Sono ben fermo nel continuare a considerare Giuseppe D’Avanzo il giornalista che stimo da anni, senza minimamente oscillare nel consideralo tra il “maiale” e il “venduto” (come egli ha scritto di essere stato apostrofato), dopo che si aperta (a maggio) la sua “querelle” con Marco Travaglio.
Pur tuttavia tale querelle mi lascia attonito, mi priva delle mie ultime, misere, riserve di speranza.
Per recuperarne almeno una piccola frazione, di speranza nella forza di quella che considero la “mia parte”, mi chiedo allora: come si fa ad «uscire dalla logica dei risentimenti» personali e ad entrare nella logica delle contrapposizioni (anche aspre) restando al merito delle idee (anche diversissime) di cui si è umanamente (e democraticamente) portatori?
Possibile che la sola strada praticabile sia quella sussurrata ma imposta da quella diplomazia ipocrita che appunto suggerisce di sopire, minimizzare, normalizzare, omettere, nascondere, clericalizzare, troncare per, alla fine, dimenticare?
Credo abbia detto giusto Walter Veltroni quando in una lettera inviata a la Repubblica di lunedì 18 agosto, ha affermato che “la vera epidemia del nostro tempo è la perdita di memoria”, ma forse si è dimenticato di aggiungere che tale epidemia, nel suo ceppo italiano, anziché essere isolata, è stata da sempre alimentata da tutti gli “stregoni e loro apprendisti” che hanno amministrato il potere, ed è stata lasciata libera di circolare al punto, da essersi da tempo trasformata in vera e propria endemia.
L’Italia afflitta dalla perdita di memoria collettiva (anche di quella più a breve), si è ormai ridotta ad una “palude”, alla cui superficie immota, approdano ormai gorgogliando di continuo, solo “risentimenti personali”.
Questi conoscono solo una via di ricomposizione (non certo di rimozione), ed è la via (sempre per sua natura temporanea) che si imbocca all’insorgere di una convergenza di interessi, ai quali, anche l’odio più radicato cede, per il tempo necessario, il passo.
Ma su simili basi non si cementano comunità statuali, tutt’al più “famiglie”, o “partiti”; a condizione che le prime siano intimamente mafiose e i secondi, siano affatto diversi da quelli ispirati dallo spirito che informa l’Art. 49 della nostra “esausta” Costituzione.
Quando però il “risentimento personale” affiora nel campo dove sono attendati i più deboli per definizione, e cioè quelli che comunque, anche contro la loro volontà, sono oggettivamente “subalterni” al potere, confesso che il mio stato di depressione si acuisce sino alla cupezza, ed anche l’ultima piccola scorta di fiducia relativa alla possibilità che ci si possa prima o poi risollevare come comunità, mi sembra solo frutto di una illusione dura a morire.
Mi ripeto, è questo l’effetto che mi fa la diatriba che vede contrapposti Giuseppe D’Avanzo e Marco Travaglio, che da sempre considero (ingenuamente?) dalla stessa parte della barricata: entrambi contro il potere al servizio del potere, contro la corruzione, contro la mafia.
In conclusione di queste righe riesco a dire che è nelle parole di D’Avanzo che trovo spunto per mie minime riflessioni.
D’Avanzo si dice interessato alla critica ad un “metodo giornalistico” che colloca “tutto il bene da una parte, tutto il male dall’altra”, un metodo che imputa a Travaglio, senza “onestamente” dimenticare che anche il suo “lavoro si è mosso spesso lungo quelle strade”.
D’Avanzo si dice interessato a non abusare della “verità”.
Ebbene francamente mi dispiace cogliere nella sua replica a Travaglio (la Repubblica, 11 settembre), proprio un suo inciampare nei “vizi” che intende criticare.
Per cui il descritto metodo giornalistico di Travaglio, nelle parole di D’Avanzo alla fine è tutto male, intanto che il bene si scorge solo nel di lui tornaconto, a cui Travaglio arriverebbe a piegare proprio quei “dati concreti” e quei “fatti” che spacciati come punto di forza sono invece, “a volte, costruiti con disinvoltura”.
Personalmente credo che la “verità” fra virgolette, l’unica a cui ci si possa riferire senza “trascendere” in dimensioni non umane, sia quella cosa che Cesare Garboli citava in uno dei suoi “ricordi tristi e civili”, riferendosi a Jaques Lacan: “La verità è ciò che resiste all’intelligenza”.
E l’intelligenza in questione, per un giornalista qual’è D’Avanzo (e qual’è Travaglio) non può che essere l’intelligenza dei suoi lettori a cui affidare con maggiore fiducia le notizie-verità, anche a costo di sbagliare il confine che separa quelle relative al male da quelle relative al bene.
Vittorio Melandri
2 commenti:
Ho letto il botta e risposta tra D'Avanzo e Travaglio e non capisco la critica di Melandri.
D'Avanzo fa osservare a Travaglio che se lui usa contro Schifani il fatto che un tempo costui frequentò un signore che, anni dopo tale frequentazione, venne riconosciuto mafioso, per dimostrare la mafiosità di Schifani, usando la stessa logica si potrebbe dire che poiché risulta che Travaglio, pochi anni or sono, ha fatto le vacanze con un altro signore che in seguito è stato condannato per gravi crimini, allora anche Travaglio è "contiguo" al mondo criminale.
D'Avanzo chiarisce, se ce ne fosse bisogno, che il ragionamento è proposto per assurdo, per mettere in evidenza la pericolosità dell'abuso (dico io) della proprietà transitiva, che in Travaglio è sistematico.
Come si può non stare dalla parte di D'Avanzo ?
Luciano Belli Paci
Comincio la mia “replica” a Belli Paci, con il far osservare che la critica che mi porta a pendere dalla parte di Travaglio, in quella che ho avuto l’ardire di battezzare la “Querelle D’Avanzo Travaglio” è partita (per quel che vale la mia persona) con una personale dichiarazione di stima rinnovata a Giuseppe D’Avanzo, il che non mi impedisce però di essere critico nei suoi confronti di volta in volta, come posso e come so.
Mi considero uno di quelli che lo stesso D’Avanzo, nella sua prima “Lezione del/(sul) caso Schifani” (la Repubblica 13 maggio 2008) definisce “ascoltatore innocente” (ad esempio della puntata di – Che tempo che fa – di sabato 10 maggio, di cui nel frattempo è scomparsa dall’archivio Rai la parte in cui compariva Travaglio) e/o un “lettore inconsapevole”.
Ma, pur modesta, non mi considero privo di intelligenza.
Parlo della capacità di capire che mi devo confrontare ogni giorno con una informazione che usa “un metodo di lavoro che non informa il lettore, (ma) lo manipola, lo confonde” sempre per usare parole di D’Avanzo (13/05) che condivido, ma che personalmente non uso specificatamente a carico di Travaglio, ma per stare all’erta sempre.
In questo mare di disinformazione, alcuni giornalisti italiani fra cui D’Avanzo e Travaglio, ma potrei aggiungerne altri, come Marco D’Eramo, o Gianni Barbacetto, o Saverio Lodato, e faccio torto ad altri che non aggiungo a questo elenco, si distinguono per la tenacia con cui, oltre alle loro opinioni “transitive”, forniscono a noi lettori innocenti e inconsapevoli, anche informazioni, sempre da aggiornare.
Scrive D’Avanzo sempre nel pezzo del 13/5 passato alla “storia” solo per il suo attacco a Travaglio:
“Le lontane «amicizie pericolose» di Schifani furono raccontate per la prima volta, e ripetutamente, da Repubblica nel 2002 (da Enrico Bellavia). In quell' anno furono riprese dall' Espresso (da Franco Giustolisi e Marco Lillo). Nel 2004 le si potevano leggere in «Voglia di mafia» (di Enrico Bellavia e Salvo Palazzolo, Carocci). Tre anni dopo in «I complici» (di Lirio Abbate e Peter Gomez, Fazi).”
Salvo poi aggiungere che ……
“Se dei legami dubbi di Schifani non si è più parlato non è per ottusità, opportunismo o codardia né, come dice spensieratamente Travaglio a un sempre sorridente Fabio Fazio, perché l' agenda delle notizie è dettata dalla politica ai giornali (a tutti i giornali?). Non se n' è più parlato perché un lavoro di ricerca indipendente non ha offerto alcun - ulteriore e decisivo - elemento di verità.”
Trovo curioso poter osservare grazie a D’Avanzo, che quel che per lui vale per Bellavia, Giustolisi, Lillo, Palazzolo, Abbate, Gomez,, e cioè che..... fra quello che loro scrivevano e i fatti raccontati erano passati decenni, non vale per Travaglio soli quattro anni dopo, e perché?, ........perché sulle frequentazioni di Schifani divenuto nel frattempo Presidente del Senato in quei quattro anni non è emerso alcun “-ulterioro e decisivo - elemento di verità.”
E partendo da questo, D’Avanzo sostiene che……
“nel «caso Schifani» non si può stare dalla parte di nessuno degli antagonisti. Non con Travaglio che confonde le carte ed è insincero con i tanti che, in buona fede, gli concedono fiducia. Non con Schifani che, dalle inchieste del 2002, ha sempre preferito tacere sul quel suo passato sconsiderato.”
Però...... va addosso, dalle pagine del quotidiano “più letto” del Paese, non al metodo Schifani, ma al “metodo Travaglio” e lo fa estraendo dal cilindro una storia raccontata “per assurdo”, ma che sa benissimo fare presa sui lettori "innocenti e inconsapevoli" come fosse una lampreda.
Potrei concludere come fa Belli Paci e chiedermi come non stare dalla parte di Travaglio, ma non è la scelta fra D’Avanzo e Travaglio che mi angoscia, ma la distanza fra questa querelle e i miei interessi di cittadino “innocente e inconsapevole” e su questa querelle un punto è fermo, alle viste di noi poveri lettori, l’ha aperta D’Avanzo non Travaglio, e vien da chiedersi almeno perché.
Per inciso e per concludere, due puntualizzazioni.
Ascoltando Travaglio da Fazio il 10 maggio scorso, mi sono fatto la convinzione che era scivolato (e uso un eufemismo per farmi grazia) sulla "muffa e sui lombrichi", e credo pure che se ne sia accorto subito pure lui; convinzione che mi sono fatto per aver colto l'espressione che ha fatto seguire alla battuta sulla muffa da cui deriva la penicillina.
Espressione che D’Avanzo ricorda oggi come un “Travaglio che rideva”, secondo me appunto d’imbarazzo per essersi accorto dello scivolone…. E puntualmente..... non è sulla sua denuncia delle frequentazioni del Presidente del Senato, un vero e proprio "servizio pubblico" offerto agli ascoltatori, nella stragrande maggioranza ignari del caso, che si è scatenata la polemica che ancora D’Avanzo rinfocola, ma appunto sulla muffa e sui lombrichi.
E tutto questo avviene in un paese, il nostro, che personalmente concordo nel definire con Alberto Crespi, che ne scirveva sull'Unità parlando del film Gomorra, come un paese...
"devastato, corrotto, violento, volgare, ignorante, sporco".
Respingo però a priori, che abusando della proprietà transitiva di cui parla Belli Paci, pensando al mio paese come "devastato, corrotto, violento, volgare, ignorante, sporco", intenda con ciò che siano tutti "devastati, corrotti, violenti, volgari, ignoranti, sporchi" i suoi cittadini ed altrettanto tutta la sua classe dirigente,....... dopo di che, respinto questa interpretazione del mio pensiero, resta ovviamente libero Belli Paci di non essere d’accordo con me e/o di non capire le mie considerazioni, ……. ed io di tenermi lo sconforto per la palese impossibilità di riunire le forze che comunque si oppongono alla devastazione, alla corruzione, alla violenza, alla volgarità, all’ignoranza, alla sporcizia, che ci circondano tutti da ogni dove.
Vittorio Melandri
P.S. Mi corre l’obbligo infine di scusarmi con Belli Paci e con tutti i lettori della mailing per aver risposto alle sue 10 righe con le mie 75
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