Da L'Altro
IL DIBATTITO: SCIENZA/SINISTRA, Il Nucleare? Basta fanatismi, non è il demonio
società
di David Bidussa
Intorno alla questione degli Ogm, se questi rappresentino il futuro, o viceversa se essi costituiscano un serio pericolo, si è sviluppata un discussione accesa, certamente sentita.
Vorrei preliminarmente dichiarare una cosa: non sono uno scienziato; non ho condotto studi né specifici né mirati sulla questione del biologico; non ho né le competenze professionali, né quelle curriculari per argomentare intorno alla questione specifica.
Per riprendere Luzzatto «dubito che il problema risieda solo in una scarsa conoscenza da parte della sinistra (o dei suoi rappresentanti più infl uenti) delle nozioni scientifi che. C’è sicuramente anche questo, purtroppo, ma se le cose stessero unicamente in questi termini sarebbe suffi ciente un corso accelerato di fi sica e biologia alla dirigenza politica e tutto si risolverebbe in breve tempo. Troppo facile. Io temo, al contrario, che Io temo, al contrario, che la sinistra in Italia non abbia storicamente inteso il metodo scientifi co, il suo modo di ragionare e di procedere per approssimazioni successive alla conoscenza del reale, il suo sistema costitutivamente refrattario ad ogni principio di autorità, e il suo sforzo di rimettere in gioco, continuamente, quanto è già stato acquisito nel quadro di una determinata teoria nel momento in cui nuovi dati empirici mettono in crisi quella certa concezione e ne fanno insorgere una nuova.» Proprio per superare questa condizione del resto, forse in modo un po’ ellittico, concludevo auspicando a “essere scozzesi”. Correttamente Gilberto Corbellini lo ricorda. Non è l’unico punto con cui concordo con lui. Complessivamente mi convincono maggiormente le argomentazioni proposte alla discussione da Gilberto Corbellini che non quelle presentate dai suoi critici. Vorrei provare a spiegare perché e con ciò chiarire il senso dell’intervento pubblicato su questo giornale l’11 giugno in cui provavo – spero non in forma oscura – a porre alcune questioni. Ovvero: 1) se il rapporto problematico e critico tra sinistra e scienza sia un problema specifi camente italiano? 2) se ci sono questioni e parole su cui la sinistra ha un’immagine antropizzata; 3) quali sono i campi di maggior frizione e come sono vissuti a sinistra; 4) Come si discute del nucleare? O meglio quando si discute del nucleare di che si discute? 5) quando parliamo di cultura scientifi ca e di scuola di che parliamo? Sono dell’avviso che alle domane 1 e 2 la risposta sia affermativa e che complessivamente le questioni specifi che 3-5 (ma altre si potrebbero indicare, semplicemente erano le prime che mi venivano ), costituiscano un punto nevralgico scoperto della cultura diffusa a sinistra in Italia. Tutto questo, tuttavia oggi per quanto urgente e per certi aspetti improrogabile, mi sembra costituire un dettaglio. Ci sono scelte che vengono compiute non in relazione a un convincimento argomentato in sé, ovvero non per la fondatezza argomentativa che contengono, al contrario, proprio perché il tempo a disposizione non è una variabile indipendente. Gran parte delle scelte che oggi ci riguardano, a mio avviso, è segnata da questa condizione. Vorrei considerare un esempio che credo costituisca un paradigma anche per molte altre questioni, compresa la questione degli Ogm. Alla domanda quanto tempo abbiamo a disposizione di fronte a noi per allestire, avviare, testare e mettere a regime una possibilità di produzione energetica non più esclusivamente fondata sugli idrocarburi, la risposta media è circa 25 anni, forse 35 a voler essere generosi. La stessa distanza temporale che ci separa dal primo shock petrolifero nell’ottobre 1973. Proviamo a fare un bilancio del tempo trascorso. Quante inerzie hanno fatto in modo che in questi 35 anni la ricerca e la sperimentazione abbiano avuto o non abbiano avuto la possibilità di procedere oltre il modello petrolifero? Ed è solo dovuto al fatto che ci sono dei fondati dubbi sullo smaltimento delle scorie nucleari? Quanto questi dubbi hanno infl uito sul rallentamento della ricerca, sulla persistenza di un senso comune antinucleare, o ancora sui luoghi comuni che lo connotano? In quei luoghi comuni tuttavia non stanno solo quelli propri di chi è convinto antinuclearista, ma anche di chi è nuclearista convinto, proprio perché propagandando il nucleare come la soluzione a tutti i problemi oltre i quali la questione era solo amministrare la quotidianità non solo ha contribuito – come coloro che hanno opinioni opposte – a trasformare in metafi - sica un’ipotesi, ma non ha cercato di convincere i proprio avversari rimuovendone in forma argomentate le obiezioni o le incertezze. Il risultato è che superato il panico intorno all’ “effetto Chernobyl” in una congiuntura politica al cui interno il “conflitto di civiltà” è divenuto il paradigma che motiva molte scelte, il ritorno del nucleare è accolto come la soluzione di un problema che invece rimane invariato e su cui la ricerca di ipotesi alternative è ancora per molti aspetti “in alto mare”. Cosa ricaviamo da questa storia? Non esistono risposte tecniche in sé capaci di darci una risposta priva di questioni. Esistono soluzioni “a tempo” a patto però che si abbia consapevolezza del tempo utile, di ciò che quella soluzione temporanea consente di rispondere, dei margini di tempo che quella ipotesi ci lascia per poter trovare una soluzione più effi cace. Non c’è tempo né per convincere gli antinuclearisti che quella soluzione fornisce delle opportunità, né i nuclearisti che il nucleare non è una soluzione ultima. Occorre “riprendere tempo”: per cui la scelta alla fi ne è il nucleare e allo stesso tempo l’investimento in ricerca per superarlo. Non c’è una soluzione già costruita oggi. Lo stesso mi sembra essere presente nella questione sugli Ogm. Noi abbiamo il problema della fame, lo abbiamo oggi e dobbiamo risolverlo con gli strumenti possibili di oggi. Possiamo, così come per l’energia, educare a un consumo consapevole; favorire un diverso modo di consumare e di produrre. Ma questo è un processo che da solo non è suffi ciente a risolvere in tempi brevi il primo enorme problema che abbiamo davanti: quello della sottoalimentazione, talora, in alcune aree consistenti del pianeta, quello della denutrizione. Problema a cui è da aggiungere, peraltro, una condizione di incremento demografi co fondato su un rapporto tra insediamento, risorse, e territorio completamente fuori registro (come, per esempio, ha richiamato recentemente Hervé Le Bras nel suo Addio alle masse, Eleuthera). Anche in questo caso noi dobbiamo ora dare risposte per ora. Di nuovo avendo la consapevolezza che la scelta di oggi non è la soluzione del problema, ma un modo per “riprendere tempo”, per costruire un’ipotesi diversa. E’ una visione scarsamente entusiasmante, me ne rendo conto. Forse anche demotivante. Ma se dovessi fare un bilancio della storia del Novecento che abbiamo ereditato, non è anche grazie all’entusiasmo debordante (una condizione mentale con cui Anthony Shaftesbury all’inizio del ‘700 denominava ciò che noi oggi indichiamo come fanatismo) che ci troviamo a fare i conti, in mestizia, sul tempo scarso che abbiamo di fronte a noi?
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