsiasi centrodestra sia esso guidato da Berlusconi che non.
Non deve sfuggirci il dato che in Italia la politica negli ultimi 15 anni è stata in mano alle lobby ed ai poteri invisibili. Non dimentichiamo che il PD è nato sotto il forte condizionamento della lobby di De Benedetti-Scalfari (anche se forse Bersani ne attenuerà l’influenza.
La mancanza di una vera opposizione la si vede nei contenuti. Il paese sta vivendo una gravissima crisi sociale; alla fine dell’anno avremo quasi un milione di posti di lavoro in meno rispetto all’anno precedente. Chi ne parla? Chi parla dell’aumento della povertà? L’opposizione si fa sulle misere storie da postribolo di Berlusconi. La si fa sulle vicende giudiziarie (fatto serissimo: ma quando non si riesce ad arrivare a fine mese le vicende giudiziarie passano in secondo piano rispetto alle risposte che si danno per combattere la crisi sociale).
Una opposizione in grado di legare la lotta per la difesa della democrazia dal tentativo di distruggerne le fondamenta formali, con la lotta per la giustizia sociale ed il lavoro, non esiste.
Ecco perché serve una sinistra che non sia velleitarmente antagonista ma non esprima neanche il riformismo debole e subalterno al liberismo prevalente nel PD.
Serve Sinistra e Libertà.
Perché serve una sinistra che sappia compenetrare il riformismo con la radicalità, la capacità di governo con una offerta alternativa di società rispetto a quella plasmata dal neoliberismo. Non serve né Bersani, né Ferrero. Serve piuttosto una sinistra che sappia recuperare tra i suoi riferimenti quella cultura socialista uccisa dal post-craxismo e dal post-comunismo. Quella di Lombardi, Giolitti, Fernando Santi e Brodolini. Quella che ha espresso la più grande stagione riformatrice mai avvenuta in Italia; dal 1963 al 1971.
Ecco perché è essenziale che i socialisti non si perdano in un partitino post-craxiano, ma siano l’anima vivificatrice della nuova sinistra da costruire. Non un ceto politico in cerca di prebende, ma militanti, intellettuali, portatori di una cultura politica essenziale al futuro della sinistra.
Giuseppe Giudice
Sinistra e Libertà
Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
domenica 29 novembre 2009
Piero Ignazi: Che fatica, l'Europa!
dal sito de Il Mulino
La nota
Che fatica, l'Europa!
Piero Ignazi, 23 novembre 2009
Lasciamo perdere Tony Blair, Massimo D’Alema e gli altri candidati a Presidente e Ministero degli Esteri (per due anni e mezzo) dell'Unione Europea, nomi fatti ruotare vorticosamente in queste ultime settimane per quel gioco delle indiscrezioni e dei retroscena che tanto piace ai media. Il senso delle nomine uscite dal Consiglio europeo non sta solo e tanto nelle persone scelte: sta nel metodo. E il metodo ci dice quanto “intergovernativa”, duramente e ferocemente intergorvernativa, sia diventata l’Ue. Vale a dire: sono i governi, con le loro logiche nazionali, a dettare incondizionatamente l’agenda e i nomi.
E lo fanno in maniera esclusiva ed escludente: vale a dire escludendo gli attori “comunitari”, Commissione ed Europarlamento. Si potrà discutere ad infinitum sul doppiogioco o sulla sprovvedutezza del capogruppo del gruppo Socialisti e Democratici (la nuova denominazione del Pse assunta proprio per accogliere il Pd senza troppi mal di pancia degli ex Dc) a Strasburgo, Martin Shultz, ma la realtà è che i rappresentati del popolo “socialista e democratico” europeo, avevano espresso all’unanimità un candidato, Massimo D’Alema. Scelta buona o cattiva, non è questo il punto: è stata una designazione corale da parte di rappresentati eletti in un organo transnazionale che, appunto, trascende le singole nazionalità. Lo schiaffo del Consiglio Europeo non riguarda la persona D’Alema bensì il Parlamento europeo. Come si permettono questi eurodeputati a ficcare il naso in faccende che competono ai governi nazionali, avranno detto con un’ alzata di spalle i vari primi ministri?
In effetti il punto politico-istituzionale di tutta la vicenda è proprio questo. Per avere un punto di riferimento pensiamo alla nomina del Presidente della Commissione e dei Commissari. Queste nomine sono una prerogativa dei governi ma, passo a passo, il Parlamento europeo ha acquisito sempre maggior peso nel condizionare la scelta, votando la fiducia tanto al Presidente della Commissione quanto alla Commissione nella sua interezza dopo aver passato sulla graticola i candidati commissari ( e Rocco Buttiglione ne sa qualcosa…) . Ebbene, spetta ora al Parlamento, se lo vuole, inserire una dinamica di condizionamento delle nuove cariche di Presidente e Ministro degli Esteri dell’UE per recuperare il terreno perso. La lotta che si continua a combattere nell’Unione europea è tra chi la vede un affare di governi che si coordinano e chi la vede come di una entità sopranazionale che “impone” - piaccia o non piaccia agli isterismi euroscettici – le sue scelte ai governi. Del resto, se i governi non avessero accettato che le norme europee – in determinati campi, s’intende - prevalessero su quelle nazionali, saremmo ancora all’abc dell’integrazione. Alcuni, molti, vogliono far regredire l’Europa a quel livello: resuscitare il peggio di De Gaulle (a suo modo, un grande europeista) coniugandolo con il meglio - o il peggio, non importa - della Thatcher ( comunque una grande euroscettica) per disegnare una Europa delle patrie in cui i governi rifiutano di cedere sovranità nazionale ad una entità sovrananzionale. Questa tendenza, in occasione delle nomine, è emersa in maniera lampante. Il percorso dell’integrazione è sempre più in salita. Forse Altiero Spinelli invece di richiamarsi ad Ulisse avrebbe dovuto riferirsi a Sisifo.
La nota
Che fatica, l'Europa!
Piero Ignazi, 23 novembre 2009
Lasciamo perdere Tony Blair, Massimo D’Alema e gli altri candidati a Presidente e Ministero degli Esteri (per due anni e mezzo) dell'Unione Europea, nomi fatti ruotare vorticosamente in queste ultime settimane per quel gioco delle indiscrezioni e dei retroscena che tanto piace ai media. Il senso delle nomine uscite dal Consiglio europeo non sta solo e tanto nelle persone scelte: sta nel metodo. E il metodo ci dice quanto “intergovernativa”, duramente e ferocemente intergorvernativa, sia diventata l’Ue. Vale a dire: sono i governi, con le loro logiche nazionali, a dettare incondizionatamente l’agenda e i nomi.
E lo fanno in maniera esclusiva ed escludente: vale a dire escludendo gli attori “comunitari”, Commissione ed Europarlamento. Si potrà discutere ad infinitum sul doppiogioco o sulla sprovvedutezza del capogruppo del gruppo Socialisti e Democratici (la nuova denominazione del Pse assunta proprio per accogliere il Pd senza troppi mal di pancia degli ex Dc) a Strasburgo, Martin Shultz, ma la realtà è che i rappresentati del popolo “socialista e democratico” europeo, avevano espresso all’unanimità un candidato, Massimo D’Alema. Scelta buona o cattiva, non è questo il punto: è stata una designazione corale da parte di rappresentati eletti in un organo transnazionale che, appunto, trascende le singole nazionalità. Lo schiaffo del Consiglio Europeo non riguarda la persona D’Alema bensì il Parlamento europeo. Come si permettono questi eurodeputati a ficcare il naso in faccende che competono ai governi nazionali, avranno detto con un’ alzata di spalle i vari primi ministri?
In effetti il punto politico-istituzionale di tutta la vicenda è proprio questo. Per avere un punto di riferimento pensiamo alla nomina del Presidente della Commissione e dei Commissari. Queste nomine sono una prerogativa dei governi ma, passo a passo, il Parlamento europeo ha acquisito sempre maggior peso nel condizionare la scelta, votando la fiducia tanto al Presidente della Commissione quanto alla Commissione nella sua interezza dopo aver passato sulla graticola i candidati commissari ( e Rocco Buttiglione ne sa qualcosa…) . Ebbene, spetta ora al Parlamento, se lo vuole, inserire una dinamica di condizionamento delle nuove cariche di Presidente e Ministro degli Esteri dell’UE per recuperare il terreno perso. La lotta che si continua a combattere nell’Unione europea è tra chi la vede un affare di governi che si coordinano e chi la vede come di una entità sopranazionale che “impone” - piaccia o non piaccia agli isterismi euroscettici – le sue scelte ai governi. Del resto, se i governi non avessero accettato che le norme europee – in determinati campi, s’intende - prevalessero su quelle nazionali, saremmo ancora all’abc dell’integrazione. Alcuni, molti, vogliono far regredire l’Europa a quel livello: resuscitare il peggio di De Gaulle (a suo modo, un grande europeista) coniugandolo con il meglio - o il peggio, non importa - della Thatcher ( comunque una grande euroscettica) per disegnare una Europa delle patrie in cui i governi rifiutano di cedere sovranità nazionale ad una entità sovrananzionale. Questa tendenza, in occasione delle nomine, è emersa in maniera lampante. Il percorso dell’integrazione è sempre più in salita. Forse Altiero Spinelli invece di richiamarsi ad Ulisse avrebbe dovuto riferirsi a Sisifo.
Luca Telese: Tobagi e la letteratura degli anni di piombo
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Pubblicato il 27 novembre 2009 nella sezione Il Fatto — Condividi
All’inizio non avevo capito bene, ci ho dovuto pensare su. C’era qualcosa di molto importante, nel libro di Benedetta Tobagi su suo padre, ma che io non riuscivo a inquadrare bene.
L’ho capito quasi alla fine, quando sono arrivato a un capitolo che si intitola “Voci”. in quelle pagine, che sono uno snodo decisivo di tutto il racconto, ci sono due aneddoti che potrebbero condensare tutto il senso del libro. Il primo è quello in cui Benedetta è alle prese con 98 nastri in cui Walter Tobagi ha diligentemente raccolto tutte le registrazioni delle sue interviste. Qui Benedetta è drastica: “Ci sono lezioni universitarie, qualche intervento a congressi. Il tono è vescovile, quasi soporifero”. Parla del padre che ama follemente, e a cui ha dedicato un monumento di carta di trecento pagine, insomma: ma non cede mai alla tentazione apologetica. Anzi. Sia in questo caso, che in altri passaggi decisivi, prova sempre a combatterla, e questa lotta controcorrente, è una delle sottotracce che conferisce dinamismo a tutto il racconto. Il secondo aneddoto, invece, è il cuore di tutto. Arriva proprio alla fine, quando sembra che la ricerca tra i reperti di casa, non abbia salvato proprio nulla del lessico familiare, del papà che Benedetta ha perso, e di cui non possiede nemmeno un ricordo diretto. E’ a questo punto che “Dopo aver rovistato in ogni angolo di casa, da un armadietto salta fuori una scatola di vecchie cassette scarabocchiate”. Ci sono due nastri anonimi, gusci di plastica affiorati dall’antiquariato delgi anni settanta. In uno dei due c’è un reperto di un minuto e 57 secondi che commuove (sia Benedetta, sia noi che leggiamo): “Stiamo registrando, ragazzi! Questa è la voce del papà che parla!”. Lo ho trovato, lo abbiamo trovato. Subito dopo, in un circuito di piani narrativi e di memoria, ritornano la voce con la zeppola di Tobagi (solitamente corretta dal giornalista in pubblico), la voce del fratello, e il prodigio dell’intervista scherzosa del papà alla stessa Benedetta: “Adesso si sente la voce della Bebina…”. E’ Walter che ripetutamente la invita a parlare. La bimba è riluttante, poi prende coraggio e affronta il microfono: “Tanti auguri papà”.
E’ stato a questo punto che ho capito quello che non riuscivo a mettere a fuoco, prima. Non solo su “Come ti batte forte il mio cuore”, ma su tutta l’ultima letteratura che ha dato voce alle vittime degli anni di piombo. Fino a non più di tre quattro anni fa, la memorialistica della stagione più complessa della nostra storia recente, contemplava solo le testimonianze dei carnefici. Per motivi diversi (il peso del lutto sui protagonisti e sui loro familiari, l’interesse distorto dei media, la sciatteria delle case editrici, la pigrizia dei giornalisti) sembrava che solo Caino fosse destinato a fare notizia.
E così, gli anni di piombo diventavano un ennesimo paradosso italiano, l’unico luogo del mondo e della storia, in cui la verità storica l’hanno fatta prima i vinti che i vincitori. Era più facile che si raccontasse la biografia di Valerio Fioravanti, che quella del giudice Alessandrini, era più folta la bibliografia degli ex brigatisti che quella degli ex gambizzati (fenomeno che nel cinema contina ancora oggi). Per anni c’era un solo meraviglioso libro che rompesse questa regola, “Colpo alla Nuca”, scritto dall’architetto di Sergio Lenci, sopravvissuto ad un attentato nel 1980: ma era una chicca per bibliofili, un rarità antiquaria letta da poco più di un di un migliaio di lettori. Oggi, dopo alcuni libri-chiave (il più importante è stato “Spingendo la notte più là” di Mario Calabresi, il più completo “Il Silenzio degli innocenti” di Giovanni Fasanella e Antonella Grippo) arrivano le storie delle vittime, e scalano le classifiche, accumulano le ristampe una sull’altra. Con una particolarità. A scrivere è la seconda generazione: il figlio di Alessandrini, la figlia di Guido Rossa, il figlio di Torregiani, la figlia di Tobagi, Silvia la figlia di Graziano Giralucci (prima vittima delle Br, a Padova nel 1974) che sta lavorando contemporaneamente un libro e un film.
Ma questa anomalia ne ha prodotta un’altra. La prima è che il ricordo della seconda generazione non è meno nitido, ma se possibile più forte di quello della prima: possiede l’amplificazione di una emotività troppo a lungo compressa, e non conosce il filtro del pudore di chi è stato colpito direttamente. Il secondo: la letteratura “brigatese”, fatta dai protagonisti, e dagli ex più o meno pentiti, ha una funzione sostanzialmente assolutoria. La letteratura delle vittime della seconda generazione, invece, solo apparentemente, o solo indirettamente ha per oggetto il racconto della lotta armata, e ha una aspirazione civile (e una oggettiva funzione terapeutica rispetto al trauma del lutto).
Certo, la violenza poi arriva, e proprio per tutto quello che ho detto, la senti ancora di più. Arriva con la capacità mitografica della morte annunciata. Prendete “Come ti batte forte il mio cuore”. Ti si spezza il fiato in petto quando apri il capitolo che inizia con questa citazione del diario di Tobagi: “Che cos’è la paura? Camminare per strada e sobbalzare a ogni macchina che ti passa vicino, guidare l’automobile e spaventarsi ad ogni moto che ti si affianca L’altra mattina, 30 gennaio mi telefona Abruzzo alle 8 e mezzo. Ha la voce affranta. ‘Gresti ti vuole parlare, dice…’ è stata ritrovata – scriveva Tobagi padre – una scheda con il mio nome nella borsa 24 ore lasciata da un terrorista in viale Lombardia”. Ecco, potrebbe essere Garcia Marquez: l’incubo della lotta armata entra in scena e inizia la sua danza macabra nelle pagine, a metà del racconto. Ma non è il vero cuore narrativo di questo racconto. Penso al libro di Mario Calabresi, e quello che mi resta, due anni dopo la sua uscita, non è la storia della vita del commissario, non sono Lotta Continua e Adriano Sofri, ma l’immagine del bambino che combatte per recuperare il fotogramma di un ricordo, un abbraccio in mezzo a una folla, il padre che solleva il figlio più in alto. Penso al libro di Sabina Rossa, e – malgrado lo stilema sia quello dell’inchiesta – il cuore forte è il recupero del coraggio, le frasi lucidissime di Guido sul senso della storia e l’umanità: il comunista che fa la scelta di vita, e decide che deve testimoniare contro le raccomandazioni di tutti, a rischio della vita, seguendo un imperativo morale. La letteratura brigatista gioca con le prove a discarico, la letteratura civile delle vittime è continuamente tentata dall’assoluto, forse proprio per il desiderio di rispondere con il titanismo alla banalità del male. Sabina Rossa trova la forza di andare a cercare gli uomini del commando che sparò a suo padre: e quando li abbraccia con il suo racconto – ancora una volta le pagine più belle – scopri che dietro non hanno nulla. Volenterosi carnefici: solo automi svuotati di senso, ora che la guerra è finita.
Penso al libro di Benedetta, e se devo dire la cosa che più mi ha avvinto è la capacità di raccontare il padre sviscerando la sua biblioteca, i suo diari, il suo immaginario: l’operazione più squisitamente letteraria e meno cronachistica che si possa immaginare. E’ la Benedetta trentenne, che solo grazie alla scrittura riesce a passare – come nota lei stessa – dal ruolo di orfana, e di figlia minore – a quello di sorella maggiore, e di custode della memoria. E’ la Benedetta che indaga sui libri preferiti e sugli amori inconsolabili, che restituisce vita ai ricordi del ragazzo del Parini in giro nella Londra del Beat (“La più grande impresa del’lautostoppismo moderno è stata portata a termine!”) o dell’editorialista creativo e provocatorio sulla Zanzara. Quella che riesce a navigare “il mare di carta” che le arriva come un lascito testamentario dal padre scomparso. Quella che sostituisce al clichè del giornalista in carriera, al vezzeggiativo “Tobagino” (Giampaolo Pansa), un Walter wertheiano bruciato dalla pasisone del mestiere e quasi ossessionato dalle sue stimmate di homo novus (anzi, simapticamente “populuaris”, per stare al lemma tobagiano recuperato dalla figlia).
Benedetta Tobagi schiva con asciutta e leggiadra ironia la pubblicistica ufficiale sul giornalista-martire (“Ad un convegno dal titolo ‘Tobagi credente’ i contributi migliori sono venuti dai due relatori che si professavano atei”) e ricostruisce un suo Tobagi, diverso da tutti gli altri. Ma anche simile a lei. Ecco, è la stesso prodigio di “Spingendo la notte più in là”. Il Calabresi di Mario è anche un po’ Mario, il Tobagi di Benedetta è anche un po’ Benedetta. Questi figli progressisti proseguono le vite interrotte dei padri, e le sublimano, mentre curano con la scrittura il proprio trauma da abbandono e le proprie ferite. Il busto scoperto dall’ente locale alla piccola Benedetta sembrava “terrificante”, così come il ritratto ad olio “che uno sconosciuto aveva regalato al nonno”. Si va alla scoperta di un nuovo Tobagi, ed il lettore segue Benedetta e partecipa con lei alla ricerca. Anzi alla “Recherche”. C’è molto più Proust che Curcio, in questi libri.
Si potrà dire che questo lavoro di scrittura implica anche la reinvenzione di una identità. Dal punto di vista letterario non è un limite, ma un pregio, e nella letteratura della memoria questo è un lavoro necessario, per colmare i buchi neri prodotti dai delitti. Benedetta, per esempio combatte una civile battaglia contro “il Tobagi eroe craxiano” , riga dopo riga, inciso dopo inciso. Ricorda con fastidio l’iconografia televisiva in cui il suo Tobagi era quasi cancellato in una dissolvenza a base di garofani. Così come il Calabresi umanissimo raccontato da Mario (e da sua moglie Gemma Capra) combatte con il Calabresi grottesco della campagna di demonizzazione di Lotta Continua. Il vero Calabresi, il vero Tobagi, il vero Giralucci e il vero Guido Rossa, forse stanno nel mezzo: non hanno avuto il tempo, la possibilità di emanciparsi dalle maschere mortuarie che la pubblicistica aveva cucito loro addosso: “lo sbirro”, “la spia del Pci”, “il giornalista di Craxi”. I loro figli prendono direzioni opposte e combattono questi stereotipi con la loro scrittura. Calabresi lo fa con gli strumenti di una grande inchiesta giornalistica ed emotiva, Benedetta con un processo che è tutto letterario. Ha in mano un archivio e un biblioteca, e li usa per sostituire al Tobagi stereotipato, uno nuovo: “Ho intessuto un lungo dialogo a distanza con la voce di carta del giornalista Tobagi, un gioco segreto che ha reso lo studio degli anni settanta più leggero. Per ogni tema andavo a cercare se papà ne aveva scritto e rivolgo le mie domande ai quotidiani ingialliti”. Qui la scrittura del padre diventa una sorta di libro iniziatico. Laico, ma allo stesso tempo sacro. I compiti si dividono: il padre lavora sul passato, il figlio sul futuro. Al punto che quando la Tobagi racconta che gira per le scuole a raccontare questa storia, capisci che dalla storia scritta si è passati omericamente alla narrazione orale. Quanto è diverso l’ovale paffuto del giornaliata del Corriere dal ragazzo che annotava nel suo quaderno: “Dov’è spirito popolare voglio essere io: contro chi lo sfrutta, sia esso un tecnocrate o un capitalista”. Ricorda Benedetta che secondo Sciascia “Tobagi era stato ucciso perché aveva metodo”. Verrebbe anche da dire che è anche grazie a questo metodo (la scirtura auotogbiografica, l’autoarchivistica) se oggi Tobagi può risorgere nel racconto della figlia. Quando chiudo questo libro non so se “il vero” Tobagi sia quello di Benedetta. Ogni invenzione narrativa è allo stesso tempo il massimo del tradimento e il massimo della fedeltà. Non è detto che sia una male se la P38 cede il passo alla Madeleine.
Pubblicato il 27 novembre 2009 nella sezione Il Fatto — Condividi
All’inizio non avevo capito bene, ci ho dovuto pensare su. C’era qualcosa di molto importante, nel libro di Benedetta Tobagi su suo padre, ma che io non riuscivo a inquadrare bene.
L’ho capito quasi alla fine, quando sono arrivato a un capitolo che si intitola “Voci”. in quelle pagine, che sono uno snodo decisivo di tutto il racconto, ci sono due aneddoti che potrebbero condensare tutto il senso del libro. Il primo è quello in cui Benedetta è alle prese con 98 nastri in cui Walter Tobagi ha diligentemente raccolto tutte le registrazioni delle sue interviste. Qui Benedetta è drastica: “Ci sono lezioni universitarie, qualche intervento a congressi. Il tono è vescovile, quasi soporifero”. Parla del padre che ama follemente, e a cui ha dedicato un monumento di carta di trecento pagine, insomma: ma non cede mai alla tentazione apologetica. Anzi. Sia in questo caso, che in altri passaggi decisivi, prova sempre a combatterla, e questa lotta controcorrente, è una delle sottotracce che conferisce dinamismo a tutto il racconto. Il secondo aneddoto, invece, è il cuore di tutto. Arriva proprio alla fine, quando sembra che la ricerca tra i reperti di casa, non abbia salvato proprio nulla del lessico familiare, del papà che Benedetta ha perso, e di cui non possiede nemmeno un ricordo diretto. E’ a questo punto che “Dopo aver rovistato in ogni angolo di casa, da un armadietto salta fuori una scatola di vecchie cassette scarabocchiate”. Ci sono due nastri anonimi, gusci di plastica affiorati dall’antiquariato delgi anni settanta. In uno dei due c’è un reperto di un minuto e 57 secondi che commuove (sia Benedetta, sia noi che leggiamo): “Stiamo registrando, ragazzi! Questa è la voce del papà che parla!”. Lo ho trovato, lo abbiamo trovato. Subito dopo, in un circuito di piani narrativi e di memoria, ritornano la voce con la zeppola di Tobagi (solitamente corretta dal giornalista in pubblico), la voce del fratello, e il prodigio dell’intervista scherzosa del papà alla stessa Benedetta: “Adesso si sente la voce della Bebina…”. E’ Walter che ripetutamente la invita a parlare. La bimba è riluttante, poi prende coraggio e affronta il microfono: “Tanti auguri papà”.
E’ stato a questo punto che ho capito quello che non riuscivo a mettere a fuoco, prima. Non solo su “Come ti batte forte il mio cuore”, ma su tutta l’ultima letteratura che ha dato voce alle vittime degli anni di piombo. Fino a non più di tre quattro anni fa, la memorialistica della stagione più complessa della nostra storia recente, contemplava solo le testimonianze dei carnefici. Per motivi diversi (il peso del lutto sui protagonisti e sui loro familiari, l’interesse distorto dei media, la sciatteria delle case editrici, la pigrizia dei giornalisti) sembrava che solo Caino fosse destinato a fare notizia.
E così, gli anni di piombo diventavano un ennesimo paradosso italiano, l’unico luogo del mondo e della storia, in cui la verità storica l’hanno fatta prima i vinti che i vincitori. Era più facile che si raccontasse la biografia di Valerio Fioravanti, che quella del giudice Alessandrini, era più folta la bibliografia degli ex brigatisti che quella degli ex gambizzati (fenomeno che nel cinema contina ancora oggi). Per anni c’era un solo meraviglioso libro che rompesse questa regola, “Colpo alla Nuca”, scritto dall’architetto di Sergio Lenci, sopravvissuto ad un attentato nel 1980: ma era una chicca per bibliofili, un rarità antiquaria letta da poco più di un di un migliaio di lettori. Oggi, dopo alcuni libri-chiave (il più importante è stato “Spingendo la notte più là” di Mario Calabresi, il più completo “Il Silenzio degli innocenti” di Giovanni Fasanella e Antonella Grippo) arrivano le storie delle vittime, e scalano le classifiche, accumulano le ristampe una sull’altra. Con una particolarità. A scrivere è la seconda generazione: il figlio di Alessandrini, la figlia di Guido Rossa, il figlio di Torregiani, la figlia di Tobagi, Silvia la figlia di Graziano Giralucci (prima vittima delle Br, a Padova nel 1974) che sta lavorando contemporaneamente un libro e un film.
Ma questa anomalia ne ha prodotta un’altra. La prima è che il ricordo della seconda generazione non è meno nitido, ma se possibile più forte di quello della prima: possiede l’amplificazione di una emotività troppo a lungo compressa, e non conosce il filtro del pudore di chi è stato colpito direttamente. Il secondo: la letteratura “brigatese”, fatta dai protagonisti, e dagli ex più o meno pentiti, ha una funzione sostanzialmente assolutoria. La letteratura delle vittime della seconda generazione, invece, solo apparentemente, o solo indirettamente ha per oggetto il racconto della lotta armata, e ha una aspirazione civile (e una oggettiva funzione terapeutica rispetto al trauma del lutto).
Certo, la violenza poi arriva, e proprio per tutto quello che ho detto, la senti ancora di più. Arriva con la capacità mitografica della morte annunciata. Prendete “Come ti batte forte il mio cuore”. Ti si spezza il fiato in petto quando apri il capitolo che inizia con questa citazione del diario di Tobagi: “Che cos’è la paura? Camminare per strada e sobbalzare a ogni macchina che ti passa vicino, guidare l’automobile e spaventarsi ad ogni moto che ti si affianca L’altra mattina, 30 gennaio mi telefona Abruzzo alle 8 e mezzo. Ha la voce affranta. ‘Gresti ti vuole parlare, dice…’ è stata ritrovata – scriveva Tobagi padre – una scheda con il mio nome nella borsa 24 ore lasciata da un terrorista in viale Lombardia”. Ecco, potrebbe essere Garcia Marquez: l’incubo della lotta armata entra in scena e inizia la sua danza macabra nelle pagine, a metà del racconto. Ma non è il vero cuore narrativo di questo racconto. Penso al libro di Mario Calabresi, e quello che mi resta, due anni dopo la sua uscita, non è la storia della vita del commissario, non sono Lotta Continua e Adriano Sofri, ma l’immagine del bambino che combatte per recuperare il fotogramma di un ricordo, un abbraccio in mezzo a una folla, il padre che solleva il figlio più in alto. Penso al libro di Sabina Rossa, e – malgrado lo stilema sia quello dell’inchiesta – il cuore forte è il recupero del coraggio, le frasi lucidissime di Guido sul senso della storia e l’umanità: il comunista che fa la scelta di vita, e decide che deve testimoniare contro le raccomandazioni di tutti, a rischio della vita, seguendo un imperativo morale. La letteratura brigatista gioca con le prove a discarico, la letteratura civile delle vittime è continuamente tentata dall’assoluto, forse proprio per il desiderio di rispondere con il titanismo alla banalità del male. Sabina Rossa trova la forza di andare a cercare gli uomini del commando che sparò a suo padre: e quando li abbraccia con il suo racconto – ancora una volta le pagine più belle – scopri che dietro non hanno nulla. Volenterosi carnefici: solo automi svuotati di senso, ora che la guerra è finita.
Penso al libro di Benedetta, e se devo dire la cosa che più mi ha avvinto è la capacità di raccontare il padre sviscerando la sua biblioteca, i suo diari, il suo immaginario: l’operazione più squisitamente letteraria e meno cronachistica che si possa immaginare. E’ la Benedetta trentenne, che solo grazie alla scrittura riesce a passare – come nota lei stessa – dal ruolo di orfana, e di figlia minore – a quello di sorella maggiore, e di custode della memoria. E’ la Benedetta che indaga sui libri preferiti e sugli amori inconsolabili, che restituisce vita ai ricordi del ragazzo del Parini in giro nella Londra del Beat (“La più grande impresa del’lautostoppismo moderno è stata portata a termine!”) o dell’editorialista creativo e provocatorio sulla Zanzara. Quella che riesce a navigare “il mare di carta” che le arriva come un lascito testamentario dal padre scomparso. Quella che sostituisce al clichè del giornalista in carriera, al vezzeggiativo “Tobagino” (Giampaolo Pansa), un Walter wertheiano bruciato dalla pasisone del mestiere e quasi ossessionato dalle sue stimmate di homo novus (anzi, simapticamente “populuaris”, per stare al lemma tobagiano recuperato dalla figlia).
Benedetta Tobagi schiva con asciutta e leggiadra ironia la pubblicistica ufficiale sul giornalista-martire (“Ad un convegno dal titolo ‘Tobagi credente’ i contributi migliori sono venuti dai due relatori che si professavano atei”) e ricostruisce un suo Tobagi, diverso da tutti gli altri. Ma anche simile a lei. Ecco, è la stesso prodigio di “Spingendo la notte più in là”. Il Calabresi di Mario è anche un po’ Mario, il Tobagi di Benedetta è anche un po’ Benedetta. Questi figli progressisti proseguono le vite interrotte dei padri, e le sublimano, mentre curano con la scrittura il proprio trauma da abbandono e le proprie ferite. Il busto scoperto dall’ente locale alla piccola Benedetta sembrava “terrificante”, così come il ritratto ad olio “che uno sconosciuto aveva regalato al nonno”. Si va alla scoperta di un nuovo Tobagi, ed il lettore segue Benedetta e partecipa con lei alla ricerca. Anzi alla “Recherche”. C’è molto più Proust che Curcio, in questi libri.
Si potrà dire che questo lavoro di scrittura implica anche la reinvenzione di una identità. Dal punto di vista letterario non è un limite, ma un pregio, e nella letteratura della memoria questo è un lavoro necessario, per colmare i buchi neri prodotti dai delitti. Benedetta, per esempio combatte una civile battaglia contro “il Tobagi eroe craxiano” , riga dopo riga, inciso dopo inciso. Ricorda con fastidio l’iconografia televisiva in cui il suo Tobagi era quasi cancellato in una dissolvenza a base di garofani. Così come il Calabresi umanissimo raccontato da Mario (e da sua moglie Gemma Capra) combatte con il Calabresi grottesco della campagna di demonizzazione di Lotta Continua. Il vero Calabresi, il vero Tobagi, il vero Giralucci e il vero Guido Rossa, forse stanno nel mezzo: non hanno avuto il tempo, la possibilità di emanciparsi dalle maschere mortuarie che la pubblicistica aveva cucito loro addosso: “lo sbirro”, “la spia del Pci”, “il giornalista di Craxi”. I loro figli prendono direzioni opposte e combattono questi stereotipi con la loro scrittura. Calabresi lo fa con gli strumenti di una grande inchiesta giornalistica ed emotiva, Benedetta con un processo che è tutto letterario. Ha in mano un archivio e un biblioteca, e li usa per sostituire al Tobagi stereotipato, uno nuovo: “Ho intessuto un lungo dialogo a distanza con la voce di carta del giornalista Tobagi, un gioco segreto che ha reso lo studio degli anni settanta più leggero. Per ogni tema andavo a cercare se papà ne aveva scritto e rivolgo le mie domande ai quotidiani ingialliti”. Qui la scrittura del padre diventa una sorta di libro iniziatico. Laico, ma allo stesso tempo sacro. I compiti si dividono: il padre lavora sul passato, il figlio sul futuro. Al punto che quando la Tobagi racconta che gira per le scuole a raccontare questa storia, capisci che dalla storia scritta si è passati omericamente alla narrazione orale. Quanto è diverso l’ovale paffuto del giornaliata del Corriere dal ragazzo che annotava nel suo quaderno: “Dov’è spirito popolare voglio essere io: contro chi lo sfrutta, sia esso un tecnocrate o un capitalista”. Ricorda Benedetta che secondo Sciascia “Tobagi era stato ucciso perché aveva metodo”. Verrebbe anche da dire che è anche grazie a questo metodo (la scirtura auotogbiografica, l’autoarchivistica) se oggi Tobagi può risorgere nel racconto della figlia. Quando chiudo questo libro non so se “il vero” Tobagi sia quello di Benedetta. Ogni invenzione narrativa è allo stesso tempo il massimo del tradimento e il massimo della fedeltà. Non è detto che sia una male se la P38 cede il passo alla Madeleine.
Felice Besostri: Un nouveau debut per la sinistra?
da leragioni.it
[dibattito] Un nouveau debut per la sinistra?
venerdì 27 novembre 2009, 5.45.30 | Contributi
di Felice Besostri
(Direzione Nazionale del PSI)
La crisi politico-istituzionale del nostro Paese si coniuga con quella economico-sociale. Gli attori politici di governo e di opposizione non sono in grado di governare questi tempi difficili nell’interesse dell’Italia e del suo popolo, cioè di tutti quelli che ci vivono e lavorano a qualsivoglia nazionalità appartengano.
Nelle istituzioni parlamentari non sono rappresentate forze politiche significative a livello europeo, come i Socialisti, i Verdi e la Sinistra alternativa per scelte miopi di leggi elettorali, frutto dell’egoismo partitico. Soglie di accesso, anche più elevate del 4% sono accettabili, ma nell’ambito di un sistema elettorale proporzionale, con partiti regolamentati per legge come soggetti pubblici e con norme sul finanziamento della politica, che non impediscano il sorgere di nuovi soggetti, in ipotesi con programmi ed idee migliori di quelli esistenti. Il premio di maggioranza, con liste bloccate e surrettizia indicazione del Primo Ministro ha stravolto la forma di governo delineata dalla nostra Costituzione senza un’assunzione di responsabilità nei confronti dei cittadini, con chiari e coerenti progetti di riforma istituzionale.
Nel dibattito pubblico italiano mancano le proposte di una sinistra, come in Europa, socialista, autonoma, democratica, ambientalista, libertaria e laica, perché manca il soggetto politico che la rappresenti. In un paese dove la comunicazione di massa, televisiva e stampata, ha un assetto oligopolistico dominato da interessi industriali e finanziari, intrecciati con il sistema politico, clamorosamente nel caso del Presidente del Consiglio, non c’è speranza di raggiungere l’opinione pubblica con la sola forza delle idee e la qualità delle proposte. L’opposizione parlamentare non ha alcun interesse a rovesciare il sistema informativo, perché si è ricavata una sua nicchia partecipando alle pratiche spartitorie e lottizzatrici in RAI e nel settore della stampa sussidiata con fondi pubblici.
Con le liste bloccate e procedure non trasparenti di selezione delle candidature si è di fatto abrogato l’art. 67 della Costituzione, per il quale i parlamentari rappresentano gli interessi della Nazione senza vincoli di mandato. Il degrado delle istituzioni è ben rappresentato dalle loro presidenze, quella del Senato addirittura gioca a sostegno delle campagne di stampa del Direttore del Giornale, e l’altra mantiene una tensione con il Governo per ragioni tutte interne al PdL.
Nel frattempo la crisi continua ad aggravarsi con l’aumento della disoccupazione, prima pagata dai precari e che, esauriti i fondi delle varie Casse Integrazioni Guadagni, si estenderà ai lavoratori dipendenti a tempo indeterminato. Le banche tolgono le aperture di credito, le grandi imprese taglieggiano i loro fornitori, le pubbliche amministrazioni continuano a pagare con ritardi ingiustificabili ovvero a trattare in modo discriminatorio gli imprenditori amici e quelli fuori dal giro. La pressione fiscale non è diminuita e piccole e medie imprese, lavoratori autonomi e liberi professionisti, pagano il prezzo dell’evasione fiscale di massa e della loro sotto dimensione per sopportare il costo di pratiche elusive, mentre si premiano gli esportatori illegali di capitali.
Se esistesse una forza di sinistra riformatrice ed innovativa, questa potrebbe intercettare il disagio sociali e lo sgretolamento del blocco sociale leghista berlusconiano. Questa forza non c’è per calcoli miopi dei gruppi dirigenti delle residuali formazioni politiche sedicenti di sinistra: soltanto grazie all’esistenza di clausole di sbarramento si sono tentate aggregazioni, che però non reggono alle sconfitte elettorali. Se le aggregazioni non garantiscono la sopravvivenza del ceto politico, unica ragione del momentaneo collante, è logico che ciascuno si riprenda la sua libertà d’azione, per quanto puramente tattica e senza prospettive. I soggetti, che avevano dato vita a Sinistra e Libertà, individualmente considerati non vanno da nessuna parte, perché non ne hanno la forza materiale, il consenso elettorale, e le capacità progettuali e, last but not least, la spinta ideale.
Rappresenta una totale assurdità che nelle formazioni originarie di SeL, anche dopo il fatto politico dell’abbandono della Federazione dei Verdi, si discuta e ci si divida sulle questioni procedurali e sull’esegesi dei documenti concordati, invece di discutere delle questioni di fondo:
1) Serve una nuova formazione della sinistra, per uscire dalla sua crisi di rappresentanza e di rappresentatività, oltre che di radicamento sociale e territoriale?
2) Se sì, che tipo di sinistra deve essere? Quali i programmi, le basi ideologiche ed i riferimenti internazionali?
3) Questa nuova sinistra ha un suo progetto di società? Se sì quali sono i valori e gli obiettivi, a medio e lungo termine? Ha un senso parlare di socialismo nel XXI° secolo ovvero è stato seppellito nel XX° insieme con le divisioni tra socialisti e comunisti? Una società che garantisca l’eguaglianza economica e sociale, oltre che giuridica, è stata archiviata dal nostro orizzonte politico-ideale?
4) La preservazione dell’ambiente, le nuove sensibilità introdotte dal femminismo e dai diritti civili individuali hanno modificato l’impianto ideologico tradizionale della sinistra anche nella pratica della gestione del potere e nelle scelte di sviluppo, ad ogni costo, delle forze produttive?
5) Ha ancora un senso l’orizzonte statuale nazionale per la conquista delle libertà democratiche e della legislazione sociale? Se no come evitare che con la perdita di influenza dello stato nazionale si degradino proprio quelle conquiste democratiche, economiche e sociali, che nel suo ambito hanno raggiunto i migliori risultati?
6) Come conciliare la difesa del lavoro nei paesi sviluppati con il diritto a uno sviluppo equo e solidale del resto del mondo, dove vive la stragrande maggioranza della popolazione del pianeta? Un resto del mondo che ha contribuito per secoli al nostro benessere e sviluppo con i suoi schiavi e lavoratori forzati, lo sfruttamento delle sue risorse naturali, agricole e minerali, e come mercato di sbocco della potenza coloniale. In nome di un generico multiculturalismo non possiamo dimenticare lo sfruttamento imperialista, coloniale e capitalistico delle aree meno sviluppate del mondo e mettere soltanto in conto della nostra sicurezza le emigrazioni di massa, economiche e politiche e i problemi, che ne derivano.
Non ci sono risposte, se neppure si ha il coraggio di porre domande, per quanto scomode siano.
I socialisti con le loro proposte, a partire dalla Costituente Socialista, hanno posto un problema alla sinistra italiana nel suo complesso e, come spesso è accaduto, la loro gestione non è stata all’altezza delle ambizioni, si pensi alla grande riforma o ai meriti e bisogni, ovvero all’analisi delle implicazioni delle nuove povertà e della società dell’esclusione di un terzo dei suoi componenti. Prendiamo atto dei nostri limiti oggettivi e soggettivi, non solo dei gruppi dirigenti, ma individuali e collettivi dei socialisti italiani, ma tuttavia con la consapevolezza che la questione socialista in Italia, non è la questione dei socialisti, bensì dell’intera sinistra.
I risultati elettorali del PCI e del PSI di una volta hanno nascosto il fatto, che in Italia, a differenza che nel resto d’Europa, non c’è mai stata una sinistra con vocazione maggioritaria, cioè in grado di proporsi alla guida del Paese con propri uomini e programmi.
Questi sono i problemi che dobbiamo porre ai nostri alleati nell’impresa di Sinistra e Libertà. Pur con tutti gli equivoci, quella alleanza, aveva un segno diverso di quelle sperimentate nel passato con Segni, Dini o i Verdi, più altre aggregazioni dell’allora diaspora socialista, altrimenti non aveva senso costruire un percorso condiviso e costituire un Comitato di Coordinamento Nazionale.
Quel progetto non si può esaurire in controversie esegetiche sui documenti approvati per individuare, chi per primo li ha traditi: questo può interessare al massimo i loro estensori non le persone, che in carne ed ossa a quel progetto dovevano dar vita e radicare nel sociale e nei territori.
Se un progetto politico esiste dobbiamo partire da punti fermi:SeL, come aggregazione politico-elettorale,con il ritiro dei Verdi,non esiste più, o almeno nelle forme che le avevano dato vita.
Senza una riconosciuta ed accettata componente socialista SeL esiste ancor meno, non tanto in numero di militanti, ma in senso politico: di una nuova, ennesima, formazione di sinistra antagonista non c’è alcun bisogno. Se si deve sopravvivere tanto vale aderire alla Federazione della Sinistra ,proposta da Rifondazione e PdCI e dalle formazioni loro satelliti ovvero tornare al luogo di origine a quel PD, che con forti discontinuità, rappresenta tuttavia il filone PCI, PDS, DS: cari compagni la ricreazione è finita!
Per la loro storia e tradizione e per il fatto, politicamente non secondario, che rappresenta l’unico legame con il socialismo europeo il PSI deve riprendere l’iniziativa nel senso di garantire il proprio impegno per la ricostituzione ed il rinnovamento della sinistra italiana, nella quale dovrebbe essere naturalmente collocato Una divisione del PSI in filo SeL e anti SeL sarebbe comunque il segno di una subordinazione ideologica e politica a disegni altrui. Il problema della costruzione di una frazioncina di sinistra in un partitino alla deriva non deve interessare nessuno, che abbia a cuore la causa del socialismo democratico nel nostro Paese e nel resto d’Europa. Il Congresso del PSE è alle porte, 7 e 8 dicembre 2009 a Praga: dovrebbe essere un’occasione di spietata riflessione sugli insuccessi elettorali in molti paesi dell’Unione Europea, ma anche per ripensare la propria organizzazione ed i rapporti con la sinistra fuori dal PSE. Per il rafforzamento di un europeismo socialista e di sinistra sono indispensabili soggetti politici europei ed il PSE non lo è: non è un Partito, cui si possa aderire individualmente, e non è europeo, perché è un semplice coordinamento di gruppi dirigenti di partiti socialisti nazionali, come la vicenda della nomina dei vertici istituzionali dell’Unione Europea ha mostrato urbi et orbi.
Il compito dei socialisti è quello di dare un nuovo inizio alla ricostituzione ed al rinnovamento della sinistra italiana per farla uscire dalla marginalità politica e dall’esclusione dalle istituzioni con una leale cooperazione con tutti, individui, gruppi, movimenti ed associazioni, che si pongano lo stesso obiettivo, senza preclusione a priori, che non sia quella del nesso indissolubile tra socialismo, democrazia e libertà e nel rispetto dei tempi dettati dall’agenda politica ed elettorale, a cominciare dal rinnovo dei consigli regionali.
[dibattito] Un nouveau debut per la sinistra?
venerdì 27 novembre 2009, 5.45.30 | Contributi
di Felice Besostri
(Direzione Nazionale del PSI)
La crisi politico-istituzionale del nostro Paese si coniuga con quella economico-sociale. Gli attori politici di governo e di opposizione non sono in grado di governare questi tempi difficili nell’interesse dell’Italia e del suo popolo, cioè di tutti quelli che ci vivono e lavorano a qualsivoglia nazionalità appartengano.
Nelle istituzioni parlamentari non sono rappresentate forze politiche significative a livello europeo, come i Socialisti, i Verdi e la Sinistra alternativa per scelte miopi di leggi elettorali, frutto dell’egoismo partitico. Soglie di accesso, anche più elevate del 4% sono accettabili, ma nell’ambito di un sistema elettorale proporzionale, con partiti regolamentati per legge come soggetti pubblici e con norme sul finanziamento della politica, che non impediscano il sorgere di nuovi soggetti, in ipotesi con programmi ed idee migliori di quelli esistenti. Il premio di maggioranza, con liste bloccate e surrettizia indicazione del Primo Ministro ha stravolto la forma di governo delineata dalla nostra Costituzione senza un’assunzione di responsabilità nei confronti dei cittadini, con chiari e coerenti progetti di riforma istituzionale.
Nel dibattito pubblico italiano mancano le proposte di una sinistra, come in Europa, socialista, autonoma, democratica, ambientalista, libertaria e laica, perché manca il soggetto politico che la rappresenti. In un paese dove la comunicazione di massa, televisiva e stampata, ha un assetto oligopolistico dominato da interessi industriali e finanziari, intrecciati con il sistema politico, clamorosamente nel caso del Presidente del Consiglio, non c’è speranza di raggiungere l’opinione pubblica con la sola forza delle idee e la qualità delle proposte. L’opposizione parlamentare non ha alcun interesse a rovesciare il sistema informativo, perché si è ricavata una sua nicchia partecipando alle pratiche spartitorie e lottizzatrici in RAI e nel settore della stampa sussidiata con fondi pubblici.
Con le liste bloccate e procedure non trasparenti di selezione delle candidature si è di fatto abrogato l’art. 67 della Costituzione, per il quale i parlamentari rappresentano gli interessi della Nazione senza vincoli di mandato. Il degrado delle istituzioni è ben rappresentato dalle loro presidenze, quella del Senato addirittura gioca a sostegno delle campagne di stampa del Direttore del Giornale, e l’altra mantiene una tensione con il Governo per ragioni tutte interne al PdL.
Nel frattempo la crisi continua ad aggravarsi con l’aumento della disoccupazione, prima pagata dai precari e che, esauriti i fondi delle varie Casse Integrazioni Guadagni, si estenderà ai lavoratori dipendenti a tempo indeterminato. Le banche tolgono le aperture di credito, le grandi imprese taglieggiano i loro fornitori, le pubbliche amministrazioni continuano a pagare con ritardi ingiustificabili ovvero a trattare in modo discriminatorio gli imprenditori amici e quelli fuori dal giro. La pressione fiscale non è diminuita e piccole e medie imprese, lavoratori autonomi e liberi professionisti, pagano il prezzo dell’evasione fiscale di massa e della loro sotto dimensione per sopportare il costo di pratiche elusive, mentre si premiano gli esportatori illegali di capitali.
Se esistesse una forza di sinistra riformatrice ed innovativa, questa potrebbe intercettare il disagio sociali e lo sgretolamento del blocco sociale leghista berlusconiano. Questa forza non c’è per calcoli miopi dei gruppi dirigenti delle residuali formazioni politiche sedicenti di sinistra: soltanto grazie all’esistenza di clausole di sbarramento si sono tentate aggregazioni, che però non reggono alle sconfitte elettorali. Se le aggregazioni non garantiscono la sopravvivenza del ceto politico, unica ragione del momentaneo collante, è logico che ciascuno si riprenda la sua libertà d’azione, per quanto puramente tattica e senza prospettive. I soggetti, che avevano dato vita a Sinistra e Libertà, individualmente considerati non vanno da nessuna parte, perché non ne hanno la forza materiale, il consenso elettorale, e le capacità progettuali e, last but not least, la spinta ideale.
Rappresenta una totale assurdità che nelle formazioni originarie di SeL, anche dopo il fatto politico dell’abbandono della Federazione dei Verdi, si discuta e ci si divida sulle questioni procedurali e sull’esegesi dei documenti concordati, invece di discutere delle questioni di fondo:
1) Serve una nuova formazione della sinistra, per uscire dalla sua crisi di rappresentanza e di rappresentatività, oltre che di radicamento sociale e territoriale?
2) Se sì, che tipo di sinistra deve essere? Quali i programmi, le basi ideologiche ed i riferimenti internazionali?
3) Questa nuova sinistra ha un suo progetto di società? Se sì quali sono i valori e gli obiettivi, a medio e lungo termine? Ha un senso parlare di socialismo nel XXI° secolo ovvero è stato seppellito nel XX° insieme con le divisioni tra socialisti e comunisti? Una società che garantisca l’eguaglianza economica e sociale, oltre che giuridica, è stata archiviata dal nostro orizzonte politico-ideale?
4) La preservazione dell’ambiente, le nuove sensibilità introdotte dal femminismo e dai diritti civili individuali hanno modificato l’impianto ideologico tradizionale della sinistra anche nella pratica della gestione del potere e nelle scelte di sviluppo, ad ogni costo, delle forze produttive?
5) Ha ancora un senso l’orizzonte statuale nazionale per la conquista delle libertà democratiche e della legislazione sociale? Se no come evitare che con la perdita di influenza dello stato nazionale si degradino proprio quelle conquiste democratiche, economiche e sociali, che nel suo ambito hanno raggiunto i migliori risultati?
6) Come conciliare la difesa del lavoro nei paesi sviluppati con il diritto a uno sviluppo equo e solidale del resto del mondo, dove vive la stragrande maggioranza della popolazione del pianeta? Un resto del mondo che ha contribuito per secoli al nostro benessere e sviluppo con i suoi schiavi e lavoratori forzati, lo sfruttamento delle sue risorse naturali, agricole e minerali, e come mercato di sbocco della potenza coloniale. In nome di un generico multiculturalismo non possiamo dimenticare lo sfruttamento imperialista, coloniale e capitalistico delle aree meno sviluppate del mondo e mettere soltanto in conto della nostra sicurezza le emigrazioni di massa, economiche e politiche e i problemi, che ne derivano.
Non ci sono risposte, se neppure si ha il coraggio di porre domande, per quanto scomode siano.
I socialisti con le loro proposte, a partire dalla Costituente Socialista, hanno posto un problema alla sinistra italiana nel suo complesso e, come spesso è accaduto, la loro gestione non è stata all’altezza delle ambizioni, si pensi alla grande riforma o ai meriti e bisogni, ovvero all’analisi delle implicazioni delle nuove povertà e della società dell’esclusione di un terzo dei suoi componenti. Prendiamo atto dei nostri limiti oggettivi e soggettivi, non solo dei gruppi dirigenti, ma individuali e collettivi dei socialisti italiani, ma tuttavia con la consapevolezza che la questione socialista in Italia, non è la questione dei socialisti, bensì dell’intera sinistra.
I risultati elettorali del PCI e del PSI di una volta hanno nascosto il fatto, che in Italia, a differenza che nel resto d’Europa, non c’è mai stata una sinistra con vocazione maggioritaria, cioè in grado di proporsi alla guida del Paese con propri uomini e programmi.
Questi sono i problemi che dobbiamo porre ai nostri alleati nell’impresa di Sinistra e Libertà. Pur con tutti gli equivoci, quella alleanza, aveva un segno diverso di quelle sperimentate nel passato con Segni, Dini o i Verdi, più altre aggregazioni dell’allora diaspora socialista, altrimenti non aveva senso costruire un percorso condiviso e costituire un Comitato di Coordinamento Nazionale.
Quel progetto non si può esaurire in controversie esegetiche sui documenti approvati per individuare, chi per primo li ha traditi: questo può interessare al massimo i loro estensori non le persone, che in carne ed ossa a quel progetto dovevano dar vita e radicare nel sociale e nei territori.
Se un progetto politico esiste dobbiamo partire da punti fermi:SeL, come aggregazione politico-elettorale,con il ritiro dei Verdi,non esiste più, o almeno nelle forme che le avevano dato vita.
Senza una riconosciuta ed accettata componente socialista SeL esiste ancor meno, non tanto in numero di militanti, ma in senso politico: di una nuova, ennesima, formazione di sinistra antagonista non c’è alcun bisogno. Se si deve sopravvivere tanto vale aderire alla Federazione della Sinistra ,proposta da Rifondazione e PdCI e dalle formazioni loro satelliti ovvero tornare al luogo di origine a quel PD, che con forti discontinuità, rappresenta tuttavia il filone PCI, PDS, DS: cari compagni la ricreazione è finita!
Per la loro storia e tradizione e per il fatto, politicamente non secondario, che rappresenta l’unico legame con il socialismo europeo il PSI deve riprendere l’iniziativa nel senso di garantire il proprio impegno per la ricostituzione ed il rinnovamento della sinistra italiana, nella quale dovrebbe essere naturalmente collocato Una divisione del PSI in filo SeL e anti SeL sarebbe comunque il segno di una subordinazione ideologica e politica a disegni altrui. Il problema della costruzione di una frazioncina di sinistra in un partitino alla deriva non deve interessare nessuno, che abbia a cuore la causa del socialismo democratico nel nostro Paese e nel resto d’Europa. Il Congresso del PSE è alle porte, 7 e 8 dicembre 2009 a Praga: dovrebbe essere un’occasione di spietata riflessione sugli insuccessi elettorali in molti paesi dell’Unione Europea, ma anche per ripensare la propria organizzazione ed i rapporti con la sinistra fuori dal PSE. Per il rafforzamento di un europeismo socialista e di sinistra sono indispensabili soggetti politici europei ed il PSE non lo è: non è un Partito, cui si possa aderire individualmente, e non è europeo, perché è un semplice coordinamento di gruppi dirigenti di partiti socialisti nazionali, come la vicenda della nomina dei vertici istituzionali dell’Unione Europea ha mostrato urbi et orbi.
Il compito dei socialisti è quello di dare un nuovo inizio alla ricostituzione ed al rinnovamento della sinistra italiana per farla uscire dalla marginalità politica e dall’esclusione dalle istituzioni con una leale cooperazione con tutti, individui, gruppi, movimenti ed associazioni, che si pongano lo stesso obiettivo, senza preclusione a priori, che non sia quella del nesso indissolubile tra socialismo, democrazia e libertà e nel rispetto dei tempi dettati dall’agenda politica ed elettorale, a cominciare dal rinnovo dei consigli regionali.
Barbara Spinelli: Chi vogliamo essere
> Società e politica > Temi e principi > Italiani brava gente
Chi vogliamo essere
Data di pubblicazione: 23.11.2009
Autore: Spinelli, Barbara
Gli immigrati sono i nostri posteri, il nostro specchio. Perciò ne abbiamo paura. La Stampa, 22 novembre 2009
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? La domanda, antica, può produrre pensiero profondo oppure ottusità, veggenza oppure cieco affanno.
Ci sono momenti della storia in cui la domanda secerne veleni, chiusura all’altro. Uno di questi momenti fu la vigilia delle prima guerra mondiale: nella Montagna incantata, Thomas Mann parla di Tempi nervosi. Anche oggi è uno di questi momenti. La fabbricazione di un’identità con ferree e univoche radici è piena di zelo in Francia, Inghilterra, e nervosamente, astiosamente, in Italia. In Italia un partito xenofobo è al governo e addirittura promette «Natali bianchi», liberati dagli immigrati che saranno scacciati - parola del sindaco di Coccaglio, presso Brescia - profittando dei permessi di soggiorno in scadenza. Come in certi film tedeschi (Heimat, Il Nastro bianco) è un villaggio-microcosmo che genera mostri. Genera anche irrazionalità, come ha spiegato un medico del lavoro di Bologna, Vito Totire, in una bellissima lettera inviata il 19 novembre al direttore della Stampa: non sono gli italiani a compiere oggi le bonifiche dell’amianto, «ma gli immigrati, per pochi euro, in condizioni di sicurezza incomparabilmente migliori di quelle di anni fa ma non del tutto immuni da rischi».
In Francia un collettivo sta preparando un giorno di sciopero, intitolato «24 ore senza di noi»: quel giorno gli immigrati resteranno a casa, per mostrare cosa accadrebbe se smettessero di lavorare e consumare.
Ma non sono solo economiche, le ragioni per cui l’immigrato è prezioso, indispensabile. Specialmente in Italia ha una funzione più segreta, più vera. Gli immigrati anticipano la risposta alle tre antiche domande, prefigurando quel che saranno in avvenire i cittadini italiani. Sono un po’ i nostri posteri, che contribuiranno a forgiare la futura identità dell’Europa e delle sue nazioni. Saremo quel che diverremo con loro, mescolando la nostra cultura alla loro. D’altronde le radici d’Europa son fatte da Atene, Gerusalemme, Roma, Bisanzio-Costantinopoli. Il culmine della civiltà fu raggiunto dalla res publica romana: un impasto meticcio di molte lealtà.
Gli immigrati, nostri posteri, sono proprio per questo scomodi. Perché entrando nelle nostre case ci porgono uno specchio in cui scorgiamo quel che siamo, il senso del diritto e della giustizia che stiamo perdendo. Esistono comportamenti civici che l’immigrato, accostandosi all’Europa con meno stanchezza storica, fa propri con una naturalezza ignota a tanti italiani.
Gli esempi si moltiplicano, e quasi non ci accorgiamo che la nostra stanchezza è rifiuto di preparare il futuro, e generalmente conduce al collasso delle civiltà. Il regista Francis Ford Coppola, intervistato per La Stampa da Raffaella Silipo e Bruno Ventavoli (19-11) descrive il possibile collasso: «Amo l’Italia ma mi rende triste. Perché è un paese in cui i padri divorano i figli, si prendono tutto senza lasciar nulla e i giovani devono andarsene per avere un’opportunità».
È significativo che lo dica un italo-americano, nipote di nostri emigranti. Che evochi, con l’immagine dello sbranamento cannibalico, una crudeltà radicale verso il prossimo: la crudeltà del padre che usurpa figli e futuro, convinto che fuori dal suo recinto non c’è mondo. Anche Stefano Cucchi, il ragazzo pestato a morte il 16 ottobre nei sotterranei di un tribunale a Roma, è un figlio sbranato. In alcune parti d’Italia la vita non vale nulla, uccisa dall’apatia ambientale più ancora che dalla lama. Anche qui, come nei lavori pericolosi, l’immigrato agisce spesso al nostro posto, con funzione vicaria. Nel caso di Cucchi c’è un unico testimone, anche se parla confuso: un immigrato detenuto del Ghana, addirittura clandestino, che rischia tutto rivelando la verità.
Allo stesso modo sono immigrati africani a insorgere contro camorra e ’ndrangheta. Prima a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, dopo una carneficina che uccise sei cittadini del Togo, Liberia, Ghana. Poi il 12 dicembre 2008 a Rosarno, presso Reggio Calabria, dopo il ferimento di due ivoriani. Regolari o clandestini, gli immigrati hanno una fede nello Stato di diritto che gli italiani, per paura, rassegnazione, sembrano aver smarrito. Roberto Saviano rese loro omaggio: «Le due più importanti rivolte spontanee contro le mafie, in Italia, non sono partite da italiani ma da africani. In dieci anni è successo soltanto due volte che vi fossero, sull’onda dello sdegno e della fine della sopportazione, manifestazioni di piazza non organizzate da associazioni, sindacati, senza pullman e partiti. (...) Nessun italiano scende in strada». (Repubblica, 13-5-2009).
Ci sono video che dicono queste cose inconfutabilmente. Il video che ritrae l’indifferenza di decine di passanti quando venne ucciso, il 26 maggio, il musicista rumeno Petru Birlandeanu, nella stazione cumana di Montesanto. Il video che mostra l’assassinio di Mariano Bacioterracino, lo svaligiatore di banche ucciso l’11 maggio da un camorrista a Napoli. Anche qui i passanti son lì e fanno finta di niente. Difficile non esser d’accordo con Coppola: l’Italia mette tristezza, e a volte in tanto buio non ci sono che gli immigrati a emanare un po’ di luce.
Ai potenti non piacciono i film noir sull’Italia. Roberto Maroni, ad esempio, ha criticato la diffusione del video su Bacioterracino, predisposta dal procuratore di Napoli Lepore con l’intento di «scuotere la popolazione che per sei mesi non si era mossa». Insensibile alla pedagogia civica del video, il ministro s’indigna: «Hanno dato l’idea di una città, Napoli, ben diversa dalla realtà». D’altronde fu sempre così, nella storia della mafia.
Nel 1893, quando in un treno che lo portava a Palermo fu ucciso Emanuele Notarbartolo, un uomo onesto che combatteva la mafia nel Banco di Sicilia, il senatore mandante fu infine assolto perché non si voleva trasmettere un’immagine ignobile della Sicilia e dell’Italia. Durante il fascismo, il prefetto Mori combatté una battaglia che molti - nel regime, nei giornali - interpretarono come denigrazione della patria. Cesare Mori fu allontanato perché non imbelliva la nostra identità ma l’anneriva per risanarla.
Dice ancora Coppola che un film come Gomorra l’infastidisce. Non racconta una storia, tutto è freddo, terribile: «E’ spaventoso vedere Napoli rappresentata con tanto realismo. Quei delinquenti non sono più esseri umani». È vero, il film non è fascinoso e chiaro come il Padrino. È inferno, caos. Ma è tanto più reale. Viene in mente Salamov, il detenuto dei Gulag, quando critica il crimine troppo imbellito da Dostoevskij, «falsificato dietro una maschera romantica» (Salamov, Nel Lager non ci sono colpevoli, Theoria 1992).
Tra Dostoevskij e Salamov c’è stato il Gulag, che solo una «scrittura simile allo schiaffo» può narrare. Tra Coppola e Gomorra c’è il filmato che ritrae Bacioterracino atterrato senza schianto. È ancora Saviano a scrivere: «Il video decostruisce l’immaginario cinematografico dell’agguato. Non ci sono braccia tese a impugnare armi, non ci sono urla di minaccia, non c’è nessuno che sbraita e si dispera mentre all’impazzata interi caricatori vengono riversati sulla vittima inerme. Niente di tutto questo. La morte è fin troppo banale per essere credibile. L’esecuzione è un gesto immediato, semplice, poco interessante, persino stupido. Ma è la banalità della scena, quella assurda serenità che la circonda e che sembra ovattarla e relegarla al piano dell’irrealtà, che mette in dubbio l’umanità dei presenti. Dopo aver visto queste immagini è difficile trovare giustificazioni per chi ritiene certi argomenti diffamatori per Napoli e per il Sud».
Le tre domande dell’inizio restano. Impossibile rispondere, se la realtà del nostro divenire non la guardiamo assieme agli immigrati. Se non vediamo che non solo per loro, anche per noi e forse specialmente per noi valgono i versi di Rilke: «Ogni cupa svolta del mondo ha tali diseredati, cui non appartiene il passato né ancora il futuro più prossimo. Poiché anche il più prossimo è lontano per l’uomo».
Chi vogliamo essere
Data di pubblicazione: 23.11.2009
Autore: Spinelli, Barbara
Gli immigrati sono i nostri posteri, il nostro specchio. Perciò ne abbiamo paura. La Stampa, 22 novembre 2009
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo? La domanda, antica, può produrre pensiero profondo oppure ottusità, veggenza oppure cieco affanno.
Ci sono momenti della storia in cui la domanda secerne veleni, chiusura all’altro. Uno di questi momenti fu la vigilia delle prima guerra mondiale: nella Montagna incantata, Thomas Mann parla di Tempi nervosi. Anche oggi è uno di questi momenti. La fabbricazione di un’identità con ferree e univoche radici è piena di zelo in Francia, Inghilterra, e nervosamente, astiosamente, in Italia. In Italia un partito xenofobo è al governo e addirittura promette «Natali bianchi», liberati dagli immigrati che saranno scacciati - parola del sindaco di Coccaglio, presso Brescia - profittando dei permessi di soggiorno in scadenza. Come in certi film tedeschi (Heimat, Il Nastro bianco) è un villaggio-microcosmo che genera mostri. Genera anche irrazionalità, come ha spiegato un medico del lavoro di Bologna, Vito Totire, in una bellissima lettera inviata il 19 novembre al direttore della Stampa: non sono gli italiani a compiere oggi le bonifiche dell’amianto, «ma gli immigrati, per pochi euro, in condizioni di sicurezza incomparabilmente migliori di quelle di anni fa ma non del tutto immuni da rischi».
In Francia un collettivo sta preparando un giorno di sciopero, intitolato «24 ore senza di noi»: quel giorno gli immigrati resteranno a casa, per mostrare cosa accadrebbe se smettessero di lavorare e consumare.
Ma non sono solo economiche, le ragioni per cui l’immigrato è prezioso, indispensabile. Specialmente in Italia ha una funzione più segreta, più vera. Gli immigrati anticipano la risposta alle tre antiche domande, prefigurando quel che saranno in avvenire i cittadini italiani. Sono un po’ i nostri posteri, che contribuiranno a forgiare la futura identità dell’Europa e delle sue nazioni. Saremo quel che diverremo con loro, mescolando la nostra cultura alla loro. D’altronde le radici d’Europa son fatte da Atene, Gerusalemme, Roma, Bisanzio-Costantinopoli. Il culmine della civiltà fu raggiunto dalla res publica romana: un impasto meticcio di molte lealtà.
Gli immigrati, nostri posteri, sono proprio per questo scomodi. Perché entrando nelle nostre case ci porgono uno specchio in cui scorgiamo quel che siamo, il senso del diritto e della giustizia che stiamo perdendo. Esistono comportamenti civici che l’immigrato, accostandosi all’Europa con meno stanchezza storica, fa propri con una naturalezza ignota a tanti italiani.
Gli esempi si moltiplicano, e quasi non ci accorgiamo che la nostra stanchezza è rifiuto di preparare il futuro, e generalmente conduce al collasso delle civiltà. Il regista Francis Ford Coppola, intervistato per La Stampa da Raffaella Silipo e Bruno Ventavoli (19-11) descrive il possibile collasso: «Amo l’Italia ma mi rende triste. Perché è un paese in cui i padri divorano i figli, si prendono tutto senza lasciar nulla e i giovani devono andarsene per avere un’opportunità».
È significativo che lo dica un italo-americano, nipote di nostri emigranti. Che evochi, con l’immagine dello sbranamento cannibalico, una crudeltà radicale verso il prossimo: la crudeltà del padre che usurpa figli e futuro, convinto che fuori dal suo recinto non c’è mondo. Anche Stefano Cucchi, il ragazzo pestato a morte il 16 ottobre nei sotterranei di un tribunale a Roma, è un figlio sbranato. In alcune parti d’Italia la vita non vale nulla, uccisa dall’apatia ambientale più ancora che dalla lama. Anche qui, come nei lavori pericolosi, l’immigrato agisce spesso al nostro posto, con funzione vicaria. Nel caso di Cucchi c’è un unico testimone, anche se parla confuso: un immigrato detenuto del Ghana, addirittura clandestino, che rischia tutto rivelando la verità.
Allo stesso modo sono immigrati africani a insorgere contro camorra e ’ndrangheta. Prima a Castel Volturno, il 19 settembre 2008, dopo una carneficina che uccise sei cittadini del Togo, Liberia, Ghana. Poi il 12 dicembre 2008 a Rosarno, presso Reggio Calabria, dopo il ferimento di due ivoriani. Regolari o clandestini, gli immigrati hanno una fede nello Stato di diritto che gli italiani, per paura, rassegnazione, sembrano aver smarrito. Roberto Saviano rese loro omaggio: «Le due più importanti rivolte spontanee contro le mafie, in Italia, non sono partite da italiani ma da africani. In dieci anni è successo soltanto due volte che vi fossero, sull’onda dello sdegno e della fine della sopportazione, manifestazioni di piazza non organizzate da associazioni, sindacati, senza pullman e partiti. (...) Nessun italiano scende in strada». (Repubblica, 13-5-2009).
Ci sono video che dicono queste cose inconfutabilmente. Il video che ritrae l’indifferenza di decine di passanti quando venne ucciso, il 26 maggio, il musicista rumeno Petru Birlandeanu, nella stazione cumana di Montesanto. Il video che mostra l’assassinio di Mariano Bacioterracino, lo svaligiatore di banche ucciso l’11 maggio da un camorrista a Napoli. Anche qui i passanti son lì e fanno finta di niente. Difficile non esser d’accordo con Coppola: l’Italia mette tristezza, e a volte in tanto buio non ci sono che gli immigrati a emanare un po’ di luce.
Ai potenti non piacciono i film noir sull’Italia. Roberto Maroni, ad esempio, ha criticato la diffusione del video su Bacioterracino, predisposta dal procuratore di Napoli Lepore con l’intento di «scuotere la popolazione che per sei mesi non si era mossa». Insensibile alla pedagogia civica del video, il ministro s’indigna: «Hanno dato l’idea di una città, Napoli, ben diversa dalla realtà». D’altronde fu sempre così, nella storia della mafia.
Nel 1893, quando in un treno che lo portava a Palermo fu ucciso Emanuele Notarbartolo, un uomo onesto che combatteva la mafia nel Banco di Sicilia, il senatore mandante fu infine assolto perché non si voleva trasmettere un’immagine ignobile della Sicilia e dell’Italia. Durante il fascismo, il prefetto Mori combatté una battaglia che molti - nel regime, nei giornali - interpretarono come denigrazione della patria. Cesare Mori fu allontanato perché non imbelliva la nostra identità ma l’anneriva per risanarla.
Dice ancora Coppola che un film come Gomorra l’infastidisce. Non racconta una storia, tutto è freddo, terribile: «E’ spaventoso vedere Napoli rappresentata con tanto realismo. Quei delinquenti non sono più esseri umani». È vero, il film non è fascinoso e chiaro come il Padrino. È inferno, caos. Ma è tanto più reale. Viene in mente Salamov, il detenuto dei Gulag, quando critica il crimine troppo imbellito da Dostoevskij, «falsificato dietro una maschera romantica» (Salamov, Nel Lager non ci sono colpevoli, Theoria 1992).
Tra Dostoevskij e Salamov c’è stato il Gulag, che solo una «scrittura simile allo schiaffo» può narrare. Tra Coppola e Gomorra c’è il filmato che ritrae Bacioterracino atterrato senza schianto. È ancora Saviano a scrivere: «Il video decostruisce l’immaginario cinematografico dell’agguato. Non ci sono braccia tese a impugnare armi, non ci sono urla di minaccia, non c’è nessuno che sbraita e si dispera mentre all’impazzata interi caricatori vengono riversati sulla vittima inerme. Niente di tutto questo. La morte è fin troppo banale per essere credibile. L’esecuzione è un gesto immediato, semplice, poco interessante, persino stupido. Ma è la banalità della scena, quella assurda serenità che la circonda e che sembra ovattarla e relegarla al piano dell’irrealtà, che mette in dubbio l’umanità dei presenti. Dopo aver visto queste immagini è difficile trovare giustificazioni per chi ritiene certi argomenti diffamatori per Napoli e per il Sud».
Le tre domande dell’inizio restano. Impossibile rispondere, se la realtà del nostro divenire non la guardiamo assieme agli immigrati. Se non vediamo che non solo per loro, anche per noi e forse specialmente per noi valgono i versi di Rilke: «Ogni cupa svolta del mondo ha tali diseredati, cui non appartiene il passato né ancora il futuro più prossimo. Poiché anche il più prossimo è lontano per l’uomo».
Carlo Azeglio Ciampi: Basta con le leggi ad personam
> Società e politica > I giornali del giorno > Articoli del 2009
Basta con le leggi ad personam Berlusconi delegittima le istituzioni
Data di pubblicazione: 23.11.2009
Autore: Ciampi, Carlo Azeglio
Un’intervista di Massimo Giannini. Il degrado delle istituzioni democratiche ha raggiunto un punto tale che nessuno può evitare di scendere in campo. La Repubblica, 23 novembre 2009
«Io non do consigli a nessuno. Ma il Quirinale ha il potere dell’ultima firma. Se un provvedimento non va si rinvia alle Camere. Io non uso aderire ad appelli, ma condivido dalla prima all’ultima riga quello di Saviano. È una speranza che ottenga tanti consensi»
E mai come in questa occasione l’ex capo dello Stato, da vero «padre nobile» della Repubblica, lancia il suo atto d’accusa contro chi è responsabile di questo «imbarbarimento» e di questa «aggressione»: Silvio Berlusconi, il suo governo e la sua maggioranza, che stanno abbattendo a «colpi di piccone» i principi sui quali si regge la Costituzione, cioè «la nostra Bibbia civile».
«Vede - ragiona Ciampi - la mia amarezza deriva dalla constatazione ormai quotidiana di quanto sta accadendo sulla giustizia, ma non solo sulla giustizia. È in corso un vero e proprio degrado dei valori collettivi, si percepisce un senso di continua manipolazione delle regole, una perdita inesorabile di quelli che sono i punti cardinali del nostro vivere civile». Vale per tutto: non solo i rapporti tra politica e magistratura. Le relazioni tra potere esecutivo e Parlamento, tra governo e presidenza della Repubblica, tra premier e organi di garanzia, a partire dalla Corte costituzionale. L’intero sistema istituzionale, secondo Ciampi, è esposto ad un’opera di progressiva «destrutturazione». «Qui non è più una questione di battaglia politica, che può essere anche aspra, come è naturale in ogni democrazia. Qui si destabilizzano i riferimenti più solidi dell’edificio democratico, cioè le istituzioni, e si umiliano i valori che le istituzioni rappresentano. Questa è la mia amara riflessione...».
Ciampi, forse per la prima volta, parla senza mezzi termini del Cavaliere, e di ciò che ha rappresentato e rappresenta in questo «paesaggio in decomposizione». «Mi ricordo un bel libro di Marc Lazar, uscito un paio d’anni fa, nel quale io e Berlusconi venivamo raccontati come gli estremi di un pendolo: da una parte Ciampi, l’uomo che difende le istituzioni, e dall’altra parte Berlusconi, l’uomo che delegittima le istituzioni. Mai come oggi mi sento di dire che questa immagine riassume alla perfezione quello che penso. Io ho vissuto tutta la mia vita nelle istituzioni e per le istituzioni, che sono il cuore della democrazia. E non dimentico la lezioni di Vincenzo Cuoco sulla Rivoluzione napoletana del 1797: alla felicità dei popoli sono più necessari gli ordini che gli uomini, le istituzioni oltrepassano i limiti delle generazioni. Ma poi, a rendere vitali le istituzioni, occorrono gli uomini, le loro passioni civili, i loro ideali di democrazia. Ed io, oggi, è proprio questo che vedo mancare in chi ci governa...».
L’ultimo capitolo di questa nefasta «riscrittura» della nostra Costituzione formale e materiale riguarda ovviamente la giustizia, il Lodo Alfano e ora anche il disegno di legge sul processo breve con il quale il premier, per azzerare i due processi che lo riguardano, fa terra bruciata dell’intera amministrazione giudiziaria corrente. Anche su questo la condanna di Ciampi è senza appello: «Le riforme si fanno per i cittadini, non per i singoli. L’ho sempre pensato, ed oggi ne sono più che mai convinto: basta con le leggi ad personam, che non risolvono i problemi della gente e non aiutano il Paese a migliorare». Fa di più, l’ex presidente della Repubblica. E si spinge a riflettere su ciò che potrà accadere, se e quando questa nuova legge-vergogna sarà approvata: «Io non do consigli a nessuno, meno che mai a chi mi ha succeduto al Quirinale. Ma il capo dello Stato, tra i suoi poteri, ha quello della promulgazione. Se una legge non va non si firma. E non si deve usare come argomento che giustifica sempre e comunque la promulgazione che tanto, se il Parlamento riapprova la legge respinta la prima volta, il presidente è poi costretto a firmarla. Intanto non si promulghi la legge in prima lettura: la Costituzione prevede espressamente questa prerogativa presidenziale. La si usi: è un modo per lanciare un segnale forte, a chi vuole alterare le regole, al Parlamento e all’opinione pubblica». Ciampi non nomina Napolitano, ma fa un riferimento implicito a Francesco Saverio Borrelli: «Credo che per chi ha a cuore le istituzioni, oggi, l’unica regola da rispettare sia quella del "quantum potes": fai ciò che puoi. Detto altrimenti: resisti».
Lui stesso, nel suo settennato sul Colle, ha resistito più volte alle spallate del Cavaliere. Dalla legge Gasparri per le tv alla riforma dell’ordinamento giudiziario di Castelli: «È vero, ma ho fatto solo il mio dovere. C’è solo una cosa, della quale mi rammarico ancora oggi: il mio unico messaggio alle Camere, quello sul pluralismo del sistema radiotelevisivo e dell’informazione. Allora era un tema cruciale, per la qualità della nostra democrazia. Il Parlamento non lo raccolse, e da allora non si è fatto niente. Oggi, e basta guardare la televisione per rendersene conto, quel tema è ancora più grave. Una vera e propria emergenza».
Ma in tanto buio, secondo Ciampi c’è anche qualche spiraglio di luce. Per esempio l’appello lanciato su Repubblica da Roberto Saviano, che chiede al premier di ritirare la legge sull’abbreviazione dei processi, la «norma del privilegio». «Io - commenta il presidente emerito della Repubblica - per il ruolo che ho ricoperto non uso firmare appelli. Ma condivido dalla prima all’ultima riga quello di Saviano. Risponde a uno dei principi che mi hanno guidato per tutta la vita. E il fatto che abbia ottenuto così tante adesioni rappresenta una speranza, soprattutto per i giovani. È il vecchio motto dei fratelli Rosselli: non mollare. Loro pagarono con la vita la fedeltà a questo principio. Qui ed ora, in Italia, non c’è in gioco la vita delle persone. Ma ci sono i valori per i quali abbiamo combattuto e nei quali abbiamo creduto. In ballo c’è la buona democrazia: credetemi, è abbastanza per non mollare».
Basta con le leggi ad personam Berlusconi delegittima le istituzioni
Data di pubblicazione: 23.11.2009
Autore: Ciampi, Carlo Azeglio
Un’intervista di Massimo Giannini. Il degrado delle istituzioni democratiche ha raggiunto un punto tale che nessuno può evitare di scendere in campo. La Repubblica, 23 novembre 2009
«Io non do consigli a nessuno. Ma il Quirinale ha il potere dell’ultima firma. Se un provvedimento non va si rinvia alle Camere. Io non uso aderire ad appelli, ma condivido dalla prima all’ultima riga quello di Saviano. È una speranza che ottenga tanti consensi»
E mai come in questa occasione l’ex capo dello Stato, da vero «padre nobile» della Repubblica, lancia il suo atto d’accusa contro chi è responsabile di questo «imbarbarimento» e di questa «aggressione»: Silvio Berlusconi, il suo governo e la sua maggioranza, che stanno abbattendo a «colpi di piccone» i principi sui quali si regge la Costituzione, cioè «la nostra Bibbia civile».
«Vede - ragiona Ciampi - la mia amarezza deriva dalla constatazione ormai quotidiana di quanto sta accadendo sulla giustizia, ma non solo sulla giustizia. È in corso un vero e proprio degrado dei valori collettivi, si percepisce un senso di continua manipolazione delle regole, una perdita inesorabile di quelli che sono i punti cardinali del nostro vivere civile». Vale per tutto: non solo i rapporti tra politica e magistratura. Le relazioni tra potere esecutivo e Parlamento, tra governo e presidenza della Repubblica, tra premier e organi di garanzia, a partire dalla Corte costituzionale. L’intero sistema istituzionale, secondo Ciampi, è esposto ad un’opera di progressiva «destrutturazione». «Qui non è più una questione di battaglia politica, che può essere anche aspra, come è naturale in ogni democrazia. Qui si destabilizzano i riferimenti più solidi dell’edificio democratico, cioè le istituzioni, e si umiliano i valori che le istituzioni rappresentano. Questa è la mia amara riflessione...».
Ciampi, forse per la prima volta, parla senza mezzi termini del Cavaliere, e di ciò che ha rappresentato e rappresenta in questo «paesaggio in decomposizione». «Mi ricordo un bel libro di Marc Lazar, uscito un paio d’anni fa, nel quale io e Berlusconi venivamo raccontati come gli estremi di un pendolo: da una parte Ciampi, l’uomo che difende le istituzioni, e dall’altra parte Berlusconi, l’uomo che delegittima le istituzioni. Mai come oggi mi sento di dire che questa immagine riassume alla perfezione quello che penso. Io ho vissuto tutta la mia vita nelle istituzioni e per le istituzioni, che sono il cuore della democrazia. E non dimentico la lezioni di Vincenzo Cuoco sulla Rivoluzione napoletana del 1797: alla felicità dei popoli sono più necessari gli ordini che gli uomini, le istituzioni oltrepassano i limiti delle generazioni. Ma poi, a rendere vitali le istituzioni, occorrono gli uomini, le loro passioni civili, i loro ideali di democrazia. Ed io, oggi, è proprio questo che vedo mancare in chi ci governa...».
L’ultimo capitolo di questa nefasta «riscrittura» della nostra Costituzione formale e materiale riguarda ovviamente la giustizia, il Lodo Alfano e ora anche il disegno di legge sul processo breve con il quale il premier, per azzerare i due processi che lo riguardano, fa terra bruciata dell’intera amministrazione giudiziaria corrente. Anche su questo la condanna di Ciampi è senza appello: «Le riforme si fanno per i cittadini, non per i singoli. L’ho sempre pensato, ed oggi ne sono più che mai convinto: basta con le leggi ad personam, che non risolvono i problemi della gente e non aiutano il Paese a migliorare». Fa di più, l’ex presidente della Repubblica. E si spinge a riflettere su ciò che potrà accadere, se e quando questa nuova legge-vergogna sarà approvata: «Io non do consigli a nessuno, meno che mai a chi mi ha succeduto al Quirinale. Ma il capo dello Stato, tra i suoi poteri, ha quello della promulgazione. Se una legge non va non si firma. E non si deve usare come argomento che giustifica sempre e comunque la promulgazione che tanto, se il Parlamento riapprova la legge respinta la prima volta, il presidente è poi costretto a firmarla. Intanto non si promulghi la legge in prima lettura: la Costituzione prevede espressamente questa prerogativa presidenziale. La si usi: è un modo per lanciare un segnale forte, a chi vuole alterare le regole, al Parlamento e all’opinione pubblica». Ciampi non nomina Napolitano, ma fa un riferimento implicito a Francesco Saverio Borrelli: «Credo che per chi ha a cuore le istituzioni, oggi, l’unica regola da rispettare sia quella del "quantum potes": fai ciò che puoi. Detto altrimenti: resisti».
Lui stesso, nel suo settennato sul Colle, ha resistito più volte alle spallate del Cavaliere. Dalla legge Gasparri per le tv alla riforma dell’ordinamento giudiziario di Castelli: «È vero, ma ho fatto solo il mio dovere. C’è solo una cosa, della quale mi rammarico ancora oggi: il mio unico messaggio alle Camere, quello sul pluralismo del sistema radiotelevisivo e dell’informazione. Allora era un tema cruciale, per la qualità della nostra democrazia. Il Parlamento non lo raccolse, e da allora non si è fatto niente. Oggi, e basta guardare la televisione per rendersene conto, quel tema è ancora più grave. Una vera e propria emergenza».
Ma in tanto buio, secondo Ciampi c’è anche qualche spiraglio di luce. Per esempio l’appello lanciato su Repubblica da Roberto Saviano, che chiede al premier di ritirare la legge sull’abbreviazione dei processi, la «norma del privilegio». «Io - commenta il presidente emerito della Repubblica - per il ruolo che ho ricoperto non uso firmare appelli. Ma condivido dalla prima all’ultima riga quello di Saviano. Risponde a uno dei principi che mi hanno guidato per tutta la vita. E il fatto che abbia ottenuto così tante adesioni rappresenta una speranza, soprattutto per i giovani. È il vecchio motto dei fratelli Rosselli: non mollare. Loro pagarono con la vita la fedeltà a questo principio. Qui ed ora, in Italia, non c’è in gioco la vita delle persone. Ma ci sono i valori per i quali abbiamo combattuto e nei quali abbiamo creduto. In ballo c’è la buona democrazia: credetemi, è abbastanza per non mollare».
Giacomo Becattini: Il capitalismo invecchia?
> Società e politica > Il capitalismo d'oggi
Il capitalismo invecchia? Un mondo di lacrime e sangue
Data di pubblicazione: 25.11.2009
Autore: Becattini, Giacomo
La terza puntata dell’inchiesta di Cosma Orsi sulla crisi del capitalismo. Le risposte degli economisti capaci di pensare e guardare al di là. Il manifesto, 25 novembre 2009
È difficile capire come il pianeta possa riuscire a trovare una via d'uscita dalla attuale recessione. L'accentuarsi dei conflitti per il controllo delle risorse prepara però un futuro poco roseo, rendendo risibile l'immagine del mercato come paese delle meraviglie La crisi è sistemica, perché investe le sue componenti finanziarie, sociali e culturali . E va compreso il fatto che la borsa e le banche costituiscono ormai l'ossatura dell'economia reale.
Il capitalismo è di fronte a una crisi sistemica, che coinvolge sia la dimensione finanziaria che quella «reale». Per Giacomo Becattini è questo il punto da cui partire per comprendere le conseguenze e gli «effetti collaterali» dell'attuale situazione economica. Studioso dei distretti industriali come modello di sviluppo economico parallelo a quello basato sulla grande impresa, Becattini sostiene che la crisi mette a nudo i limiti e le difficoltà della sinistra nella comprensione dei processi economici. Allo stesso tempo, in questo terzo appuntamento su come alcuni economisti italiani riflettono sulla situazione attuale, invita a non fare facili profezie sulle vie d'uscita dalla crisi, perché dipendenti da «logiche sistemiche» proprie del processo economico che dalle politiche nazionali e internazionali.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
La crisi è anzitutto sistemica, perché investe tutto l'organismo sociale, non solo nelle sue componenti economico-finanziarie, ma anche in quelle sociali e culturali. Essa è finanziaria e reale al tempo stesso, perché la finanza (la borsa, le banche, ecc..) nel capitalismo avanzato, costituisce l'ossatura - strutturalmente infetta - dell'economia reale. Ciclica, infine, per la natura stessa del mercato, che chiudendo i conti sempre ex post deraglia sistematicamente dal sentiero dello sviluppo equilibrato e deve esservi ricondotto, prima o poi, dalla crisi.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti «mainstream» per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?
Senza negare ogni utilità alla modellistica politicamente uncommitted dilagante nel mondo degli studi economici, credo, in sostanza, che questo orientamento contenga una rinuncia al compito principale dell'economista, che, per me, è di analizzare il funzionamento dei sistemi economici nel loro complesso, fra cui «l'economia di mercato», come strumenti non semplicemente di massimizzazione del benessere economico, ma anche e soprattutto di attivazione e valorizzazione delle potenzialità intellettuali di ogni popolo e di ogni strato sociale. Il «grande spreco» del capitalismo attuale, non compensabile da alcun aumento del Prodotto interno lordo, è la sua incapacità di valorizzare la potenzialità intellettuale di qualche miliardo di esseri umani. Altro che bassi salari o disoccupazione nel mondo «civilizzato», questo è il vero e fondamentale fallimento del mercato.
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mini le basi della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in là?
Bella domanda! A cui, però, non so rispondere altro che: siamo nei guai e non ne usciremo facilmente. Né vedo in giro risposte convincenti. Come economisti il contributo che possiamo e dovremmo dare è una critica intelligente e onesta, ma sempre più approfondita, del capitalismo oligopolistico-finanziario, che ci sta portando, sospetto, all'apocalisse. Il punto mi pare essere che non c'è più una politica distinta dall'economia. Ricordo la storiella di E.D. Domar in cui il ministro del commercio statunitense presenta su di un vassoio tutti i progetti dell'amministrazione, invitando ogni rappresentante dell'industria a togliere quello che gli da più fastidio. Bene, al termine del giro, il vassoio è vuoto. Un esempio aggiornato della storiella ce lo offrono, più o meno, le vicende del piano sanitario di Obama.
Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al «Washington Consensus», quanto al capitalismo di Stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il Sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
L'assetto mondiale di un domani anche relativamente prossimo - diciamo 10 anni - è una grande incognita. Focolai immensi, positivi e negativi, come il risveglio economico di Cina ed India e i «subbugli», sudamericano e africano, ancora largamente non analizzati, sono all'opera e nessuno può dire cosa accadrà dell'Europa, se resisterà allo sconquasso. Certo è che, da un lato le linee divisorie tracciate dalla storia europea, sono nette e profonde e, conseguentemente, le spinte antiunitarie sono numerose e vigorose; dall'altro la filosofia dell'Europa Unita è squallidamente economicistica. Dietro a questa Europa, non riesco vedere, almeno finora, una idea-forza di vero superamento degli egoismi nazionali e di costruzione di un nuovo protagonista della scena mondiale futura. Vedo solo atteggiamenti difensivi, non privi di utilità, certo, ma che non disegnano alcun futuro propriamente europeo. Insomma: Io, speriamo che me la cavo.
L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
Proprio qui sta l'astuzia della manovra. Il '29 ha insegnato che il principale amplificatore della crisi, una volta avviata, sta nel panico dei depositanti e degli operatori in borsa. Quindi le prime misure sono state garantire i depositanti e immettere liquidità. Naturalmente, questa prassi, una volta metabolizzata dal sistema, riduce la paura del fallimento e delle sue conseguenze patrimoniali, negli consigli di amministrazione delle banche e delle multinazionali, e negli operatori di borsa, generando, di conseguenza, un «capitalismo bastardo» in cui è sufficiente portare, con qualsiasi mezzo, la propria azienda a dimensione socialmente rilevante (Fiar e Alitalia docent), per essere garantiti contro il fallimento. In sintesi, si è violata quella che D.H. Robertson chiamava la «regola aurea del capitalismo»: chi decide paga errori e imbrogli (se vengono svelati o se non riescono bene) - forse con la prigione (e qui gli americani c'insegnano qualcosa), ma, sicuramente, col suo patrimonio. E invece. È precisamente questo l'andazzo che denunciava sommessamente Ernesto Cuccia - che il capitalismo lo conosceva bene - in un suo famoso appunto del 1978: «non si può fare a meno di chiedersi se, nel caso in cui non fosse stato facilitato l'abbondante flusso di finanziamenti agevolati a taluni imprenditori - privati e pubblici - nell'illusione che non la bontà degli investimenti e la oculatezza della gestione avrebbero assicurato il successo dell'iniziativa, bensì la protezione politica quale mezzo per raggiungere il gigantismo delle imprese e con il gigantismo, non si sa come o perché, la loro fortuna (ora lo si è capito!) c'è da chiedersi, dicevamo, se in tal caso non avremmo avuto aziende molto più modeste, ma più sane, con una crescita fondata almeno in parte sull'autofinanziamento e non soltanto sui debiti, capacità produttive più aderenti alle effettive dimensioni dei mercati e, soprattutto, minori interferenze politiche, lecite e illecite, nella vita economica del paese».
Un capitalismo, insomma, quello che ci attende, da «Alice nel paese delle meraviglie». Il problema vero, dalla cui soluzione si giudica sub speciae aeternitatis il sistema, non è la piena occupazione purchessia, ma «quale occupazione». Il sistema economico ottimale è, per me, quello che apre al massimo numero di giovani in età lavorativa, un certo numero di alternative d'impiego. Una situazione che si è presentata - in modo rudimentale, beninteso! - in quei microcosmi di capitalismo concorrenziale che sono i nostri distretti industriali. Ma la sinistra italiana, imprigionata in schemi del passato - duole dirlo - non se n'è accorta - pagando puntualmente il fio in termini elettorali. Che tristezza.
Questo implica immense responsabilità del sistema. Per garantire questa pluralità di possibilità a tutti i giovani occorrono riforme che incidono nella carne viva della società. La tendenziale uguaglianza dei punti di partenza, all'età in cui uno entra nella vita sociale (16-18 anni), con tutto ciò che implica, è, per me, l'idea forza di una nuova sinistra. E se questo diventasse l'impegno fondamentale di chi governa il paese, ne discenderebbe una graduatoria degli interventi di natura economica, sociale e formativa assai diversa da quelle in circolazione.
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Precisiamo: se ci si riferisce al mondo attualmente sviluppato, un prezzo certamente alto, che dimostra ancora «di che lacrime grondi e di che sangue» lo sviluppo capitalistico, ma probabilmente non più alto di quello di percorsi più classici di fuoriuscita dalla crisi. Se ci si riferisce, invece, al mondo nel suo insieme, si possono fare molte ipotesi, ma, per quanto ne so io, non si dispone di modelli logici che consentano una risposta non campata in aria.
Quello che si può dire con certezza è che la crisi attuale non porterà certamente al crollo del capitalismo, anche perché non disponiamo di alternative radicali di sicuro funzionamento, e un sistema sociale non può scomparire finché non è pronto il successore. Il cosiddetto «socialismo alla cinese» e le altre pretese vie al socialismo sono, infatti, per ora, una grande incognita.
Ma l'accentuazione dei contrasti per il controllo delle risorse naturali e l'incarognimento dell'umanità, i quali procedono implacabili, non promettono niente di buono. Mi dispiace a chiudere in negativo, ma questa è, purtroppo, la convinzione che pervade il mio stato d'animo.
Il capitalismo invecchia? Un mondo di lacrime e sangue
Data di pubblicazione: 25.11.2009
Autore: Becattini, Giacomo
La terza puntata dell’inchiesta di Cosma Orsi sulla crisi del capitalismo. Le risposte degli economisti capaci di pensare e guardare al di là. Il manifesto, 25 novembre 2009
È difficile capire come il pianeta possa riuscire a trovare una via d'uscita dalla attuale recessione. L'accentuarsi dei conflitti per il controllo delle risorse prepara però un futuro poco roseo, rendendo risibile l'immagine del mercato come paese delle meraviglie La crisi è sistemica, perché investe le sue componenti finanziarie, sociali e culturali . E va compreso il fatto che la borsa e le banche costituiscono ormai l'ossatura dell'economia reale.
Il capitalismo è di fronte a una crisi sistemica, che coinvolge sia la dimensione finanziaria che quella «reale». Per Giacomo Becattini è questo il punto da cui partire per comprendere le conseguenze e gli «effetti collaterali» dell'attuale situazione economica. Studioso dei distretti industriali come modello di sviluppo economico parallelo a quello basato sulla grande impresa, Becattini sostiene che la crisi mette a nudo i limiti e le difficoltà della sinistra nella comprensione dei processi economici. Allo stesso tempo, in questo terzo appuntamento su come alcuni economisti italiani riflettono sulla situazione attuale, invita a non fare facili profezie sulle vie d'uscita dalla crisi, perché dipendenti da «logiche sistemiche» proprie del processo economico che dalle politiche nazionali e internazionali.
Le domande fondamentali a cui gli economisti cercano una risposta possono essere riassunte così: qual è la natura di questa crisi; è una crisi finanziaria o reale, ciclica o sistemica? Ha senso un confronto con la crisi del '29?
La crisi è anzitutto sistemica, perché investe tutto l'organismo sociale, non solo nelle sue componenti economico-finanziarie, ma anche in quelle sociali e culturali. Essa è finanziaria e reale al tempo stesso, perché la finanza (la borsa, le banche, ecc..) nel capitalismo avanzato, costituisce l'ossatura - strutturalmente infetta - dell'economia reale. Ciclica, infine, per la natura stessa del mercato, che chiudendo i conti sempre ex post deraglia sistematicamente dal sentiero dello sviluppo equilibrato e deve esservi ricondotto, prima o poi, dalla crisi.
Quanto ha giocato, nella loro incapacità di valutare la probabilità della crisi, la predilezione degli economisti «mainstream» per la formalizzazione matematica, a scapito della conoscenza della storia dell'analisi economica - e della storia in generale?
Senza negare ogni utilità alla modellistica politicamente uncommitted dilagante nel mondo degli studi economici, credo, in sostanza, che questo orientamento contenga una rinuncia al compito principale dell'economista, che, per me, è di analizzare il funzionamento dei sistemi economici nel loro complesso, fra cui «l'economia di mercato», come strumenti non semplicemente di massimizzazione del benessere economico, ma anche e soprattutto di attivazione e valorizzazione delle potenzialità intellettuali di ogni popolo e di ogni strato sociale. Il «grande spreco» del capitalismo attuale, non compensabile da alcun aumento del Prodotto interno lordo, è la sua incapacità di valorizzare la potenzialità intellettuale di qualche miliardo di esseri umani. Altro che bassi salari o disoccupazione nel mondo «civilizzato», questo è il vero e fondamentale fallimento del mercato.
Da tempo commentatori autorevoli avevano fatto notare che la libera e frenetica circolazione dei capitali (risultato delle liberalizzazioni e deregolamentazioni della finanza) mini le basi della democrazia economica, cioè della democrazia stessa. Ritiene che il ruolo della politica, oggi, dovrebbe essere soltanto quello di regolatore del mercato o dovrebbe spingersi più in là?
Bella domanda! A cui, però, non so rispondere altro che: siamo nei guai e non ne usciremo facilmente. Né vedo in giro risposte convincenti. Come economisti il contributo che possiamo e dovremmo dare è una critica intelligente e onesta, ma sempre più approfondita, del capitalismo oligopolistico-finanziario, che ci sta portando, sospetto, all'apocalisse. Il punto mi pare essere che non c'è più una politica distinta dall'economia. Ricordo la storiella di E.D. Domar in cui il ministro del commercio statunitense presenta su di un vassoio tutti i progetti dell'amministrazione, invitando ogni rappresentante dell'industria a togliere quello che gli da più fastidio. Bene, al termine del giro, il vassoio è vuoto. Un esempio aggiornato della storiella ce lo offrono, più o meno, le vicende del piano sanitario di Obama.
Molti ritengono che la soluzione della crisi non possa avvenire che sull'asse Washington-Pechino. È ipotizzabile che il modello europeo di stato sociale, se ancora di un modello europeo si può parlare, possa rappresentare un riferimento per politiche economiche alternative tanto al «Washington Consensus», quanto al capitalismo di Stato cinese? O c'è il rischio che nel futuro assetto economico-politico mondiale l'Europa (con il Sud del mondo) venga confinata ad una posizione marginale?
L'assetto mondiale di un domani anche relativamente prossimo - diciamo 10 anni - è una grande incognita. Focolai immensi, positivi e negativi, come il risveglio economico di Cina ed India e i «subbugli», sudamericano e africano, ancora largamente non analizzati, sono all'opera e nessuno può dire cosa accadrà dell'Europa, se resisterà allo sconquasso. Certo è che, da un lato le linee divisorie tracciate dalla storia europea, sono nette e profonde e, conseguentemente, le spinte antiunitarie sono numerose e vigorose; dall'altro la filosofia dell'Europa Unita è squallidamente economicistica. Dietro a questa Europa, non riesco vedere, almeno finora, una idea-forza di vero superamento degli egoismi nazionali e di costruzione di un nuovo protagonista della scena mondiale futura. Vedo solo atteggiamenti difensivi, non privi di utilità, certo, ma che non disegnano alcun futuro propriamente europeo. Insomma: Io, speriamo che me la cavo.
L'attuale aumento della spesa pubblica non riguarda la spesa sociale (istruzione, sanità, pensioni e sussidi di disoccupazione), bensì il salvataggio di banche, società finanziarie e grandi gruppi. Ciò avviene però comprimendo i redditi da lavoro (salari reali e pensioni): un intervento dal lato dell'offerta, anziché della domanda è la giusta strategia per uscire dalla crisi, tornando a livelli accettabili di disoccupazione?
Proprio qui sta l'astuzia della manovra. Il '29 ha insegnato che il principale amplificatore della crisi, una volta avviata, sta nel panico dei depositanti e degli operatori in borsa. Quindi le prime misure sono state garantire i depositanti e immettere liquidità. Naturalmente, questa prassi, una volta metabolizzata dal sistema, riduce la paura del fallimento e delle sue conseguenze patrimoniali, negli consigli di amministrazione delle banche e delle multinazionali, e negli operatori di borsa, generando, di conseguenza, un «capitalismo bastardo» in cui è sufficiente portare, con qualsiasi mezzo, la propria azienda a dimensione socialmente rilevante (Fiar e Alitalia docent), per essere garantiti contro il fallimento. In sintesi, si è violata quella che D.H. Robertson chiamava la «regola aurea del capitalismo»: chi decide paga errori e imbrogli (se vengono svelati o se non riescono bene) - forse con la prigione (e qui gli americani c'insegnano qualcosa), ma, sicuramente, col suo patrimonio. E invece. È precisamente questo l'andazzo che denunciava sommessamente Ernesto Cuccia - che il capitalismo lo conosceva bene - in un suo famoso appunto del 1978: «non si può fare a meno di chiedersi se, nel caso in cui non fosse stato facilitato l'abbondante flusso di finanziamenti agevolati a taluni imprenditori - privati e pubblici - nell'illusione che non la bontà degli investimenti e la oculatezza della gestione avrebbero assicurato il successo dell'iniziativa, bensì la protezione politica quale mezzo per raggiungere il gigantismo delle imprese e con il gigantismo, non si sa come o perché, la loro fortuna (ora lo si è capito!) c'è da chiedersi, dicevamo, se in tal caso non avremmo avuto aziende molto più modeste, ma più sane, con una crescita fondata almeno in parte sull'autofinanziamento e non soltanto sui debiti, capacità produttive più aderenti alle effettive dimensioni dei mercati e, soprattutto, minori interferenze politiche, lecite e illecite, nella vita economica del paese».
Un capitalismo, insomma, quello che ci attende, da «Alice nel paese delle meraviglie». Il problema vero, dalla cui soluzione si giudica sub speciae aeternitatis il sistema, non è la piena occupazione purchessia, ma «quale occupazione». Il sistema economico ottimale è, per me, quello che apre al massimo numero di giovani in età lavorativa, un certo numero di alternative d'impiego. Una situazione che si è presentata - in modo rudimentale, beninteso! - in quei microcosmi di capitalismo concorrenziale che sono i nostri distretti industriali. Ma la sinistra italiana, imprigionata in schemi del passato - duole dirlo - non se n'è accorta - pagando puntualmente il fio in termini elettorali. Che tristezza.
Questo implica immense responsabilità del sistema. Per garantire questa pluralità di possibilità a tutti i giovani occorrono riforme che incidono nella carne viva della società. La tendenziale uguaglianza dei punti di partenza, all'età in cui uno entra nella vita sociale (16-18 anni), con tutto ciò che implica, è, per me, l'idea forza di una nuova sinistra. E se questo diventasse l'impegno fondamentale di chi governa il paese, ne discenderebbe una graduatoria degli interventi di natura economica, sociale e formativa assai diversa da quelle in circolazione.
Quale sarà il prezzo che le future generazioni dovranno sopportare a fronte delle forme e delle dimensioni dell'indebitamento a cui oggi i governi hanno fatto ricorso nel tentativo di non far naufragare l'economia mondiale?
Precisiamo: se ci si riferisce al mondo attualmente sviluppato, un prezzo certamente alto, che dimostra ancora «di che lacrime grondi e di che sangue» lo sviluppo capitalistico, ma probabilmente non più alto di quello di percorsi più classici di fuoriuscita dalla crisi. Se ci si riferisce, invece, al mondo nel suo insieme, si possono fare molte ipotesi, ma, per quanto ne so io, non si dispone di modelli logici che consentano una risposta non campata in aria.
Quello che si può dire con certezza è che la crisi attuale non porterà certamente al crollo del capitalismo, anche perché non disponiamo di alternative radicali di sicuro funzionamento, e un sistema sociale non può scomparire finché non è pronto il successore. Il cosiddetto «socialismo alla cinese» e le altre pretese vie al socialismo sono, infatti, per ora, una grande incognita.
Ma l'accentuazione dei contrasti per il controllo delle risorse naturali e l'incarognimento dell'umanità, i quali procedono implacabili, non promettono niente di buono. Mi dispiace a chiudere in negativo, ma questa è, purtroppo, la convinzione che pervade il mio stato d'animo.
Piero Bevilacqua: A che serve la storia?
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Le ragioni di un Convegno
Data di pubblicazione: 25.11.2009
Autore: Bevilacqua, Piero
La relazione di apertura del convegno “A che serve la storia? I saperi umanistici alla prova della modernità”, Roma, La Sapienza, 24-25 novembre 2009
Le scienze della riparazione.
L’esigenza di questo Convegno, il bisogno di una riflessione collettiva sui saperi del nostro tempo, muove da diverse ragioni. Esso nasce innanzi tutto da uno stato di profondo disagio. E’ il disagio che genera l’osservare le tensioni e i mutamenti che attraversano oggi le Università d' Europa. Il processo di unificazione del Vecchio Continente ha investito negli ultimi anni le strutture dell’alta formazione trascinandole in un vortice di innovazione continua. [1]Ma questa non ha interessato la qualità dei saperi, il rapporto fra le discipline, la natura della formazione. E' una innovazione che riguarda le pareti esterne dell’edificio. Un rovello riorganizzativo che punta all' omogeneità e all’uniformità delle procedure, alla misurazione e quantificazione delle prestazioni, di docenti e discenti, alla fissazione dei criteri di valutazione del merito. Il telos di tale incessante processo riformatore è l’adeguamento delle vecchie strutture formative delle Università ai bisogni di efficienza e di capacità competitiva che il sistema economico chiede alla società e al mondo della scienza. Esso domanda un supporto sempre più ravvicinato ai sui ritmi, alle sue necessità e congiunture, e quindi preme costantemente per una più stringente funzionalità strumentale dei saperi, per una loro più plastica aderenza alle necessità della macchina produttiva e dei consumi. [2]
Diciamolo con la schietta chiarezza che l'intera vicenda merita. Negli ultimi 15 anni le classi dirigenti europee hanno chiesto all’Università dei diversi stati di adeguare le loro strutture alle richieste, ai miti, all'ossessione economicistica di una stagione ideologica del capitalismo contemporaneo. Una stagione ideologica - potremmo dire oggi col linguaggio di Popper - “falsificata” senza appello dal fallimento economico e finanziario in cui ha precipitato il mondo. Com'è noto, l’Università, i ceti intellettuali più diversi, il mondo politico, hanno sostanzialmente ubbidito alle sirene di questa ideologia nella sua versione di riforma didattica. Anzi, con poche eccezioni e proteste, hanno aderito alla richiesta con convinzione e perfino con slancio.
Ma nelle innovazioni che hanno investito l' Università – e che ancora la agitano e la tormentano con un flusso interminabile di cambiamenti normativi e procedurali – non è dato rintracciare nessuna interrogazione profonda sullo stato dei saperi nel nostro tempo, nessuna seria preoccupazione sui caratteri e i bisogni delle scienze contemporanee. Né tanto meno sulle questioni relative al loro studio, apprendimento, trasmissione, se non dal lato puramente tecnico e organizzativo. Didattico, come vuole il linguaggio tecnico corrente.
Eppure, proprio questo è oggi il cuore più profondo della questione: quali saperi si impartiscono nelle nostre Università? Qual è il grado della loro presa e rappresentazione del mondo reale? Come si è trasformata e ristretta, sotto le pressioni della macchina economica, la natura della loro utilità sociale? Quale spazio conservano i saperi disinteressati, le conoscenze finalizzate alla formazione umana e spirituale delle nuove generazioni?
Due grandi e drammatiche evidenze rendono oggi più immediatamente visibili le ragioni di simili interrogazioni.La prima riguarda la grave alterazione degli equilibri naturali della Terra e il riscaldamento climatico in corso. Qui si possono misurare le conseguenze della frantumazione disciplinare delle scienze consumatasi nel corso del Novecento. Tutte impegnate a indagare un ambito sempre più ristretto e ravvicinato di realtà, nessuna di essa è stata capace di uno sguardo globale, nessuna si è accorta, se non tardi, degli effetti generali che il proprio separato operare – a servizio della macchina produttiva - ha sugli equilibri generali del mondo vivente.
L’uso industriale dei gas clorofluorocarburi, ad esempio, che lacerano l’ozono atmosferico e hanno portato a minacciare la vita sulla terra[3], costituisce forse la prima e più clamorosa messa in evidenza di questo squilibrio fra la potenza delle singole applicazioni disciplinari e la conoscenza degli equilibri generali della biosfera.
Certo, in questo caso la scienza chimica, responsabile del danno, è poi intervenuta ed è venuta a capo del problema. Ma lo ha fatto in funzione riparatrice, intervenendo dopo la rottura degli equilibri precedenti. Ed è questo, di fatto, il modello del comportamento della scienza oggi: intervenire per riparare le alterazioni che la separatezza e l’unidimensionalità delle discipline applicate all’economia di volta in volta producono. Quale scienza si era accorta , per gran parte dell'età contemporanea , che ciascuna per suo conto, contribuendo allo sviluppo economico, cooperava anche al fenomeno generale del riscaldamento della Terra? Né la fisica, né la chimica, né la geografia, né la botanica, né la geologia né la biologia. Tutte chiuse nel proprio ambito disciplinare, operando ciascuna su frammenti del corpo smembrato della natura, solo sul finire del XX secolo alcune di queste si sono accorte di che cosa stava accadendo all’atmosfera terrestre.
Oggi l’IPCC – l’organismo voluto dall’ONU per studiare il cambiamento climatico e che riunisce migliaia di scienziati di diverse discipline - ubbidisce anch’esso a una logica di riparazione, di intervento post-factum. E tuttavia esso mostra anche un modello utile per un cambiamento di paradigma delle scienze. Il dialogo tra i vari saperi per lo studio di un fenomeno complesso, che abbraccia in equilibri multiformi quella speciale totalità che è il clima, è anche un modello di riorganizzazione possibile del sapere scientifico nel tempo presente. Ma esso deve cessare di essere un modello di emergenza e di riparazione. Deve diventare ex ante una modalità della ricerca, della formazione e della trasmissione del sapere in tutte le nostre strutture formative.
Siamo ovviamente consapevoli che la disintegrazione disciplinare del sapere scientifico non è fenomeno recente. Esso ha origini lontane, nella fondazione stessa della scienza moderna. Come ha ricordato Edgar Morin nel suo tomo I de La méthode, “ La fisica occidentale non ha solamente disincantato l'universo, essa l'ha desolato “.[4] Gli ha sottratto la vita e dunque la totalità delle connessioni che legano inscindibilmente il vivente. Uno dei principi costitutivi del paradigma scientifico moderno- ha ricordato ancora Morin - è il “ Principio di isolamento e di separazione nei rapporti fra l’oggetto e il suo ambiente”[5] E così la scienza ha percorso la strada dell'isolamento e dell'astrazione dei fenomeni per strappare i segreti alla natura, manipolarne i frammenti al fine di poter sperimentare, indagare, scoprire.
Ora non si può certo disconoscere che tale strada sia stata coronata dal successo.L'intera società industriale, con le sue ombre ma anche con i suoi enormi vantaggi sociali, sarebbe impensabile senza quel successo scientifico. La potenza raggiunta dalle scienze contemporanee è, per tanti versi, stupefacente. E tuttavia oggi siamo meno abbagliati dal suo splendore, siamo necessariamente spinti a coglierne i lati oscuri e inquietanti.
E' indiscutibilmente giusto rammentare che per buona parte dell'età contemporanea la scienza, pur al servizio delle classi dominanti, è stata anche portatrice di quel potere emancipatorio che sempre accompagna il diffondersi della conoscenza e le acquisizioni culturali, i progressi tecnici che liberano l'uomo dalla fatica, dalle schiavitù naturali. Ma oggi tale orizzonte di emancipazione universale è scomparso alla vista. Anche la scienza si è come dissolta negli impulsi frammentari e disordinati del cosiddetto libero mercato. Il suo fine sociale generale appare non più visibile, mentre si erge davanti a noi, sempre più inquietante, la dismisura del potere della tecnica sul vivente. La natura è già interamente sottomessa, ma è tale sottomissione che ci tiranneggia con nuove dipendenze. Oggi è l’avanzare di questo dominio la sorgente di tutte le minacce che incombono su di noi.
La tecnica non pensa.
Lo sviluppo della scienza, subordinata sempre di più alle ragioni della produzione capitalistica, ha portato ad un esito oggi evidente. Per dirla ancora con Morin, col tempo si è passati dal “manipolare per sperimentare” allo « sperimentare per manipolare “. Sicché “i sottoprodotti dello sviluppo scientifico – le tecniche – sono diventati i prodotti socialmente principali“ [6]
Occorre infatti riconoscere che all'interno del sapere scientifico opera una tendenza profonda, che è diventata sempre più manifesta e incontenibile nel tratto finale dell'età contemporanea. Tale tendenza è per l'appunto la trasformazione della scienza in tecnica, il trasmutarsi del pensiero in procedure replicabili in laboratorio, la metamorfosi della conoscenza generale e disinteressata in procedimenti che danno vita a dispositivi, congegni, materiali, beni, merci. Tutte le conoscenze generali delle singole discipline – dalla fisica alla botanica, dalla biologia alla genetica – esaurita la fase teoretica di fondazione, o di esplorazione di determinati ambiti, precipitano e “degenerano” in tecnica. Ma si tratta di un fenomeno che è inseparabile dal contesto e dallo svolgimento storico in cui esso si è venuto realizzando. Esso esprime un processo materiale, più volte segnalato da Marx, della scienza che diventa” prodotto intellettuale generale dell'evoluzione sociale”[7], parte integrante del modo di produzione capitalistico, che incorpora nei suoi scopi tutti i saperi generati dalla divisione intellettuale del lavoro e tutte le tecniche che la macchina industriale va accumulando.
Agli inizi del '900 Heidegger aveva colto, dal suo particolare punto di vista filosofico, questo aspetto del modo di essere e di procedere della scienza. Egli aveva finito col definire quest'ultima – con evidente parzialità e forzatura, ma cogliendone la tendenza profonda - “ una modalità della tecnica” [8]Ma ad Heidegger dobbiamo anche una testimonianza esemplare del modo in cui la scienza praticata e insegnata si presentava nelle istituzioni del suo tempo:
Gli ambiti delle scienze sono lontani l'uno dall'altro. Il modo di trattare i loro oggetti è fondamentalmente diverso. Questa moltitudine di discipline, tra loro così disparate, oggi è tenuta assieme solo dall'organizzazione tecnica delle Università e delle Facoltà, e conserva un significato solo per la finalità pratica delle singole specialità. Ma il radicarsi delle scienze nel loro fondo essenziale si è inaridito e spento.[9]
Dove per “fondo essenziale” credo si possa intendere l'unità del sapere, le ragioni profonde e generali dell'umano interrogare.
Ovviamente, la situazione denunciata da Heidegger – che tra l'altro si applicava a uno dei migliori sistemi universitari europei – oggi è profondamente mutata. E non certo in meglio. E' cambiato soprattutto il grado e il modo – per dirla con le parole anticipatrici di Marx – della “sussunzione della scienza al capitale”. Vale a dire il grado di subordinazione del sapere scientifico alle ragioni della produzione industriale.[10] Oggi noi abbiamo di fronte non soltanto il pieno dispiegamento di un fenomeno ben visibile già ai tempi di Marx: le scoperte scientifiche e le innovazioni tecniche che entrano nell'industria , esaltano la potenza produttiva del capitale, emarginano sempre più il lavoro che ha storicamente prodotto quel capitale. Non è soltanto l'impresa che si serve delle conoscenze e delle tecniche prodotte dalle Università e dai centri pubblici di ricerca. Ma è la tecnoscienza che si è fatta impresa. La scienza si è messa in proprio come macchina produttiva diretta finalizzata al profitto .
Siamo di fronte a un fenomeno assolutamente inedito nella storia delle società umane. Molte corporation transnazionali fondano oggi tanta parte della loro supremazia economica sulle scoperte e i brevetti dei propri, autonomi gabinetti scientifici. La ricerca biotecnologica oggi si presenta generalmente come una impresa. Noi assistiamo a una disseminazione privatistica della tecnoscienza senza precedenti, che pone problemi nuovi al potere pubblico, alle forme del diritto, sfida gli assetti tradizionali della democrazia.
Ora, in una breve introduzione non si può procedere che per accenni. E tuttavia, per nella limitata economia di queste riflessioni, non possiamo non gettare almeno un rapido sguardo ad alcuni caratteri per così dire epocali della tecnica nel tempo presente. Noi non possiamo certo tacere, né dimenticare in quale orizzonte di dismisura, di rottura e conflitto con le ragioni della vita, si è collocata la scienza e la tecnica nella seconda metà del '900. A volte per lo squilibrio drammatico tra la potenza manipolativa delle singole tecnoscienze e la conoscenza degli equilibri della biosfera. Ne abbiamo già accennato a proposito del buco dell'ozono e del riscaldamento climatico. Ma la dismisura, il travalicamento dell '“istinto di sopravvivenza”[11] degli uomini è avvenuto ancora prima per scelta deliberata della ricerca scientifica. La costruzione della bomba atomica è la svolta che fa epoca. La possibilità di annientare la vita umana sulla terra che i fisici hanno offerto al potere politico-militare resta un vulnus incancellabile e irriversibile della tecnoscienza contemporanea. Nel suo saggio su La bomba atomica e il destino dell'uomo Karl Jaspers ha descritto con poche e decisive parole questo passaggio drammatico nella storia umana :
In ogni tempo la tecnica è servita per la conformazione costruttiva dell'ambiente, ma in ogni tempo anche per la distruzione. Oggi le possibilità tecniche hanno compiuto il salto, dalle distruzioni isolate alla distruzione totale di ogni forma di vita sulla terra.[12]
Certo, tanta potenza distruttiva non è oggi in mani private. Anche se il fatto che essa sia sotto il controllo dei poteri pubblici non sempre e mai del tutto può rassicurarci. Ma oggi sono in mano private potenze manipolative in campo biologico e genetico che pongono problemi inediti di sicurezza, controllo, trasparenza. Oltre a dischiudere scenari inconsueti su questioni etiche di prima grandezza. Nessuno può infatti dimenticare quel che può oggi la tecnica sui viventi umani, dal momento che siamo entrati nell'“epoca della riproducibilità tecnica della vita”. [13]
L'economia come tecnica della crescita.
La seconda evidenza che sta alla base delle nostre interrogazioni – e dunque al fondo delle ragioni che motivano il presente convegno - riguarda un'altra dismisura della tecnica in età contemporanea.
Ci riferiamo all'economia, alla scienza economica. Siamo sufficientemente informati che questo campo del sapere è oggi attraversato da incursioni e deviazioni dal suo main stream che ne arricchiscono, sia pure ai margini, il pluralismo. Chi non sa che da tempo, ad esempio, esiste anche una environmental economy con diverse scuole e tendenze? E sappiamo bene che non mancano certo i singoli grandi economisti in grado di travalicare l ' unidimensionalità disciplinare del loro mestiere. Ma l'economia che domina il nostro tempo, ispira la condotta dei governi e delle istituzioni internazionali, domina nelle banche centrali, nelle Università, nelle riviste specializzate, nella divulgazione giornalistica ha subìto un mutamento evidente. Essa ha cessato da tempo di essere una scienza sociale. Nelle sue espressioni dominanti l'economia è diventata “ una tecnologia della crescita “. Una pura tecnica dell'andare avanti, dell'incremento senza sosta del PIL. E la tecnica – e qui ci permettiamo di riprendere e modificare Heidegger – “ la tecnica non pensa”.
Ora, lo stato presente di questo sapere trasformato in tecnica, merita una breve riflessione. Oggi è possibile osservare che esso procede verso il suo fine con sempre meno riguardo per ciò che la crescita economica produce nella condizione umana del lavoro, nelle giunture della società, nelle relazioni fra gli individui, negli istituti della democrazia, nella cultura e nelle psicologie collettive, nella vita privata delle persone, nel fondo spirituale della nostra epoca. E' come se esso si fosse ritagliato un ambito iperspecialistico, affidato alla sofisticata strumentazione di modelli matematici, lasciando ad altri saperi il compito riparatore delle distruzioni che compie nel suo procedere. Lo stesso operare post-factum delle altre scienze.
Ma tale modello appare poi in tutta la sua inoccultabile distruttività nei rapporti con il mondo naturale. Tutto il pensiero economico moderno che giunge fino a noi è figlio di un gigantesco meccanismo di rimozione della natura dal processo di produzione della ricchezza. Ancora oggi esso non è disposto se non a vedere nel mondo fisico che “ un potenziale da dischiudere con mezzi tecnici”[14] Un potenziale esterno, un illimitato deposito che di volta in volta appare come utensile, materia prima, energia. Eppure la vita economica, la produzione di beni e merci, altro non è – per dirla con le parole dello studioso che ha più profondamente pensato su questi temi, Hans Immler - che “ il movimento e lo svolgimento di un processo di natura (Naturprozeβ ) “ [15] . Tutto ciò che chiamiamo economia non è, in ultima istanza, che manipolazione del mondo fisico, cooperante insieme al lavoro - fornito da quell'essere naturale che è l'uomo - a produrre i beni circolanti nella società.
Ora, la scienze economiche dominanti sono ancora interamente segnate da questo peccato originale: esse ignorano di fondarsi su un mondo fisico di cui sconvolgono gli equilibri locali e planetari, di operare all'interno di una biosfera che ha sue regole e limiti ancora inesplorati. Esse non soltanto fingono di non vedere la finitezza del mondo, la limitatezza delle risorse disponibili per proseguire nella corsa, ma ignorano di alterare gravemente quella complessa “ eco-organizzazione” del mondo vivente a cui diamo il nome di natura, e a cui sono interamente subordinati anche gli uomini , esseri pur sempre naturali malgrado la loro potenza tecnica.[16]
La rimozione del mondo naturale dal campo visivo del pensiero economico moderno costituisce uno dei più stupefacenti miracoli che l'ideologia capitalistica della rimozione è stata in grado di produrre. Ma oggi essa non può più nascondere lo scacco storico di una scienza. Osserviamo, en passant, che il pensiero economico non è stato ancora in grado neppure di abbozzare una teoria della riproduzione della natura, della rigenerazione degli immensi materiali e beni che produzione e consumo richiedono costantemente. Esso contempla solo la riproduzione di due fattori: il capitale e il lavoro. E invece pensa e rappresenta la natura non come fattore destinato anch'esso alla riproduzione, ma come una cava, un fondo esterno sfruttabile all' infinito. Per questo oggi - di fronte alla compromissione di alcuni cicli riproduttivi delle risorse ( l'acqua, la terra fertile) e al riscaldamento climatico[17] – appaiono con tanta evidenza i fallimenti predittivi di un sapere settoriale e separato, privo di una visione olistica del mondo.
Sotto questo particolare, ma rilevantissimo profilo, ci prendiamo la responsabilità di affermare che l'economia come scienza, è un sapere in buona parte obsoleto, una moneta di pregio, ma fuori corso, una sopravvivenza dell'era industriale finita nel secolo scorso. Allorquando trionfava la grande finzione di un mondo fisico illimitato. E tale giudizio – mi sia consentito rammentarlo - riguarda quasi interamente le culture economiche ufficiali oggi in circolazione, anche quelle ispirate da paradigmi e valori progressisti. Se l'economia non incorpora in un nuovo sistema di pensiero la conoscenza della natura – quella natura che non solo è centrale nel processo economico, ma è al tempo stesso il mondo complesso, fragile e finito che ospita i viventi - rimane un sapere mùtilo, anche se accoglie in sé il vasto spettro dei fenomeni sociali che esso alimenta. Resta pur sempre drammaticamente insufficiente in un'epoca in cui lo sconvolgimento ambientale si pone già esso stesso come fenomeno economico di incommensurabile portata.
Ora, questa scienza non solo soffre della parzialità settoriale che ha limitato per secoli gli orizzonti di tutte le altre discipline. Nel corso della seconda metà XX secolo e ancora oggi essa ha signoreggiato tutti gli altri saperi, subordinandoli ai suoi modelli di plasmazione della vita sociale e di organizzazione del potere e delle istituzioni. Si è guadagnata una sovranità senza precedenti non solo nel mondo del potere economico e finanziario, ma anche, ovviamente, nelle Università, nei centro-studi, nella pubblicistica scientifica, nella stampa, nei media. Mentre l' ossessione della crescita economica l'ha trasformata in una ideologia del dominio, ispiratrice della cultura del breve termine, dei tempi sempre più accelerati del produrre, consumare, inquinare, vivere.
Ma non è tutto. La potenza manipolativa conseguita dalla scienza – o meglio, dalla sempre più rapida utilizzazione tecnologica delle sue scoperte – dà all’industria e in genere alle attività produttive delle società industriali una capacità senza precedenti di alterazione del mondo vivente. Questa capacità, in mano a potenze private sempre più grandi, è ispirata e orientata da un sapere divenuto una tecnica. E' questo dispositivo del produrre e consumare che fornisce oggi all' homo oeconomicus i mezzi per alterare gli equilibri del pianeta come mai era avvenuto in tutte le epoche passate.
Questa disciplina, nata come economia politica all'interno della cultura umanistica nella seconda metà del XVIII secolo, è entrata nel campo delle scienze cosiddette esatte e nella seconda metà del '900 ha sostituito la fisica come Big Science nelle società dell'Occidente. Sempre di più la sua invadenza imperialistica nella società e nelle istituzioni culturali ha sottoposto a severo scrutinio tutti gli altri saperi, ha chiesto ad essi ragioni della loro utilità. Ma non una utilità sociale generale, ma una utilità economica, sempre più immediata, sempre più strettamente subordinata ai tempi stretti e veloci della redditività economica. I saperi umanistici sono stati così messi nell'angolo, costretti a indietreggiare, a giustificarsi, a offrire spiegazioni del proprio operare, del proprio valore di mercato. La filosofia, la storia, la letteratura, l'arte a che servono, quali sono i loro ritorni, a quale mercato del lavoro devono servire? Sono ancora oggi queste le richieste che sentiamo risuonare sulla scena pubblica.
Una nuova centralità dei saperi umanistici
Ebbene, credo che sul piano strettamente teorico e culturale la legittimità di tali richieste sia ormai interamente naufragata. Siamo a un passaggio d'epoca che rende lo scacco storico delle scienze tradizionali non più occultabile. Oggi sono i “ saperi inutili” che devono interrogare. Sono essi che oggi ritrovano nuove e potenti ragioni di critica e di giudizio. Costituirebbe un segnale di grave arretramento di civiltà se oggi non fossero i saperi umanistici ad uscire dall'angolo e a porre essi, all'economia, e a tutte le altre tecnoscienze, domande fondamentali.
Come è stato possibile, nel giro di pochi decenni, trasformare un orizzonte di prosperità crescente, per lo meno nelle società industrializzate, in un avvenire dagli esiti sempre più incerti e inquietanti? Da quali cause discende la trasformazione di un dominio sempre più vasto degli uomini sulla natura in una generale minaccia ai viventi? Per quali ragioni le prospettive globali si presentano oggi come minaccia: dalla qualità del cibo alla continua ricorrenza delle pandemie? Com'è possibile che nelle società più ricche cha mai siano apparse nella storia umana l'ossessione che asservisce le persone è quella di produrre e consumare sempre di più? Che cosa giustifica il fatto che la prosperità dei Paesi ricchi – mentre lascia centinaia di milioni di persone nella miseria e nella fame nel Sud del mondo– non si traduca in accrescimento spirituale, in umana liberazione, in mitezza delle relazioni, ma alimenta rancori, paure, conformismi, conflitti etnici, svuota le democrazie , favorisce torsioni autoritarie nelle gestione del potere?
Potremmo anche porre delle domande più precise e mirate. Perché nelle Facoltà di Economia oggi dominano discipline tutte curvate a servire immediatamente le imprese, i bisogni mutevoli delle tecnologie e del mercato del lavoro, i caratteri più aggressivi dell'economia del nostro tempo? Chi dà uno sguardo ai piani di studio della Facoltà di Economia non può non rimanere stupito della presenza di così tante economie aziendali, di marketing, di matematica finanziaria. E quali economisti vengono plasmati da simili curricula? E che cosa sapranno mai questi giovani economisti europei della società in cui l'economia si svolge, di come essa trasforma le relazioni sociali, di che cosa accade al lavoro umano? Non è il lavoro, ancora oggi, componente essenziale del mondo produttivo e dei servizi? E perché mai è del tutto assente una storia del lavoro, una sociologia del lavoro in queste Facoltà? E da quale disciplina questi giovani economisti apprenderanno mai ciò che l'economia che essi sono chiamati ad alimentare e servire produce nella società dei paesi poveri, sotto forma di mercati asimmetrici, di saccheggio delle risorse naturali, di asservimento del lavoro indigeno, di indebitamento finanziario? E come potranno, questi nuovi cittadini e intellettuali dell'Europa unita, comprendere le cause profonde del sommovimento di popolazione che da vari angoli della Terra si muove verso di noi in cerca di lavoro, di condizioni più umane di vita? Non dovrebbe rientrare tale gigantesco processo in atto nello studio dei fenomeni economici? O lo lasciamo ad altri specialismi, ai demografi, ai sociologi, agli antropologi perché lo studino ciascuno per proprio conto? Ma non è anche da questa frammentazione e divisione dei saperi che procede la presente ingovernabilità del mondo ?
Non dobbiamo dunque chieder conto della sua parzialità e frantumazione conoscitiva a una scienza che ha dominato interamente il corso della nostra società? Non dobbiamo denunciare la sua crescente inadeguatezza a cogliere i fenomeni sempre più interrelati e sempre più globali che dobbiamo affrontare? Eppure la limitatezza di tale approccio, di tale orizzonte di razionalità, appare sempre più evidente. Come ricordava Edgar Morin, con tale procedere:
I grandi problemi umani scompaiono a vantaggio dei problemi tecnici particolari. L'incapacità di organizzare il sapere sparso e compartimentato porta all'atrofia della disposizione mentale naturale a contestualizzare e a globalizzare.
L'intelligenza parcellare, compartimentata, meccanicista, disgiuntiva, riduzionista, spezza il complesso del mondo in frammenti disgiunti, fraziona i problemi, separa ciò che è legato, unidimensionalizza il multidimensionale. E' un'intelligenza miope che il più delle volte finisce con l'essere cieca.[18]
Noi l'abbiamo appena visto all'opera questa “intelligenza cieca”. La crisi in cui si dibatte l'intera economia mondiale e la gigantesca perdita di ricchezza che ne è seguita è figlia legittima di questo sistema di razionalità. E' davvero degno di nota il fatto che tutta la raffinata ingegnosità matematica, la costellazione luminosa di algoritmi costruita dai cervelli della finanza internazionale negli ultimi anni, sia stata assolutamente incapace di predire alcunché. E' rimasta cieca davanti alla catastrofe che avanzava. Eppure si tratta di tecniche che fondano sulla previsione, sulla divinazione del futuro, tutte le loro ragioni operative, oltre che la loro superbia intellettuale. Perfetta e completa prova che le più sofisticate creazioni della tecnica economica sono chiuse in gusci specialistici, utensili ciechi destinati al fallimento di fronte all'indomabile complessità del mondo.
Ora, per concludere, ritorniamo al centro del nostro tema con qualche considerazione di prospettiva. Anche se le istituzioni universitarie tardano a prenderne atto, è fuor di dubbio che oggi le scienze sono attraversate, grazie soprattutto all'ecologia, da una tensione al dialogo fra di esse sempre più significativa[19]. Sapere delle connessioni che intercorrono fra i viventi e fra questi e il loro habitat, l'ecologia non può più essere ignorata da nessuna disciplina. Nessuna di esse può più isolare i fenomeni strappandoli dal contesto complesso in cui essi si svolgono. Si tratta di una conquista del pensiero umano da cui non si torna indietro. E senza dubbio tale dialogo apre nuove prospettive di collaborazione con le culture umanistiche, con la filosofia, innanzi tutto, ma anche con la psicologia, con la storia, l'antropologia. Nuovi scenari possono dischiudersi per la ricerca, nuovi e diversi interrogativi possono porsi le scienze stesse, grazie all'innesto e al dialogo con saperi che hanno percorsi, tradizioni, obiettivi diversi d'indagine. E ciò non solo per una normale ricerca di nuove strade di esplorazione conoscitiva, ma sopratutto per una ragione fondamentale: una ragione che segna una svolta radicale rispetto alle scienze che abbiamo ereditato dal XX secolo.
Oggi non abbiamo più alcuna ragione di perpetuare e accrescere il dominio sulla natura. I bisogni dell'umanità presente e futura vanno in altre direzioni. Ciò che l'interesse generale dei popoli della terra chiede alla scienza è un rapporto di cura e di conservazione degli equilibri naturali, dai quali dipende l'avvenire economico delle nuove generazioni e le possibilità stesse della vita futura. La scienza deve procedere sulla strada della ricerca e della conoscenza secondo un'etica di responsabilità, capace di contenere la dismisura della potenzialità distruttiva che essa ha raggiunto.
Allo stesso modo noi dobbiamo chiedere alle scienze economiche di incorporare nei propri orizzonti conoscitivi e nei propri fini una nuova cultura degli equilibri naturali, della complessità del mondo vivente. Oggi abbiamo sempre meno bisogno di mettere l'intelligenza, la cultura, l'umana creatività alla servizio della crescita economica. Occorre poter affrontare problemi complessi, incrementare il benessere collettivo, migliorare la qualità del vivere sociale. E non può certo più essere l'accrescimento continuo di beni e servizi il fine dominante dell'economia, ma un obiettivo più ambizioso, richiesto dalla presente epoca planetaria:la distribuzione della possibilità di vita per tutti i popoli della terra, una vita degna, ovviamente, in equilibrio con i limiti delle risorse esistenti, in accordo e non in conflitto con la casa comune che ci ospita. Una casa che sarà sempre più affollata nei decenni a venire.
Sono dunque questi i problemi che devono fare il loro ingresso dirompente nelle aule delle nostre Università. E' il mutamento di paradigma dei saperi, l' organizzazione della loro cooperazione e del loro dialogo il vero fronte riformatore che occorre mettere in piedi. E su questo terreno le culture umanistiche possono tornare a giocare un ruolo di prima grandezza. Innanzi tutto perché esse sono in genere portatrici di visioni universali. Costituiscono il più salutare antidoto alla frantumazione specialistica delle scienze novecentesche. E al tempo stesso sono promotori di utilità generali. Pensiamo al ruolo che deve avere il diritto, la sociologia, la politologia. l'antropologia in tutte le questioni globali che abbiamo di fronte, nella formazione di una nuova cittadinanza universale, nella costruzione del cosmopolitismo del nostro secolo.
Ma non meno rilevante è il peso e il rilievo che occorre dare ai saperi disinteressati. Ad essi, alla letteratura, alla storia, alla filosofia, alla musica, all'arte, ai grandi patrimoni spirituali della nostro civiltà, alle fonti della consolazione dell'uomo sulla terra spetta un grandissimo compito: contrastare la razionalità strumentale che ossessiona la nostra epoca, risvegliare le nostre società dal sonno dogmatico di un utilitarismo cieco e devastatore. Occorre costruire una razionalità che rappresenti e governi non una fase di regresso nella storia umana, ma una nuova pagina di civiltà.[20]
Ma le culture umanistiche, in Europa, oggi hanno anche il compito di formare una gioventù non più chiusa in una visione eurocentrica della storia umana, ma aperta e preparata al dialogo interculturale, capace di arricchire il proprio patrimonio universale con l'universalità delle altre culture.
Ma questo fine – lasciatemelo dire in conclusione - è irraggiungibile senza che le Università vedano confermata e accresciuta la loro natura pubblica. In un'epoca in cui così tante tecnoscienze particolari e disperse sono in mano privata è ancor più necessario che l'Università pubblica abbia un profilo dominante, capace di rappresentare l'interesse generale nelle scelte strategiche della ricerca e della formazione e in grado di orientare lo sviluppo dei vari saperi. Senza di essa, d'altra parte – com'è facile intuire – l'autonomia e la libertà stessa della ricerca e dello studio appaiono gravemente compromesse e a rischio.
In questi ultimi mesi di tracollo economico-finanziario tutti abbiamo potuto vedere che cos'è, in ultima istanza, lo stato. Che cosa diventa il potere pubblico nel momento del pericolo, allorché l'azione predatoria dei privati ha portato sull'orlo del baratro l'intera architettura economica e finanziaria del mondo. Che cos'è dunque il potere pubblico? In simili casi, esso non è che l'interesse generale in forma di potere. E dunque tale interesse deve valere solo come argine di ultima istanza? Deve intervenire solo quando è prossima la catastrofe? Deve limitarsi anch'esso, come le scienze, a svolgere un ruolo post factum e riparatore? O deve ex ante coordinare l'insieme degli interessi privati, piegarli al suo fine superiore e universale ?
[1] Cfr. C. Lorenz, L'Unione Europea e l'istruzione superiore: economia della conoscenza e neoliberismo, in « Passato e presente>>, 2006, n.69
[2] Per gli USA, ma all'interno di una politica incomparabilmente più generosa in termini di risorse, S.Aronowitz, Knowledge factory.Dismantling the corporate university and create true higher learning, Beacon Press, Boston,, 2000, p. 160 e passim
[3] Cfr. T. Flannery, I signori del clima. Come l'uomo sta alterando gli equilibri del pianeta, Corbaccio, Milano 2005, p.255 e ss.
[4] E.Morin, La méthode.Tome I.La Nature de la Nature, Edition du Seuil, Paris, 1977, p. 365.
[5] Cfr. M.Ceruti e E.Laslo (a cura di ) Physis: abitare la terra, Feltrinelli Milano, 1988, p.18
[6] La Nature, cit. p. 366
[7] K.Marx, Il Capitale.Libro I. Capitolo VI inedito. Presentazione, traduzione e note di B.Maffi, La Nuova Italia, Firenze, 1969, p. 89
[8] M.Heidegger, Meditazione sulla scienza (giugno 1938) in Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita (1910-1976), A cura di H.Heidegger, ed. it. a cura di N.Curcio, il melangolo, Genova 2005, p.315
[9] La frase è un'autocitazione di Heidegger dalla Lezione inaugurale di Friburgo (1929) contenuta nel Colloquio con Martin Heidegger(17 settembre 1969), in Discorsi, cit. p. 624
[10]« Allora l'invenzione diventa un'attività economica e l'applicazione della scienza nella produzione immediata un criterio determinante e sollecitante per la produzione stessa.>> (K.Marx,Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Presentazione, traduzione e note di E.Grillo,La Nuova Italia, Firenze 1970, vol.I, p. 399.) Ma, com è noto, questo tema è presente in tutta l'opera matura di Marx. Si veda ora per questi aspetti il saggio di S.Aronowitz, Post-work.Per la fine del lavoro senza fine, Derive Approdi, Roma 2006, pp 131-177.
[11]A proposito della bomba atomica e della costruzione delle dighe in India Arundhaty Roy, ha scritto: « Si tratta di emblemi del ventesimo secolo, che marcano il punto in cui l'intelligenza umana è andata oltre il suo stesso istinto di sopravvivenza>> ( La fine delle illusioni, Guanda Parma, 1999, p. 87)
[12]K.Jaspers, La bomba atomica e il destino dell'uomo (1958), il Saggiatore Milano 1960, p 290
[13] M.De Carolis, La vita nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Bollatti Boringhieri, Torino 2004
[14]H.Immler, Natur in der ökonomischen Theorie,Westdeuscher Verlag, Opladen,1985, p. 18
[15]Id, Vom Wert der Natur. Zur Ökologischen Reform von Wirtschaft und Gesellschaft, Westedeutscher Verlag, Opladen 1990, p 33
[16]E.Morin, Il pensiero ecologico(1980) Hopeful Monster, Firenze 1988, p. 11 e ss.
[17]Fra tanta pubblicistica ricordiamo una testimonianza recente, C.Flavin e R.Engelman, La tempesta perfetta.in Worldwtch Institute, State of the world 2009. In un mondo sempre più caldo. Rapporto sul progresso verso una società sostenibile. Edizione italiana a cura di G.Bologna, Edizioni Ambiente, Milano 2009, p 39 e ss.Più in generale va almeno ricordata l'opera di Vandana Shiva, di cui rammentiamo qui, Il bene comune della terra, Feltrinelli, Milano 2006.
[18]E.Morin, I sette saperi necessari all'educazione del futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001, p. 43
[19]E. Morin, L'anno I dell'era Ecologica. La Terra dipende dall'Uomo che dipende dalla Terra. Seguito da un dialogo con Nicolas Hulot, Armando Editore, Roma 2007, p. 36
[20]Su questi temi si vedano le riflessioni di S.Latouche, La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
Le ragioni di un Convegno
Data di pubblicazione: 25.11.2009
Autore: Bevilacqua, Piero
La relazione di apertura del convegno “A che serve la storia? I saperi umanistici alla prova della modernità”, Roma, La Sapienza, 24-25 novembre 2009
Le scienze della riparazione.
L’esigenza di questo Convegno, il bisogno di una riflessione collettiva sui saperi del nostro tempo, muove da diverse ragioni. Esso nasce innanzi tutto da uno stato di profondo disagio. E’ il disagio che genera l’osservare le tensioni e i mutamenti che attraversano oggi le Università d' Europa. Il processo di unificazione del Vecchio Continente ha investito negli ultimi anni le strutture dell’alta formazione trascinandole in un vortice di innovazione continua. [1]Ma questa non ha interessato la qualità dei saperi, il rapporto fra le discipline, la natura della formazione. E' una innovazione che riguarda le pareti esterne dell’edificio. Un rovello riorganizzativo che punta all' omogeneità e all’uniformità delle procedure, alla misurazione e quantificazione delle prestazioni, di docenti e discenti, alla fissazione dei criteri di valutazione del merito. Il telos di tale incessante processo riformatore è l’adeguamento delle vecchie strutture formative delle Università ai bisogni di efficienza e di capacità competitiva che il sistema economico chiede alla società e al mondo della scienza. Esso domanda un supporto sempre più ravvicinato ai sui ritmi, alle sue necessità e congiunture, e quindi preme costantemente per una più stringente funzionalità strumentale dei saperi, per una loro più plastica aderenza alle necessità della macchina produttiva e dei consumi. [2]
Diciamolo con la schietta chiarezza che l'intera vicenda merita. Negli ultimi 15 anni le classi dirigenti europee hanno chiesto all’Università dei diversi stati di adeguare le loro strutture alle richieste, ai miti, all'ossessione economicistica di una stagione ideologica del capitalismo contemporaneo. Una stagione ideologica - potremmo dire oggi col linguaggio di Popper - “falsificata” senza appello dal fallimento economico e finanziario in cui ha precipitato il mondo. Com'è noto, l’Università, i ceti intellettuali più diversi, il mondo politico, hanno sostanzialmente ubbidito alle sirene di questa ideologia nella sua versione di riforma didattica. Anzi, con poche eccezioni e proteste, hanno aderito alla richiesta con convinzione e perfino con slancio.
Ma nelle innovazioni che hanno investito l' Università – e che ancora la agitano e la tormentano con un flusso interminabile di cambiamenti normativi e procedurali – non è dato rintracciare nessuna interrogazione profonda sullo stato dei saperi nel nostro tempo, nessuna seria preoccupazione sui caratteri e i bisogni delle scienze contemporanee. Né tanto meno sulle questioni relative al loro studio, apprendimento, trasmissione, se non dal lato puramente tecnico e organizzativo. Didattico, come vuole il linguaggio tecnico corrente.
Eppure, proprio questo è oggi il cuore più profondo della questione: quali saperi si impartiscono nelle nostre Università? Qual è il grado della loro presa e rappresentazione del mondo reale? Come si è trasformata e ristretta, sotto le pressioni della macchina economica, la natura della loro utilità sociale? Quale spazio conservano i saperi disinteressati, le conoscenze finalizzate alla formazione umana e spirituale delle nuove generazioni?
Due grandi e drammatiche evidenze rendono oggi più immediatamente visibili le ragioni di simili interrogazioni.La prima riguarda la grave alterazione degli equilibri naturali della Terra e il riscaldamento climatico in corso. Qui si possono misurare le conseguenze della frantumazione disciplinare delle scienze consumatasi nel corso del Novecento. Tutte impegnate a indagare un ambito sempre più ristretto e ravvicinato di realtà, nessuna di essa è stata capace di uno sguardo globale, nessuna si è accorta, se non tardi, degli effetti generali che il proprio separato operare – a servizio della macchina produttiva - ha sugli equilibri generali del mondo vivente.
L’uso industriale dei gas clorofluorocarburi, ad esempio, che lacerano l’ozono atmosferico e hanno portato a minacciare la vita sulla terra[3], costituisce forse la prima e più clamorosa messa in evidenza di questo squilibrio fra la potenza delle singole applicazioni disciplinari e la conoscenza degli equilibri generali della biosfera.
Certo, in questo caso la scienza chimica, responsabile del danno, è poi intervenuta ed è venuta a capo del problema. Ma lo ha fatto in funzione riparatrice, intervenendo dopo la rottura degli equilibri precedenti. Ed è questo, di fatto, il modello del comportamento della scienza oggi: intervenire per riparare le alterazioni che la separatezza e l’unidimensionalità delle discipline applicate all’economia di volta in volta producono. Quale scienza si era accorta , per gran parte dell'età contemporanea , che ciascuna per suo conto, contribuendo allo sviluppo economico, cooperava anche al fenomeno generale del riscaldamento della Terra? Né la fisica, né la chimica, né la geografia, né la botanica, né la geologia né la biologia. Tutte chiuse nel proprio ambito disciplinare, operando ciascuna su frammenti del corpo smembrato della natura, solo sul finire del XX secolo alcune di queste si sono accorte di che cosa stava accadendo all’atmosfera terrestre.
Oggi l’IPCC – l’organismo voluto dall’ONU per studiare il cambiamento climatico e che riunisce migliaia di scienziati di diverse discipline - ubbidisce anch’esso a una logica di riparazione, di intervento post-factum. E tuttavia esso mostra anche un modello utile per un cambiamento di paradigma delle scienze. Il dialogo tra i vari saperi per lo studio di un fenomeno complesso, che abbraccia in equilibri multiformi quella speciale totalità che è il clima, è anche un modello di riorganizzazione possibile del sapere scientifico nel tempo presente. Ma esso deve cessare di essere un modello di emergenza e di riparazione. Deve diventare ex ante una modalità della ricerca, della formazione e della trasmissione del sapere in tutte le nostre strutture formative.
Siamo ovviamente consapevoli che la disintegrazione disciplinare del sapere scientifico non è fenomeno recente. Esso ha origini lontane, nella fondazione stessa della scienza moderna. Come ha ricordato Edgar Morin nel suo tomo I de La méthode, “ La fisica occidentale non ha solamente disincantato l'universo, essa l'ha desolato “.[4] Gli ha sottratto la vita e dunque la totalità delle connessioni che legano inscindibilmente il vivente. Uno dei principi costitutivi del paradigma scientifico moderno- ha ricordato ancora Morin - è il “ Principio di isolamento e di separazione nei rapporti fra l’oggetto e il suo ambiente”[5] E così la scienza ha percorso la strada dell'isolamento e dell'astrazione dei fenomeni per strappare i segreti alla natura, manipolarne i frammenti al fine di poter sperimentare, indagare, scoprire.
Ora non si può certo disconoscere che tale strada sia stata coronata dal successo.L'intera società industriale, con le sue ombre ma anche con i suoi enormi vantaggi sociali, sarebbe impensabile senza quel successo scientifico. La potenza raggiunta dalle scienze contemporanee è, per tanti versi, stupefacente. E tuttavia oggi siamo meno abbagliati dal suo splendore, siamo necessariamente spinti a coglierne i lati oscuri e inquietanti.
E' indiscutibilmente giusto rammentare che per buona parte dell'età contemporanea la scienza, pur al servizio delle classi dominanti, è stata anche portatrice di quel potere emancipatorio che sempre accompagna il diffondersi della conoscenza e le acquisizioni culturali, i progressi tecnici che liberano l'uomo dalla fatica, dalle schiavitù naturali. Ma oggi tale orizzonte di emancipazione universale è scomparso alla vista. Anche la scienza si è come dissolta negli impulsi frammentari e disordinati del cosiddetto libero mercato. Il suo fine sociale generale appare non più visibile, mentre si erge davanti a noi, sempre più inquietante, la dismisura del potere della tecnica sul vivente. La natura è già interamente sottomessa, ma è tale sottomissione che ci tiranneggia con nuove dipendenze. Oggi è l’avanzare di questo dominio la sorgente di tutte le minacce che incombono su di noi.
La tecnica non pensa.
Lo sviluppo della scienza, subordinata sempre di più alle ragioni della produzione capitalistica, ha portato ad un esito oggi evidente. Per dirla ancora con Morin, col tempo si è passati dal “manipolare per sperimentare” allo « sperimentare per manipolare “. Sicché “i sottoprodotti dello sviluppo scientifico – le tecniche – sono diventati i prodotti socialmente principali“ [6]
Occorre infatti riconoscere che all'interno del sapere scientifico opera una tendenza profonda, che è diventata sempre più manifesta e incontenibile nel tratto finale dell'età contemporanea. Tale tendenza è per l'appunto la trasformazione della scienza in tecnica, il trasmutarsi del pensiero in procedure replicabili in laboratorio, la metamorfosi della conoscenza generale e disinteressata in procedimenti che danno vita a dispositivi, congegni, materiali, beni, merci. Tutte le conoscenze generali delle singole discipline – dalla fisica alla botanica, dalla biologia alla genetica – esaurita la fase teoretica di fondazione, o di esplorazione di determinati ambiti, precipitano e “degenerano” in tecnica. Ma si tratta di un fenomeno che è inseparabile dal contesto e dallo svolgimento storico in cui esso si è venuto realizzando. Esso esprime un processo materiale, più volte segnalato da Marx, della scienza che diventa” prodotto intellettuale generale dell'evoluzione sociale”[7], parte integrante del modo di produzione capitalistico, che incorpora nei suoi scopi tutti i saperi generati dalla divisione intellettuale del lavoro e tutte le tecniche che la macchina industriale va accumulando.
Agli inizi del '900 Heidegger aveva colto, dal suo particolare punto di vista filosofico, questo aspetto del modo di essere e di procedere della scienza. Egli aveva finito col definire quest'ultima – con evidente parzialità e forzatura, ma cogliendone la tendenza profonda - “ una modalità della tecnica” [8]Ma ad Heidegger dobbiamo anche una testimonianza esemplare del modo in cui la scienza praticata e insegnata si presentava nelle istituzioni del suo tempo:
Gli ambiti delle scienze sono lontani l'uno dall'altro. Il modo di trattare i loro oggetti è fondamentalmente diverso. Questa moltitudine di discipline, tra loro così disparate, oggi è tenuta assieme solo dall'organizzazione tecnica delle Università e delle Facoltà, e conserva un significato solo per la finalità pratica delle singole specialità. Ma il radicarsi delle scienze nel loro fondo essenziale si è inaridito e spento.[9]
Dove per “fondo essenziale” credo si possa intendere l'unità del sapere, le ragioni profonde e generali dell'umano interrogare.
Ovviamente, la situazione denunciata da Heidegger – che tra l'altro si applicava a uno dei migliori sistemi universitari europei – oggi è profondamente mutata. E non certo in meglio. E' cambiato soprattutto il grado e il modo – per dirla con le parole anticipatrici di Marx – della “sussunzione della scienza al capitale”. Vale a dire il grado di subordinazione del sapere scientifico alle ragioni della produzione industriale.[10] Oggi noi abbiamo di fronte non soltanto il pieno dispiegamento di un fenomeno ben visibile già ai tempi di Marx: le scoperte scientifiche e le innovazioni tecniche che entrano nell'industria , esaltano la potenza produttiva del capitale, emarginano sempre più il lavoro che ha storicamente prodotto quel capitale. Non è soltanto l'impresa che si serve delle conoscenze e delle tecniche prodotte dalle Università e dai centri pubblici di ricerca. Ma è la tecnoscienza che si è fatta impresa. La scienza si è messa in proprio come macchina produttiva diretta finalizzata al profitto .
Siamo di fronte a un fenomeno assolutamente inedito nella storia delle società umane. Molte corporation transnazionali fondano oggi tanta parte della loro supremazia economica sulle scoperte e i brevetti dei propri, autonomi gabinetti scientifici. La ricerca biotecnologica oggi si presenta generalmente come una impresa. Noi assistiamo a una disseminazione privatistica della tecnoscienza senza precedenti, che pone problemi nuovi al potere pubblico, alle forme del diritto, sfida gli assetti tradizionali della democrazia.
Ora, in una breve introduzione non si può procedere che per accenni. E tuttavia, per nella limitata economia di queste riflessioni, non possiamo non gettare almeno un rapido sguardo ad alcuni caratteri per così dire epocali della tecnica nel tempo presente. Noi non possiamo certo tacere, né dimenticare in quale orizzonte di dismisura, di rottura e conflitto con le ragioni della vita, si è collocata la scienza e la tecnica nella seconda metà del '900. A volte per lo squilibrio drammatico tra la potenza manipolativa delle singole tecnoscienze e la conoscenza degli equilibri della biosfera. Ne abbiamo già accennato a proposito del buco dell'ozono e del riscaldamento climatico. Ma la dismisura, il travalicamento dell '“istinto di sopravvivenza”[11] degli uomini è avvenuto ancora prima per scelta deliberata della ricerca scientifica. La costruzione della bomba atomica è la svolta che fa epoca. La possibilità di annientare la vita umana sulla terra che i fisici hanno offerto al potere politico-militare resta un vulnus incancellabile e irriversibile della tecnoscienza contemporanea. Nel suo saggio su La bomba atomica e il destino dell'uomo Karl Jaspers ha descritto con poche e decisive parole questo passaggio drammatico nella storia umana :
In ogni tempo la tecnica è servita per la conformazione costruttiva dell'ambiente, ma in ogni tempo anche per la distruzione. Oggi le possibilità tecniche hanno compiuto il salto, dalle distruzioni isolate alla distruzione totale di ogni forma di vita sulla terra.[12]
Certo, tanta potenza distruttiva non è oggi in mani private. Anche se il fatto che essa sia sotto il controllo dei poteri pubblici non sempre e mai del tutto può rassicurarci. Ma oggi sono in mano private potenze manipolative in campo biologico e genetico che pongono problemi inediti di sicurezza, controllo, trasparenza. Oltre a dischiudere scenari inconsueti su questioni etiche di prima grandezza. Nessuno può infatti dimenticare quel che può oggi la tecnica sui viventi umani, dal momento che siamo entrati nell'“epoca della riproducibilità tecnica della vita”. [13]
L'economia come tecnica della crescita.
La seconda evidenza che sta alla base delle nostre interrogazioni – e dunque al fondo delle ragioni che motivano il presente convegno - riguarda un'altra dismisura della tecnica in età contemporanea.
Ci riferiamo all'economia, alla scienza economica. Siamo sufficientemente informati che questo campo del sapere è oggi attraversato da incursioni e deviazioni dal suo main stream che ne arricchiscono, sia pure ai margini, il pluralismo. Chi non sa che da tempo, ad esempio, esiste anche una environmental economy con diverse scuole e tendenze? E sappiamo bene che non mancano certo i singoli grandi economisti in grado di travalicare l ' unidimensionalità disciplinare del loro mestiere. Ma l'economia che domina il nostro tempo, ispira la condotta dei governi e delle istituzioni internazionali, domina nelle banche centrali, nelle Università, nelle riviste specializzate, nella divulgazione giornalistica ha subìto un mutamento evidente. Essa ha cessato da tempo di essere una scienza sociale. Nelle sue espressioni dominanti l'economia è diventata “ una tecnologia della crescita “. Una pura tecnica dell'andare avanti, dell'incremento senza sosta del PIL. E la tecnica – e qui ci permettiamo di riprendere e modificare Heidegger – “ la tecnica non pensa”.
Ora, lo stato presente di questo sapere trasformato in tecnica, merita una breve riflessione. Oggi è possibile osservare che esso procede verso il suo fine con sempre meno riguardo per ciò che la crescita economica produce nella condizione umana del lavoro, nelle giunture della società, nelle relazioni fra gli individui, negli istituti della democrazia, nella cultura e nelle psicologie collettive, nella vita privata delle persone, nel fondo spirituale della nostra epoca. E' come se esso si fosse ritagliato un ambito iperspecialistico, affidato alla sofisticata strumentazione di modelli matematici, lasciando ad altri saperi il compito riparatore delle distruzioni che compie nel suo procedere. Lo stesso operare post-factum delle altre scienze.
Ma tale modello appare poi in tutta la sua inoccultabile distruttività nei rapporti con il mondo naturale. Tutto il pensiero economico moderno che giunge fino a noi è figlio di un gigantesco meccanismo di rimozione della natura dal processo di produzione della ricchezza. Ancora oggi esso non è disposto se non a vedere nel mondo fisico che “ un potenziale da dischiudere con mezzi tecnici”[14] Un potenziale esterno, un illimitato deposito che di volta in volta appare come utensile, materia prima, energia. Eppure la vita economica, la produzione di beni e merci, altro non è – per dirla con le parole dello studioso che ha più profondamente pensato su questi temi, Hans Immler - che “ il movimento e lo svolgimento di un processo di natura (Naturprozeβ ) “ [15] . Tutto ciò che chiamiamo economia non è, in ultima istanza, che manipolazione del mondo fisico, cooperante insieme al lavoro - fornito da quell'essere naturale che è l'uomo - a produrre i beni circolanti nella società.
Ora, la scienze economiche dominanti sono ancora interamente segnate da questo peccato originale: esse ignorano di fondarsi su un mondo fisico di cui sconvolgono gli equilibri locali e planetari, di operare all'interno di una biosfera che ha sue regole e limiti ancora inesplorati. Esse non soltanto fingono di non vedere la finitezza del mondo, la limitatezza delle risorse disponibili per proseguire nella corsa, ma ignorano di alterare gravemente quella complessa “ eco-organizzazione” del mondo vivente a cui diamo il nome di natura, e a cui sono interamente subordinati anche gli uomini , esseri pur sempre naturali malgrado la loro potenza tecnica.[16]
La rimozione del mondo naturale dal campo visivo del pensiero economico moderno costituisce uno dei più stupefacenti miracoli che l'ideologia capitalistica della rimozione è stata in grado di produrre. Ma oggi essa non può più nascondere lo scacco storico di una scienza. Osserviamo, en passant, che il pensiero economico non è stato ancora in grado neppure di abbozzare una teoria della riproduzione della natura, della rigenerazione degli immensi materiali e beni che produzione e consumo richiedono costantemente. Esso contempla solo la riproduzione di due fattori: il capitale e il lavoro. E invece pensa e rappresenta la natura non come fattore destinato anch'esso alla riproduzione, ma come una cava, un fondo esterno sfruttabile all' infinito. Per questo oggi - di fronte alla compromissione di alcuni cicli riproduttivi delle risorse ( l'acqua, la terra fertile) e al riscaldamento climatico[17] – appaiono con tanta evidenza i fallimenti predittivi di un sapere settoriale e separato, privo di una visione olistica del mondo.
Sotto questo particolare, ma rilevantissimo profilo, ci prendiamo la responsabilità di affermare che l'economia come scienza, è un sapere in buona parte obsoleto, una moneta di pregio, ma fuori corso, una sopravvivenza dell'era industriale finita nel secolo scorso. Allorquando trionfava la grande finzione di un mondo fisico illimitato. E tale giudizio – mi sia consentito rammentarlo - riguarda quasi interamente le culture economiche ufficiali oggi in circolazione, anche quelle ispirate da paradigmi e valori progressisti. Se l'economia non incorpora in un nuovo sistema di pensiero la conoscenza della natura – quella natura che non solo è centrale nel processo economico, ma è al tempo stesso il mondo complesso, fragile e finito che ospita i viventi - rimane un sapere mùtilo, anche se accoglie in sé il vasto spettro dei fenomeni sociali che esso alimenta. Resta pur sempre drammaticamente insufficiente in un'epoca in cui lo sconvolgimento ambientale si pone già esso stesso come fenomeno economico di incommensurabile portata.
Ora, questa scienza non solo soffre della parzialità settoriale che ha limitato per secoli gli orizzonti di tutte le altre discipline. Nel corso della seconda metà XX secolo e ancora oggi essa ha signoreggiato tutti gli altri saperi, subordinandoli ai suoi modelli di plasmazione della vita sociale e di organizzazione del potere e delle istituzioni. Si è guadagnata una sovranità senza precedenti non solo nel mondo del potere economico e finanziario, ma anche, ovviamente, nelle Università, nei centro-studi, nella pubblicistica scientifica, nella stampa, nei media. Mentre l' ossessione della crescita economica l'ha trasformata in una ideologia del dominio, ispiratrice della cultura del breve termine, dei tempi sempre più accelerati del produrre, consumare, inquinare, vivere.
Ma non è tutto. La potenza manipolativa conseguita dalla scienza – o meglio, dalla sempre più rapida utilizzazione tecnologica delle sue scoperte – dà all’industria e in genere alle attività produttive delle società industriali una capacità senza precedenti di alterazione del mondo vivente. Questa capacità, in mano a potenze private sempre più grandi, è ispirata e orientata da un sapere divenuto una tecnica. E' questo dispositivo del produrre e consumare che fornisce oggi all' homo oeconomicus i mezzi per alterare gli equilibri del pianeta come mai era avvenuto in tutte le epoche passate.
Questa disciplina, nata come economia politica all'interno della cultura umanistica nella seconda metà del XVIII secolo, è entrata nel campo delle scienze cosiddette esatte e nella seconda metà del '900 ha sostituito la fisica come Big Science nelle società dell'Occidente. Sempre di più la sua invadenza imperialistica nella società e nelle istituzioni culturali ha sottoposto a severo scrutinio tutti gli altri saperi, ha chiesto ad essi ragioni della loro utilità. Ma non una utilità sociale generale, ma una utilità economica, sempre più immediata, sempre più strettamente subordinata ai tempi stretti e veloci della redditività economica. I saperi umanistici sono stati così messi nell'angolo, costretti a indietreggiare, a giustificarsi, a offrire spiegazioni del proprio operare, del proprio valore di mercato. La filosofia, la storia, la letteratura, l'arte a che servono, quali sono i loro ritorni, a quale mercato del lavoro devono servire? Sono ancora oggi queste le richieste che sentiamo risuonare sulla scena pubblica.
Una nuova centralità dei saperi umanistici
Ebbene, credo che sul piano strettamente teorico e culturale la legittimità di tali richieste sia ormai interamente naufragata. Siamo a un passaggio d'epoca che rende lo scacco storico delle scienze tradizionali non più occultabile. Oggi sono i “ saperi inutili” che devono interrogare. Sono essi che oggi ritrovano nuove e potenti ragioni di critica e di giudizio. Costituirebbe un segnale di grave arretramento di civiltà se oggi non fossero i saperi umanistici ad uscire dall'angolo e a porre essi, all'economia, e a tutte le altre tecnoscienze, domande fondamentali.
Come è stato possibile, nel giro di pochi decenni, trasformare un orizzonte di prosperità crescente, per lo meno nelle società industrializzate, in un avvenire dagli esiti sempre più incerti e inquietanti? Da quali cause discende la trasformazione di un dominio sempre più vasto degli uomini sulla natura in una generale minaccia ai viventi? Per quali ragioni le prospettive globali si presentano oggi come minaccia: dalla qualità del cibo alla continua ricorrenza delle pandemie? Com'è possibile che nelle società più ricche cha mai siano apparse nella storia umana l'ossessione che asservisce le persone è quella di produrre e consumare sempre di più? Che cosa giustifica il fatto che la prosperità dei Paesi ricchi – mentre lascia centinaia di milioni di persone nella miseria e nella fame nel Sud del mondo– non si traduca in accrescimento spirituale, in umana liberazione, in mitezza delle relazioni, ma alimenta rancori, paure, conformismi, conflitti etnici, svuota le democrazie , favorisce torsioni autoritarie nelle gestione del potere?
Potremmo anche porre delle domande più precise e mirate. Perché nelle Facoltà di Economia oggi dominano discipline tutte curvate a servire immediatamente le imprese, i bisogni mutevoli delle tecnologie e del mercato del lavoro, i caratteri più aggressivi dell'economia del nostro tempo? Chi dà uno sguardo ai piani di studio della Facoltà di Economia non può non rimanere stupito della presenza di così tante economie aziendali, di marketing, di matematica finanziaria. E quali economisti vengono plasmati da simili curricula? E che cosa sapranno mai questi giovani economisti europei della società in cui l'economia si svolge, di come essa trasforma le relazioni sociali, di che cosa accade al lavoro umano? Non è il lavoro, ancora oggi, componente essenziale del mondo produttivo e dei servizi? E perché mai è del tutto assente una storia del lavoro, una sociologia del lavoro in queste Facoltà? E da quale disciplina questi giovani economisti apprenderanno mai ciò che l'economia che essi sono chiamati ad alimentare e servire produce nella società dei paesi poveri, sotto forma di mercati asimmetrici, di saccheggio delle risorse naturali, di asservimento del lavoro indigeno, di indebitamento finanziario? E come potranno, questi nuovi cittadini e intellettuali dell'Europa unita, comprendere le cause profonde del sommovimento di popolazione che da vari angoli della Terra si muove verso di noi in cerca di lavoro, di condizioni più umane di vita? Non dovrebbe rientrare tale gigantesco processo in atto nello studio dei fenomeni economici? O lo lasciamo ad altri specialismi, ai demografi, ai sociologi, agli antropologi perché lo studino ciascuno per proprio conto? Ma non è anche da questa frammentazione e divisione dei saperi che procede la presente ingovernabilità del mondo ?
Non dobbiamo dunque chieder conto della sua parzialità e frantumazione conoscitiva a una scienza che ha dominato interamente il corso della nostra società? Non dobbiamo denunciare la sua crescente inadeguatezza a cogliere i fenomeni sempre più interrelati e sempre più globali che dobbiamo affrontare? Eppure la limitatezza di tale approccio, di tale orizzonte di razionalità, appare sempre più evidente. Come ricordava Edgar Morin, con tale procedere:
I grandi problemi umani scompaiono a vantaggio dei problemi tecnici particolari. L'incapacità di organizzare il sapere sparso e compartimentato porta all'atrofia della disposizione mentale naturale a contestualizzare e a globalizzare.
L'intelligenza parcellare, compartimentata, meccanicista, disgiuntiva, riduzionista, spezza il complesso del mondo in frammenti disgiunti, fraziona i problemi, separa ciò che è legato, unidimensionalizza il multidimensionale. E' un'intelligenza miope che il più delle volte finisce con l'essere cieca.[18]
Noi l'abbiamo appena visto all'opera questa “intelligenza cieca”. La crisi in cui si dibatte l'intera economia mondiale e la gigantesca perdita di ricchezza che ne è seguita è figlia legittima di questo sistema di razionalità. E' davvero degno di nota il fatto che tutta la raffinata ingegnosità matematica, la costellazione luminosa di algoritmi costruita dai cervelli della finanza internazionale negli ultimi anni, sia stata assolutamente incapace di predire alcunché. E' rimasta cieca davanti alla catastrofe che avanzava. Eppure si tratta di tecniche che fondano sulla previsione, sulla divinazione del futuro, tutte le loro ragioni operative, oltre che la loro superbia intellettuale. Perfetta e completa prova che le più sofisticate creazioni della tecnica economica sono chiuse in gusci specialistici, utensili ciechi destinati al fallimento di fronte all'indomabile complessità del mondo.
Ora, per concludere, ritorniamo al centro del nostro tema con qualche considerazione di prospettiva. Anche se le istituzioni universitarie tardano a prenderne atto, è fuor di dubbio che oggi le scienze sono attraversate, grazie soprattutto all'ecologia, da una tensione al dialogo fra di esse sempre più significativa[19]. Sapere delle connessioni che intercorrono fra i viventi e fra questi e il loro habitat, l'ecologia non può più essere ignorata da nessuna disciplina. Nessuna di esse può più isolare i fenomeni strappandoli dal contesto complesso in cui essi si svolgono. Si tratta di una conquista del pensiero umano da cui non si torna indietro. E senza dubbio tale dialogo apre nuove prospettive di collaborazione con le culture umanistiche, con la filosofia, innanzi tutto, ma anche con la psicologia, con la storia, l'antropologia. Nuovi scenari possono dischiudersi per la ricerca, nuovi e diversi interrogativi possono porsi le scienze stesse, grazie all'innesto e al dialogo con saperi che hanno percorsi, tradizioni, obiettivi diversi d'indagine. E ciò non solo per una normale ricerca di nuove strade di esplorazione conoscitiva, ma sopratutto per una ragione fondamentale: una ragione che segna una svolta radicale rispetto alle scienze che abbiamo ereditato dal XX secolo.
Oggi non abbiamo più alcuna ragione di perpetuare e accrescere il dominio sulla natura. I bisogni dell'umanità presente e futura vanno in altre direzioni. Ciò che l'interesse generale dei popoli della terra chiede alla scienza è un rapporto di cura e di conservazione degli equilibri naturali, dai quali dipende l'avvenire economico delle nuove generazioni e le possibilità stesse della vita futura. La scienza deve procedere sulla strada della ricerca e della conoscenza secondo un'etica di responsabilità, capace di contenere la dismisura della potenzialità distruttiva che essa ha raggiunto.
Allo stesso modo noi dobbiamo chiedere alle scienze economiche di incorporare nei propri orizzonti conoscitivi e nei propri fini una nuova cultura degli equilibri naturali, della complessità del mondo vivente. Oggi abbiamo sempre meno bisogno di mettere l'intelligenza, la cultura, l'umana creatività alla servizio della crescita economica. Occorre poter affrontare problemi complessi, incrementare il benessere collettivo, migliorare la qualità del vivere sociale. E non può certo più essere l'accrescimento continuo di beni e servizi il fine dominante dell'economia, ma un obiettivo più ambizioso, richiesto dalla presente epoca planetaria:la distribuzione della possibilità di vita per tutti i popoli della terra, una vita degna, ovviamente, in equilibrio con i limiti delle risorse esistenti, in accordo e non in conflitto con la casa comune che ci ospita. Una casa che sarà sempre più affollata nei decenni a venire.
Sono dunque questi i problemi che devono fare il loro ingresso dirompente nelle aule delle nostre Università. E' il mutamento di paradigma dei saperi, l' organizzazione della loro cooperazione e del loro dialogo il vero fronte riformatore che occorre mettere in piedi. E su questo terreno le culture umanistiche possono tornare a giocare un ruolo di prima grandezza. Innanzi tutto perché esse sono in genere portatrici di visioni universali. Costituiscono il più salutare antidoto alla frantumazione specialistica delle scienze novecentesche. E al tempo stesso sono promotori di utilità generali. Pensiamo al ruolo che deve avere il diritto, la sociologia, la politologia. l'antropologia in tutte le questioni globali che abbiamo di fronte, nella formazione di una nuova cittadinanza universale, nella costruzione del cosmopolitismo del nostro secolo.
Ma non meno rilevante è il peso e il rilievo che occorre dare ai saperi disinteressati. Ad essi, alla letteratura, alla storia, alla filosofia, alla musica, all'arte, ai grandi patrimoni spirituali della nostro civiltà, alle fonti della consolazione dell'uomo sulla terra spetta un grandissimo compito: contrastare la razionalità strumentale che ossessiona la nostra epoca, risvegliare le nostre società dal sonno dogmatico di un utilitarismo cieco e devastatore. Occorre costruire una razionalità che rappresenti e governi non una fase di regresso nella storia umana, ma una nuova pagina di civiltà.[20]
Ma le culture umanistiche, in Europa, oggi hanno anche il compito di formare una gioventù non più chiusa in una visione eurocentrica della storia umana, ma aperta e preparata al dialogo interculturale, capace di arricchire il proprio patrimonio universale con l'universalità delle altre culture.
Ma questo fine – lasciatemelo dire in conclusione - è irraggiungibile senza che le Università vedano confermata e accresciuta la loro natura pubblica. In un'epoca in cui così tante tecnoscienze particolari e disperse sono in mano privata è ancor più necessario che l'Università pubblica abbia un profilo dominante, capace di rappresentare l'interesse generale nelle scelte strategiche della ricerca e della formazione e in grado di orientare lo sviluppo dei vari saperi. Senza di essa, d'altra parte – com'è facile intuire – l'autonomia e la libertà stessa della ricerca e dello studio appaiono gravemente compromesse e a rischio.
In questi ultimi mesi di tracollo economico-finanziario tutti abbiamo potuto vedere che cos'è, in ultima istanza, lo stato. Che cosa diventa il potere pubblico nel momento del pericolo, allorché l'azione predatoria dei privati ha portato sull'orlo del baratro l'intera architettura economica e finanziaria del mondo. Che cos'è dunque il potere pubblico? In simili casi, esso non è che l'interesse generale in forma di potere. E dunque tale interesse deve valere solo come argine di ultima istanza? Deve intervenire solo quando è prossima la catastrofe? Deve limitarsi anch'esso, come le scienze, a svolgere un ruolo post factum e riparatore? O deve ex ante coordinare l'insieme degli interessi privati, piegarli al suo fine superiore e universale ?
[1] Cfr. C. Lorenz, L'Unione Europea e l'istruzione superiore: economia della conoscenza e neoliberismo, in « Passato e presente>>, 2006, n.69
[2] Per gli USA, ma all'interno di una politica incomparabilmente più generosa in termini di risorse, S.Aronowitz, Knowledge factory.Dismantling the corporate university and create true higher learning, Beacon Press, Boston,, 2000, p. 160 e passim
[3] Cfr. T. Flannery, I signori del clima. Come l'uomo sta alterando gli equilibri del pianeta, Corbaccio, Milano 2005, p.255 e ss.
[4] E.Morin, La méthode.Tome I.La Nature de la Nature, Edition du Seuil, Paris, 1977, p. 365.
[5] Cfr. M.Ceruti e E.Laslo (a cura di ) Physis: abitare la terra, Feltrinelli Milano, 1988, p.18
[6] La Nature, cit. p. 366
[7] K.Marx, Il Capitale.Libro I. Capitolo VI inedito. Presentazione, traduzione e note di B.Maffi, La Nuova Italia, Firenze, 1969, p. 89
[8] M.Heidegger, Meditazione sulla scienza (giugno 1938) in Discorsi e altre testimonianze del cammino di una vita (1910-1976), A cura di H.Heidegger, ed. it. a cura di N.Curcio, il melangolo, Genova 2005, p.315
[9] La frase è un'autocitazione di Heidegger dalla Lezione inaugurale di Friburgo (1929) contenuta nel Colloquio con Martin Heidegger(17 settembre 1969), in Discorsi, cit. p. 624
[10]« Allora l'invenzione diventa un'attività economica e l'applicazione della scienza nella produzione immediata un criterio determinante e sollecitante per la produzione stessa.>> (K.Marx,Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, Presentazione, traduzione e note di E.Grillo,La Nuova Italia, Firenze 1970, vol.I, p. 399.) Ma, com è noto, questo tema è presente in tutta l'opera matura di Marx. Si veda ora per questi aspetti il saggio di S.Aronowitz, Post-work.Per la fine del lavoro senza fine, Derive Approdi, Roma 2006, pp 131-177.
[11]A proposito della bomba atomica e della costruzione delle dighe in India Arundhaty Roy, ha scritto: « Si tratta di emblemi del ventesimo secolo, che marcano il punto in cui l'intelligenza umana è andata oltre il suo stesso istinto di sopravvivenza>> ( La fine delle illusioni, Guanda Parma, 1999, p. 87)
[12]K.Jaspers, La bomba atomica e il destino dell'uomo (1958), il Saggiatore Milano 1960, p 290
[13] M.De Carolis, La vita nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Bollatti Boringhieri, Torino 2004
[14]H.Immler, Natur in der ökonomischen Theorie,Westdeuscher Verlag, Opladen,1985, p. 18
[15]Id, Vom Wert der Natur. Zur Ökologischen Reform von Wirtschaft und Gesellschaft, Westedeutscher Verlag, Opladen 1990, p 33
[16]E.Morin, Il pensiero ecologico(1980) Hopeful Monster, Firenze 1988, p. 11 e ss.
[17]Fra tanta pubblicistica ricordiamo una testimonianza recente, C.Flavin e R.Engelman, La tempesta perfetta.in Worldwtch Institute, State of the world 2009. In un mondo sempre più caldo. Rapporto sul progresso verso una società sostenibile. Edizione italiana a cura di G.Bologna, Edizioni Ambiente, Milano 2009, p 39 e ss.Più in generale va almeno ricordata l'opera di Vandana Shiva, di cui rammentiamo qui, Il bene comune della terra, Feltrinelli, Milano 2006.
[18]E.Morin, I sette saperi necessari all'educazione del futuro, Raffaello Cortina Editore, Milano 2001, p. 43
[19]E. Morin, L'anno I dell'era Ecologica. La Terra dipende dall'Uomo che dipende dalla Terra. Seguito da un dialogo con Nicolas Hulot, Armando Editore, Roma 2007, p. 36
[20]Su questi temi si vedano le riflessioni di S.Latouche, La sfida di Minerva. Razionalità occidentale e ragione mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
Guido Rossi: La paura che nega il diritto
> Società e politica > Scritti su cui riflettere > Scritti 2009
La paura che nega il diritto
Data di pubblicazione: 26.11.2009
Autore: Rossi, Guido
“Si calpestano i diritti per garantire la sicurezza ma con quelle violazioni si creano paure e torna la violenza del Leviatano”. Il manifesto, 26 novembre 2009
Negli ultimi vent'anni la globalizzazione ha cambiato radicalmente la vita economica, politica e sociale dei popoli e degli individui, senza che il diritto ne abbia seguito e disciplinato l'evolversi.Jacques Derrida nei suoi seminari su La Bestia e il Sovrano (Jaca Book, 2009, p.61) ha fatto un esempio illuminante, chiedendosi quale sarebbe stata la reazione allo sventramento delle Torri Gemelle del World Trade Center dell'11 settembre 2001, se l'immagine non fosse stata registrata, filmata, indefinitamente riproducibile e compulsivamente trasmessa in tutti i Paesi del mondo. Il ritorno a Hobbes, dove lo Stato, il Leviatano, altro non è che una macchina per far paura e la paura è l'unica cosa che motiva l'obbedienza alla legge, induce a concludere che «siccome non c'è legge senza sovranità (...) questa chiama, suppone, provoca la paura».
Il pericoloso filosofo del diritto tedesco, Carl Schmitt, amato oggi sia a destra che a sinistra, precisava che «Protego ergo obligo è il cogito ergo sum dello Stato». E questo principio era stato uno dei fondamenti dello stato nazista.
Ma lo Stato attuale nella sua dimensione politico-mediatica ha strumenti per la creazione di paura e quindi di esigenze di protezione o addirittura di omologazione con la Gewalt, cioè la violenza, ben maggiori di quanti se ne potessero immaginare. La cronaca quotidiana, purtroppo, mi esime da qualsivoglia esemplificazione. Mi basterà citare il Patriot Act e Guantanamo, perché sono forse fra gli esempi più clamorosi della sconfitta del diritto di fronte alla paura. Tant'è che il presidente Obama ha recentemente dovuto contraddirsi smentendo la promessa di chiudere Guantanamo.
La verità è spesso manipolata in nome della sicurezza. È così che la costruzione della categoria degli enemy combatants ha tolto a costoro, dopo l'11 settembre, ogni diritto a un giusto processo, ad una normale istruttoria, all'assistenza di un avvocato, ad un regolare dibattimento. Purtroppo neppure la Corte Suprema, altre volte ben più attenta, nel caso Hamdi versus Rumsfeld (124, S.Ct. 2633 , è riuscita a garantire quei diritti a chi viene definito enemy combatant, anche se si trattava di un cittadino americano: il tutto in nome della sicurezza. Sempre identica è la conclusione: la violenza del Leviatano per proteggerti dalla paura (questa volta dei terroristi) colpisce sempre chi non è in grado di difendersi: dai minori, agli immigrati, a tutti i diversi che le società attuali tendono sempre più ad escludere.
Né è possibile sottacere che l'impero della violenza, e quindi quello omonimo della paura, è diventato planetario e trascende ormai la Gestalt del Leviatano. La letteratura apocalittica è immensa. Mi limiterò qui a citare solamente tre testi recenti che ne danno un quadro complessivo, abbastanza preciso, ancorché forse non completo.
Il primo è l'ultima opera di René Girard (Portando Clausewitz all'estremo, Milano 2008, 312) il quale dimostra come la violenza e le guerre nel mondo siano portate all'estremo e come l'accelerazione della storia crei nel genere umano una inconscia angosciante corsa verso l'apocalisse. Precisa Girard in conclusione che «il riscaldamento climatico del pianeta e l'aumento della violenza sono due fenomeni assolutamente legati (...) e questa confusione di naturale e artificiale rappresenta forse il messaggio più forte contenuto nei testi apocalittici». E ovviamente la globalizzazione ha reso la sorte dei minori più precaria, poiché - ripeto - la violenza si scarica sempre sui più deboli.
Martin Rees, il cui saggio Our Final Century (London, 2003) lascia poche speranze di sopravvivenza, entro la fine di questo secolo, non solo per il pericolo delle armi atomiche, al quale siamo fortunosamente scampati nel secolo scorso, ma per gli altrettanto gravi pericoli ai quali ci sottopongono ora le biotecnologie, piuttosto che gli errori, sempre più frequenti, negli esperimenti scientifici e nelle tecnologie di vario tipo. E ciò, indipendentemente dalle ulteriori osservazioni di R. Posner (Catastrophe, Oxford, 2004), sui rischi catastrofici delle malattie pandemiche, piuttosto che sulle possibili collisioni astrali e via discorrendo. Con una popolazione mondiale che, secondo i calcoli di Levy-Strauss, nel 2050 ammonterà a più di 9 miliardi di individui, difficilmente sfamabili ma soggetti a rischi di carestia. L'ultima copertina del settimanale The Economist intitola "How to feed the world" (come sfamare il mondo), per giungere alle stesse conclusioni. La sottovalutazione della portata di questi rischi non riduce certo la loro costante riproposizione nei media e il conseguente aumento collettivo dello stato di paura e di angoscia.
A questi rischi apocalittici si è ora aggiunta una grave crisi economica mondiale che nelle sue ricadute sull'economia reale e in particolare sulla disoccupazione aumenta in tutti i paesi la sensazione di instabilità e di minaccia alla sopravvivenza. La crisi ha dimostrato i limiti di un'ideologia basata sulla ricerca individualistica della ricchezza che ha portato all'autodistruzione del sistema in una recessione economica mondiale che colpisce soprattutto i paesi più poveri. Per di più, in un sistema dove vige la forza, chi è destinato a perdere è sempre il più debole che è sprovvisto di forza contrattuale, l'unica alla quale un'ostinata volgare ideologia continua ad attribuire valore anche agli effetti risolutivi della crisi. L'autoregolamentazione e il contratto sono nuovi idoli del mercato globale che ha clamorosamente fallito.
Senza contare che lo stesso sviluppo economico orientato sempre più verso il consumismo ha provocato un fenomeno brillantemente descritto di recente da Robert Reich (Supercapitalismo, 2009). La spinta all'estremo della concorrenza fra le imprese, al fine di ridurre sempre più i prezzi dei prodotti, per conquistare i consumatori, ha necessariamente portato alla riduzione dei costi, laddove era più facile e cioè come sempre nei confronti dei più deboli, vale a dire i lavoratori. Questi si sono visti via via sottrarre i diritti che avevano faticosamente conquistato. Insomma, l'interesse del consumatore ha avuto la meglio sui diritti del cittadino e così la concorrenza ha sconfitto la democrazia e la sicurezza.
Quella sicurezza, che con la paura, e i diritti è diventata oggetto di inquietanti antinomie: si calpestano i diritti per garantire la sicurezza, ma con quelle violazioni si creano paure e così in un circolo vizioso torna la violenza del Leviatano.
Allora la soluzione sta altrove: cioè sopra il Leviatano, sopra gli stati, cioè nel rispetto dei diritti umani e in quei principi che stanno sopra e al di fuori delle norme imposte dal Leviatano.
È pur vero che, come ci hanno insegnato sia N. Bobbio, sia M. Ignatieff, i diritti umani, nella loro pretesa di universalità, sono assolutamente storici e neppure assoluti. Alla loro base, tuttavia, nella diversità delle culture, esiste un minimum senza il quale le società non potrebbero sopravvivere. È in quel minimum che si sconfigge il loro supposto relativismo ed è in quel minimum che oggi G.B. Vico riconoscerebbe il senso comune insito nella facoltà dell'ingenium propria a tutto il genere umano, ed alla sua naturale propensione alla giustizia. A quella giustizia, alla quale il filosofo napoletano riconduceva altresì la «sapienza volgare» dei popoli primitivi. Uno dei maggiori esponenti di questa corrente di pensiero è, attualmente, il filosofo americano Ronald Dworkin.
Si tratta insomma di massime generali, di standards, pur difformi dalle norme positive, il cui contenuto si ritrova nei principi soprattutto costituzionali e poi anche morali di comune accettazione, rappresentati da quel minimum di cui ho sopra parlato. Ed è questo il momento dell'incontro fra diritto ed etica, a fini di giustizia e lontano invece dalle equivoche e fuorvianti formule di codici etici o della responsabilità sociale, o peggio ancora morale, delle imprese.
Il contenuto di questi principi, di questi standards è estremamente vario e complesso. E forse non è un caso che a tali principi, i cosiddetti global legal standards, anche l'Europa stia lavorando per evitare che ci sia la replica della crisi che ha sconvolto l'economia mondiale.
I principi devono essere accettati dai vari paesi, secondo le modalità e le strutture del diritto internazionale. Essi serviranno altresì a decidere gli hard cases, cioè i casi difficili dove la norma manca o è lacunosa. Mi basta qui citare la straordinaria sentenza della Corte suprema degli Stati uniti nel caso Roper versus Simmons del 1° marzo 2005. Si trattava di giudicare sulla pena di morte sentenziata a carico di Christopher Simmons per un assassinio da lui commesso quando aveva 17 anni. E' noto che l'art. 37 della Convenzione dell'Onu sui diritti dei minori del 1989 stabilisce, tra l'altro, che: «Né la pena capitale né l'imprigionamento a vita senza possibilità di rilascio devono essere decretati per reati commessi da persone di età inferiore ai 18 anni». Ma è altrettanto noto che gli Stati uniti e la Somalia sono gli unici due paesi al mondo che non hanno sottoscritto la Convenzione. Ebbene, la Corte Suprema, nella sua magistrale sentenza, concluse che: «È corretto che noi si consideri il peso determinante dell'opinione internazionale contro la pena di morte nei confronti dei minori, consistente in larga misura sull'instabilità e labilità emozionale dei minori che può essere spesso fattore del crimine». E così la pena di morte non fu applicata, perché, secondo l'estensore, il giudice Anthony Kennedy, sarebbe stata, tra l'altro, contro gli evolving standards of decensy. La decenza diventa criterio interpretativo e principio fondamentale del diritto! Il riferimento all'opinione internazionale nell'interpretare la Costituzione americana è stata poi oggetto di ampie discussioni, che alla fine hanno confermato il principio statuito dalla Corte suprema.
Vorrei, come finale meditazione, concludere che in presenza di alluvioni normative e amministrative scoordinate e sovente contraddittorie da parte dei poteri legislativi ed esecutivi non solo italiani od europei, ma di tutto il mondo, l'orizzonte del diritto si può aprire soltanto se i giudici sia interni, sia internazionali, di qualunque categoria, in tutti i paesi democratici, continueranno impegnando la loro dignità e indipendenza, a rivendicare con vigore i principi delle libertà democratiche e della giustizia, sia con valutazioni corrette della realtà, sia con riferimento, quando necessario, agli standard di civiltà per bloccare la violenza e le iniquità del Leviatano.
Mi piace allora terminare con l'ultima frase scritta da Ronald Dworkin ne L'impero del diritto (Milano, 1989): «L'atteggiamento del diritto è costruttivo: il suo scopo, nello spirito interpretativo, è quello di far prevalere il principio sulla prassi per indicare la strada migliore verso un futuro migliore, mantenendo una corretta fedeltà nei confronti del passato. Infine, esso rappresenta un atteggiamento fraterno, un'espressione del modo in cui pur divisi nei nostri progetti, interessi e convinzioni, le nostre esistenze sono unite in una comunità. Questo è comunque ciò che è diritto per noi: per gli individui che vogliamo essere e la comunità in cui vogliamo vivere».
La paura che nega il diritto
Data di pubblicazione: 26.11.2009
Autore: Rossi, Guido
“Si calpestano i diritti per garantire la sicurezza ma con quelle violazioni si creano paure e torna la violenza del Leviatano”. Il manifesto, 26 novembre 2009
Negli ultimi vent'anni la globalizzazione ha cambiato radicalmente la vita economica, politica e sociale dei popoli e degli individui, senza che il diritto ne abbia seguito e disciplinato l'evolversi.Jacques Derrida nei suoi seminari su La Bestia e il Sovrano (Jaca Book, 2009, p.61) ha fatto un esempio illuminante, chiedendosi quale sarebbe stata la reazione allo sventramento delle Torri Gemelle del World Trade Center dell'11 settembre 2001, se l'immagine non fosse stata registrata, filmata, indefinitamente riproducibile e compulsivamente trasmessa in tutti i Paesi del mondo. Il ritorno a Hobbes, dove lo Stato, il Leviatano, altro non è che una macchina per far paura e la paura è l'unica cosa che motiva l'obbedienza alla legge, induce a concludere che «siccome non c'è legge senza sovranità (...) questa chiama, suppone, provoca la paura».
Il pericoloso filosofo del diritto tedesco, Carl Schmitt, amato oggi sia a destra che a sinistra, precisava che «Protego ergo obligo è il cogito ergo sum dello Stato». E questo principio era stato uno dei fondamenti dello stato nazista.
Ma lo Stato attuale nella sua dimensione politico-mediatica ha strumenti per la creazione di paura e quindi di esigenze di protezione o addirittura di omologazione con la Gewalt, cioè la violenza, ben maggiori di quanti se ne potessero immaginare. La cronaca quotidiana, purtroppo, mi esime da qualsivoglia esemplificazione. Mi basterà citare il Patriot Act e Guantanamo, perché sono forse fra gli esempi più clamorosi della sconfitta del diritto di fronte alla paura. Tant'è che il presidente Obama ha recentemente dovuto contraddirsi smentendo la promessa di chiudere Guantanamo.
La verità è spesso manipolata in nome della sicurezza. È così che la costruzione della categoria degli enemy combatants ha tolto a costoro, dopo l'11 settembre, ogni diritto a un giusto processo, ad una normale istruttoria, all'assistenza di un avvocato, ad un regolare dibattimento. Purtroppo neppure la Corte Suprema, altre volte ben più attenta, nel caso Hamdi versus Rumsfeld (124, S.Ct. 2633 , è riuscita a garantire quei diritti a chi viene definito enemy combatant, anche se si trattava di un cittadino americano: il tutto in nome della sicurezza. Sempre identica è la conclusione: la violenza del Leviatano per proteggerti dalla paura (questa volta dei terroristi) colpisce sempre chi non è in grado di difendersi: dai minori, agli immigrati, a tutti i diversi che le società attuali tendono sempre più ad escludere.
Né è possibile sottacere che l'impero della violenza, e quindi quello omonimo della paura, è diventato planetario e trascende ormai la Gestalt del Leviatano. La letteratura apocalittica è immensa. Mi limiterò qui a citare solamente tre testi recenti che ne danno un quadro complessivo, abbastanza preciso, ancorché forse non completo.
Il primo è l'ultima opera di René Girard (Portando Clausewitz all'estremo, Milano 2008, 312) il quale dimostra come la violenza e le guerre nel mondo siano portate all'estremo e come l'accelerazione della storia crei nel genere umano una inconscia angosciante corsa verso l'apocalisse. Precisa Girard in conclusione che «il riscaldamento climatico del pianeta e l'aumento della violenza sono due fenomeni assolutamente legati (...) e questa confusione di naturale e artificiale rappresenta forse il messaggio più forte contenuto nei testi apocalittici». E ovviamente la globalizzazione ha reso la sorte dei minori più precaria, poiché - ripeto - la violenza si scarica sempre sui più deboli.
Martin Rees, il cui saggio Our Final Century (London, 2003) lascia poche speranze di sopravvivenza, entro la fine di questo secolo, non solo per il pericolo delle armi atomiche, al quale siamo fortunosamente scampati nel secolo scorso, ma per gli altrettanto gravi pericoli ai quali ci sottopongono ora le biotecnologie, piuttosto che gli errori, sempre più frequenti, negli esperimenti scientifici e nelle tecnologie di vario tipo. E ciò, indipendentemente dalle ulteriori osservazioni di R. Posner (Catastrophe, Oxford, 2004), sui rischi catastrofici delle malattie pandemiche, piuttosto che sulle possibili collisioni astrali e via discorrendo. Con una popolazione mondiale che, secondo i calcoli di Levy-Strauss, nel 2050 ammonterà a più di 9 miliardi di individui, difficilmente sfamabili ma soggetti a rischi di carestia. L'ultima copertina del settimanale The Economist intitola "How to feed the world" (come sfamare il mondo), per giungere alle stesse conclusioni. La sottovalutazione della portata di questi rischi non riduce certo la loro costante riproposizione nei media e il conseguente aumento collettivo dello stato di paura e di angoscia.
A questi rischi apocalittici si è ora aggiunta una grave crisi economica mondiale che nelle sue ricadute sull'economia reale e in particolare sulla disoccupazione aumenta in tutti i paesi la sensazione di instabilità e di minaccia alla sopravvivenza. La crisi ha dimostrato i limiti di un'ideologia basata sulla ricerca individualistica della ricchezza che ha portato all'autodistruzione del sistema in una recessione economica mondiale che colpisce soprattutto i paesi più poveri. Per di più, in un sistema dove vige la forza, chi è destinato a perdere è sempre il più debole che è sprovvisto di forza contrattuale, l'unica alla quale un'ostinata volgare ideologia continua ad attribuire valore anche agli effetti risolutivi della crisi. L'autoregolamentazione e il contratto sono nuovi idoli del mercato globale che ha clamorosamente fallito.
Senza contare che lo stesso sviluppo economico orientato sempre più verso il consumismo ha provocato un fenomeno brillantemente descritto di recente da Robert Reich (Supercapitalismo, 2009). La spinta all'estremo della concorrenza fra le imprese, al fine di ridurre sempre più i prezzi dei prodotti, per conquistare i consumatori, ha necessariamente portato alla riduzione dei costi, laddove era più facile e cioè come sempre nei confronti dei più deboli, vale a dire i lavoratori. Questi si sono visti via via sottrarre i diritti che avevano faticosamente conquistato. Insomma, l'interesse del consumatore ha avuto la meglio sui diritti del cittadino e così la concorrenza ha sconfitto la democrazia e la sicurezza.
Quella sicurezza, che con la paura, e i diritti è diventata oggetto di inquietanti antinomie: si calpestano i diritti per garantire la sicurezza, ma con quelle violazioni si creano paure e così in un circolo vizioso torna la violenza del Leviatano.
Allora la soluzione sta altrove: cioè sopra il Leviatano, sopra gli stati, cioè nel rispetto dei diritti umani e in quei principi che stanno sopra e al di fuori delle norme imposte dal Leviatano.
È pur vero che, come ci hanno insegnato sia N. Bobbio, sia M. Ignatieff, i diritti umani, nella loro pretesa di universalità, sono assolutamente storici e neppure assoluti. Alla loro base, tuttavia, nella diversità delle culture, esiste un minimum senza il quale le società non potrebbero sopravvivere. È in quel minimum che si sconfigge il loro supposto relativismo ed è in quel minimum che oggi G.B. Vico riconoscerebbe il senso comune insito nella facoltà dell'ingenium propria a tutto il genere umano, ed alla sua naturale propensione alla giustizia. A quella giustizia, alla quale il filosofo napoletano riconduceva altresì la «sapienza volgare» dei popoli primitivi. Uno dei maggiori esponenti di questa corrente di pensiero è, attualmente, il filosofo americano Ronald Dworkin.
Si tratta insomma di massime generali, di standards, pur difformi dalle norme positive, il cui contenuto si ritrova nei principi soprattutto costituzionali e poi anche morali di comune accettazione, rappresentati da quel minimum di cui ho sopra parlato. Ed è questo il momento dell'incontro fra diritto ed etica, a fini di giustizia e lontano invece dalle equivoche e fuorvianti formule di codici etici o della responsabilità sociale, o peggio ancora morale, delle imprese.
Il contenuto di questi principi, di questi standards è estremamente vario e complesso. E forse non è un caso che a tali principi, i cosiddetti global legal standards, anche l'Europa stia lavorando per evitare che ci sia la replica della crisi che ha sconvolto l'economia mondiale.
I principi devono essere accettati dai vari paesi, secondo le modalità e le strutture del diritto internazionale. Essi serviranno altresì a decidere gli hard cases, cioè i casi difficili dove la norma manca o è lacunosa. Mi basta qui citare la straordinaria sentenza della Corte suprema degli Stati uniti nel caso Roper versus Simmons del 1° marzo 2005. Si trattava di giudicare sulla pena di morte sentenziata a carico di Christopher Simmons per un assassinio da lui commesso quando aveva 17 anni. E' noto che l'art. 37 della Convenzione dell'Onu sui diritti dei minori del 1989 stabilisce, tra l'altro, che: «Né la pena capitale né l'imprigionamento a vita senza possibilità di rilascio devono essere decretati per reati commessi da persone di età inferiore ai 18 anni». Ma è altrettanto noto che gli Stati uniti e la Somalia sono gli unici due paesi al mondo che non hanno sottoscritto la Convenzione. Ebbene, la Corte Suprema, nella sua magistrale sentenza, concluse che: «È corretto che noi si consideri il peso determinante dell'opinione internazionale contro la pena di morte nei confronti dei minori, consistente in larga misura sull'instabilità e labilità emozionale dei minori che può essere spesso fattore del crimine». E così la pena di morte non fu applicata, perché, secondo l'estensore, il giudice Anthony Kennedy, sarebbe stata, tra l'altro, contro gli evolving standards of decensy. La decenza diventa criterio interpretativo e principio fondamentale del diritto! Il riferimento all'opinione internazionale nell'interpretare la Costituzione americana è stata poi oggetto di ampie discussioni, che alla fine hanno confermato il principio statuito dalla Corte suprema.
Vorrei, come finale meditazione, concludere che in presenza di alluvioni normative e amministrative scoordinate e sovente contraddittorie da parte dei poteri legislativi ed esecutivi non solo italiani od europei, ma di tutto il mondo, l'orizzonte del diritto si può aprire soltanto se i giudici sia interni, sia internazionali, di qualunque categoria, in tutti i paesi democratici, continueranno impegnando la loro dignità e indipendenza, a rivendicare con vigore i principi delle libertà democratiche e della giustizia, sia con valutazioni corrette della realtà, sia con riferimento, quando necessario, agli standard di civiltà per bloccare la violenza e le iniquità del Leviatano.
Mi piace allora terminare con l'ultima frase scritta da Ronald Dworkin ne L'impero del diritto (Milano, 1989): «L'atteggiamento del diritto è costruttivo: il suo scopo, nello spirito interpretativo, è quello di far prevalere il principio sulla prassi per indicare la strada migliore verso un futuro migliore, mantenendo una corretta fedeltà nei confronti del passato. Infine, esso rappresenta un atteggiamento fraterno, un'espressione del modo in cui pur divisi nei nostri progetti, interessi e convinzioni, le nostre esistenze sono unite in una comunità. Questo è comunque ciò che è diritto per noi: per gli individui che vogliamo essere e la comunità in cui vogliamo vivere».
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