venerdì 21 agosto 2009

Gian Enrico Rusconi: Quante insidie per la SPD

Da La Stampa

3/8/2009

Quante insidie per la Spd





GIAN ENRICO RUSCONI

E’ davvero finita l’età della socialdemocrazia? Proprio in Germania, la nazione che ne ha registrato i successi storici più grandi, accanto alle sue sconfitte più dolorose? Il segnale sembra modesto ma l’effetto è imprevedibile. Nei giorni scorsi le principali organizzazioni sindacali, seguendo l’esempio dell’Ig Metall, il potente sindacato dei metalmeccanici (2,3 milioni di iscritti), hanno rinunciato ufficialmente a dare indicazioni di voto ai propri membri, in previsione delle prossime elezioni di settembre. È un brutto colpo per la Spd, per la sua identità di grande partito dei lavoratori. È un atto di sfiducia nel suo programma sociale. È un pessimo segnale per il possibile esito elettorale.

A questo punto parlare di crisi della sinistra tedesca è un eufemismo. Ma in che senso la Spd si considera ancora prima di tutto un «partito di sinistra», un partito di rappresentanza operaia con vocazione di «partito popolare»? Non si è già presentato forse come una formazione politica rappresentativa di «un nuovo centro»? Questa era stata la definizione coniata dal cancelliere Gerhard Schroeder che ha vinto le elezioni del 1988, affiancato da Oskar Lafontaine (adesso leader della sinistra antagonista Linke). E allora il sindacato si era apertamente schierato con la socialdemocrazia. Che cosa è accaduto nel frattempo? La prospettiva schroederiana del nuovo centro progressista è fallita. Ha innescato movimenti centrifughi. Si è consumata la più profonda crisi di rappresentanza politica della storia della sinistra tedesca. Il grande mondo del precariato giovanile, della disoccupazione, dell’impoverimento dei ceti medi non trova più rappresentanza nella socialdemocrazia. Ma dove altrimenti? Da qui l’enorme incertezza dell’elettorato tedesco. Ne sono un sintomo le parole stesse del leader sindacale dei metalmeccanici. Limitandosi a dire che non avrebbe fatto più alcuna raccomandazione di voto, prima che un atto di accusa contro la Spd, la sua è stata un’ammissione di impotenza. «Sono finiti i tempi in cui i sindacati potevano raccomandare “vota questo o quello”». E molti lavoratori - ha aggiunto - voteranno il partito della cancelliera Angela Merkel. Perché? Non c’è contraddizione tra questa constatazione e la critica che il leader sindacale continua a rivolgere ai partiti dell’Unione democristiana (Cdu e Csu), prevedendo che una loro coalizione con i liberali (Fdp), dopo le elezioni di settembre, «privilegerà i benestanti e porterà tagli nella spesa sociale».

Ma perché allora il sindacato non sostiene la socialdemocrazia? La Spd ha agito così male nella esperienza della Grande Coalizione? In realtà la Grande Coalizione è stata una buona operazione di contenimento, non la soluzione dei problemi. I sindacati puntano il dito contro l’aumento dell’età pensionabile e contro il taglio delle indennità di occupazione. Ma non dicono nessuna parola di apprezzamento circa lo sforzo fatto dalla socialdemocrazia al governo per tenere testa con successo alla crisi degli ultimi mesi, per guidare con fermezza la politica di intervento dello Stato nel sistema bancario, per tentare di risolvere, in modo talvolta controverso, singole difficili situazioni. (Compresa la vicenda, tuttora aperta, della Opel dove proprio il sindacato è stato decisivo nel bloccare la proposta Fiat).

In questa congiuntura il partito socialdemocratico - stretto attorno al suo candidato alla cancelleria Frank-Walter Steinmeier - gioca tutta la sua partita nel presentarsi agli elettori come partito-di-governo di responsabilità nazionale, con un «team di competenti», ricco di una visione complessiva valida per quell’aggregato di ceti e interessi, spesso tra loro incompatibili, che costituisce la struttura sociale di oggi. Ma non riesce a farsi capire. Di contro i sindacati tradizionali sembrano fatalmente costretti a tenere presenti soprattutto gli interessi diretti e concreti dei loro iscritti, che pure sono relativamente privilegiati rispetto a milioni di altri lavoratori. Già altre volte nella storia tedesca si è presentata - a sinistra - questa situazione di tensione tra istanze di competenza nazionale generale e legittima rappresentanza degli interessi dando luogo ad acute crisi di lealtà. O semplicemente frustrazioni che portano alla disaffezione e all’assenteismo. Ma a ben vedere questo è il dilemma dell’intera sinistra europea, che si declina in modo diverso da Paese a Paese.

In Germania tuttavia ci sono ancora due elementi da considerare. Da un lato c’è la presenza insidiosa della Linke, della «sinistra antagonista», verso la quale le alte dirigenze socialdemocratiche e sindacali mostrano netta chiusura. Anche se nessuno lo dice ad alta voce, qui si è aperta la più grande scommessa del futuro della sinistra. Dall’altro lato c’è la capacità di gestione governativa della cancelliera Angela Merkel. Qualcuno dice che si tratta di abilità di comunicazione piuttosto che di effettiva capacità di decisione, che è frutto di collegialità o di bilanciamento tra le parti al governo. Ma se anche fosse così, non sarebbe poca cosa. Soprattutto se il risultato è che i ceti meno abbienti anziché rivolgersi alla socialdemocrazia si fidano della loro cancelliera. Siamo davanti a un classico caso di efficacia della leadership al di là delle appartenenze di partito. È una situazione che la sinistra non apprezza a motivo della sua tradizionale diffidenza verso il principio della leadership, a dispetto del fatto che l’ha praticato abbondantemente in tutte le sue varianti, socialiste e comuniste. La Spd ha accettato questa sfida costruendo la sua nuova leadership (Steinmeier) e il suo team di competenti. Ma la partita sarà dura.

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