mercoledì 11 giugno 2008

segnalazione: documento per una sinistra socialista

Per una nuova sinistra socialista

Il voto dell’aprile 2008 ha consegnato il paese a un devastante paradosso. Il bisogno di sinistra è indiscutibile. Ma la sinistra scompare dal Parlamento e dalla politica nazionale. La comprensione delle ragioni e degli effetti di quanto è accaduto è premessa necessaria di una iniziativa volta a superarne gli effetti.


Il cedimento culturale della sinistra.

La sconfitta di aprile è il momento ultimo di un lungo processo di crisi, il cui primo ed evidente sintomo si trova nell’egemonia che, da un lato nelle culture politiche prevalenti e dall’altro e con esse corrispondenti nel sentire più comune, ha assunto la visione del mondo propria delle imprese. La cultura della impresa, intesa in senso lato, ormai domina le convinzioni ed anche l’immaginario collettivo. La sua più immediata e massima espressione sta proprio nell’assunzione della guida del governo e della indiscussa leadership dello schieramento di destra da parte della sua figura più forte e che rappresenta gli interessi del mondo imprenditoriale e delle grandi aziende in particolare. Ma ciò non è la causa, ma la conseguenza del radicale mutamento di paradigma dei fondamenti della società. È passata la convinzione che solo la cultura d’impresa, divenuta cultura di governo, può assicurare una governabilità di sistema adeguata ai tempi di una concorrenza sempre più spietata. Il venir meno dei partiti storici della sinistra , al di là delle cause che lo determinarono, ha prodotto effetti, nel medio periodo, negativi e devastanti sulla coscienza politica di grandi masse di cittadini, in termini di valori civili, di priorità sociali, di dinamiche politiche. Oggi le categorie interpretative del mondo, dei rapporti sociali, dello sviluppo economico sono letteralmente dettate, in modo quasi imperioso e sostanzialmente incontrastato, dagli interessi dei ceti dominanti e di ristrette elites economiche e finanziarie. Liberismo, profitti, rendite , competitività, produttività, che non tengono conto della qualità sociale della vita associata dell’uomo, sono i “nuovi”- ma quanto vecchi! - valori cui tutta la società sembra essere subordinata.
La sinistra politica è essa stessa nella sua gran parte divenuta soggetta alle nuove parole d’ordine, perdendo la propria autonomia di pensiero e di progetto storico, essenzialmente perché si è dimostrata incapace di riformulare, teorizzare, praticare un suo nuovo disegno di cambiamento che non fosse di semplici modesti correttivi delle degenerazioni più evidenti ed insopportabili delle pratiche prevalenti. E’ mancata una teoria politica di alternativa credibile delle attuali tendenze di sviluppo, che non è il radicalismo verbale o il massimalismo inconcludente, o il richiamo ai no-global e ai movimentismi di ogni sorta, ma può essere solo il progetto di una nuova società fondato su una lucida visione da conquistare con le armi della democrazia e della gradualità, forti delle proprie ragioni ideali. E ciò è tanto più anomalo, grave e paradossale in quanto la cultura d’impresa non solo non è stata in grado di assicurare uno sviluppo e una crescita economica del paese degni di questo nome, ma sta determinando una condizione di vita sempre più gravosa e precaria per milioni di famiglie, e non solo giovani e lavoratori in senso stretto. Il cedimento culturale ha inciso anche sulla tensione unitaria nel sindacato, producendo momenti di divisione – come nel caso del Patto per l’Itala - e indebolendo la capacità di difendere gli interessi di lavoratori e pensionati. E troviamo l’emblema più significativo e agghiacciante della situazione di oggi nelle morti sul lavoro e nella sostanziale insensibilità degli imprenditori e delle loro associazioni di fronte ad uno stillicidio quotidiano, che è divenuto quasi un nuovo tipo di genocidio.
Al cedimento culturale verso l’impresa si è accompagnato, nell’arco di circa vent’anni, il progressivo abbandono delle strutture portanti del pensiero politico-istituzionale della sinistra. Non è certo un caso che autorevoli rappresentanti di quel che fu la sinistra abbiano parlato e parlino di cittadino-consumatore e cittadino-utente, così riversando in un contenitore unico del tutto indifferenziato parti sociali che un tempo sarebbero state ritenute antagoniste e portatrici di conflitto. Né è un caso che anche a sinistra si siano ritenuti decisivi e prevalenti i temi della decisione e della governabilità, piuttosto che quelli della rappresentanza politica e della partecipazione democratica. Si è così abbandonata la lunga tradizione storica della sinistra italiana, che ha visto nelle assemblee rappresentative e il baricentro di un sistema politico effettivamente democratico. Né ancora è un caso che si sia giunti, attraverso la scelta del maggioritario prima, e soprattutto dell’investitura popolare diretta dei capi degli esecutivi, ad una personalizzazione estrema della politica e alla sterilizzazione delle assemblee elettive, ridotte a costose superfetazioni istituzionali, luogo al più di confuse risse di moderno notabilato. Né infine è un caso che abbia prevalso in parti di quel che fu la sinistra il modello del partito leggero o liquido, coerente con la logica del rapporto diretto tra leader e elettori attraverso i mezzi di comunicazioni di massa. Per giungere al modello dell’uomo solo al comando, che riceve l’investitura nel voto popolare, e deve essere lasciato governare fino al vaglio del successivo voto. Si è sostituita così la partecipazione di un giorno al vaglio democratico permanente assicurato dai partiti, dalle assemblee elettive e dagli istituti della responsabilità politica che in esse si esercitano. La deriva oligarchica è evidente. E non possiamo oggi meravigliarci che si giunga ad accettare ipotesi di riforma anche costituzionale non lontane dal pensiero e dalle proposte del centrodestra vincente.
Né deve meravigliare che questa progressiva disgregazione abbia tolto alla sinistra la connotazione di “diversità” che ha a lungo tenuto nella storia del paese. Il raggiungimento delle posizioni di governo è diventato il parametro per la valutazione del successo, individuale e collettivo. Governare come fine, non come mezzo per il cambiamento della società in funzione di un progetto storico e ideale. La ossessiva concentrazione sul governare comunque, e l’assunzione del buon esito in questa prospettiva come parametro assoluto di successo, hanno indotto una deriva verso una politica in cui il compromesso, anche se deteriore, è visto come inevitabile e necessario. Anche per la sinistra si pone ormai la necessità di recuperare la buona politica, e prassi politiche e di governo rigorose e attente all’uso corretto delle risorse pubbliche. Cresce invece la egemonia nei partiti, anche a sinistra, delle figure che sono investite di funzioni di governo e dispongono delle risorse che ad esse si connettono. Ciò rende difficile un’opera di pulizia che si dimostra oggi indispensabile e urgente. Una politica fondata essenzialmente o esclusivamente su chi governa e amministra è in assoluto quella più difficile da riformare.

L’occasione mancata di una nuova sinistra.

Il processo che ha condotto alla nascita del PD ha mostrato subito con chiarezza i suoi limiti politici e concettuali, e il rischio che ne derivava per la democrazia italiana. Ma proprio per questo non andava sottovalutato, né si poteva ridurre alla banalità di un rimescolamento di ceto politico in cerca di collocazione e di futuro individuale e collettivo. Di certo è stato anche questo. Ma bisognava coglierne in pieno i possibili effetti, e anticiparli.
Sinistra democratica e le altre forze poi confluite nella Sinistra Arcobaleno non sono state all’altezza del compito. Soprattutto con le primarie PD è stata chiara la necessità di un cambio di passo. Nelle primarie si è evidenziata tutta la negativa ambiguità di un nuovo soggetto politico costruito in provetta, privo di identità e contenuti. Ma quelle primarie sono state comunque un evento di notevole rilievo politico, per di più assistito da una ossessiva attenzione di stampa e televisione. Si imponeva una risposta adeguata alla sfida.
Da sinistra quella risposta non è venuta. È iniziato un confuso confronto, sostanzialmente segnato dai timori e dalle chiusure dei gruppi dirigenti. Non si è mai aperto un vero processo costituente, in cui ognuno mettesse in gioco fino in fondo appartenenze e identità, per trarne la sostanza di una sinistra vera, oltre che formalmente nuova. In questo processo solo Sinistra Democratica, che poteva e doveva essere il fulcro della costruzione di un nuovo soggetto politico, ha progressivamente abbandonato il proprio progetto iniziale, fondato sul richiamo ad un socialismo riformista e di governo saldamente agganciato al socialismo europeo, e sull’obiettivo di una politica nuova, pulita, rinnovata attraverso il recupero dei canoni storici per la sinistra dell’uso corretto e rigoroso dei poteri amministrativi e di governo, e di una partecipazione democratica effettiva attraverso una riforma profonda dei partiti politici. Su questo progetto, SD era nata suscitando interesse e voglia di partecipare, poi svaniti col tempo.
Nel rapporto con le altre forze politiche poi confluite nella Sinistra Arcobaleno il progetto originario di Sinistra Democratica non è stato né affermato né sostenuto con forza e convinzione dal gruppo dirigente. L’ultimo e decisivo passaggio di questa sostanziale subalternità è stato nella mancata riforma del sistema elettorale. La proposta di tornare al proporzionale sostenuta da SD ha incontrato nelle altre forze della sinistra disinteresse e persino qualche aperto contrasto. Esse preferivano puntare al presunto vantaggio assicurato dal maggioritario, o rimanevano sostanzialmente disinteressate in quanto convinte di poter ottenere comunque una rappresentanza parlamentare significativa. Una posizione che i fatti hanno dimostrato miope e sbagliata. Il passaggio al proporzionale avrebbe tolto dal campo l’argomento del voto utile, e avrebbe contrastato con assai maggiore efficacia un esito devastante per la sinistra e il paese.
Alla fine, Sinistra Arcobaleno è venuta in essere come mera aggregazione elettorale, risposta necessitata e priva di convinzione alle scelte e agli errori di chi nel centrosinistra perseguiva l’obiettivo impossibile di una vittoria solitaria. Una sinistra senza aggettivi, ma anche senza identità, vista dai più – e dagli elettori - come riaggregazione dei residui di una sinistra già sconfitta intorno a Rifondazione comunista.
Oggi, la proposta della costituente della sinistra, pur non essendo di per sé da respingere, tuttavia alla luce delle ragioni, dei modi e delle conseguenze del fallimento di Sinistra Arcobaleno rischia di essere una risposta sbagliata ad un problema reale. Bisogna evitare anzitutto i tentativi di rifugiarsi verso chiuse mete neoidentitarie e vaghi e utopici neocomunismi. Si conferma invece la improrogabile necessità di dar vita ad una nuova ampia formazione politica di sinistra socialista saldamente collocata dentro il vasto campo del socialismo europeo, dove esistono ed operano, spesso con successi innegabili, grandi partiti socialisti che dal governo o anche dall’opposizione hanno contribuito e contribuiscono a creare le dimensioni e le caratteristiche delle società più avanzate al mondo in termini di diritti sociali e di diritti civili, e che non per questo hanno esaurito i loro compiti storici. All’opposto sono essi, nonostante i loro limiti, i loro errori e anche le loro sconfitte che si presentano e possono sempre più assurgere al ruolo di protagonisti del progresso dei singoli paesi e del mondo intero.
La ricerca in Italia di una nuova sinistra non può prescindere dalla nascita di un nuovo socialismo. Di sicuro, l’identità non è un recinto. La sinistra, se unita in quanto senza aggettivi, rischia di essere una forza priva di coerenti e saldi fondamenti ideali e politici. La costituente di una nuova sinistra non può né deve riprodurre una più piccola e asfittica Sinistra Arcobaleno, senza per altro averne più né la spinta iniziale né la novità del processo. Alla luce delle condizioni di oggi, nella migliore delle ipotesi, essa sfocerebbe nella fusione di Sinistra democratica con parte di Rifondazione comunista. Sarebbe privo di prospettiva un partito in cui prevalesse la tesi di un rilancio di RC. Né potrebbe avere migliore fortuna un soggetto politico comunque ibrido, che si richiamasse ad alcuni valori generali e generici di sinistra, nel quale si riproducessero le ambiguità e i nodi non sciolti di SA, e soprattutto si accentuassero caratteristiche movimentiste e massimaliste destinate di per sé o a produrre disorientamento o a percorrere ruoli marginali e perciò sostanzialmente di testimonianza. In questo senso si aumenterebbero i rischi di ulteriore emarginazione, e le condizioni di esclusione che le elezioni politiche hanno consegnate alla sinistra italiana.
La costituente della sinistra deve avere il respiro di un’ampia prospettiva strategica, che non parli tanto alle forze esistenti per rinchiuderle in accordi di apparati, ma deve essere concepita e praticata come la riapertura di una nuova dialettica politica che parli e coinvolga l’insieme di tutte le forze che hanno animato e animano il grande cammino della sinistra italiana, fuori e dentro i partiti oggi esistenti, fuori e dentro gli attuali esiti ed approdi del riformismo e del radicalismo, stimolando e incalzando chi è divenuto sordo alla rielaborazione senza pentimenti dei temi del socialismo e chi viceversa si è prosciugato in una falsa mitizzazione di un passato non più riproducibile. Che parli al vastissimo mondo dei subalterni, dei precari, degli emarginati, degli sfruttati, ai ceti medi pesantemente impoveriti, al vasto mondo delle professioni e soprattutto della cultura, oggi turbato e passivo, ma che può e deve essere richiamato alla lungimirante combattività delle idee del progresso. Un’opera di lunga lena, che senza negare le urgenze del momento sia in grado di affrontarle con gli strumenti migliori che l’intelligenza collettiva saprà mettere a disposizione.

Un nuovo centrosinistra

Il voto di aprile - politico e amministrativo - ha chiarito che la sinistra deve assumere l’obiettivo strategico di una nuova coalizione di centrosinistra.
Oggi, il vero rischio per la sinistra in Italia non è tanto quello di scomparire. Piuttosto, è quello di ridursi in un ambito puramente locale. Ci sarà sempre qualche sindaco, presidente, assessore, consigliere di sinistra. Ma potrebbe non esserci più una sinistra come presenza politicamente rilevante a livello nazionale. Il PD ha scelto di correre da solo nelle politiche, ha forzosamente estromesso la sinistra, ha posto fine unilateralmente a quindici anni di coalizione e di centrosinistra. Nonostante ciò, la sinistra ha confermato la presenza nel governo di regioni ed enti locali, e la partecipazione alle coalizioni nelle amministrative.
In altri tempi, la scelta nazionale avrebbe probabilmente determinato effetti a cascata su tutto il sistema. Così non e' stato, e non per caso. I partiti nazionali oggi governano poco e male la periferia. Ne sono, piuttosto, pesantemente condizionati. Il sistema politico tende ad aggregarsi intorno alle figure forti del governo regionale e locale, dove si collocano potere reale e risorse.
Una sinistra ridotta a partito degli amministratori non ha ragione di essere come sinistra. E non solo perché è spesso difficile distinguere l'amministratore di sinistra dagli altri. Ma soprattutto perché la dimensione della gestione amministrativa non è adeguata per la missione della sinistra. Non è a quel livello che si incide sulla globalizzazione selvaggia, sul mercato senza regole, sulla redistribuzione delle risorse, su diritti ed eguaglianza, sulla pace e sulla guerra. Non è a quel livello che si persegue efficacemente la modernizzazione del sistema paese. Non basta oggi una riedizione in chiave moderna del socialismo municipale. Una soggettività politica genuinamente nazionale è necessaria per la sinistra. Ed è elemento indispensabile anche a garantire sulla politica locali efficaci strumenti di orientamento e controllo.
L’esito negativo è stato reso possibile dalla legge elettorale, unitamente alla decisione del PD di correre da solo, in sostanza anticipando gli effetti del referendum ancora in agenda. La scelta del PD e' stata un drammatico errore, e possiamo sperare che i disastri sopravvenuti inducano un ripensamento. Ma anche la sinistra deve fare la sua parte, e favorire quel ripensamento. Ancora cruciale sarà la legge elettorale. È molto incerta la prospettiva di una riforma migliorativa, ed anzi non mancano segnali nel senso che anche per le europee i due partiti maggiori pensano ad una sostanziale omologazione al modello delle politiche, e in particolare a un innalzamento della soglia di sbarramento.
Una sinistra che vuole garantirsi contro un ripetersi dello scenario del voto di aprile ha due soli strumenti. Crescere al punto di superare di slancio le soglie su cui oggi è naufragata, e potrebbe di nuovo naufragare domani; ritrovare la via per la coalizione in un nuovo centrosinistra. In entrambe le prospettive e' indispensabile ridefinire il progetto con cui la sinistra si e' presentata al confronto elettorale. E ritrovare in specie il progetto originario di SD. Ma anche al paese, e non solo alla sinistra, sono indispensabili un nuovo centrosinistra e una nuova coalizione. Solo così sarà possibile costruire uno schieramento in grado sia di sconfiggere la destra, sia di garantire una efficace e duratura governabilità, sia di rappresentare gli interessi popolari e di progresso della società.
Un nuovo centrosinistra non può prescindere da un confronto serrato col PD. Ma ciò non significa in alcun modo secondarne le scelte. Il profilo moderato del PD, e l’identità politica ambigua e sbiadita che esso propone, sono di per sé negativi. Se ne vedono gli effetti perversi nella incerta definizione della linea di opposizione al governo della destra, che pure già sin dai suoi primi passi mostra tutti i pericoli, anche per la tenuta civile e democratica del paese. Non mancano elementi di sostanziale acquiescenza, e persino di condivisione, ad esempio su parti rilevanti delle ipotizzate riforme istituzionali. Né sfugge il rischio che il moderatismo del PD, insieme all’accettazione acritica delle posizioni di Confindustria da parte del centrodestra, possa produrre l’effetto che la richiesta – avanzata con forza anche dal sindacato - di un rilevante aumento del potere d’acquisto di lavoratori e pensionati come passo indispensabile per affrontare la crisi economica riceva un’attenzione puramente verbale.
Il nuovo centrosinistra può e deve caratterizzarsi per l’assunzione delle tematiche della liberazione del mondo del lavoro contro le tendenze a schiacciare le classi lavoratrici in una nuova più perniciosa subalternità, per i programmi volti a una nuova civilizzazione del paese che affermi le ragioni dell’integrazione democratica e graduale fra i popoli, per l’estensione dei diritti di libertà nella società per tutti gli uomini e le donne, per le ragioni della cultura e della ricerca scientifica, per l’affermazione sostanziale e non meramente declamatoria della laicità dello Stato, come avviene nei paesi più avanzati. La destra italiana è la negazione di tutto ciò, ed ogni incauta apertura di credito contribuisce ad annebbiare e indebolire le ragioni delle opposizioni.
In specie per il Mezzogiorno si mostra indispensabile la costruzione di un nuovo centrosinistra che rechi l’impronta di un forte socialismo riformista e di governo. La frattura tra Nord e Sud si allarga. È sempre più stridente la contraddizione tra aree economicamente forti che in Europa si collocano ai più alti livelli di sviluppo e benessere, e aree deboli che ne costituiscono invece il fanalino di coda. I dati sulla disoccupazione, in specie giovanile, sull’impoverimento e indebitamento delle famiglie, sulla precarietà, sulla qualità dei servizi, sulla disponibilità delle infrastrutture materiali e immateriali, sono a dir poco allarmanti. Mentre gli egoismi territoriali che si manifestano nelle politiche del centrodestra, e si traducono in proposte inaccettabili di federalismo fiscale, fanno temere il peggio. Invece, se si vuole davvero che il mezzogiorno sia una scommessa vincente per tutto il paese si impongono – al di fuori di ogni assistenzialismo - forti politiche pubbliche, orientate allo sviluppo, alla giustizia sociale, alla tutela di eguali diritti. Insieme alla legalità e alla sicurezza, questo è il terreno di battaglia per una nuova cittadinanza delle donne e degli uomini del Sud. E costituisce il nucleo essenziale e necessario del progetto politico di una sinistra autenticamente socialista, riformista, di governo.
Per l’obiettivo di un nuovo centrosinistra il PD al momento, pur disponendo di un’ampia forza parlamentare e di un certo consenso di opinione, non vuole o non è in grado di aprire una fase di seria e conseguente lotta politica e culturale. Agisce come se la sconfitta elettorale non fosse stata anzitutto la sua sconfitta, e non sembra capace di superare la riduzione oligarchica che oggi opprime la politica italiana, e di aprire a processi reali di nuova partecipazione democratica. Né offre impegni visibili di una nuova combattività, in grado di suscitare un vasto movimento d’opposizione nel paese, che possa anche rendere più forte l’opposizione nelle Istituzioni, destinate altrimenti ad essere stravolte da inaccettabili propositi di riforma già nel passato praticati ed ora riannunciati, nonostante il segnale chiaro e forte dato dal popolo italiano nel voto referendario del 2006 sulla riforma del centrodestra.
Perciò occorre una nuova forza di autentica sinistra politica, che ritrovi tutti i motivi e i temi che SD aveva assunto come progetto e posto alla base della propria nascita, da un moderno socialismo riformista a una politica nuova e pulita. Una forza che non rinunci ai suoi presupposti ideali, ed anzi li valorizzi nella contesa politica come lievito permanente della sua costituzione materiale, e dei suoi impegni e lotte politiche e sociali. Solo se nel quadro di una politica rinnovata e riformata si creerà una nuova sinistra di chiara e forte impronta socialista, sarà possibile costruire anche un nuovo centrosinistra, vincente e non appiattito su posizioni sostanzialmente neomoderate, e perfino acquiescente nei confronti di un neo-clericalismo oggi invadente come non mai nella storia della Repubblica.

Napoli, 9 giugno 2008

MASSIMO VILLONE
FRANCESCO BARRA
GUIDO DE MARTINO

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