La nuova sinistra tra Scilla e Cariddi
Rita Gagliardi sul Riformista (25 luglio 2009) ricorda il motto medievale “Nomina sunt essentia rerum” per discutere della frenesia del cambio di nome delle formazioni politiche per rispondere alle sfortune elettorali.
Certamente i nomi, come le insegne ed i simboli dei partiti, hanno una forte capacità simbolica e, se perdono consensi, la reazione più semplice è quella di mettere in discussione i simboli ed i nomi.
Tuttavia quando sono processi improvvisati e calati dall’alto, hanno come unico o preponderante effetto quello di sbandare il proprio zoccolo duro e, quindi, di perdere ulteriormente consensi.
I nomi sono importanti, ma ridurre la discussione a tale aspetto significa non affrontare i problemi alla radice e, quindi, prospettare false, proprio perché facili, soluzioni.
Più importante del nome è innanzi a tutto la corrispondenza del progetto politico, dei programmi e delle azioni al nome.
Proprio per i nostri antichi maestri socialisti il partito avrebbe dovuto prefigurare la società del futuro. Chiunque di noi, che abbia avuto esperienze di militanza in un partito della sinistra, non importa quale, non poteva che avere orrore della società futura se essa avesse dovuto corrispondere al proprio partito: lotte di potere, affiliazioni claniche o clientelari, carrierismo, narcisismo o autoreferenzialità, ma soprattutto la frequente mancanza di fraternità e solidarietà.
Questi difetti si accentuavano quando il Partito da opposizione assurgeva a partito al governo (non di governo, che richiedeva ben altra mentalità). Nella mia vita ho avuto la ventura di assistere ai passaggi del PSI al centro-sinistra e del PDS in DS e PD, tutti passaggi, tranne l’ultimo, che ritenevo giusti e che ho sostenuto, per capire che, quando le idee non camminano sulle gambe degli uomini giusti, le stesse si corrompono e degradano.
Non è problema di integrità personale, ma di selezione del gruppo dirigente, di controllo democratico del loro operato e di partecipazione effettiva alle scelte di una sempre più vasta platea di iscritti militanti, nonché di attenzione dell’opinione pubblica ed in particolare degli elettori alle vicende di un partito.
Un partito deve essere innanzi a tutto credibile, prima ancora di avere un nome attrattivo.
In Spagna per ben due periodi, prima con Gonzalez (1982-1996) e poi con Zapatero (dal 2004 ad oggi), si è affermato come primo partito il PSOE, cioè il Partito Socialista Operaio Spagnolo, con un nome che più arcaico non si può.
In Svezia la socialdemocrazia ha trionfato per più di mezzo secolo ed anche nelle ultime elezioni europee è stato uno dei pochi partiti socialisti in controtendenza, pur chiamandosi ufficialmente Partito dei Lavoratori Svedesi, ma da tutti conosciuto come Socialdemokraterna (Socialdemocrazia).
Tutto ciò è avvenuto mentre in Italia si discuteva sulla scomparsa della classe operaia o di alleanze dei produttori e perciò della necessità di svecchiarsi e modernizzarsi fino ad arrivare al fondo della parabola con la formazione del PD, che, appunto, ha scelto un nome del tutto generico, anodino.
Si può anche mutare, anche geneticamente, conservando lo stesso nome come è stato per il PSI di Bettino Craxi o il Labour di Tony Blair.
Craxi cambiò tuttavia il simbolo, rinunciando non solo alla falce e martello, ma anche al libro e soprattutto al sole dell’avvenire (forse è per questo che il suo PSI è tramontato?).
Tony Blair affrontò una dura battaglia politica e culturale dentro il partito contro la clausola statutaria, che prevedeva ancora le nazionalizzazioni e per ridurre il peso dei sindacati nella scelta della direzione del partito. Blair è stato soprattutto il mentore politico della cosiddetta Terza Via, cioè con la scelta di rompere con gli arcaismi della socialdemocrazia tradizionale.
Sull’altro fronte della tradizionale divisione della sinistra, sul versante comunista, l’oscillazione è stata altrettanto importante, quanto inconcludente.
Con il crollo del sistema sovietico c’è chi non si è arreso alla storia e permane nostalgico e chi cerca di convincersi e di convincere che quel regime non era comunismo o in ogni caso il suo comunismo.
In tutti i casi senza fare i conti con la storia, sia rimuovendola, come ha fatto Veltroni, sia contrapponendo una mitica e ideale società comunista alla sua concreta realizzazione (Realexistierender Sozialismus): una bella contraddizione per chi si richiama al marxismo!
A sinistra il crollo del muro di Berlino doveva essere l’occasione in tutta Europa per mettere al centro il superamento della divisione tra socialisti e comunisti, divisioni le cui ragioni ideologiche (riforma versus rivoluzione) e politiche (guerra fredda) erano venute meno.
Con il senno di poi il superamento della divisione, almeno nella parte occidentale, avrebbe dovuto iniziare prima con i fatti ungheresi dal 1956 e la Primavera di Praga del 1968.
Quegli avvenimenti ebbero, comunque, degli effetti importanti nella sinistra italiana, rafforzando la scelta autonomista del PSI e dando l’avviso alla separazione tra PCI e PCUS.
Del superamento della divisione non se ne fece nulla, né in termini di discussione ideologica, né di iniziativa politica.
Il PCI alla Bolognina scelse di non scegliere il campo del socialismo europeo, ma di andare oltre, pur approdando nell’Internazionale Socialista e nel PSE.
Il PSI pensò di capitalizzare i fatti per uscire, unico caso in tutta l’Europa occidentale, fatta eccezione per Cipro (AKEL>EDEK) e l’Islanda (Alleanza Popolare>Partito Socialdemocratico) , dalla condizione minoritaria rispetto ai comunisti e di porre le basi di una nuova egemonia nella sinistra.
Quel progetto fu, peraltro, perseguito in maniera contraddittoria, perché poteva avere successo con uno spostamento a sinistra del PSI, cioè cono uno schema, per semplificare, mitterrandiano, invece che con l’asse con Andreotti e Forlani, denominato CAF, e senza tenere conto che il pragmatismo del PCI gli avrebbe consentito un dialogo diretto con la DC: il PCF non era, invece, in grado di proporre un “compromesso storico”, con i gollisti.
Sul piano europeo i partiti socialisti, sotto l’offensiva ideologica della destra e democristiana che prevedevano il crollo della socialdemocrazia come conseguenza del crollo del muro di Berlino, hanno dato avviso ad una revisione come la già ricordata Terza Via, che ha avuto positivi riscontri elettorali e che ha avuto il suo acme nel 1999, quando ben dodici primi ministri su quindici paesi della UE erano espressione di partiti del PSE ed il tredicesimo Prodi dell’Ulivo.
Bisogna, però, dire che questo fatto non ha dato un segnale politico forte alla UE, nel senso di sviluppare le idee e suggestioni del Libro Bianco di Jacques Delors del dicembre 1993, anzi la maggioranza dei partiti del PSE si è caratterizzata, come il centro-sinistra in Italia, con l’abbandono dei suoi valori tradizionali, tra i quali la separatezza dalla società capitalistica e con la conversione ai processi di liberalizzazione e privatizzazione.
Indubbiamente il contesto economico mondiale ha favorito queste scelte, con periodi di crescita ininterrotta, anche se caratterizzata dalla preponderanza della finanza, dalla crescita delle differenze tra aree del mondo ed all’interno delle società tra la parte più ricca e la maggioranza della popolazione.
La crisi economica e finanziaria iniziata nel 2008 ha trovato impreparati sia gli economisti ed i guru della finanza, sia i partiti di sinistra, che non avendo ricette proprie per uscire dalla crisi, non hanno beneficiato del fallimento del pensiero unico liberista.
Massicci interventi della finanza pubblica sono stati effettuati sia da governi conservatori che di sinistra.
Si è creata l’illusione, a sinistra, che ciò rappresentasse la rivincita dell’economia pubblica, mentre non sono state che l’ennesima riprova, che nella società capitalista si privatizzano i profitti e si socializzano le perdite.
La discussione su nuove regole globali di controllo della finanza sono appena agli inizi, così come quella su un nuovo modello di sviluppo, compatibile con la tutela ambientale, che esca dalla genericità dell’espressione sviluppo sostenibile, con la quale ci si riempie la bocca. In altre parole, nel settore delle energie rinnovabili si è mai fatto, a livello di opinione pubblica, una informazione sul costo energetico e ambientale della costruzione dei pannelli solari e non soltanto dell’energia pulita prodotta con essi? I siti migliori per parchi di energia eolica per il regime dei venti sono compatibili con la tutela del paesaggio? L’energia idroelettrica, prodotta grazie alla gratuita forza di gravità non ha controindicazioni naturalistiche e ambientali? Cosa si sta facendo per rovesciare la filosofia di uno smaltimento rifiuti centralizzato. Non importa se basato su raccolta differenziata, recupero o distruzione, rispetto ad una gestione locale, che comprenda anche la autoproduzione di energia?
Gli interventi pubblici hanno sostanzialmente salvato le banche, intese come aziende, e non hanno cambiato i criteri per la concessione del credito. L’industria dell’automobile ha avuto,tra i settori in crisi, un trattamento privilegiato, senza una discussione sull’opportunità se non fosse meglio e, addirittura meno costoso salvaguardare il livello di vita dei disoccupati, piuttosto che salvare posti di lavoro a costo della collettività di una delle industrie più legate all’uso dei combustibili fossili e quindi all’effetto serra.
Visti i guasti di un liberismo selvaggio e di una finanza irresponsabile, appare logico sostenere un maggiore intervento pubblico di controllo e di programmazione dell’uso delle risorse e degli obiettivi da raggiungere per assicurare una crescente equità nella società. Tuttavia nessuno ci può assicurare, rebus sic stantibus, che un intervento pubblico ispirato da clientelismo e logiche di potere sia meglio del perseguimento del profitto ad ogni costo, cioè indipendentemente dalle sue ricadute sociali ed ambientali. A sinistra non si può far finta di non sapere che la proprietà pubblica dei mezzi di produzione ha prodotto un sistema economico fallimentare ed una società burocratica e dittatoriale, che ha compresso la libertà oltre ogni limite tollerabile.
Un punto fermo dovrebbe esserci a sinistra, cioè il legame indissolubile di ogni riforma sociale con la democrazia e la libertà, non peraltro perché presuppongono il consenso della maggioranza della popolazione ed il convincimento dell’opinione pubblica. Ufficialmente è così, perché nessuno propugna più la conquista del potere con una rivoluzione armata e la dittatura del proletariato, tuttavia è rimasto grattando la superficie, una mitica fiducia nelle iniziative delle masse contro le istituzioni, compresi i governi di cui si fa parte (ultimo esempio in ordine di tempo la manifestazione del 24 ottobre 2008, atto di nascita e tomba politica della Sinistra Arcobaleno) o la retorica della democrazia diretta contro quella rappresentativa per indebolirla, invece di rafforzarla ed integrarla con la partecipazione cosciente di cittadini consapevoli ed informati.
La condanna di regimi fondamentalisti ed illiberali non è netta come dovrebbe, perché conta ancora molto la loro collocazione sulla scenario internazionale. Ahmadinejad è uno dei preziosi alleati di un campione del socialismo come il presidente venezuelano Chavez, ed anche anti sionista, e pertanto calma e gesso con le critiche.
Di fronte alle manipolazioni elettorali delle ultime presidenziali iraniane qualcuno a sinistra, ci ha spiegato che il grosso degli oppositori proviene dalla borghesia cittadina e che gli strati più poveri,dai quali provengono basij e pasdaran, stavano con Ahmadinejad: un piccione con due fave, una sorprendente rivalutazione del Lumpenproletariat e la riesumazione della borghesia come nemica di classe.
Senza il voto dei borghesi (la borghesia in quanto tale non ha un comportamento politico-elettorale omogeneo) non si vincono le elezioni in nessun paese economicamente progredito, quindi la conversione alla democrazia non è completa con questi presupposti ideologici.
Per tornare al tema iniziale, se cioè la sinistra per tornare a vincere debba cambiare nome ed abbandonare non solo ogni riferimento al comunismo, ma anche al socialismo, è una delle tante discussioni intorno al niente, che hanno caratterizzato la sinistra in questi anni: nominalistica, quando non ideografica, e sui contenitori.
Si doveva, invece, dare priorità ai contenuti ed alla selezione e ricambio della classe dirigente, che aveva il compito di portarli avanti. Lo notava la Gagliardi nell’articolo richiamato all’inizio, che non c’è esempio di sinistra in Europa, aggiungerei nel mondo, che abbia cambiato così tante volte nome con gli stessi dirigenti.
Il nodo del socialismo non è nominalistico, un gran numero dei partiti dell’Internazionale Socialista, forse la maggioranza, non ha l’aggettivo socialista o socialdemocratico nel proprio nome . Dunque il problema non è nel nome ma nel fatto se le forze di sinistra hanno ancora il socialismo come obiettivo anche nel XXI° secolo. La questione non è se definirsi socialisti, ma di definire il socialismo oggi: un altro modo di superare le divisioni del XX° secolo. Socialdemocratici e comunisti, riformisti e rivoluzionari anche prima della formale rottura del movimento operaio erano divisi non sull’obiettivo finale, cioè una società senza classi e senza capitalisti, ma sul modo di arrivarci e sulla gestione del potere nella fase di transizione.
Se il liberismo è fallito sarebbe naturale sostenere che un'altra società è necessaria e che è anche possibile.
Per non nasconderci dietro un dito, l’aggettivo socialista non gode di una buona pubblicistica, ad essere brutali è stato sputtanato da Tangentopoli, però altrettanto non si può dire del sostantivo Socialismo. Quando si sente parlare di socialisti del PdL la confusione aumenta.
I socialisti hanno un ruolo da giocare, non nel tenere in vita formazioni con il nome socialista, ma nel contribuire alla ricostruzione della sinistra in Italia, avendo come parametro di riferimento la storia ed i valori del socialismo europeo che è un concetto più largo del semplice riferimento al PSE, che pure rappresenta il campo maggioritario della sinistra in Europa. Nella ricostruzione del nuovo soggetto politico della sinistra puntare alla costruzione di una sinistra che in Italia non c’è mai stata, una sinistra a vocazione maggioritaria, autonoma, laica, democratica, ecologista e socialista.
Una sinistra che innovi nelle procedure di selezione della propria classe dirigente a tutti livelli, assumendo la partecipazione democratica come caratteristica fondamentale, in luogo delle degenerazioni del centralismo democratico, cioè la cooptazione selettiva ad opera delle oligarchie dominanti. La nuova sinistra dovrà essere federalista, proprio per superare i partiti del Nord (esistenti o in fieri) e del Sud (in fieri), senza dimenticarci di quelli del Centro (il Pd,in termini di distribuzione dei voti e di consenso territoriale non è meno un partito regionale della Lega Nord, soltanto meno consapevole della propria identità). I modelli sono già davanti a noi, quello del PSOE, che grazie alla struttura federale ha superato la contraddizione di vincere le elezioni politiche nelle Comunità autonome storiche, come la Catalogna e i Paesi Baschi, e di perdere regolarmente le elezioni regionali, perché i socialisti non partecipavano al voto.
L’altra scelta politica è quella della svolta ecologista del Partito Laburista australiano, con la quale nel 2007 ha posto fine ad un decennale predominio conservatore.
Sinistra e Libertà, o meglio ancora Socialismo e Libertà, può essere tutto questo od un ennesimo tentativo di pura sopravvivenza elettorale dei suoi gruppi dirigenti e quindi destinata al fallimento.
Milano, 28 luglio 2009
Felice Besostri
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