Da La Stampa
6/8/2009
Chiudere gli occhi non basta più
MARIO DEAGLIO
Alle nazioni come agli individui succede spesso di chiudere gli occhi di fronte a un problema nella speranza che il problema scompaia, e di riaprirli per trovarlo irrisolto e ingigantito. Così ha fatto l’Italia con la questione meridionale: per quindici anni il Paese l’ha sostanzialmente rimossa, nella speranza che, grazie al mercato e alla globalizzazione, il problema dell’arretratezza del Mezzogiorno si risolvesse da solo.
Ora che la crisi finanziaria ha dimostrato che mercato e globalizzazione non fanno miracoli, l’Italia scopre che la questione meridionale non è scomparsa ma si è, anzi, aggravata; che il divario tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno nei redditi per abitante (e in quasi tutti gli altri aspetti della qualità della vita) è ai livelli massimi da almeno trent’anni, con la tendenza a crescere ancora; che, per quanto riguarda una vasta gamma di indicatori economici e sociali, il Mezzogiorno è stato superato o sta per esserlo da quasi tutti i Paesi dell’Europa mediterranea.
Ma anche da un buon numero di Paesi dell’Europa centro-orientale diventando l’«ultimo della classe» nell’Unione Europea. Di fronte alla nuova virulenza di questo male grave e antico dell’Italia, la classe politica italiana sembra capace di proporre soltanto rimedi già sperimentati e di provata inefficacia. Si punta infatti su infrastrutture, intese più come stimolo produttivo nel momento della costruzione che come strumento di crescita nel lungo periodo; sulla spesa pubblica più per assorbire disoccupati che per rimuovere arretratezze strutturali; su una Banca del Sud, idea senz’altro lodevole, che rischia però di diventare una seconda Cassa del Mezzogiorno, ossia un veicolo di nuovi finanziamenti a pioggia con scarsa attenzione alla redditività.
E intanto il Mezzogiorno rimane pieno di strade non completate che non portano da nessuna parte - triste metafora della sua condizione generale -, di dighe prive dei necessari allacciamenti idrici, di ospedali costruiti con sabbia al posto del cemento, come nel caso di Agrigento che movimenta le cronache di questi giorni; l’immondizia delle sue città viene accantonata da qualche parte per il ritardo nelle tecnologie di smaltimento, con la minaccia latente, come nel caso di Palermo, che venga lasciata marcire nelle strade; i suoi boschi vengono dati alle fiamme da «piromani» che distruggono un patrimonio secolare spesso con la speranza di essere pagati cifre modeste per spegnere i roghi da loro stessi appiccati. In questi aspetti patologici, Campania, Calabria e Sicilia si distinguono per la gravità della loro situazione. Non fa meraviglia la riluttanza crescente del Nord nel convogliare nuove risorse (e quindi nel pagare imposte sensibilmente più alte di quelle del resto d’Europa) per un progetto non chiaro di crescita che non offre alcuna speranza di un rapido decollo.
Per uscire da questa situazione, che rende sempre più difficile parlare di un «sistema economico italiano», non bastano le ricette degli studiosi o i programmi, largamente carenti, dei politici. Il vero ingrediente mancante è il coinvolgimento dei meridionali e non servono partiti nuovi, espressione di una classe politica vecchia che ha difficoltà a gestire le risorse in funzione della crescita. Cari meridionali, potrebbero legittimamente dire gli altri italiani, non limitatevi a constatare che nel Mezzogiorno c’è molta povertà e molta disoccupazione e a chiedere che «lo Stato provveda»; individuate le carenze non dell’intervento pubblico ma di un sistema politico-sociale che ha finora reso vano, in termini di sviluppo e crescita economica relativa, qualsiasi intervento pubblico.
Sta prima di tutto agli abitanti del Mezzogiorno delineare come dovrebbe essere il Mezzogiorno nei prossimi vent’anni. La prospettiva di una crescita trainata dall’industria tradizionale dovrebbe essere ormai tramontata, visto che l’industria tradizionale conta sempre meno nella produzione di ricchezza delle economie avanzate, eppure gran parte delle richieste riguarda precisamente l’apertura - o la non chiusura - di «fabbriche». La prospettiva turistica può rappresentare almeno una parte della risposta al problema, e lo stesso si può dire per certe produzioni agricole e per certe «nicchie» artigianali da reinterpretare in senso moderno, ma i progetti, talora coraggiosi e promettenti, naufragano regolarmente nelle pastoie di una burocrazia insensata. La strada dell’alta tecnologia pare la più allettante ma richiede forti investimenti in capitale umano, in marcato contrasto con la perdurante debolezza delle università meridionali, alimentate da un sistema scolastico con altissimi tassi di abbandono, i cui diplomati mostrano un livello di preparazione sempre più lontano non solo dai livelli europei ma anche da quelli raggiunti da numerosi Paesi emergenti.
E’ tempo, quindi, di un vero dibattito sul Mezzogiorno, incentrato sulle compatibilità economiche in tempi lunghi e tale da coinvolgere non solo la classe politica ma la società civile meridionale. In assenza di tale dibattito si continua a privilegiare «il mattone», ossia la costruzione di infrastrutture, e a vagheggiare di «una banca». Da almeno un secolo il binomio mattone-banca si è rivelato inadatto al decollo del Mezzogiorno ed è difficile che rappresenti la soluzione ideale nel mondo tecnologico di oggi; così come il decollo è difficile quando l’ufficio stampa di una Regione meridionale occupa più persone di un centro di ricerca e quando un usciere della stessa Regione è pagato di più di un ricercatore universitario. I contributi esterni non possono essere risolutivi se il Mezzogiorno non prende in mano il proprio destino; se non lo fa, nonostante nuovi partiti e (forse) nuovi fondi, il suo allontanamento dal resto d’Italia è destinato ad aggravarsi.
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