Da l'Altro, 11 giugno 2009
L'anniversario della conferenza di Charles Snow tenuta a Cambridge nel '59, "Le due culture e la rivoluzione scientifica", è l'occasione per riflettere sull'opposizione tra cultura scientifica e cultura umanistica che ha caratterizzato la storia della sinistra.
E' il momento di voltare pagina e di aprire una discussione, perché questo ritardo ha inficiato la capacità della sinistra di leggere il presente.
Ecco allora quattro questioni per aprire il dibattito:
1)Quanto pesa la tradizione religiosa? E quale cultura filosofica ha influito di più?
2) Esistono questioni e parole a proposito delle quali la sinistra conserva un'immagine antropizzata?
3) Come si discute del nucleare? O meglio di che cosa si discute quando si discute di nucleare? Parlarne non significa fare i conti con la storia della paura?
4) Quando parliamo di cultura scientifica, parliamo di scuola. Al centro della questione, cioè, sta il problema della riforma della cultura scolastica. Le diverse riforme che si sono susseguite invece di aumentare la conoscenza scientifica la hanno marginalizzata.
In occasione del cinquantenario della conferenza tenuta da Charles Snow a Cambridge nel maggio 1959, dal titolo “Le due culture e la rivoluzione scientifica”, Enrico Bellone è tornato a riflettere, su Repubblica del primo giugno scorso, sulla scissione del sapere e sulla persistenza - altri direbbero sulla eternità – del blocco mentale intorno al confronto tra le due culture, quella scientifica e quella umanistica. Ovvero, per riprendere il discorso di Snow, invitando a riflettere sui due canoni fondamentali del sapere: 1) sul fatto che mentre gli scienziati, come tutte le persone acculturate, frequentano la letteratura, la musica, l’arte e la filosofia, gli umanisti hanno una conoscenza a voler essere generosi approssimativa del sapere scientifico; 2) sul fatto che il senso comune qualifica come ignoranza imperdonabile il non conoscere Dante, Beethoven, Michelangelo o Aristotele, mentre considera un dato tecnico il non conoscere Einstein, Galileo, Lavoisier o Darwin.
Per Snow, nel testo di quella conferenza, essenzialmente umanisti e scienziati vivono in mondi separati, disconoscendosi e disprezzandosi gli uni con gli altri. Ma con questo atteggiamento, che si forma in pieno romanticismo e viene mantenuto anche nel cuore del Novecento, non fanno che denunciare la propria ignoranza. E la propria irresponsabilità, perché, secondo Snow, è proprio a causa di questa separazione che il fossato tra nord e sud del mondo, tra ricchi e poveri, si va progressivamente allargando, rendendo i secondi sempre più dipendenti dai primi e non favorendo il loro sviluppo. In breve, alludeva al controllo del sapere scientifico come strumento per l’esercizio dell’egemonia.
Si tratta in realtà di una lunga storia, che riguarda tutta la nostra vicenda nazionale e non solo il problema del sapere scientifico. Così come una lunga e travagliata storia caratterizza la pubblicazione del volume che unisce il testo di quella conferenza a quello di una seconda, del 1963, centrata sulla stessa questione, nella quale Snow corregge in parte ma sostanzialmente conferma quanto aveva sostenuto a Cambridge nel 1959. “Le due culture” esce in edizione italiana nel 1964, pubblicato da Feltrinelli con una appassionata prefazione di Ludovico Geymonat. Viene più volte ristampato negli anni successivi (l’ultima edizione è del 1977), ma scompare nei primi anni ‘80 per poi riapparire in tutt’altra stagione: nel 2005 (per Marsilio, a cura di Alessandro Lanni e con tre interventi critici di Giulio Giorello, Giuseppe Longo e Piergiorgio Odifreddi).
Quel vuoto di un quarto di secolo indica numerose questioni. In mezzo, passa un pezzo di storia italiana sul quale è importante riflettere, perché quella vicenda non parla solo di un passato ma pesa in maniera rilevante sull’intera fisionomia della cultura italiana e sul modo stesso in cui, oggi, la cultura viene vissuta nel nostro paese. E riguarda anche, direttamente, le sfide che attengono allo sviluppo possibile, oltre la crisi che stiamo traversando.
Se il profilo della prima conferenza è l’invito a superare la divisione tra le due culture, la seconda contiene un’accusa esplicita rivolta all’inadeguatezza di chi ha la responsabilità di decidere. «La rivoluzione scientifica - scrive Snow - è il solo metodo in virtù del quale la maggioranza degli uomini può raggiungere cose di primaria importanza (anni di vita, libertà dalla fame, sopravvivenza dei fanciulli), quelle cose di primaria importanza che noi consideriamo ovvie e naturali, ma che in realtà abbiamo conquistato attraverso la nostra rivoluzione scientifica da tempo non poi così immemorabile». Ciò comporta, prosegue Snow, che i politici non riescono valutare in modo corretto l’immensità del progresso che i paesi ricchi potrebbero, con il loro impegno, indurre e veicolare nei paesi più poveri.
È radicalmente cambiata la situazione rispetto a quel 1963? Non mi pare. E tuttavia, se noi volessimo oggi, non tanto riprendere in mano quel testo, ma porci alcune domande sul senso dello sviluppo possibile che ci chiede di operare scelte e assumere decisioni, scopriremmo di non essere in grado decidere alcunché. E non lo siamo non solo per l’inadeguatezza della classe politica ma anche per una sorta di vuoto culturale che segna l’intera opinione pubblica, sai quella che vota per la destra o il centrodestra, sia quella che vota per la sinistra o per il centrosinistra. Questo vuoto culturale si concentra particolarmente intorno a quattro gruppi di questioni, di carattere contemporaneamente specifico e generale.
Prima di affrontarle, è tuttavia necessaria una considerazione di carattere preliminare. Credo che esista un rifiuto del sapere scientifico e una sua riduzione a “tecnica” che nella storia della società italiana è strutturale e data almeno dagli inizi del Novecento. Credo anche che esista una sovrapposizione tra organicismo di destra e organicismo di sinistra grazie alla quale oggi molte parole e molti concetti sono del tutto interscambiabili tra sinistra e destra. A lungo parlare di scienza, a sinistra, ha voluto dire misurarsi con i ritardi culturali del Paese, con le insufficienze del sistema educativo, formativo e culturale. Con il peso che la cultura dell’antiscienza ha avuto sul percorso culturale italiano almeno dagli inizi del XX secolo. Con la progressiva marginalizzazione della scienza nella storia culturale italiana.
È un atteggiamento culturale che si articola essenzialmente intorno a due questioni: da un lato quella che attiene alle scienze sperimentali, al fatto cioè di affrontare e discutere di scienza misurandosi su dati e su ipotesi di ricerca e di sperimentazione. In breve, in una dimensione che intrattenga con il sapere un rapporto non spiritualistico. Sotto questo profilo, a partire dagli anni Settanta, la dimensione della ricerca scientifica sul campo è stata nella sinistra lentamente abbandonata. La scienza diventa “sapere scientifico”. Non se ne parla più in relazione a ciò che fa ma in quanto “discorso”, termine che allude a molte cose ma soprattutto indica la definizione di un rapporto con le scienze del tutto a-scientifico. Dall’altra parte, si afferma l’idea che il sapere scientifico sia una sorta di codice per iniziati, privo di riscontri e dunque in sé pericoloso, comunque “infido”.
La somma di questi due percorsi fa sì che discutere di scienza, o di questioni aventi rapporto con la scienza, richieda uno schieramento aprioristico, che chiama in causa l’identità delle persone e non il sapere delle cose. Il risultato è che oggi, in Italia, una discussione sulle scienze e sul sapere scientifico nello spazio pubblico somiglia molto alla disputa intorno alla prova ontologica dell’esistenza di Dio. Un approccio che rende impossibile qualsiasi discussione non solo che approdi a un risultato pratico e misurabile ma anche che si proponga un innalzamento della consapevolezza scientifica.
Ciò detto, credo che non sia inutile porsi delle domande di carattere non solo tecnico sul nostro sapere (quello nazionale e quello della sinistra), sul come si è formato, sulle risposte che è in grado di offrire e su quelle che invece non può dare. Si tratta delle quattro questioni insieme specifiche e generali a cui accennavo prima.
1. Quali sono i campi di maggior frizione e come sono vissuti a sinistra? Per esempio, quanto pesa la tradizione religiosa a sinistra? Qual è l’immagine che, a sinistra, abbiamo dell’evoluzione? E, più in generale, quale formazione culturale e filosofica ha pesato nella formazione della sinistra italiana negli ultimi trent’anni? Dopo i francofortesi e dopo Geymonat, in Italia, chi ha inciso nella cultura diffusa della sinistra? Quanto e come hanno pesato Foucault e Heidegger? Cosa ha significato il pensiero debole? Che parte riveste la scienza nel sapere post-moderno (un ingombro? un incidente di percorso? Una “provocazione”?
2. Esistono questione e parole a proposito delle quali la sinistra conserva un’immagine antropizzata e nei confronti delle quali rifiuta a priori un’analisi non legata all’antropologia. Per esempio: quando parliamo di ambiente (parola che nasconde spesso un gergo organicistico) cosa intendiamo? E quando parliamo d tendenze o preferenze sessuali? Quando parliamo di produzione industriale nel settore agro-alimentare, in che modo ne parliamo?
3. Come si discute del nucleare? O meglio, quando si discute del nucleare, di cosa si discute. La questione nucleare, in Italia, non è conseguente a Chernobyl. Risale agli anni ‘60, allo scandalo e al processo a carico di Felice Ippolito. Ma noi del caso Ippolito e del mancato sviluppo italiano negli ultimi quarant’anni, ne abbiamo discusso con cognizione di causa oppure no? In che modo abbiamo affrontato il problema della costruzione dei siti e di una cultura dell’impatto che non c’è? Parlare di nucleare non comporta forse una stretta relazione con la storia della paura? E allora perché non parlarne esplicitamente? O, ancora, perché non parlare di una scelta energetica che punta su un sistema di scambio con altre economie nazionali? Con quali? Con quali idee di politiche internazionali?
4. Infine, quando parliamo di cultura scientifica, in realtà parliamo di scuola. Al centro del problema sta certamente la questione della riforma scolastica: quaranta anni di abbozzi di riforme non hanno prodotto una maggiore conoscenza, al contrario hanno spesso determinato una crescente marginalità della scienza.
Non è solo questione di quante ore si dedichino alla fisica, alla biologia o all’informatica. Il nodo è se il modello culturale sul quale si costruisce il sapere scolastico italiano medio sia o no in grado di affrontare la questione della scienza. Informatizzare il sistema scolastico italiano non sarebbe certo privo di significato, e tuttavia il problema centrale è quello di definire cosa venga ritenuto “sapere”. Una cultura che non si oppone alla scienza significa acquisire una mentalità in cui pensare equivale a dubitare, in cui lo scetticismo è superiore alla cultura dell’a priori: dove la linea Bacone-Spinoza-Shaftesbury-Hume-Berkeley-Ferguson-Smith sia considerata sapere e non una mera curiosità. Dove lo sperimentalismo abbia tanti spazi quanti l’idealismo e dove il dubbio e il sapere sperimentale godano della stessa considerazione dell’ “idea” della fede. Dove discutere di religione non sia discutere di teologia ma di sociologia della religione, inserendo infine Max Weber tra quel che bisogna sapere quando si tratta di religione e modernità. Dove il paradigma che fonda il sapere scientifico sia acquisito con la stessa dignità del sapere umanistico, e Darwin cessi di essere visto come un signore stravagante.
Parafrasando Croce, il problema che oggi i moderni hanno davanti non è perché non possiamo non dirci cristiani, ma perché i moderni non possono non dirsi scozzesi. Ne vogliamo parlare o continuiamo a fare spallucce?
David Bidussa
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