lunedì 16 giugno 2008

Pescati nella Rete: Michele Prospero

Dal sito ww.sinistra-democratica.it

Una nuova cultura politica, una prontezza organizzativa
Dopo una sconfitta così bruciante come quella di aprile occorre davvero una sinistra radicale, cioè capace di porsi le domande che penetrino fino alla radici e di rintracciare i nudi fondamenti delle questioni cruciali senza inutili infingimenti. E’ evidente il quadro di partenza. Un Pd in difficoltà in cui abitano anime diverse, una leadership fiaccata e senza una strategia politica consapevole delle scadenze del medio periodo. La sua navigazione è incerta (all’insegna di un moscio governo ombra in salsa neoconsociativa) e precaria sembra una sua stabilizzazione come partito, non come mero cartello elettorale, peraltro eroso dalla debacle elettorale e esposto persino al vento delle devastanti scissioni. E inoltre (e fuori del parlamento) una sinistra residuale che al momento vive più come stato d’animo diffuso che come soggetto politico. Se ancora per molto si continuerà a non dare sbocchi politici organizzativi convincenti ad una domanda di sinistra rimasta inevasa dopo la nascita del Pd, il rischio più concreto è la completa polverizzazione di ogni cultura critica. In fasi come questa, cultura e organizzazione sono profondamente intrecciate. Occorre un pensiero politico che scavi oltre la superficie (e quindi al di là di domande fasulle che appartengono ad un’altra fase storica, e pertanto palesemente fuorvianti) e una prontezza organizzativa che consenta al movimento di uscire dalla sua provvisorietà. Analisi cruda e iniziativa curiosa nel territorio alla ricerca di nuovi quadri politici sono congiunti se non si vuole diffondere la sensazione sgradevole di girare a vuoto in attesa di chissà quali eventi favorevoli capaci di ridare un po’ di fiato.Da dove ripartire per sfidare, per quanto possibile e con il necessario realismo, gli eventi con l’intenzione di aprire una prospettiva politica nuova? Marx diceva che “la politica è studio. Pensare con rigore logico ed esprimere chiaramente i pensieri: ciò impone di studiare. Studiare, studiare!”. Se una sinistra avrà la forza di rinascere (e la cosa è tutt’altro che scontata) non potrà anzitutto che proporsi come una cultura politica vivente in grado di ridare un senso all’agire collettivo dopo la catastrofe. L’irreparabile degrado della politica ridotta a casta, a pratiche spicciole di potere è ben visibile da ultimo nelle tristi vicende di Genova. Le esperienze amministrative condotte in questi anni di post-politica, a sud in maniera ancora più degradante, rivelano il crollo valoriale della politica. Affari, compromessi opachi, carriere blindate e niente passione civile, nessuna cura nel diffondere responsabilità e nel costruire nuove classi dirigenti. Non è una pura questione morale: questo tipo di politica che definisce blocchi di potere privati non può essere riformata, occorre la forza per imporre una diversa pratica della politica. Non basta a definire la sinistra, ma la politica come militanza disinteressata è, nelle condizioni di assoluto degrado del vivere civile, una risorsa preliminare senza la quale non si riparte (e trovare in giro energie da mobilitare in tale direzione non sarà affatto agevole). Solo investendo con estrema coerenza su questo senso ormai fin troppo residuale della politica come cultura civile è possibile provare a riannodare legami con quel che è rimasto (neppure questo è scontato) di disinteressato e curioso nella società. Se non si coglie nella sconfitta elettorale anche il segno della catastrofe di una politica ridotta a economia e a occasione di scalata sociale, allora non si farà alcun passo concreto per riproporre con credibilità la questione della sinistra oggi. Non si può predicare una nuova politica senza nel contempo impostare una battaglia visibile per la disincentivazione economica delle cariche elettive, la cui conquista è spesso l’unico motivo delle aspre contese all’interno dei partiti. Più soldi alla politica come analisi e partecipazione meno ai politici come ceto di professione è forse il requisito di una risposta non qualunquistica al tema dei costi della casta. Il fatto è che la remunerazione sin troppo abnorme delle cariche elettive rende il politico un ceto economicamente privilegiato le cui fortune esagerate cancellano ogni significato alla capacità di rappresentanza, come si evince dalla lettera degli operai di Melfi. La battaglia contro un sistema viziato dalla corruzione intellettuale che induce all’omologazione in un ceto politico autoreferenziale è il primo tassello di una ripresa democratica. Non è un caso che più la politica stringe legami con l’economia, la finanza, i facili guadagni e più essa decade nella sua capacità di esprimere classi dirigenti di elevata qualità (una tale politica degenerata ha bisogno di clienti, non di militanti, di conformisti non di competenza). Su questo immenso deserto ha potuto vincere l’antipolitica e ha potuto maturare l’eutanasia di una grande forza della sinistra. L’Italia reale è diventata così degradata nella sua struttura civile che la politica è essa stessa parte di un collasso più generale e non ha risorse per indicare prospettive diverse. Accade perciò che una situazione politica assai delicata, una sorta di passaggio dal berlusconismo movimento al berlusconismo regime, venga affrontata dalla “opposizione” parlamentare con le mitiche etichette di Westminster che prevedono governo ombra e fair play istituzionale ma non escludono battaglie rigorose e intransigenti. E’ chiaro che i segnali di regressione democratica si moltiplicano proprio mentre dall’opposizione parlamentare proviene un inconfondibile segnale di sciogliete le righe. Si sta passando ad un regime opaco nella completa sensazione di impotenza, di resa alla forza degli eventi, di pigrizia dinanzi alle esigenze di una lettura critica del processo. Dalla ipotesi di “scuola” avanzata da Berlusconi dopo il voto per le dimissioni del capo dello Stato, al ricorso (poi ricusato) allo strumento del decreto per materie come le intercettazioni che prevedevano pene e toccavano garanzie, è evidente che la cultura delle regole non esiste nella destra. Quando poi cantanti e uomini della cultura di massa si affrettano a consegnare attestati di modernità a Berlusconi e il papa dichiara la sua “gioia” per il nuovo clima politico, lo sfaldamento etico-politico in corso assume proporzioni di guardia. Si sta realizzando a tappe accelerate l’ingresso in una democrazia opaca in cui certo si vota ancora (con una legge incostituzionale che dà un premio di maggioranza del 55 per cento quale che sia l’entità dei voti raccolti , e quindi risolve in origine l’enigma della governabilità, e poi però aggiunge un ulteriore elemento selettivo come quello dello sbarramento) ma i valori della costituzione (quali sono i valori se le cariche istituzionali indicano in Almirante uno dei padri della patria?) e gli organi di garanzia sono di fatto svuotati. Plebi che osannano il capo, campioni della gangster economy intrecciata così in profondità con la new economy, lavoro autonomo e del commercio, piccola impresa diffusa definiscono il blocco sociale granitico di questa destra pronta a tramutarsi in silenzioso regime. Agli egoismi sociali più sfrenati, alle idiosincrasie primitive contro il fisco, la destra aggiunge una copertura etica concessa dalla chiesa dei tempi nuovi (anzi antichi) e dalla rivolta contro lo straniero, il clandestino, il rom, il nomade. Il fatto è che la sinistra che con giusta coerenza si batte per i diritti civili elementari o contro ogni diritto penale a base etnica viene percepita oggi come estranea proprio dai ceti popolari che hanno introiettato il senso comune della insicurezza come minaccia prioritaria. Il problema non è affatto quello di diminuire la doverosa sensibilità per i diritti individuali violati, come suggeriscono inopinatamente i tanti sindaci sceriffi, ma quello di tornare ad essere una potenza sociale reale che nel territorio costruisce una cultura civile e inaugura battaglie concrete per i diritti. Solo se la sinistra ricostruisce le forze materiali di una potenza sociale che conquista spazi di vita (nell’Europa che in nome della sacralità del contratto individuale propone di allungare il tempo di lavoro a 60 ore settimanali!) può difendere anche i diritti nuovi e antichi delle persone. La xenofobia può essere sconfitta solo se la sinistra radica nei ceti popolari culture nuove capaci di smascherare l’operazione della destra che trasforma le battaglie per i diritti materiali indispensabili in caccia alle streghe in nome di una identità etico-religiosa violata. La sicurezza può tornare ad essere semplicemente uno dei problemi da risolvere e non il solo problema-incubo soltanto quando la sinistra avrà la forza per colpire tutte le insicurezze del tempo postmoderno (nel lavoro, nella cura, nella professione, nella casa, nella città). Invece di sterili questioni e di schematismi astratti, la sinistra dovrebbe trovare le coordinate culturali per dare organizzazione (e quindi sbocco politico) ai disagi dei tempi postmoderni. Tutte le categorie della politica vanno modulate attorno agli specifici malesseri sociali espressi da questo specifico tempo storico che produce nuove esclusioni e permanenti marginalità senza possibilità alcuna di confidare in uno spazio pubblico. Nessun ricordo suggerito dall’ideologia, ma la fotografia realistica di ciò che oggi esiste nell’ipercapitalismo dovrebbe indurre a porre di nuovo al centro dell’agenda il disagio del corpo che lavora e vive nell’insicurezza dopo il declino del salario e il riflusso di ogni politica pubblica efficace. Generazioni intere di flessibili a tempo indeterminato, di lavoratori che a 50 anni già riempiono le lunghe liste di mobilità, di lavoratori cognitivi che non trovano alcun riconoscimento del merito, di persone che guadagnano quanto basta per pagare l’affitto o il mutuo, non aspettano che nel laboratorio annebbiato di una sinistra smarrita qualcuno riproponga, a tempo ormai scaduto, una sintesi di socialismo europeo e di comunismo italiano. Il problema non è questo, la sinistra (in Italia e in Europa, nelle sue versioni radicali e riformiste) deve tornare più semplicemente ad essere quel movimento reale che contrasta le potenze reali dominanti e conquista sul campo del conflitto sociale e politico i diritti essenziali per la persona che lavora. Tutto il resto è solo chiacchiera, archeologia che non servirà alla sinistra (radicale o riformista) per risollevarsi. Oggi non esiste maggiore prova di un sobrio realismo politico di quella che riannoda gli interessi del lavoro, del cervello sociale diffuso nella società della conoscenza, come sostrato di una nuova cittadinanza.
*professore di Filosofia del Diritto e di scienza politica presso la facoltà di Scienze della comunicazione della `Sapienza`del Comitato Promotore di Sd

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