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Ieri 6 giugno 2008, 17.37.58
Teologia del riformismo - di Mauro Zani
Ieri 6 giugno 2008, 17.37.58 redazione
Quando vago nei siti PD e dintorni mi capita spesso di incontrare post (presumibilmente di giovani) che inneggiano al riformismo. Cosa siamo noi? In mancanza di altro siamo riformisti. Il PD è un partito riformista. Dunque, par di capire: buono, pacifico, non conflittuale, ragionevole, innovatore, aperto, democratico, liberale, propositivo, equo, meritocratico, interclassista,collaborativo e governativo, sia pure in forma umbratile, per il momento. Riformista dunque. Che dire? C’è stato un rovesciamento dell’origine storica del termine indicante un’esperienza politica che lungo tutto il corso del novecento ha preso le distanze da un corpus dottrinario volto ad indicare l’immanenza di un processo rivoluzionario in grado di fuoriuscire (nella versione italiana) dal capitalismo con l’introduzione di “elementi di socialismo”. Riformismo contro ortodossia ideologica. Compromesso sociale contro antagonismo radicale anticapitalista. Da cui l’ implementazione progressiva di sistemi di welfare contro vagheggiate “riforme di struttura”. Riformismo tanto più possibile e concretamente praticabile, in un rapporto sempre teso tra politica ed economia, quanto più confrontato al socialismo reale o realizzato. Con la fine incruenta di quest’ultimo e, in coincidenza con il grande balzo tecnologico degli anni ‘90, la logica predatoria del capitalismo globalizzato ha rapidamente imposto un’altra versione del riformismo secondo cui il progetto politico deve, infine, svaporare del tutto. Si tratta solo di adattarsi alle logiche interne del mercato sempre più globale. Da allora, il riformismo, tallonato dappresso dagli imperativi dell’economia, arretra continuamente fino a divenire un pallido simulacro, una foglia di fico con cui coprire la miseria di un pensiero e di una cultura politica impotenti di fronte all’incalzare dei nuovi tempi. Ci si rifugia allora in una teologia del riformismo. Ciò che era capacità di incidere nei modelli di sviluppo per conseguire un continuo avanzamento sociale entro i margini della crescita economica, diviene presa d’atto del nuovo ruolo assegnato alla politica nell’assecondare e anzi propagandare la superiorità dell’economia sulla società degli umani. In questa inversione radicale tra mezzi e fini, il riformismo può sopravvivere ormai solo proponendosi come dottrina. La sua origine non è più nella storia, nella vita e nella società, ma risale ormai alla sfera del divino. Non è discutibile. Non è in alcun modo verificabile in relazione ai risultati. Non è di sinistra o di destra. Semplicemente e ideologicamente: è. Al netto dei rivoluzionari neocon , adesso in declino, si può essere solo riformisti di tal pasta o reazionari di sinistra, come dicono i guru della liberaldemocrazia. Ed è ben per questo che il PD, a scanso di equivoci, si definisce semplicemente riformista. A questo punto (morto) non so se sia possibile recuperare questa parola, riformismo, entro un nuovo progetto, post-ideologico ma politicamente offensivo e strategicamente fondato su valori e ideali. Lo dirà il tempo. Intanto il Re è nudo. O si trova la via per confrontarsi con lo sviluppo attuale e, in primo luogo con la condizione di generale e diffusa insicurezza ch’esso rovescia sulla società degli umani, o la politica, insieme al riformismo, muore del tutto.
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