Carlo Rosselli, Socialismo liberale, Einaudi, Torino 1997, p. 123
nella vita degli individui come dei popoli vi sono ore drammatiche in cui il cozzo di due princìpi e di due mondi morali reciprocamente escludentisi vieta ogni posizione di compromesso. La regola pratica del liberalismo, la regola del giusto mezzo, cade, potendosi essa applicare solo laddove regna un accordo sui fondamenti essenziali della vita sociale
Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
venerdì 27 giugno 2008
giovedì 26 giugno 2008
Italiani
Da Carlo Rosselli, Socialismo liberale, Einaudi, Torino 1997, p. 112
gli italiani sono pigri moralmente, c’è in loro un fondo di scetticismo e di machiavellismo di basso rango che li induce a contaminare, irridendoli, tutti i valori, e atrasformare in commedie le più cupe tragedie. Abituati a ragionare per intermediari nei grandi problemi della coscienza - un vero appalto spirituale - è naturale che si rassegnino facilmente all’appalto anche nei grandi problemi della vita politica. L’intervento del Deus ex machina, del duce, del domatore - si chiami esso papa, re, Mussolini - risponde sovente ad una loro necessità psicologica
gli italiani sono pigri moralmente, c’è in loro un fondo di scetticismo e di machiavellismo di basso rango che li induce a contaminare, irridendoli, tutti i valori, e atrasformare in commedie le più cupe tragedie. Abituati a ragionare per intermediari nei grandi problemi della coscienza - un vero appalto spirituale - è naturale che si rassegnino facilmente all’appalto anche nei grandi problemi della vita politica. L’intervento del Deus ex machina, del duce, del domatore - si chiami esso papa, re, Mussolini - risponde sovente ad una loro necessità psicologica
mercoledì 25 giugno 2008
segnalazione: diario di un partigiano ebreo
Subject: [Circolo Rosselli Milano] segnalazione: diario di un partigiano ebreo
dal blog di wlodek glodkorn
La sana ambiguità di un partigiano
Ho appena letto “Diari di un partgiano ebreo” di Emanuele Artom, pubblicati da Bollati Boringhieri con una postfazione di Guri Schwarz. Dovrebbe essere una lettura obbligatoria nelle scuole della Repubblica. Sopratutto è un libro che farebbero bene a leggere gli opinionmaker di oggi. Io sono rimasto impressionato da alcune cose. Provo ad elencarle: la forza dell’ambiguità; l’implacabile lucidità del ragionamento; il senso dell’umorismo; la capacità di capire ciò che sarebbe successo a guerra finita.Mi spiego. Artom era un letterato e uno storico torinese. Nato in una famiglia borghese, ebraica, ha avuto come maestro Augusto Monti. Dopo l’8 settembre si unisce alle bande dei partigiani nelle zone valdesi. Aderisce al Partito d’Azione. Nel suo diario, racconta senza mezzi termini le brutalità commesse da partigiani, non esita a spiegare come fossero rozzi, violenti, prepotenti. Artom affronta anche la questione della fucilazione dei fascisti catturati, delle indagini per scoprire chi fossero le spie dei fascisti nei paesini (gente destinata a essere uccisa). Racconta infine il mondo manicheo dei comunisti, ma anche la viltà dei badogliani (che consegnano comunisti ai fascisti), la debolezza e l’inezia degli azionisti. Insomma Artom racconta gli albori della guerra civile. Ma non per questo (e neanche perché è ebreo) pur capendo tutto, ha una benché minima esitazione sul fatto che gli uni si battevano per la libertà e perché patrioti, gli altri contro la libertà e perché traditori della patria.Dimenticavo: Artom muore in conseguenza di sofferenze causate dalle torture, catturato dopo la delazione di una spia a cui ha lui salvato la vita.
dal blog di wlodek glodkorn
La sana ambiguità di un partigiano
Ho appena letto “Diari di un partgiano ebreo” di Emanuele Artom, pubblicati da Bollati Boringhieri con una postfazione di Guri Schwarz. Dovrebbe essere una lettura obbligatoria nelle scuole della Repubblica. Sopratutto è un libro che farebbero bene a leggere gli opinionmaker di oggi. Io sono rimasto impressionato da alcune cose. Provo ad elencarle: la forza dell’ambiguità; l’implacabile lucidità del ragionamento; il senso dell’umorismo; la capacità di capire ciò che sarebbe successo a guerra finita.Mi spiego. Artom era un letterato e uno storico torinese. Nato in una famiglia borghese, ebraica, ha avuto come maestro Augusto Monti. Dopo l’8 settembre si unisce alle bande dei partigiani nelle zone valdesi. Aderisce al Partito d’Azione. Nel suo diario, racconta senza mezzi termini le brutalità commesse da partigiani, non esita a spiegare come fossero rozzi, violenti, prepotenti. Artom affronta anche la questione della fucilazione dei fascisti catturati, delle indagini per scoprire chi fossero le spie dei fascisti nei paesini (gente destinata a essere uccisa). Racconta infine il mondo manicheo dei comunisti, ma anche la viltà dei badogliani (che consegnano comunisti ai fascisti), la debolezza e l’inezia degli azionisti. Insomma Artom racconta gli albori della guerra civile. Ma non per questo (e neanche perché è ebreo) pur capendo tutto, ha una benché minima esitazione sul fatto che gli uni si battevano per la libertà e perché patrioti, gli altri contro la libertà e perché traditori della patria.Dimenticavo: Artom muore in conseguenza di sofferenze causate dalle torture, catturato dopo la delazione di una spia a cui ha lui salvato la vita.
martedì 24 giugno 2008
quando un partito funziona
RUEDA DE PRENSA
Caldera destaca el "elevado nivel de participación democrática" en el PSOE que reflejan las más de 5.600 enmiendas que debatirá el 37 Congreso
Subraya la "amplia comunión" existente entre las enmiendas presentadas y los principios que representan el Gobierno y el Partido Socialista
24 Junio 08
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El coordinador de la ponencia marco del 37º Congreso del PSOE, Jesús Caldera, ha subrayado hoy que el hecho de que se hayan presentado más 5.600 enmiendas a la ponencia marco del 37º Congreso Federal del PSOE refleja el “elevado nivel de participación democrática” y el enorme “interés que muestran los militantes socialistas en participar en la definición de la línea política estratégica del partido”.
Durante una rueda de prensa en Ferraz, Caldera destacó que, en líneas generales, las más de 7.000 enmiendas recibidas, que han quedado reducidas a 5.632 una vez agrupadas en los cinco bloques temáticos de la ponencia, “apoyan plenamente la visión estratégica que tiene la dirección del partido y el Gobierno de José Luis Rodríguez Zapatero”. “Existe una amplia comunión entre las enmiendas y los principios que representa el Gobierno y el proyecto político de Zapatero”, insistió.
En este sentido, Caldera remarcó que la mayoría de las enmiendas tienen una línea clara: “refuerzo de los derechos, tanto individuales como colectivos, de los ciudadanos, una enorme preocupación por las grandes desigualdades que existen en el mundo, por el cambio climático, por la crisis de los alimentos, por la necesidad de que nos dotemos de más reglas de gobernanza mundial que nos permitan evitar algunas crisis, como las que ahora estamos sufriendo, y una preocupación en hacer compatible cualquier momento del ciclo económico con la adecuada protección social y con el mantenimiento del principio de igualdad de oportunidades”.
“Todos esos principios están asumidos por nuestro programa electoral y por nuestro Gobierno”, dijo Caldera, quien mostró su satisfacción por el hecho de que haya “una convergencia tan amplia entre lo que piensan nuestros compañeros, lo que decide el partido y lo que desarrolla el Gobierno”.
Entre las enmiendas destacadas, Caldera avanzó que algunas de ellas apuestan por que se garantice el principio de laicidad, otras piden la reforma de la Ley de Libertad Religiosa para adecuarla a la nueva situación del pluralismo religioso y garantizar la neutralidad del Estado, o incluso algunas solicitan la revisión de los acuerdos con la Santa Sede para que se ajusten a la Constitución y a las demandas sociales y políticas de la mayoría de los españoles.
En materia de aborto, explicó que la mayoría de las enmiendas van en la línea de que nuestra legislación tiene que garantizar la equidad territorial, la seguridad jurídica de la mujer que toma decisión de abortar por las causas establecidas por la ley y de los profesionales que garantizan ese derechos, y, por supuesto, respeto a la voluntad de las mujeres.
Sobre inmigración, el dirigente socialista avanzó que hay muchas enmiendas dirigidas a redoblar esfuerzos para asegurar la garantía de los derechos humanos; advirtiendo contra el racismo y proponiendo nuevas normas alrededor de los derechos y deberes de los extranjeros en España; la mejora del servicio público de inmigración; favoreciendo el asociacionismo, y solicitando la potenciación de la cooperación al desarrollo.
También hay un gran número de enmiendas que solicitan que se garantice la protección social, por ejemplo, proponiendo que el PSOE lidere iniciativas acerca de la responsabilidad social corporativa de carácter global; que las políticas sociales se entiendan como una inversión y no como un gasto; poner el énfasis en el diálogo social; añadir párrafos a la educación infantil; fijar la jornada de 40 horas ante la nueva directiva europea de tiempo de trabajo; la reforma de los Servicios de Inspección de Trabajo con más medios; reforzar la lucha contra la siniestralidad laboral, o a favor de la conciliación.
Otro capítulo importante es el de cambio climático, en el que, tal y como explicó Caldera, hay muchas enmiendas que coinciden con la filosofía de la ponencia marco y que piden al Gobierno y al PSOE que se sitúen más a la vanguardia en la lucha contra el cambio climático liderando la posición de la UE en la asunción de compromisos de reducción de gases de efecto invernadero; que se apliquen políticas de ahorro energético; transportes menos contaminantes, o apoyo intenso a la producción de energías renovables.
Otras enmiendas tienen que ver con la necesidad de que existan mejores reglas de gobierno mundial y mecanismos de regulación para prevenir determinadas crisis; tolerancia cero en materia de prostitución; empoderamiento de las mujeres, o refuerzo de los movimientos sociales
Caldera destaca el "elevado nivel de participación democrática" en el PSOE que reflejan las más de 5.600 enmiendas que debatirá el 37 Congreso
Subraya la "amplia comunión" existente entre las enmiendas presentadas y los principios que representan el Gobierno y el Partido Socialista
24 Junio 08
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El coordinador de la ponencia marco del 37º Congreso del PSOE, Jesús Caldera, ha subrayado hoy que el hecho de que se hayan presentado más 5.600 enmiendas a la ponencia marco del 37º Congreso Federal del PSOE refleja el “elevado nivel de participación democrática” y el enorme “interés que muestran los militantes socialistas en participar en la definición de la línea política estratégica del partido”.
Durante una rueda de prensa en Ferraz, Caldera destacó que, en líneas generales, las más de 7.000 enmiendas recibidas, que han quedado reducidas a 5.632 una vez agrupadas en los cinco bloques temáticos de la ponencia, “apoyan plenamente la visión estratégica que tiene la dirección del partido y el Gobierno de José Luis Rodríguez Zapatero”. “Existe una amplia comunión entre las enmiendas y los principios que representa el Gobierno y el proyecto político de Zapatero”, insistió.
En este sentido, Caldera remarcó que la mayoría de las enmiendas tienen una línea clara: “refuerzo de los derechos, tanto individuales como colectivos, de los ciudadanos, una enorme preocupación por las grandes desigualdades que existen en el mundo, por el cambio climático, por la crisis de los alimentos, por la necesidad de que nos dotemos de más reglas de gobernanza mundial que nos permitan evitar algunas crisis, como las que ahora estamos sufriendo, y una preocupación en hacer compatible cualquier momento del ciclo económico con la adecuada protección social y con el mantenimiento del principio de igualdad de oportunidades”.
“Todos esos principios están asumidos por nuestro programa electoral y por nuestro Gobierno”, dijo Caldera, quien mostró su satisfacción por el hecho de que haya “una convergencia tan amplia entre lo que piensan nuestros compañeros, lo que decide el partido y lo que desarrolla el Gobierno”.
Entre las enmiendas destacadas, Caldera avanzó que algunas de ellas apuestan por que se garantice el principio de laicidad, otras piden la reforma de la Ley de Libertad Religiosa para adecuarla a la nueva situación del pluralismo religioso y garantizar la neutralidad del Estado, o incluso algunas solicitan la revisión de los acuerdos con la Santa Sede para que se ajusten a la Constitución y a las demandas sociales y políticas de la mayoría de los españoles.
En materia de aborto, explicó que la mayoría de las enmiendas van en la línea de que nuestra legislación tiene que garantizar la equidad territorial, la seguridad jurídica de la mujer que toma decisión de abortar por las causas establecidas por la ley y de los profesionales que garantizan ese derechos, y, por supuesto, respeto a la voluntad de las mujeres.
Sobre inmigración, el dirigente socialista avanzó que hay muchas enmiendas dirigidas a redoblar esfuerzos para asegurar la garantía de los derechos humanos; advirtiendo contra el racismo y proponiendo nuevas normas alrededor de los derechos y deberes de los extranjeros en España; la mejora del servicio público de inmigración; favoreciendo el asociacionismo, y solicitando la potenciación de la cooperación al desarrollo.
También hay un gran número de enmiendas que solicitan que se garantice la protección social, por ejemplo, proponiendo que el PSOE lidere iniciativas acerca de la responsabilidad social corporativa de carácter global; que las políticas sociales se entiendan como una inversión y no como un gasto; poner el énfasis en el diálogo social; añadir párrafos a la educación infantil; fijar la jornada de 40 horas ante la nueva directiva europea de tiempo de trabajo; la reforma de los Servicios de Inspección de Trabajo con más medios; reforzar la lucha contra la siniestralidad laboral, o a favor de la conciliación.
Otro capítulo importante es el de cambio climático, en el que, tal y como explicó Caldera, hay muchas enmiendas que coinciden con la filosofía de la ponencia marco y que piden al Gobierno y al PSOE que se sitúen más a la vanguardia en la lucha contra el cambio climático liderando la posición de la UE en la asunción de compromisos de reducción de gases de efecto invernadero; que se apliquen políticas de ahorro energético; transportes menos contaminantes, o apoyo intenso a la producción de energías renovables.
Otras enmiendas tienen que ver con la necesidad de que existan mejores reglas de gobierno mundial y mecanismos de regulación para prevenir determinadas crisis; tolerancia cero en materia de prostitución; empoderamiento de las mujeres, o refuerzo de los movimientos sociales
segnalazione: gianfranco pasquino
Un'intervista dalle conclusioni largamente condivisibili
Da "IL GIORNALE" di martedì 24 giugno 2008«Tenere il Pd in coma è il vero obiettivo dei leader sconfitti» GianfrancoPasquino, politologo e coscienza critica della sinistra: dovrebberodimettersi tutti, sono ancora lì Luca Telese da Roma . ProfessorGianfranco Pasquino, lei all`assemblea del Partito Democratico era fra gliassenti o i presenti? «Per carità, non facendone parte, si figuri seandavo a Roma.In ogni caso, ci tengo a dirlo, sto coni... disertori».Ma come, lei che sullapassione per la politica ha costruito la suabiografia? «Che c`entra la passione? Chi non è andato ha fatto bene:era tutto deciso, manipolato.Che ci faceva scusi?».La sento molto critico.«La giornata è stata squallida.L`eroico Parisi che ha avuto coraggio di opporsi - anche per questo lostimo - è isolato come un appestato».Le sconfitte non sono facili.«Ma sarebbe il caso che il dirigente prendesse atto della sconfitta! 0 no?Hanno perso di nove punti, e sono a 17 punti dal 51%. In una democraziaanglosassone, un partito che si ferma al 33 ha straperso, e se ne vannotutti a casa».Che cosa avrebbero dovuto fare, i dirigenti del Pd? «Dimettersi, a partireda Veltroni».Non erano tutte colpe sue.«Per carità. Se qualcuno dice:"Grazie Walter, ci fa piacere se tu resti", è un altro paio di maniche. Mache lui - e non solo! -debba rimettere il man- dato è altrettanto certo».Chi altro con lui? «I dirigenti che hanno fatto la campagna. Franceschininon stava mica su Marte!».Non lo ama? «Niente di personale. Ma è certo che se sta ll è solo perchéVeltroni lo ha cooptato».E poi? «Goffredo Bettini, che tutti, compreso lui stesso, indicano come ilgrande stratega».Le ha fatto qualcosa? «Nulla. È lui uno di quelli che ha fatto le liste,mi pare».Lo considera un crimine? «In Emilia Romagna la capolista al Senato eraAnna Finocchiaro, capisce?».In Sicilia non veniva eletta.(Sorriso). «Appunto. Forse sarebbe stato meglio cosìì ».Lei si fa beffe di me...«No, anzi. Fassino mi attacca sempre, ma ricordiamo che fra i garantiti inSicilia -a proposito di radicamento! - c`era sua moglie Anna MariaSerafini.Perché?».Va chiesto a Bettini.«Vede? Già che ci siamo bisognerebbe chiedergli anche delle primarie, dicui Veltroni ha parlato per anni».E poi? «Pensi anche a Morando, piemontese di Novi Ligure paracadutato inVeneto... In queste elezioni abbiamo chiesto le primarie per almeno partedei candidati. Macché!».Dimissioni, dice lei ma non ci sono leader all`orizzonte.«Lo credo! Fanno di tutto per tenere il partito in coma conl`encefalogramma piatto. I leader, in tutte le sinistre europee, emergonodal conflitto e dalla vivacità del dibattito».Che qui lei non vede...«Mavalàaaa!.... Nel Pd oggi vige un unico criterio: cooptazione degliossequiosi, emarginazione degli altri».E Bersani, invece? «Condivido tutte le cose che ha detto: l`unico problemaè, che non ne ha fatta nessuna».Alle primarie lei era tra i sostenitori della lista Bindi.«Tecnicamente non ho neanche la tessera. Al congresso dei Ds ho sostenutoe promosso la terza mozione, quella di Zani, Angius, Grillini...».Ma al contrario degli ultimi non è andato coi socialisti.«No, infatti».E ha partecipato al dibattito sulle primarie.«Sì, ma mi sono fatto certificare dal segretario della mia sezione:posso votare senza iscrivermi?» .Cosa le hanno risposto? «Mi hanno detto sì, e a quella condizione l`hofatto. Ora sono deluso, ci penserei».Lei che getta la spugna? «Guardi, il bello è che nessuno ti chiede direstare. Al tempi del Pci, il compagno intellettuale non lo mollavanomai».Però c`è il governo ombra.«Si ispirano al Labour dimen- ticando che anche quello Ti si vota! E poic`è una cosa curiosa:ministri che non sono nemmeno parlamentari. In Inghilterra è impensabile».Cosa l`ha colpita di più? «L`assemblea è stata davvero un bruttospettacolo per chi come me ama la democrazia e il dibattito. Se queste duecose ci fossero, almeno circolerebbe qualche idea...».Ma perché secondo lei c`è questa bonaccia? «Sono sempre loro a guidare ledanze, e non cambiano».Chi «loro», e in che senso? «Cambiano i nomi, i partiti, ma la mentalità èsempre quella plebiscitaria e unanimistica, fondata su un assunto: il capoha sempre ragione».Nella base, dice? «No, anche - e forse ancora di più-nel gruppo dirigente».Come se lo spiega? «Vogliono controllare ogni dissenso, essere certi chenon ci siano voci fuori dal coro. E sa quale è l`unico risultato?».Me lo dica lei.«La melassa... me-las-sa!».Chiudiamo con una parola di speranza? «Ci vorrebbe un partito democraticoe socialista. E una intesa di programma su poche cose chiare con lasinistra radicale».Sennò? «Continuando così il Pd diventa un suicidio collettivo».Avevo detto speranza.«Appunto».L`assemblea dei democratici è stata un brutto spettacolo per chi ama lademocrazia In un Paese anglosassone un partito al 33% ha straperso.
Da "IL GIORNALE" di martedì 24 giugno 2008«Tenere il Pd in coma è il vero obiettivo dei leader sconfitti» GianfrancoPasquino, politologo e coscienza critica della sinistra: dovrebberodimettersi tutti, sono ancora lì Luca Telese da Roma . ProfessorGianfranco Pasquino, lei all`assemblea del Partito Democratico era fra gliassenti o i presenti? «Per carità, non facendone parte, si figuri seandavo a Roma.In ogni caso, ci tengo a dirlo, sto coni... disertori».Ma come, lei che sullapassione per la politica ha costruito la suabiografia? «Che c`entra la passione? Chi non è andato ha fatto bene:era tutto deciso, manipolato.Che ci faceva scusi?».La sento molto critico.«La giornata è stata squallida.L`eroico Parisi che ha avuto coraggio di opporsi - anche per questo lostimo - è isolato come un appestato».Le sconfitte non sono facili.«Ma sarebbe il caso che il dirigente prendesse atto della sconfitta! 0 no?Hanno perso di nove punti, e sono a 17 punti dal 51%. In una democraziaanglosassone, un partito che si ferma al 33 ha straperso, e se ne vannotutti a casa».Che cosa avrebbero dovuto fare, i dirigenti del Pd? «Dimettersi, a partireda Veltroni».Non erano tutte colpe sue.«Per carità. Se qualcuno dice:"Grazie Walter, ci fa piacere se tu resti", è un altro paio di maniche. Mache lui - e non solo! -debba rimettere il man- dato è altrettanto certo».Chi altro con lui? «I dirigenti che hanno fatto la campagna. Franceschininon stava mica su Marte!».Non lo ama? «Niente di personale. Ma è certo che se sta ll è solo perchéVeltroni lo ha cooptato».E poi? «Goffredo Bettini, che tutti, compreso lui stesso, indicano come ilgrande stratega».Le ha fatto qualcosa? «Nulla. È lui uno di quelli che ha fatto le liste,mi pare».Lo considera un crimine? «In Emilia Romagna la capolista al Senato eraAnna Finocchiaro, capisce?».In Sicilia non veniva eletta.(Sorriso). «Appunto. Forse sarebbe stato meglio cosìì ».Lei si fa beffe di me...«No, anzi. Fassino mi attacca sempre, ma ricordiamo che fra i garantiti inSicilia -a proposito di radicamento! - c`era sua moglie Anna MariaSerafini.Perché?».Va chiesto a Bettini.«Vede? Già che ci siamo bisognerebbe chiedergli anche delle primarie, dicui Veltroni ha parlato per anni».E poi? «Pensi anche a Morando, piemontese di Novi Ligure paracadutato inVeneto... In queste elezioni abbiamo chiesto le primarie per almeno partedei candidati. Macché!».Dimissioni, dice lei ma non ci sono leader all`orizzonte.«Lo credo! Fanno di tutto per tenere il partito in coma conl`encefalogramma piatto. I leader, in tutte le sinistre europee, emergonodal conflitto e dalla vivacità del dibattito».Che qui lei non vede...«Mavalàaaa!.... Nel Pd oggi vige un unico criterio: cooptazione degliossequiosi, emarginazione degli altri».E Bersani, invece? «Condivido tutte le cose che ha detto: l`unico problemaè, che non ne ha fatta nessuna».Alle primarie lei era tra i sostenitori della lista Bindi.«Tecnicamente non ho neanche la tessera. Al congresso dei Ds ho sostenutoe promosso la terza mozione, quella di Zani, Angius, Grillini...».Ma al contrario degli ultimi non è andato coi socialisti.«No, infatti».E ha partecipato al dibattito sulle primarie.«Sì, ma mi sono fatto certificare dal segretario della mia sezione:posso votare senza iscrivermi?» .Cosa le hanno risposto? «Mi hanno detto sì, e a quella condizione l`hofatto. Ora sono deluso, ci penserei».Lei che getta la spugna? «Guardi, il bello è che nessuno ti chiede direstare. Al tempi del Pci, il compagno intellettuale non lo mollavanomai».Però c`è il governo ombra.«Si ispirano al Labour dimen- ticando che anche quello Ti si vota! E poic`è una cosa curiosa:ministri che non sono nemmeno parlamentari. In Inghilterra è impensabile».Cosa l`ha colpita di più? «L`assemblea è stata davvero un bruttospettacolo per chi come me ama la democrazia e il dibattito. Se queste duecose ci fossero, almeno circolerebbe qualche idea...».Ma perché secondo lei c`è questa bonaccia? «Sono sempre loro a guidare ledanze, e non cambiano».Chi «loro», e in che senso? «Cambiano i nomi, i partiti, ma la mentalità èsempre quella plebiscitaria e unanimistica, fondata su un assunto: il capoha sempre ragione».Nella base, dice? «No, anche - e forse ancora di più-nel gruppo dirigente».Come se lo spiega? «Vogliono controllare ogni dissenso, essere certi chenon ci siano voci fuori dal coro. E sa quale è l`unico risultato?».Me lo dica lei.«La melassa... me-las-sa!».Chiudiamo con una parola di speranza? «Ci vorrebbe un partito democraticoe socialista. E una intesa di programma su poche cose chiare con lasinistra radicale».Sennò? «Continuando così il Pd diventa un suicidio collettivo».Avevo detto speranza.«Appunto».L`assemblea dei democratici è stata un brutto spettacolo per chi ama lademocrazia In un Paese anglosassone un partito al 33% ha straperso.
segnalazione: barbara spinelli
L’opposizione anomala
Barbara Spinelli, La Stampa, 22-06-2008
Spesso chi ci guarda da fuori dice qualcosa su noi e la nostra storia che è difficile dire a se stessi e perfino pensare. Di questo nostro terzo occhio possiamo risentirci o esser grati: comunque avremo l’impressione d’ascoltare una non improbabile verità. Nel mezzo d’un attonito imbarazzo un ange passe: un angelo passa, dicono i francesi. Accade nella vita degli individui come delle nazioni, e l’Italia non è l’unica a sperimentarlo. La Francia ha iniziato a scrutare dentro il proprio passato fascista grazie allo storico americano Robert Paxton, nel '66: l’angelo passò e i francesi impararono a vedere nel vasto buio della collaborazione. Chi guarda da fuori non è necessariamente uno straniero: può anche essere un connazionale che riesce a guardare da una certa distanza, che è meno fasciato da bende linguistiche patrie. Così è stato per l'Italia nell'ormai lunga epoca dominata da Berlusconi. La parola che più spesso la definisce è, da anni, «anomalia democratica»: il terzo occhio questo vede, anche quando comprende l’inquietudine della maggioranza che l’ha votata.
Sull’anomalia di Berlusconi molto è stato scritto, negarla è difficile. È anomalo il conflitto d’interessi. È anomalo che un governante controlli tutte le tv private e, se è al potere, anche le pubbliche. È anomala la naturalezza con cui, quando è Premier, cura i propri interessi e fabbrica leggi che gli evitino processi. È anomalo il fatto che continuamente si indaghi su di lui per corruzione, anche di giudici. Visti da fuori, i magistrati non sembrano eversori. Tutto questo non sorprende più molto: l’anomalia è nota ai più.
Molto meno si è scritto invece sull’anomalia dell’opposizione: anomalia che crea ripetuto sgomento, in chi ci osserva con quel terzo occhio. Un’opposizione così impaurita di sé, così ansiosa d’apparire dialogante e conciliante, si vede di rado nelle democrazie. L’articolo dell’Economist del 12 giugno è rivelatore perché del tutto privo dei nostri infingimenti, come in passato lo è stato su Berlusconi. Questa volta lo sbigottimento si sposta su Veltroni: anche se il leader dell’opposizione ha scelto uno «stile Westminster» (governo ombra, fair play formale) «non c’è assolutamente nulla di britannico» nella sostanza del suo agire. Un’opposizione all’inglese, scrive l’Economist, non avrebbe esitato a indagare su Schifani - dopo le rivelazioni di Abbate e Travaglio - scoraggiando la sua nomina a presidente del Senato. Non avrebbe esitato a denunciare le bugie sulla cordata italiana pronta a comprare Alitalia in condizioni migliori di Air France. Avrebbe alzato una barriera contro il reato d'immigrazione clandestina, il divieto d’intercettazione per crimini tutt’altro che minori, le leggi che sospendono un enorme numero di processi (compresi i processi a Berlusconi; il processo per le violenze contro i manifestanti al vertice G8 del 2001; il processo sulle morti causate dall'amianto). La militarizzazione delle città crea straordinari consensi di italiani, infine, senza perciò divenire ordinaria.
Questa fatica-riluttanza a opporsi non solo è poco britannica. È poco francese, tedesca, americana. Perché nessuno, in questi Paesi, teme di apparire quel che è: inequivocabilmente oppositore, portato a dire no e a mostrare sempre quella che potrebbe essere l’alternativa al governo presente. Non mancano naturalmente le eccezioni: nell’emergenza alcune scelte sono condivise. Ma sono eccezioni, appunto: i politici sanno che le emergenze fiaccano la democrazia proprio perché aboliscono il conflitto, deturpano i modi di dire, demonizzano l’opposizione, parlamentare o giornalistica. Vogliono presto tornare a dividersi e appena possono lo fanno.
Così si comportano, senz’alcuna remora, i socialisti francesi, i democratici Usa, i conservatori inglesi: quando attaccano o contrattaccano, non si sentono in dovere di spiegare i motivi profondamente torbidi per cui hanno interrotto il dialogo. Non danno a questo opporsi il nome indecoroso di antiriformismo o massimalismo. Non sono accusati dalla stampa di «pura agitazione», di «precipitare nel rivoluzionarismo verbale». Nessuno si sognerebbe di accusare i democratici Usa di antibushismo, o la sinistra francese di antisarkosismo. Sono eccettuati i Paesi con larghe intese: in Germania i socialdemocratici non attaccano la Merkel perché la necessità li ha spinti nella Grosse Koalition. Nessuno dei due la voleva, ma hanno dovuto farla e non vedono l’ora di smettere, e riprendere la classica dialettica fra chi governa assumendosene le responsabilità e chi si oppone preparando il ricambio. In Italia non c’è Grande Coalizione ma una strana invasiva idea del decoro impone il linguaggio da Grande Coalizione.
In Italia si fatica a dare un nome al governo Berlusconi: un regime paradossale che promette sicurezza e lede la rule of law. Che fa ardite leggi finanziarie e sottovaluta la cultura della legalità. Ma ancor più impervio è dare un nome all’opposizione. Il Pd si oppone ma non vuol essere antiberlusconiano, si oppone ma non vuol farlo con la determinazione - peraltro rara - dell’Ulivo. Si oppone nell’impaccio, quasi avesse alle spalle severissime offensive: contro il conflitto d’interessi, contro le leggi ad personam. Nulla di questo è stato fatto eppure s’espande la paura di apparire antiberlusconiani, non nella realtà dei fatti ma nell’immaginario della pubblica chiacchiera.
Il clima nelle ultime ore sembra mutato, ma siccome alcune tendenze restano converrà indagare sulle radici di questo immaginario fatto di timori e fantasmi. Una delle radici è forse nella storia del Pci, evidentemente ancora inconclusa o mal conclusa. Non più comunisti, ormai liberali, gli eredi di Togliatti sono alla ricerca di un’identità introvabile ma una cosa sanno e desiderano: tutto vogliono essere, fuorché sembrare quello che sono stati in passato, cioè oppositori intransigenti. È l’intensità dell’opporsi che giudicano deleteria, molto più dell’ideologia che per decenni la sorresse. Abbandonata l’ideologia anche l’opporsi in sé viene abbandonato, come qualcosa di cui ci si vergogna, che sveglia un fantasma sgradito: il proprio. Scrive Paolo Flores d’Arcais sull’Unità che Veltroni non sa dire sì sì, no no. In realtà non oscilla: ha un rapporto malsano con il no, associandolo al no massimalista detto per mezzo secolo dai comunisti dell’Est e dell’Ovest.
Per la verità prima ancora di cambiar nome i riformatori postcomunisti avevano cambiato linea. Ma la cambiarono nell’economia, più che su Stato di diritto e rule of law>. Ricordo i tempi in cui chi si congedava dai totalitarismi, in Est Europa, era affascinato da Pinochet. Pinochet aveva abolito la rule of law, ma aveva scommesso sul capitalismo con notevole successo, e questo piaceva al postcomunismo. Quel che non gli piaceva era ben altro, e gli incuteva panico. Panico di somigliare alle sinistre radicali, figure redivive del proprio passato. Panico, oggi, di fronte a chi fa dura opposizione concentrandosi innanzitutto sulla rule of law (Di Pietro, Bonino). Il discredito che colpisce i girotondi (ma che hanno fatto di sovversivo?) è segno di questa pavidità e del conformismo che secerne. Il confluire di tradizioni democristiane nel Pd non aiuta. Avvinti gli uni agli altri, i finti affratellati pencolano nel vuoto.
I massimi dirigenti del Pd hanno grandi tremori e forse non sarebbe male che cominciassero a parlarne. Altrimenti chi guarda da fuori continuerà a sbigottirsi: più sorpreso da questi tremori, in fondo, che da Berlusconi. Tra l’Italia e le altre democrazie si sta aprendo un baratro più vasto di quello che immaginiamo: non solo tra governanti diversi ma tra oppositori, giornalisti, sindacati diversi. Quasi non ce ne accorgiamo. Non ne usciremo dicendo che siamo così complicati e che nessuno, fuori casa, è in grado di capirci.
Barbara Spinelli, La Stampa, 22-06-2008
Spesso chi ci guarda da fuori dice qualcosa su noi e la nostra storia che è difficile dire a se stessi e perfino pensare. Di questo nostro terzo occhio possiamo risentirci o esser grati: comunque avremo l’impressione d’ascoltare una non improbabile verità. Nel mezzo d’un attonito imbarazzo un ange passe: un angelo passa, dicono i francesi. Accade nella vita degli individui come delle nazioni, e l’Italia non è l’unica a sperimentarlo. La Francia ha iniziato a scrutare dentro il proprio passato fascista grazie allo storico americano Robert Paxton, nel '66: l’angelo passò e i francesi impararono a vedere nel vasto buio della collaborazione. Chi guarda da fuori non è necessariamente uno straniero: può anche essere un connazionale che riesce a guardare da una certa distanza, che è meno fasciato da bende linguistiche patrie. Così è stato per l'Italia nell'ormai lunga epoca dominata da Berlusconi. La parola che più spesso la definisce è, da anni, «anomalia democratica»: il terzo occhio questo vede, anche quando comprende l’inquietudine della maggioranza che l’ha votata.
Sull’anomalia di Berlusconi molto è stato scritto, negarla è difficile. È anomalo il conflitto d’interessi. È anomalo che un governante controlli tutte le tv private e, se è al potere, anche le pubbliche. È anomala la naturalezza con cui, quando è Premier, cura i propri interessi e fabbrica leggi che gli evitino processi. È anomalo il fatto che continuamente si indaghi su di lui per corruzione, anche di giudici. Visti da fuori, i magistrati non sembrano eversori. Tutto questo non sorprende più molto: l’anomalia è nota ai più.
Molto meno si è scritto invece sull’anomalia dell’opposizione: anomalia che crea ripetuto sgomento, in chi ci osserva con quel terzo occhio. Un’opposizione così impaurita di sé, così ansiosa d’apparire dialogante e conciliante, si vede di rado nelle democrazie. L’articolo dell’Economist del 12 giugno è rivelatore perché del tutto privo dei nostri infingimenti, come in passato lo è stato su Berlusconi. Questa volta lo sbigottimento si sposta su Veltroni: anche se il leader dell’opposizione ha scelto uno «stile Westminster» (governo ombra, fair play formale) «non c’è assolutamente nulla di britannico» nella sostanza del suo agire. Un’opposizione all’inglese, scrive l’Economist, non avrebbe esitato a indagare su Schifani - dopo le rivelazioni di Abbate e Travaglio - scoraggiando la sua nomina a presidente del Senato. Non avrebbe esitato a denunciare le bugie sulla cordata italiana pronta a comprare Alitalia in condizioni migliori di Air France. Avrebbe alzato una barriera contro il reato d'immigrazione clandestina, il divieto d’intercettazione per crimini tutt’altro che minori, le leggi che sospendono un enorme numero di processi (compresi i processi a Berlusconi; il processo per le violenze contro i manifestanti al vertice G8 del 2001; il processo sulle morti causate dall'amianto). La militarizzazione delle città crea straordinari consensi di italiani, infine, senza perciò divenire ordinaria.
Questa fatica-riluttanza a opporsi non solo è poco britannica. È poco francese, tedesca, americana. Perché nessuno, in questi Paesi, teme di apparire quel che è: inequivocabilmente oppositore, portato a dire no e a mostrare sempre quella che potrebbe essere l’alternativa al governo presente. Non mancano naturalmente le eccezioni: nell’emergenza alcune scelte sono condivise. Ma sono eccezioni, appunto: i politici sanno che le emergenze fiaccano la democrazia proprio perché aboliscono il conflitto, deturpano i modi di dire, demonizzano l’opposizione, parlamentare o giornalistica. Vogliono presto tornare a dividersi e appena possono lo fanno.
Così si comportano, senz’alcuna remora, i socialisti francesi, i democratici Usa, i conservatori inglesi: quando attaccano o contrattaccano, non si sentono in dovere di spiegare i motivi profondamente torbidi per cui hanno interrotto il dialogo. Non danno a questo opporsi il nome indecoroso di antiriformismo o massimalismo. Non sono accusati dalla stampa di «pura agitazione», di «precipitare nel rivoluzionarismo verbale». Nessuno si sognerebbe di accusare i democratici Usa di antibushismo, o la sinistra francese di antisarkosismo. Sono eccettuati i Paesi con larghe intese: in Germania i socialdemocratici non attaccano la Merkel perché la necessità li ha spinti nella Grosse Koalition. Nessuno dei due la voleva, ma hanno dovuto farla e non vedono l’ora di smettere, e riprendere la classica dialettica fra chi governa assumendosene le responsabilità e chi si oppone preparando il ricambio. In Italia non c’è Grande Coalizione ma una strana invasiva idea del decoro impone il linguaggio da Grande Coalizione.
In Italia si fatica a dare un nome al governo Berlusconi: un regime paradossale che promette sicurezza e lede la rule of law. Che fa ardite leggi finanziarie e sottovaluta la cultura della legalità. Ma ancor più impervio è dare un nome all’opposizione. Il Pd si oppone ma non vuol essere antiberlusconiano, si oppone ma non vuol farlo con la determinazione - peraltro rara - dell’Ulivo. Si oppone nell’impaccio, quasi avesse alle spalle severissime offensive: contro il conflitto d’interessi, contro le leggi ad personam. Nulla di questo è stato fatto eppure s’espande la paura di apparire antiberlusconiani, non nella realtà dei fatti ma nell’immaginario della pubblica chiacchiera.
Il clima nelle ultime ore sembra mutato, ma siccome alcune tendenze restano converrà indagare sulle radici di questo immaginario fatto di timori e fantasmi. Una delle radici è forse nella storia del Pci, evidentemente ancora inconclusa o mal conclusa. Non più comunisti, ormai liberali, gli eredi di Togliatti sono alla ricerca di un’identità introvabile ma una cosa sanno e desiderano: tutto vogliono essere, fuorché sembrare quello che sono stati in passato, cioè oppositori intransigenti. È l’intensità dell’opporsi che giudicano deleteria, molto più dell’ideologia che per decenni la sorresse. Abbandonata l’ideologia anche l’opporsi in sé viene abbandonato, come qualcosa di cui ci si vergogna, che sveglia un fantasma sgradito: il proprio. Scrive Paolo Flores d’Arcais sull’Unità che Veltroni non sa dire sì sì, no no. In realtà non oscilla: ha un rapporto malsano con il no, associandolo al no massimalista detto per mezzo secolo dai comunisti dell’Est e dell’Ovest.
Per la verità prima ancora di cambiar nome i riformatori postcomunisti avevano cambiato linea. Ma la cambiarono nell’economia, più che su Stato di diritto e rule of law>. Ricordo i tempi in cui chi si congedava dai totalitarismi, in Est Europa, era affascinato da Pinochet. Pinochet aveva abolito la rule of law, ma aveva scommesso sul capitalismo con notevole successo, e questo piaceva al postcomunismo. Quel che non gli piaceva era ben altro, e gli incuteva panico. Panico di somigliare alle sinistre radicali, figure redivive del proprio passato. Panico, oggi, di fronte a chi fa dura opposizione concentrandosi innanzitutto sulla rule of law (Di Pietro, Bonino). Il discredito che colpisce i girotondi (ma che hanno fatto di sovversivo?) è segno di questa pavidità e del conformismo che secerne. Il confluire di tradizioni democristiane nel Pd non aiuta. Avvinti gli uni agli altri, i finti affratellati pencolano nel vuoto.
I massimi dirigenti del Pd hanno grandi tremori e forse non sarebbe male che cominciassero a parlarne. Altrimenti chi guarda da fuori continuerà a sbigottirsi: più sorpreso da questi tremori, in fondo, che da Berlusconi. Tra l’Italia e le altre democrazie si sta aprendo un baratro più vasto di quello che immaginiamo: non solo tra governanti diversi ma tra oppositori, giornalisti, sindacati diversi. Quasi non ce ne accorgiamo. Non ne usciremo dicendo che siamo così complicati e che nessuno, fuori casa, è in grado di capirci.
lunedì 23 giugno 2008
segnalazione: Rosselli, il marxismo e le classi sociali
da Socialismo liberale una considerazione ancora attuale
i marxisti non hanno mai capito che il raffrozamento del movente economico, cui conduce fatalmente la loro dottrina, se dapprima ha risposto pienamente al suo ufficio, oggi impedisce la costruzione di una civiltà nuova e porta il movimento alla corruzione. In troppi casi la élite operaia socialista, sotto l’influsso del materialismo marxista, anziché esser l’annunciatrice di una civiltà nuova, di nuovi valori culturali, corre il rischio di trasformarsi in una nuova borghesia in potenza, assai in ritardo, quanto a gusti intellettuali, al grosso dell’esercito borghese (...) Prima dell’ideologia sta la bestia uomo, proletaria o borghese che sia, col suo bagaglio triste di debolezze e di miserie
i marxisti non hanno mai capito che il raffrozamento del movente economico, cui conduce fatalmente la loro dottrina, se dapprima ha risposto pienamente al suo ufficio, oggi impedisce la costruzione di una civiltà nuova e porta il movimento alla corruzione. In troppi casi la élite operaia socialista, sotto l’influsso del materialismo marxista, anziché esser l’annunciatrice di una civiltà nuova, di nuovi valori culturali, corre il rischio di trasformarsi in una nuova borghesia in potenza, assai in ritardo, quanto a gusti intellettuali, al grosso dell’esercito borghese (...) Prima dell’ideologia sta la bestia uomo, proletaria o borghese che sia, col suo bagaglio triste di debolezze e di miserie
domenica 22 giugno 2008
segnalazione: lettera ai compagni
"Cari compagni,
abbiamo letto con attenzione i tre documenti (mozioni) congressuali e siamo rimasti delusi e, soprattutto, disorientati. Ci sfugge cosa intendano fare del congresso della rifondazione i nostri naufraghi dirigenti, anche perchè non intendiamo pensare che abbiano obiettivi modesti propri del naufrago che, ridotto allo stremo, può, al più, recuperare una zattera per sè e per i più vicini.
Non ci aspettavamo enciclopedie del dover essere e del dover fare (come sono state, purtroppo inutilmente, tante -non tutte- mozioni del PSI). Speravamo di veder almeno delineate, in modo ancora sommario e problematico, ma chiaro, l'analisi e la valutazione della vita stentata delle formazioni della diaspora socialista e dell'attuale vuoto non solo elettorale, ma soprattutto di presenza e d'iniziativa socialista, vuoto aggravato e non spiegato (come alcuni naufraghi affermano) dalla generale crisi della sinistra ( in ispecie postcomunista).
Ancor di più, speravamo nell'offerta di spunti per avviare l'analisi dell'attuale situazione sociale e politica e dei suoi nodi strutturali con qualche prima indicazione sulla risposta socialista.
Qualcuno potrà dire che non c'è stato tempo e non ci sono stati contributi per organizzare bene il congresso. Noi non siamo d'accordo. Niente (se non considerazioni da naufrago) costringeva ad un congresso affrettato; i contributi -come quelli che anche qualcuno tra noi si è provato ad offrire- avrebbero dovuto avere libertà e tempo di espressione. La fase costituente avrebbe, secondo noi, dovuto aprirsi proprio offrendo a tutti spazio appropriato di elaborazione e di confronto, spazio invece negato dagli adempimenti stabiliti per il congresso e dalle relative scadenze.
Insomma, così come ci viene proposto, il congresso dei primi di luglio costituisce occasione che non sappiamo cogliere: forse per le nostre capacità limitate e per gli obiettivi eccessivi che assegnamo al movimento socialista.
Preferiamo restare ai bordi del campo che è stato scelto. Non per abbandonare tutto, ma per vedere se, alla fine, si vedranno solo alcune zattere o se, invece, ci sarà –magari anche con l’aiuto di altri socialisti intrepidi- spazio per riprendere (iniziare) un lavoro comune. Nella consapevolezza che, per ricostruire una vera presenza socialista, è necessario muovere da un’analisi delle cause del progressivo impoverimento della maggior parte dei cittadini e della concentrazione della ricchezza e del potere nella mani di pochi e delle cause dello strapotere acquisito –non solo a livello nazionale- da alcune corporazioni aggressive (spesso eversive) e parassitarie; ma soprattutto mettere in discussione il modello socioeconomico americano, che sottomette anche i diritti fondamentali al mercato ed alla competizione e recuperare le virtù del modello socialdemocratico, solidaristico e redistributivo. Si tratta d’un cammino controcorrente, oggi in Italia, che però crediamo valga la pena d’intraprendere e sul quale troveremo quanti sono vittime più o meno consapevoli dell’attuale modello di vita dominante”.
Mario Viviani
Giovanni Baccalini
abbiamo letto con attenzione i tre documenti (mozioni) congressuali e siamo rimasti delusi e, soprattutto, disorientati. Ci sfugge cosa intendano fare del congresso della rifondazione i nostri naufraghi dirigenti, anche perchè non intendiamo pensare che abbiano obiettivi modesti propri del naufrago che, ridotto allo stremo, può, al più, recuperare una zattera per sè e per i più vicini.
Non ci aspettavamo enciclopedie del dover essere e del dover fare (come sono state, purtroppo inutilmente, tante -non tutte- mozioni del PSI). Speravamo di veder almeno delineate, in modo ancora sommario e problematico, ma chiaro, l'analisi e la valutazione della vita stentata delle formazioni della diaspora socialista e dell'attuale vuoto non solo elettorale, ma soprattutto di presenza e d'iniziativa socialista, vuoto aggravato e non spiegato (come alcuni naufraghi affermano) dalla generale crisi della sinistra ( in ispecie postcomunista).
Ancor di più, speravamo nell'offerta di spunti per avviare l'analisi dell'attuale situazione sociale e politica e dei suoi nodi strutturali con qualche prima indicazione sulla risposta socialista.
Qualcuno potrà dire che non c'è stato tempo e non ci sono stati contributi per organizzare bene il congresso. Noi non siamo d'accordo. Niente (se non considerazioni da naufrago) costringeva ad un congresso affrettato; i contributi -come quelli che anche qualcuno tra noi si è provato ad offrire- avrebbero dovuto avere libertà e tempo di espressione. La fase costituente avrebbe, secondo noi, dovuto aprirsi proprio offrendo a tutti spazio appropriato di elaborazione e di confronto, spazio invece negato dagli adempimenti stabiliti per il congresso e dalle relative scadenze.
Insomma, così come ci viene proposto, il congresso dei primi di luglio costituisce occasione che non sappiamo cogliere: forse per le nostre capacità limitate e per gli obiettivi eccessivi che assegnamo al movimento socialista.
Preferiamo restare ai bordi del campo che è stato scelto. Non per abbandonare tutto, ma per vedere se, alla fine, si vedranno solo alcune zattere o se, invece, ci sarà –magari anche con l’aiuto di altri socialisti intrepidi- spazio per riprendere (iniziare) un lavoro comune. Nella consapevolezza che, per ricostruire una vera presenza socialista, è necessario muovere da un’analisi delle cause del progressivo impoverimento della maggior parte dei cittadini e della concentrazione della ricchezza e del potere nella mani di pochi e delle cause dello strapotere acquisito –non solo a livello nazionale- da alcune corporazioni aggressive (spesso eversive) e parassitarie; ma soprattutto mettere in discussione il modello socioeconomico americano, che sottomette anche i diritti fondamentali al mercato ed alla competizione e recuperare le virtù del modello socialdemocratico, solidaristico e redistributivo. Si tratta d’un cammino controcorrente, oggi in Italia, che però crediamo valga la pena d’intraprendere e sul quale troveremo quanti sono vittime più o meno consapevoli dell’attuale modello di vita dominante”.
Mario Viviani
Giovanni Baccalini
venerdì 20 giugno 2008
segnalazione: nadia urbinati
Dal Welfare alla caritàdi Nadia Urbinati, Repubblica - 20 Giugno 2008
Questo è davvero un governo rivoluzionario, proprio come aveva promesso il suo leader in campagna elettorale. Ma di quale rivoluzione si tratta?A partire da quella francese di fine Settecento, le rivoluzioni hanno dimostrato di poter avere sia lo sguardo rivolto al futuro sia lo sguardo rivolto al passato; le prime per cercare di realizzare l´utopia della società giusta, le seconde, che in genere seguono al fallimento delle prime, per ripristinare o istituire ordine e gerarchia. Quella che stiamo subendo in Italia oggi è del secondo tipo. Per questo sarebbe opportuno chiamarla con il suo vero nome: non rivoluzione ma contro-rivoluzione o meglio ancora restaurazione, visto che questo governo ha dato alla sua politica l´aura della normalità, anzi premunendosi di tradurre la politica dell´eccezione in uno stato di normalità. La questione non riguarda soltanto l´uso dell´esercito per funzioni di ordine pubblico, o la violazione dei diritti fondamentali per i non cittadini; essa riguarda anche la politica economica. La manovra approvata in soli 9 minuti dal consiglio dei Ministri ha lanciato un messaggio eloquente e forte: non esiste più uno stato sociale; d´ora in poi esisteranno solo politiche di soccorso per i bisognosi. Il che puó così essere tradotto: non ci sono più cittadini uguali o che hanno un egual diritto ad accedere ai servizi con i quali soddisfare quei bisogni che la Costituzione definisce come primari; ci sono invece cittadini che possono fare da sé e cittadini che non potendo far da sé sono aiutati dallo Stato. Per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale ci saranno italiani con la tessera di povertà. Per la prima volta nella storia della democrazia italiana ci saranno cittadini dichiarati per legge poveri che lo Stato tratta diversamente dai non bisognosi o dagli abbienti. Per la prima volta dall´entrata in vigore della Costituzione, l´eguaglianza democratica – che gli articoli 2 e 3 sanciscono impegnando istituzioni e cittadini a rispettare – è stravolta e gravemente compromessa proprio nel suo fondamento, ovvero nel riconoscimento del principio di eguale dignità di tutti i membri del corpo sovrano. Con questo stravolgimento gravissimo l´idea che ha accompagnato la rinascita politica del dopoguerra – la cittadinanza come grappolo di diritti civili, politici e sociali – viene a cadere. La restaurazione è a tutto tondo quindi, un´organica politica che scientemente mira a cambiare fondamenti e principi della democrazia italiana, decretando che non tutti i cittadini saranno d´ora in poi eguali nelle opportunità sociali. A voler essere corretti, l´attacco alla cittadinanza sociale era già cominciato, con l´aiuto degli stessi governi di centro-sinistra. Per esempio, il diritto all´educazione è da diversi anni ormai sotto sistematico e diretto attacco nel nome della libertà dell´offerta educativa, ma in realtà con l´intento nemmeno troppo velato di dirottare soldi pubblici alle scuole private e religiose. E che dire del diritto costituzionale alla salute? Non è forse stato manomesso gravemente con le politiche federalistiche e poi con quelle delle convenzioni con le cliniche private (altro stratagemma per sovvenzionare il privato) e della monetarizzazione delle prestazioni mediche? Ora, il governo si appresta a mettere la classica ciliegina sulla torta: istituisce le tessere di povertà, premunendosi di raccomandare che verrà garantito l´anonimato dei possessori, quindi ammettendo che la conoscenza della condizione di povertà puó generare discriminazioni e ulteriori ingiustizie (proprio per evitare questo rischio i costituenti avevano istituito i diritti sociali). L´Italia ha da oggi cittadini di serie A e cittadini di serie B; e sopra tutti, un´oligarchia che prospera a spese dell´intera società, facendo leggi funzionali ai propri interessi e bisogni, e quindi estendendo esponenzialmente i propri privilegi mediante l´uso strumentale non solo delle procedure ma anche dei poteri dello stato, in primo luogo quello giudiziario (ammoniva Montesquieu, che lo stravolgimento di questo potere è il primo grave segno di degenerazione illiberale di un governo). La tessera di povertà rientra per tanto in un´organica politica di diseguaglianza che coinvolge tutti i livelli della vita sociale e civile. Pensare che questa discriminazione riguardi solo una minoranza e che quindi non debba destare eccessiva preoccupazione è ovviamente quanto di più improvvido si possa immaginare, visto che a tutti puó toccare la sfortuna di scivolare giù nella scala sociale – un´immagine, quella dell´eguaglianza nel rischio di caduta, invece che nell´opportunità di vivere con dignità, che sempre di più verrà a far parte del nostro immaginario individuale e collettivo. Del resto, come il ministro Tremonti ci ricorda, la sfortuna è una condizione dalla quale nessun essere umano puó tutelarsi completamente, dovendo tutti noi pagare per il peccato originale. E la tessera di povertà è lì a dirci che lo Stato ha definitivamente abbandonato l´illusione che, se non proprio sconfitta, la sfortuna potrebbe almeno essere neutralizzata. Ma era la democrazia sociale, quella a suo modo rivoluzionaria che il grande T. H. Marshall aveva teorizzato nel 1950, a coltivare quell´ispirazione, a voler costruire un futuro nel quale tutti i cittadini potevano godere concretamente di eguale dignità e libertà. Oggi, l´ideologia egemone della compassione per i poveri e del privilegio per i potenti ci annuncia (e decreta) che quell´utopia è sepolta. Come altre volte in passato, la restaurazione detta la sua legge: i ranghi si riorganizzano, le diseguaglianze rinascono.
Questo è davvero un governo rivoluzionario, proprio come aveva promesso il suo leader in campagna elettorale. Ma di quale rivoluzione si tratta?A partire da quella francese di fine Settecento, le rivoluzioni hanno dimostrato di poter avere sia lo sguardo rivolto al futuro sia lo sguardo rivolto al passato; le prime per cercare di realizzare l´utopia della società giusta, le seconde, che in genere seguono al fallimento delle prime, per ripristinare o istituire ordine e gerarchia. Quella che stiamo subendo in Italia oggi è del secondo tipo. Per questo sarebbe opportuno chiamarla con il suo vero nome: non rivoluzione ma contro-rivoluzione o meglio ancora restaurazione, visto che questo governo ha dato alla sua politica l´aura della normalità, anzi premunendosi di tradurre la politica dell´eccezione in uno stato di normalità. La questione non riguarda soltanto l´uso dell´esercito per funzioni di ordine pubblico, o la violazione dei diritti fondamentali per i non cittadini; essa riguarda anche la politica economica. La manovra approvata in soli 9 minuti dal consiglio dei Ministri ha lanciato un messaggio eloquente e forte: non esiste più uno stato sociale; d´ora in poi esisteranno solo politiche di soccorso per i bisognosi. Il che puó così essere tradotto: non ci sono più cittadini uguali o che hanno un egual diritto ad accedere ai servizi con i quali soddisfare quei bisogni che la Costituzione definisce come primari; ci sono invece cittadini che possono fare da sé e cittadini che non potendo far da sé sono aiutati dallo Stato. Per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale ci saranno italiani con la tessera di povertà. Per la prima volta nella storia della democrazia italiana ci saranno cittadini dichiarati per legge poveri che lo Stato tratta diversamente dai non bisognosi o dagli abbienti. Per la prima volta dall´entrata in vigore della Costituzione, l´eguaglianza democratica – che gli articoli 2 e 3 sanciscono impegnando istituzioni e cittadini a rispettare – è stravolta e gravemente compromessa proprio nel suo fondamento, ovvero nel riconoscimento del principio di eguale dignità di tutti i membri del corpo sovrano. Con questo stravolgimento gravissimo l´idea che ha accompagnato la rinascita politica del dopoguerra – la cittadinanza come grappolo di diritti civili, politici e sociali – viene a cadere. La restaurazione è a tutto tondo quindi, un´organica politica che scientemente mira a cambiare fondamenti e principi della democrazia italiana, decretando che non tutti i cittadini saranno d´ora in poi eguali nelle opportunità sociali. A voler essere corretti, l´attacco alla cittadinanza sociale era già cominciato, con l´aiuto degli stessi governi di centro-sinistra. Per esempio, il diritto all´educazione è da diversi anni ormai sotto sistematico e diretto attacco nel nome della libertà dell´offerta educativa, ma in realtà con l´intento nemmeno troppo velato di dirottare soldi pubblici alle scuole private e religiose. E che dire del diritto costituzionale alla salute? Non è forse stato manomesso gravemente con le politiche federalistiche e poi con quelle delle convenzioni con le cliniche private (altro stratagemma per sovvenzionare il privato) e della monetarizzazione delle prestazioni mediche? Ora, il governo si appresta a mettere la classica ciliegina sulla torta: istituisce le tessere di povertà, premunendosi di raccomandare che verrà garantito l´anonimato dei possessori, quindi ammettendo che la conoscenza della condizione di povertà puó generare discriminazioni e ulteriori ingiustizie (proprio per evitare questo rischio i costituenti avevano istituito i diritti sociali). L´Italia ha da oggi cittadini di serie A e cittadini di serie B; e sopra tutti, un´oligarchia che prospera a spese dell´intera società, facendo leggi funzionali ai propri interessi e bisogni, e quindi estendendo esponenzialmente i propri privilegi mediante l´uso strumentale non solo delle procedure ma anche dei poteri dello stato, in primo luogo quello giudiziario (ammoniva Montesquieu, che lo stravolgimento di questo potere è il primo grave segno di degenerazione illiberale di un governo). La tessera di povertà rientra per tanto in un´organica politica di diseguaglianza che coinvolge tutti i livelli della vita sociale e civile. Pensare che questa discriminazione riguardi solo una minoranza e che quindi non debba destare eccessiva preoccupazione è ovviamente quanto di più improvvido si possa immaginare, visto che a tutti puó toccare la sfortuna di scivolare giù nella scala sociale – un´immagine, quella dell´eguaglianza nel rischio di caduta, invece che nell´opportunità di vivere con dignità, che sempre di più verrà a far parte del nostro immaginario individuale e collettivo. Del resto, come il ministro Tremonti ci ricorda, la sfortuna è una condizione dalla quale nessun essere umano puó tutelarsi completamente, dovendo tutti noi pagare per il peccato originale. E la tessera di povertà è lì a dirci che lo Stato ha definitivamente abbandonato l´illusione che, se non proprio sconfitta, la sfortuna potrebbe almeno essere neutralizzata. Ma era la democrazia sociale, quella a suo modo rivoluzionaria che il grande T. H. Marshall aveva teorizzato nel 1950, a coltivare quell´ispirazione, a voler costruire un futuro nel quale tutti i cittadini potevano godere concretamente di eguale dignità e libertà. Oggi, l´ideologia egemone della compassione per i poveri e del privilegio per i potenti ci annuncia (e decreta) che quell´utopia è sepolta. Come altre volte in passato, la restaurazione detta la sua legge: i ranghi si riorganizzano, le diseguaglianze rinascono.
pescati nella rete: giovanni pieraccini
Rifondare la Sinistra costruendo una nuova cultura politica
La situazione in cui la sinistra oggi in Italia e in Europa è preoccupante ed in Italia è patologica. Ormai i governi di sinistra in Europa sono ridotti a quello di Zapatero in Spagna e di Brown in Gran Bretagna, oltre la presenza minoritaria nel governo tedesco dominato però dalla Merkel ed il governo laburista dà segni di caduta. In Italia la sinistra in pratica con esiste più in Parlamento, ma è debolissima, frammentata e contraddittoria anche fuori del Parlamento, nel Paese. Ciò denota che c’è un distacco fra i partiti di sinistra e i bisogni , il pensiero, le aspirazioni dei cittadini. Ma negli altri paesi la sinistra ha tutt’ora una presenza importante ed è ovunque alla guida dell’opposizione e c’è anche un dibattito all’interno della stessa sinistra sui propri compiti e il proprio rinnovamento, anche se non molto penetrante. In Italia dobbiamo necessariamente ricostruire la sinistra, rifondarla, e per far questo dobbiamo partire dal lavoro culturale, poiché soltanto con una chiara piattaforma politica si potrà procedere con successo alla sua riorganizzazione.La grande storia e la grande forza del socialismo e del movimento operaio avevano come base due elementi fondamentali: in primo luogo era la capacità di dare agli uomini la speranza, la prospettiva di una avvenire più umano, più fraterno, più giusto. Era una visione del mondo, era un ideale, era una nuova civiltà. Non si sottovaluti la forza di questa motivazione, che era capace di unire vasti starti di lavoratori nella volontà comune di lottare per realizzare questi ideali.Cadute le ideologie, fallito il comunismo, adagiandosi anche settori della sinistra all’accettazione dell’ideologia del mercato, non si è più stati capaci di accendere le luci dell’avvenire, il “sole dell’avvenire”. Chi potrebbe sentirsi impegnato con tutto sé stesso per gli ideali del consumismo, della crescita del PIL, per le politiche dei governi attuali? Portato al centro del sistema l’individualismo, si sono distrutti i valori sociali e collettivi. Nell’inquietudine crescente proprio per questa solitudine dello stesso individuo, chi si oppone non trova sbocchi di lotta politica se non la via della rivolta.Il secondo fondamento era la capacità di dar vita ad una politica di riforme, di conquiste sociali, di progressi civili che davano concretezza proprio all’ideale. Fu la costruzione dello stato sociale e del welfare, fu l’epoca della socialdemocrazia. Ma anche in questo campo oggi questa piattaforma riformatrice è scomparsa o si è ridotta a correzioni e modifiche dell’economia di mercato. Tutto questo mentre siamo di fronte al fallimento dell’economia di mercato sul piano ambientale e della stessa economia.Bisogna dunque avere la capacità di ripensare la sinistra del XXI secolo proprio alla luce di questo fallimento per una soluzione alternativa e bisogna dunque innanzi tutto, concentrare l’attenzione sul centro del problema, per dare vita ad una prospettiva generale per il futuro e così riaccendere le luci spente della speranza per gli uomini.Il tema è, a mio parere, lo sviluppo sostenibile. La stessa espressione “sviluppo sostenibile” non ha origini di sinistra. Fu proposta per la prima volta nel 1987 dalla Commissione Mondiale dell’ambiente e lo sviluppo e fu adottata dal vertice di Rio nel 1992. Ebbe ed ha larghissima diffusione e larghissime adesioni, ma solo a parole. In realtà è dominante il tipo di sviluppo di mercato, fondato sulla logica della crescita indiscriminata del PIL porta con se crescenti contraddizioni e pericoli sempre maggiori. E’ basato su una catena: crescita della produzione, dei profitti, della produttività, dei consumi: ognuno si lega all’altro, ma ciò significa un crescente consumo delle risorse materiali del nostro pianeta, con le crisi già in atto dell’energia, dell’acqua, dei generi alimentari. Tutto ciò è chiaramente insostenibile. Il problema dello sviluppo sostenibile non è tuttavia di semplice soluzione, poiché esso non può significare un regresso verso un allargamento della povertà, ma deve garantire una giusta prosperità, non fondata sull’esasperazione del consumismo, tuttavia pertanto più sulla qualità della vita che sulla quantità della ricchezza, più sui beni della civiltà, dell’arte, della cultura, dell’espansione della personalità che sui consumi. Si può disegnare in tal modo una società futura, una società ideale, che sia attraente e serena, una società che ridia vita alla speranza del “sole dell’avvenire”.Questo richiede l’elaborazione di una politica che innanzi tutto prenda consapevolezza del mondo nuovo: postindustriale, globale, informatico, biogenetico e sia quindi capace di liberarsi dal peso delle vecchie politiche della sinistra, diventata paradossalmente spesso politiche conservatrici. Ed occorre chiaramente riportare l’economia sotto la guida della politica ed anche, quando necessario, all’intervento pubblico, poiché sono necessari programmi pluriennali e complessi per affrontare i problemi dell’ambiente, dell’energia, dell’acqua, della fame.Molte altre cose occorrerebbe mettere in campo -ed occorre farlo – anche sul piano dell’Europa e del mondo, per il necessario coordinamento internazionale di fronte agli squilibri esistenti. In modo particolare occorre inserire il socialismo italiano saldamente nel socialismo europeo. Non possono farlo qui. Quello che ho voluto sottolineare è che il nostro lavoro deve avere, a mio parere, come centro di sviluppo sostenibile.Ma anche il lavoro culturale esige di avere le capacità di riunire tutti gli uomini e gruppi, che pure, sia pure se frantumati, esistono ed avere la capacità di farsi ascoltare e di sviluppare un dibattito. Ciò significa avere accesso ai mass media, che in realtà non abbiamo. Si parte dunque con grandissime difficoltà, ma non possiamo arrenderci, perché se è vero che la sinistra è in crisi o, in Italia, quasi scomparsa dalla scena politica , è anche vero che, della sinistra, della sua capacità riformatrice, dei suoi valori di giustizia, fraternità, pace, libertà c’è un bisogno intenso e crescente. E’ la forza di questo oggettivo bisogno della sinistra che deve darci la capacità di intraprendere un così, difficile cammino.
La situazione in cui la sinistra oggi in Italia e in Europa è preoccupante ed in Italia è patologica. Ormai i governi di sinistra in Europa sono ridotti a quello di Zapatero in Spagna e di Brown in Gran Bretagna, oltre la presenza minoritaria nel governo tedesco dominato però dalla Merkel ed il governo laburista dà segni di caduta. In Italia la sinistra in pratica con esiste più in Parlamento, ma è debolissima, frammentata e contraddittoria anche fuori del Parlamento, nel Paese. Ciò denota che c’è un distacco fra i partiti di sinistra e i bisogni , il pensiero, le aspirazioni dei cittadini. Ma negli altri paesi la sinistra ha tutt’ora una presenza importante ed è ovunque alla guida dell’opposizione e c’è anche un dibattito all’interno della stessa sinistra sui propri compiti e il proprio rinnovamento, anche se non molto penetrante. In Italia dobbiamo necessariamente ricostruire la sinistra, rifondarla, e per far questo dobbiamo partire dal lavoro culturale, poiché soltanto con una chiara piattaforma politica si potrà procedere con successo alla sua riorganizzazione.La grande storia e la grande forza del socialismo e del movimento operaio avevano come base due elementi fondamentali: in primo luogo era la capacità di dare agli uomini la speranza, la prospettiva di una avvenire più umano, più fraterno, più giusto. Era una visione del mondo, era un ideale, era una nuova civiltà. Non si sottovaluti la forza di questa motivazione, che era capace di unire vasti starti di lavoratori nella volontà comune di lottare per realizzare questi ideali.Cadute le ideologie, fallito il comunismo, adagiandosi anche settori della sinistra all’accettazione dell’ideologia del mercato, non si è più stati capaci di accendere le luci dell’avvenire, il “sole dell’avvenire”. Chi potrebbe sentirsi impegnato con tutto sé stesso per gli ideali del consumismo, della crescita del PIL, per le politiche dei governi attuali? Portato al centro del sistema l’individualismo, si sono distrutti i valori sociali e collettivi. Nell’inquietudine crescente proprio per questa solitudine dello stesso individuo, chi si oppone non trova sbocchi di lotta politica se non la via della rivolta.Il secondo fondamento era la capacità di dar vita ad una politica di riforme, di conquiste sociali, di progressi civili che davano concretezza proprio all’ideale. Fu la costruzione dello stato sociale e del welfare, fu l’epoca della socialdemocrazia. Ma anche in questo campo oggi questa piattaforma riformatrice è scomparsa o si è ridotta a correzioni e modifiche dell’economia di mercato. Tutto questo mentre siamo di fronte al fallimento dell’economia di mercato sul piano ambientale e della stessa economia.Bisogna dunque avere la capacità di ripensare la sinistra del XXI secolo proprio alla luce di questo fallimento per una soluzione alternativa e bisogna dunque innanzi tutto, concentrare l’attenzione sul centro del problema, per dare vita ad una prospettiva generale per il futuro e così riaccendere le luci spente della speranza per gli uomini.Il tema è, a mio parere, lo sviluppo sostenibile. La stessa espressione “sviluppo sostenibile” non ha origini di sinistra. Fu proposta per la prima volta nel 1987 dalla Commissione Mondiale dell’ambiente e lo sviluppo e fu adottata dal vertice di Rio nel 1992. Ebbe ed ha larghissima diffusione e larghissime adesioni, ma solo a parole. In realtà è dominante il tipo di sviluppo di mercato, fondato sulla logica della crescita indiscriminata del PIL porta con se crescenti contraddizioni e pericoli sempre maggiori. E’ basato su una catena: crescita della produzione, dei profitti, della produttività, dei consumi: ognuno si lega all’altro, ma ciò significa un crescente consumo delle risorse materiali del nostro pianeta, con le crisi già in atto dell’energia, dell’acqua, dei generi alimentari. Tutto ciò è chiaramente insostenibile. Il problema dello sviluppo sostenibile non è tuttavia di semplice soluzione, poiché esso non può significare un regresso verso un allargamento della povertà, ma deve garantire una giusta prosperità, non fondata sull’esasperazione del consumismo, tuttavia pertanto più sulla qualità della vita che sulla quantità della ricchezza, più sui beni della civiltà, dell’arte, della cultura, dell’espansione della personalità che sui consumi. Si può disegnare in tal modo una società futura, una società ideale, che sia attraente e serena, una società che ridia vita alla speranza del “sole dell’avvenire”.Questo richiede l’elaborazione di una politica che innanzi tutto prenda consapevolezza del mondo nuovo: postindustriale, globale, informatico, biogenetico e sia quindi capace di liberarsi dal peso delle vecchie politiche della sinistra, diventata paradossalmente spesso politiche conservatrici. Ed occorre chiaramente riportare l’economia sotto la guida della politica ed anche, quando necessario, all’intervento pubblico, poiché sono necessari programmi pluriennali e complessi per affrontare i problemi dell’ambiente, dell’energia, dell’acqua, della fame.Molte altre cose occorrerebbe mettere in campo -ed occorre farlo – anche sul piano dell’Europa e del mondo, per il necessario coordinamento internazionale di fronte agli squilibri esistenti. In modo particolare occorre inserire il socialismo italiano saldamente nel socialismo europeo. Non possono farlo qui. Quello che ho voluto sottolineare è che il nostro lavoro deve avere, a mio parere, come centro di sviluppo sostenibile.Ma anche il lavoro culturale esige di avere le capacità di riunire tutti gli uomini e gruppi, che pure, sia pure se frantumati, esistono ed avere la capacità di farsi ascoltare e di sviluppare un dibattito. Ciò significa avere accesso ai mass media, che in realtà non abbiamo. Si parte dunque con grandissime difficoltà, ma non possiamo arrenderci, perché se è vero che la sinistra è in crisi o, in Italia, quasi scomparsa dalla scena politica , è anche vero che, della sinistra, della sua capacità riformatrice, dei suoi valori di giustizia, fraternità, pace, libertà c’è un bisogno intenso e crescente. E’ la forza di questo oggettivo bisogno della sinistra che deve darci la capacità di intraprendere un così, difficile cammino.
giovedì 19 giugno 2008
Pescati nella Rete: alberto clo
dal sito www.epistemes.org
Epistemes.org
Ieri 18 giugno 2008, 9.32.16
E’ possibile e come per l’Italia rientrare nel nucleare?
Ieri 18 giugno 2008, 8.45.01 editor
di Alberto Clô
A 20 anni esatti dall’azzeramento di ogni produzione nucleare nel nostro Paese; a 27 anni dall’ultima centrale realizzata (da Enel a Corso, vicino a Piacenza); a circa 40 anni dalla relativa procedura di licensing, è possibile rientrarvi e a quali condizioni?E’ possibile, in altri termini, dopo aver distrutto tutto il sapere di cui disponevamo – scientifico, progettuale, manifatturiero, gestionale – realizzare in tempi brevi nuove centrali nucleari, come Enel va dichiarando, dicendosi pronta a realizzare “5 centrali da 1.800 MWe in 8 anni” (3 per l’autorizzazione, 5 per la costruzione). Roba, che se vera, farebbe schiattare di rabbia i francesi? Ancora: è possibile, per tale via, contrastare il caro-petrolio e ridurre l’enorme svantaggio competitivo nei costi/prezzi elettrici verso l’Europa?
Il meno che si possa dire è che la realtà delle cose è ben altra da quel che si cerca di rappresentare e che le risposte ai problemi da risolvere sono molto ma molto più complesse di quanto appaia dalle semplicistiche posizioni espresse nel dibattito che si è acceso al riguardo. Dibattito teso, ieri come oggi, più a far la conta dei favorevoli e dei contrari al nucleare, per fini squisitamente politici, che a comprendere se quel che si propone abbia un qualche minimo fondamento e, soprattutto, quali siano le condizioni per darvi concreto seguito. E’ mia opinione – e lo dico essendo stato tra i pochi che si batterono contro il referendum del 1987 e contro chi oggi ne parla a sproposito o se ne dice pentito (alla Chicco Testa per intenderci) – che il rientro nel nucleare non possa che realizzarsi in un’ottica di lungo periodo e non come concreta e ravvicinata possibilità di ridurre significativamente i costi dell’elettricità. Non illudiamoci. A parte il fatto che per riuscirvi bisognerebbe realizzare molte e non poche centrali, concorrono ad impedirlo, accanto a ragioni d’ordine sociale, in un paese che non riesce a realizzare una discarica, un rigassificatore, un termovalorizzatore, altre d’ordine economico. In sintesi: l’incompatibilità del nucleare con la logica di mercato che connota oggi i sistemi elettrici e che governa le decisioni degli investitori e finanziatori.
E’ proprio il mercato che spiega l’innegabile impasse in cui il nucleare versa – checché se ne dica – nell’intero mondo industrializzato. Sulle 35 centrali attualmente in costruzione nel mondo (di cui 13 bloccate), 20 sono nei paesi emergenti (in molti casi in regimi non propriamente democratici) e appena 5 nei paesi industrializzati. Nessuna negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Germania, in Canada, in Spagna. Negli Stati Uniti, l’ultimo kWh ordinato risale al 1978, mentre dal 1990 si sono costruite in quel paese centrali a metano per 220.000 MW.
Tra 1970 e 1990 si sono costruite nel mondo 17 centrali nucleari ogni anno. Dal 1990 al 2005 appena 1,7 per lo più nei paesi emergenti. I dati, nudi e crudi, sono questi. Venute meno le condizioni che in passato favorirono gli investitori (enormi aiuti di stato, assetti monopolistici che garantivano la domanda, prezzi che coprivano i costi remunerati), essi hanno volto le loro preferenze là dove i costi di capitale sono di gran lunga inferiori; dove rischi ed incertezze di mercato sono molto minori; dove i rientri degli investimenti sono molto più rapidi. Dove, in sostanza, la redditività è più certa e maggiore (in primis: metano) o dove addirittura è garantita (con i lauti sussidi alle mitiche quanto marginali rinnovabili).
Morale: le convenienze di mercato disincentivano oggi investimenti di lungo periodo, come sono tipicamente quelli nel nucleare. Piaccia o no, ma è così. Non a caso, l’unica centrale in costruzione in Europa, in Finlandia, è stata realizzata grazie ad un modello societario che bypassa il mercato (e grazie ad aiuti di Stato che la Commissione Europea ha messo sotto indagine), attraverso una partnership chiusa tra produttori e grandi consumatori che si sono impegnati a ritirare la produzione nell’intera vita della centrale a prezzi ancorati ai costi remunerati. Quel che ha azzerato ogni rischio di mercato, con la disponibilità delle banche a finanziare la centrale a tassi la metà di quelli altrimenti praticati.
Conclusione: in passato erano gli Stati a decidere se investire o no nel nucleare, oggi è il mercato. Accapigliarsi su quanto costi il nucleare rispetto alle altre fonti – confronto per altro difficilissimo – ha poco senso. Quel che conta è, infatti, la valutazione di convenienza che ne fanno imprese e banche, che rischiano del loro denaro. Se ne sono convinte, è perché ritengono che il nucleare sia vincente nel gioco del mercato. Il ruolo degli Stati oggi è altro da quello del passato: è garantire certezza dei processi autorizzativi; definire standards e vincoli di sicurezza; predisporre organismi di vigilanza e di controllo altamente specializzati (in Italia sono stati sostanzialmente cancellati e vanno interamente ricostruiti); concorrere a individuare i siti delle centrali e quelli per smaltire le scorie (ed i modi con cui farlo); definire le politiche di regolazione. La decisione ultima resterà, comunque, degli investitori privati. Allo stato delle cose il loro interesse nella quasi generalità dei paesi industrializzati non va affatto palesandosi (Enel a parte), così che l’Agenzia di Parigi (un organismo associato all’OCSE e non un covo di anti-nuclearisti) stima, sulla base degli ordinativi in essere, solo una leggera crescita del nucleare nel mondo da qui al 2030, contro un raddoppio della complessiva produzione elettrica, con un conseguente calo della quota del nucleare di 6 punti al 9%.
Essere realistici, non significa tuttavia escludere che il nostro Paese debba e possa riprendere la via del nucleare, in un futuro non immediato ma da costruire, comunque, da subito. L’orizzonte internazionale è l’unica prospettiva entro cui farlo: puntando a recuperare e valorizzare il poco sapere rimasto; aggregandosi all’altrui impegno di ricerca; ripartendo, in buona sostanza, da zero: sul piano industriale, gestionale, istituzionale. Dire altrimenti, in modo strumentale e fazioso, è truccare le carte in tavola. Perché questa prospettiva si traduca in fatti è necessario disegnare una chiara e credibile strategia di lungo periodo che fissi gli obiettivi da raggiungere e in che tempi; definisca l’assetto delle responsabilità nel rapporto pubblico-privato; quantifichi le risorse finanziarie che si intendono impegnare nella ricerca e a carico di chi; chiarisca in anticipo le politiche di regolazione dei mercati tali da ridurre le incertezze per gli investitori senza gravare sui consumatori o sui contribuenti. In altri termini: senza che si adottino altri sussidi simili a quelli che vanno gonfiando le bollette elettriche per sostenere le fonti rinnovabili (quantificabili nel solo fotovoltaico in 10 miliardi di euro nei prossimi 12 anni): con rendite a beneficio di pochi privati e a carico dell’intera utenza (ad oggi circa 40 miliardi di euro).
Una strategia che richiede chiarezza di intenti, determinazione nel perseguirli, continuità d’azione, e, non ultimo, piena condivisione politica (dati i lunghissimi tempi del potenziale rientro, non meno di 15-20 anni), onde evitare altri “Stretti di Messina”: ovvero che quel che una parte politica avvia, l’altra smantella. Senza nessuna illusione, comunque, di poter rimediare in breve ai morsi sempre più dolorosi della crisi energetica e agli sciagurati errori di venti anni fa. Di illusioni, sprechi, fallimenti nel nucleare ne abbiamo già patiti troppi in passato per poterne sopportare di altri in futuro.
(© L’Arengo del Viaggiatore)
___________________________
*Alberto Clô è docente dei corsi di Economia Industriale ed Economia dei Servizi Pubblici presso l’Università degli studi di Bologna. E’ stato Mininstro dell’Industria e del Commercio Estero nel governo Dini (gennaio 1995 - maggio 1996). Ha pubblicato numerosi saggi in tema di economia industriale ed economia dell’energia, è direttore responsabile della rivista “Energia”, membro del comitato scientifico di riviste nazionali ed ha parteicpato a numerose commissioni di studio ministeriali.Tra le sue pubblicazioni “Economia e politica del petrolio” (Compositori, 2000), “Appunti di Economia Industriale” (Dupress, 2005) e “Il rebus Energetico” (Il Mulino, 2008).
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Ieri 18 giugno 2008, 9.32.16
E’ possibile e come per l’Italia rientrare nel nucleare?
Ieri 18 giugno 2008, 8.45.01 editor
di Alberto Clô
A 20 anni esatti dall’azzeramento di ogni produzione nucleare nel nostro Paese; a 27 anni dall’ultima centrale realizzata (da Enel a Corso, vicino a Piacenza); a circa 40 anni dalla relativa procedura di licensing, è possibile rientrarvi e a quali condizioni?E’ possibile, in altri termini, dopo aver distrutto tutto il sapere di cui disponevamo – scientifico, progettuale, manifatturiero, gestionale – realizzare in tempi brevi nuove centrali nucleari, come Enel va dichiarando, dicendosi pronta a realizzare “5 centrali da 1.800 MWe in 8 anni” (3 per l’autorizzazione, 5 per la costruzione). Roba, che se vera, farebbe schiattare di rabbia i francesi? Ancora: è possibile, per tale via, contrastare il caro-petrolio e ridurre l’enorme svantaggio competitivo nei costi/prezzi elettrici verso l’Europa?
Il meno che si possa dire è che la realtà delle cose è ben altra da quel che si cerca di rappresentare e che le risposte ai problemi da risolvere sono molto ma molto più complesse di quanto appaia dalle semplicistiche posizioni espresse nel dibattito che si è acceso al riguardo. Dibattito teso, ieri come oggi, più a far la conta dei favorevoli e dei contrari al nucleare, per fini squisitamente politici, che a comprendere se quel che si propone abbia un qualche minimo fondamento e, soprattutto, quali siano le condizioni per darvi concreto seguito. E’ mia opinione – e lo dico essendo stato tra i pochi che si batterono contro il referendum del 1987 e contro chi oggi ne parla a sproposito o se ne dice pentito (alla Chicco Testa per intenderci) – che il rientro nel nucleare non possa che realizzarsi in un’ottica di lungo periodo e non come concreta e ravvicinata possibilità di ridurre significativamente i costi dell’elettricità. Non illudiamoci. A parte il fatto che per riuscirvi bisognerebbe realizzare molte e non poche centrali, concorrono ad impedirlo, accanto a ragioni d’ordine sociale, in un paese che non riesce a realizzare una discarica, un rigassificatore, un termovalorizzatore, altre d’ordine economico. In sintesi: l’incompatibilità del nucleare con la logica di mercato che connota oggi i sistemi elettrici e che governa le decisioni degli investitori e finanziatori.
E’ proprio il mercato che spiega l’innegabile impasse in cui il nucleare versa – checché se ne dica – nell’intero mondo industrializzato. Sulle 35 centrali attualmente in costruzione nel mondo (di cui 13 bloccate), 20 sono nei paesi emergenti (in molti casi in regimi non propriamente democratici) e appena 5 nei paesi industrializzati. Nessuna negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Germania, in Canada, in Spagna. Negli Stati Uniti, l’ultimo kWh ordinato risale al 1978, mentre dal 1990 si sono costruite in quel paese centrali a metano per 220.000 MW.
Tra 1970 e 1990 si sono costruite nel mondo 17 centrali nucleari ogni anno. Dal 1990 al 2005 appena 1,7 per lo più nei paesi emergenti. I dati, nudi e crudi, sono questi. Venute meno le condizioni che in passato favorirono gli investitori (enormi aiuti di stato, assetti monopolistici che garantivano la domanda, prezzi che coprivano i costi remunerati), essi hanno volto le loro preferenze là dove i costi di capitale sono di gran lunga inferiori; dove rischi ed incertezze di mercato sono molto minori; dove i rientri degli investimenti sono molto più rapidi. Dove, in sostanza, la redditività è più certa e maggiore (in primis: metano) o dove addirittura è garantita (con i lauti sussidi alle mitiche quanto marginali rinnovabili).
Morale: le convenienze di mercato disincentivano oggi investimenti di lungo periodo, come sono tipicamente quelli nel nucleare. Piaccia o no, ma è così. Non a caso, l’unica centrale in costruzione in Europa, in Finlandia, è stata realizzata grazie ad un modello societario che bypassa il mercato (e grazie ad aiuti di Stato che la Commissione Europea ha messo sotto indagine), attraverso una partnership chiusa tra produttori e grandi consumatori che si sono impegnati a ritirare la produzione nell’intera vita della centrale a prezzi ancorati ai costi remunerati. Quel che ha azzerato ogni rischio di mercato, con la disponibilità delle banche a finanziare la centrale a tassi la metà di quelli altrimenti praticati.
Conclusione: in passato erano gli Stati a decidere se investire o no nel nucleare, oggi è il mercato. Accapigliarsi su quanto costi il nucleare rispetto alle altre fonti – confronto per altro difficilissimo – ha poco senso. Quel che conta è, infatti, la valutazione di convenienza che ne fanno imprese e banche, che rischiano del loro denaro. Se ne sono convinte, è perché ritengono che il nucleare sia vincente nel gioco del mercato. Il ruolo degli Stati oggi è altro da quello del passato: è garantire certezza dei processi autorizzativi; definire standards e vincoli di sicurezza; predisporre organismi di vigilanza e di controllo altamente specializzati (in Italia sono stati sostanzialmente cancellati e vanno interamente ricostruiti); concorrere a individuare i siti delle centrali e quelli per smaltire le scorie (ed i modi con cui farlo); definire le politiche di regolazione. La decisione ultima resterà, comunque, degli investitori privati. Allo stato delle cose il loro interesse nella quasi generalità dei paesi industrializzati non va affatto palesandosi (Enel a parte), così che l’Agenzia di Parigi (un organismo associato all’OCSE e non un covo di anti-nuclearisti) stima, sulla base degli ordinativi in essere, solo una leggera crescita del nucleare nel mondo da qui al 2030, contro un raddoppio della complessiva produzione elettrica, con un conseguente calo della quota del nucleare di 6 punti al 9%.
Essere realistici, non significa tuttavia escludere che il nostro Paese debba e possa riprendere la via del nucleare, in un futuro non immediato ma da costruire, comunque, da subito. L’orizzonte internazionale è l’unica prospettiva entro cui farlo: puntando a recuperare e valorizzare il poco sapere rimasto; aggregandosi all’altrui impegno di ricerca; ripartendo, in buona sostanza, da zero: sul piano industriale, gestionale, istituzionale. Dire altrimenti, in modo strumentale e fazioso, è truccare le carte in tavola. Perché questa prospettiva si traduca in fatti è necessario disegnare una chiara e credibile strategia di lungo periodo che fissi gli obiettivi da raggiungere e in che tempi; definisca l’assetto delle responsabilità nel rapporto pubblico-privato; quantifichi le risorse finanziarie che si intendono impegnare nella ricerca e a carico di chi; chiarisca in anticipo le politiche di regolazione dei mercati tali da ridurre le incertezze per gli investitori senza gravare sui consumatori o sui contribuenti. In altri termini: senza che si adottino altri sussidi simili a quelli che vanno gonfiando le bollette elettriche per sostenere le fonti rinnovabili (quantificabili nel solo fotovoltaico in 10 miliardi di euro nei prossimi 12 anni): con rendite a beneficio di pochi privati e a carico dell’intera utenza (ad oggi circa 40 miliardi di euro).
Una strategia che richiede chiarezza di intenti, determinazione nel perseguirli, continuità d’azione, e, non ultimo, piena condivisione politica (dati i lunghissimi tempi del potenziale rientro, non meno di 15-20 anni), onde evitare altri “Stretti di Messina”: ovvero che quel che una parte politica avvia, l’altra smantella. Senza nessuna illusione, comunque, di poter rimediare in breve ai morsi sempre più dolorosi della crisi energetica e agli sciagurati errori di venti anni fa. Di illusioni, sprechi, fallimenti nel nucleare ne abbiamo già patiti troppi in passato per poterne sopportare di altri in futuro.
(© L’Arengo del Viaggiatore)
___________________________
*Alberto Clô è docente dei corsi di Economia Industriale ed Economia dei Servizi Pubblici presso l’Università degli studi di Bologna. E’ stato Mininstro dell’Industria e del Commercio Estero nel governo Dini (gennaio 1995 - maggio 1996). Ha pubblicato numerosi saggi in tema di economia industriale ed economia dell’energia, è direttore responsabile della rivista “Energia”, membro del comitato scientifico di riviste nazionali ed ha parteicpato a numerose commissioni di studio ministeriali.Tra le sue pubblicazioni “Economia e politica del petrolio” (Compositori, 2000), “Appunti di Economia Industriale” (Dupress, 2005) e “Il rebus Energetico” (Il Mulino, 2008).
Segnalazione: precarietà e incidenti sul lavoro. Il rapporto Nidil-CGIL
Dal sito www.sinistra-democratica.it
Precarietà e incidenti sul lavoro, due facce di una stessa medaglia
Il 5 giugno è stato presentato il terzo rapporto Nidil-Cgil in collaborazione con l’Ires e la facoltà di Scienza della comunicazione de La Sapienza. I dati riferiti ai lavoratori parasubordinati afferenti alla Gestione separata Inps nel 2007, tra uomini e donne in tutto 1.566.978, ci raccontano una situazione italiana che, al confronto con l’Europa, è un’anomalia.Se il numero dei lavoratori a rischio precarietà è diminuito, passando dalle 855.388 unità del 2006 alle 836.493 dell’anno scorso, non ne è conseguito un miglioramento della loro condizione economica. Per i collaboratori a progetto, infatti, i redditi passano, negli anni 2005-2006-2007, da 8.400 a 8.800 euro annui, incremento che però non basta a recuperare l’inflazione reale.Eppure l’inversione di tendenza, riguardo ai lavoratori a rischio precarietà, quei lavoratori, cioè, che sono in possesso di contratto atipico con reddito esclusivo proveniente dal lavoro subordinato, c’è stata. Il rapporto è chiaro in tal senso: questo risultato è stato possibile grazie “all’attenzione che il Ministero del Lavoro ha attribuito nel 2006-2007 alla lotta alla precarietà e alle false collaborazioni; l’aumento del contributo pensionistico di ben 5 punti percentuali rispetto al reddito, che ha reso meno conveniente per le aziende il ricorso alle collaborazioni; gli incentivi alla stabilizzazione, che hanno introdotto una legislazione premiante per le aziende che trasformano le collaborazioni in lavoro dipendente”.La fotografia scattata dal rapporto evidenzia come il lavoro parasubordinato è destinato in media ai “giovani” quarantenni, mentre i collaboratori hanno un’età media intorno ai 34 anni. Lo studio poi affronta quella che viene definita condizione di “intrappolamento” nel lavoro flessibile: 6 lavoratori su 10 rimangono nell’impiego atipico per due anni di seguito e oltre il 37% per l’intero triennio preso in esame.La segretaria generale della Nidil, Filomena Trizio, ha affermato che il rapporto “conferma quanto siano necessarie, per affrontare il tema della precarietà, politiche adeguate, che sappiano contrastare i fenomeni degenerativi basati su mere convenienze di costo del lavoro e tenere la flessibilità su livelli fisiologici. Da qui la necessità e la responsabilità per il nuovo governo di mantenere e rafforzare l’indirizzo intrapreso dal precedente governo”.Parole importanti che si spera siano ascoltate. Una speranza questa che, però, rischia di rimanere disattesa, basti pensare al clima di sostanziale stallo che sta caratterizzando la discussione sulla sicurezza sul lavoro, con Confindustria che si dichiara fermamente contraria al decreto Damiano e al Testo Unico, e col Ministro del lavoro che tarda ad agire. O ancora la volontà più volte declamata, del ministro del Welfare Sacconi di abolire la legge 188, quella pensata da Sinistra Democratica e approvata quasi all’unanimità dallo scorso Parlamento che combatte la piaga dei falsi licenziamenti (chi volesse può sottoscrivere la petizione in difesa di quella legge che si trova sul nostro sito).Precarietà del lavoro e sicurezza sul posto di lavoro sono due facce della stessa medaglia, due esiti di una concezione del lavoro ormai considerato come merce. Proiettati in epoche che pensavamo superate grazie all’impegno e alle lotte di tante lavoratrici e lavoratori, per uno strano scherzo del destino ci troviamo di nuovo al punto di partenza, con la messa in discussione di diritti che, ormai, davamo per scontati, sbagliando di grosso. Il livello di guardia deve restare alto, non c’è altro atteggiamento da tenere, visti gli ultimi avvenimenti. Un motivetto vecchio di anni e di sangue ci torna alla mente alla notizia che l’Ue ha approvato la direttiva che prevede la possibilità di aumentare le ore lavorative fino a 60 settimanali. Se otto ore vi sembran poche…Come non incastrare tutto in un macabro puzzle. Le tessere combaciano alla perfezione. Quindi il pensiero va alle stragi sul lavoro. A quella avvenuta alla dodicesima ora, durante gli straordinari. Alla più recente tragedia che fa riflettere, ancora una volta, sulla completa mancanza di una cultura della sicurezza, di un totale disinteresse per la fase della formazione dei lavoratori, unico modo per prevenire quegli errori fatali, commessi il più delle volte da lavoratori tenuti ostaggio dalla paura di perdere il posto. Si arriva, poi, alle finte collaborazioni che stanno trasformando i giovani precari in uno stuolo di vecchi. Il lavoro interinale che non permetterà mai una reale crescita del lavoratore, perché bisogna sempre ripartire da capo, e dal livello più basso.Primo Levi scriveva: “Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro, che purtroppo è privilegio di pochi, costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono”.
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Rapporto Nidil-Ires sui lavoratori precari.doc
Precarietà e incidenti sul lavoro, due facce di una stessa medaglia
Il 5 giugno è stato presentato il terzo rapporto Nidil-Cgil in collaborazione con l’Ires e la facoltà di Scienza della comunicazione de La Sapienza. I dati riferiti ai lavoratori parasubordinati afferenti alla Gestione separata Inps nel 2007, tra uomini e donne in tutto 1.566.978, ci raccontano una situazione italiana che, al confronto con l’Europa, è un’anomalia.Se il numero dei lavoratori a rischio precarietà è diminuito, passando dalle 855.388 unità del 2006 alle 836.493 dell’anno scorso, non ne è conseguito un miglioramento della loro condizione economica. Per i collaboratori a progetto, infatti, i redditi passano, negli anni 2005-2006-2007, da 8.400 a 8.800 euro annui, incremento che però non basta a recuperare l’inflazione reale.Eppure l’inversione di tendenza, riguardo ai lavoratori a rischio precarietà, quei lavoratori, cioè, che sono in possesso di contratto atipico con reddito esclusivo proveniente dal lavoro subordinato, c’è stata. Il rapporto è chiaro in tal senso: questo risultato è stato possibile grazie “all’attenzione che il Ministero del Lavoro ha attribuito nel 2006-2007 alla lotta alla precarietà e alle false collaborazioni; l’aumento del contributo pensionistico di ben 5 punti percentuali rispetto al reddito, che ha reso meno conveniente per le aziende il ricorso alle collaborazioni; gli incentivi alla stabilizzazione, che hanno introdotto una legislazione premiante per le aziende che trasformano le collaborazioni in lavoro dipendente”.La fotografia scattata dal rapporto evidenzia come il lavoro parasubordinato è destinato in media ai “giovani” quarantenni, mentre i collaboratori hanno un’età media intorno ai 34 anni. Lo studio poi affronta quella che viene definita condizione di “intrappolamento” nel lavoro flessibile: 6 lavoratori su 10 rimangono nell’impiego atipico per due anni di seguito e oltre il 37% per l’intero triennio preso in esame.La segretaria generale della Nidil, Filomena Trizio, ha affermato che il rapporto “conferma quanto siano necessarie, per affrontare il tema della precarietà, politiche adeguate, che sappiano contrastare i fenomeni degenerativi basati su mere convenienze di costo del lavoro e tenere la flessibilità su livelli fisiologici. Da qui la necessità e la responsabilità per il nuovo governo di mantenere e rafforzare l’indirizzo intrapreso dal precedente governo”.Parole importanti che si spera siano ascoltate. Una speranza questa che, però, rischia di rimanere disattesa, basti pensare al clima di sostanziale stallo che sta caratterizzando la discussione sulla sicurezza sul lavoro, con Confindustria che si dichiara fermamente contraria al decreto Damiano e al Testo Unico, e col Ministro del lavoro che tarda ad agire. O ancora la volontà più volte declamata, del ministro del Welfare Sacconi di abolire la legge 188, quella pensata da Sinistra Democratica e approvata quasi all’unanimità dallo scorso Parlamento che combatte la piaga dei falsi licenziamenti (chi volesse può sottoscrivere la petizione in difesa di quella legge che si trova sul nostro sito).Precarietà del lavoro e sicurezza sul posto di lavoro sono due facce della stessa medaglia, due esiti di una concezione del lavoro ormai considerato come merce. Proiettati in epoche che pensavamo superate grazie all’impegno e alle lotte di tante lavoratrici e lavoratori, per uno strano scherzo del destino ci troviamo di nuovo al punto di partenza, con la messa in discussione di diritti che, ormai, davamo per scontati, sbagliando di grosso. Il livello di guardia deve restare alto, non c’è altro atteggiamento da tenere, visti gli ultimi avvenimenti. Un motivetto vecchio di anni e di sangue ci torna alla mente alla notizia che l’Ue ha approvato la direttiva che prevede la possibilità di aumentare le ore lavorative fino a 60 settimanali. Se otto ore vi sembran poche…Come non incastrare tutto in un macabro puzzle. Le tessere combaciano alla perfezione. Quindi il pensiero va alle stragi sul lavoro. A quella avvenuta alla dodicesima ora, durante gli straordinari. Alla più recente tragedia che fa riflettere, ancora una volta, sulla completa mancanza di una cultura della sicurezza, di un totale disinteresse per la fase della formazione dei lavoratori, unico modo per prevenire quegli errori fatali, commessi il più delle volte da lavoratori tenuti ostaggio dalla paura di perdere il posto. Si arriva, poi, alle finte collaborazioni che stanno trasformando i giovani precari in uno stuolo di vecchi. Il lavoro interinale che non permetterà mai una reale crescita del lavoratore, perché bisogna sempre ripartire da capo, e dal livello più basso.Primo Levi scriveva: “Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro, che purtroppo è privilegio di pochi, costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra. Ma questa è una verità che non molti conoscono”.
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Rapporto Nidil-Ires sui lavoratori precari.doc
martedì 17 giugno 2008
Pescati nella Rete: idee per lo sviluppo
Dal sito www.sinistra-democratica.it
di Stefano Sylos Labini
Idee per lo sviluppo
Spesso i grandi cambiamenti si sono verificati in seguito ad eventi catastrofici come è accaduto dopo le due guerre mondiali e la grande crisi del 1929. Anche la caduta del comunismo all’inizio degli anni ’90 ha spalancato le porte ad imponenti processi di privatizzazione e di deregolamentazione che hanno contrassegnato l’evoluzione dell’economia mondiale negli ultimi quindici anni. Oggi si stanno delineando nuovi scenari che stanno mettendo in crisi il modello di sviluppo dominante e che vanno ricondotti in primo luogo alla comparsa di nuove aree produttive in cui vivono più di due miliardi di persone. Così, la tensione per la richiesta di energia e di generi alimentari, che viene amplificata dalla speculazione finanziaria, sta mettendo a rischio il già precario livello di vita delle fasce sociali più deboli del pianeta, mentre sono sempre più preoccupanti gli effetti dell’attività umana sull’ambiente e sul clima globale. Sia l’uomo della strada che gli imprenditori e i politici stanno diventando più consapevoli che se non si metteranno in atto misure per cambiare i modelli di produzione e di consumo e se non ci sarà una più equa distribuzione della ricchezza la nostra economia e la nostra società saranno oggetto di un pesante impoverimento e di un peggioramento delle condizioni di convivenza civile. Molti ormai sono convinti che accanto alla libera iniziativa privata ci debba essere un incisivo intervento dello Stato il quale deve orientare e guidare il processo di sviluppo. Non si tratta di spingere l’espansione della burocrazia e dell’apparato statale che ha perso di credibilità e si è spesso rivelato inefficiente e corrotto. Il compito dello Stato è invece quello di canalizzare le risorse finanziarie verso i settori strategici dell’economia come l’energia e l’agricoltura, l’istruzione e le infrastrutture, ed impegnarsi per potenziare gli investimenti e l’innovazione nelle fonti rinnovabili, nell’efficienza energetica, nei mezzi di trasporto ecologici, negli impianti per la selezione, il trattamento e il riciclaggio dei rifiuti. Nel contempo, lo Stato può intervenire attraverso una politica di regolamentazione per vietare i prodotti e i comportamenti che entrano in conflitto con i beni comuni, come la sicurezza dei cittadini e la salvaguardia dell’ambiente. Bisogna dire che per alcuni versi il centrodestra ha presentato dei piani di intervento ben più diretti, anche se non condivisibili, rispetto al Partito Democratico. Quest’ultimo, dopo aver effettuato delle privatizzazioni aberranti come Telecom e Autostrade, si è inchinato all’ideologia della concorrenza e delle liberalizzazioni senza capire che in diversi settori come quello energetico, bancario, assicurativo, vi è il dominio di pochi produttori che controllano e si spartiscono il mercato. Il centrodestra sta invece proponendo degli interventi estremamente centralizzati come il rilancio dell’energia nucleare e la costruzione del Ponte di Messina che, se da un lato sono più in linea con una politica di programmazione dello sviluppo quale deve essere una politica di sinistra, non sono però condivisibili poiché si tratta di scelte molto costose, impraticabili, con tempi lunghi e dai ritorni incerti. Dunque, le forze di sinistra non solo devono difendere i diritti dei lavoratori ed i redditi delle fasce sociali più deboli oltre ad impegnarsi nella salvaguardia dell’ambiente e del territorio, ma hanno anche il compito di proporre un progetto di sviluppo su cui attirare il consenso della maggioranza della popolazione, un progetto che sia fattibile e conveniente da un punto di vista economico e industriale. Gli obiettivi sono quelli di rilanciare gli investimenti sia pubblici che privati per modernizzare il sistema di produzione e le infrastrutture, di ridurre il divario tra il Mezzogiorno e il resto del Paese e di promuovere una politica volta a contrastare gli sprechi di risorse, materiali ed energia che in certi settori come quello dei trasporti e dei consumi di massa raggiungono livelli altissimi. Per quanto riguarda gli investimenti, considerando le ristrettezze del bilancio pubblico, sarà necessario coinvolgere le banche in un nuovo patto sociale insieme ai sindacati e alle imprese per il finanziamento degli investimenti privati e spingere le grandi società energetiche ancora sotto il controllo dello Stato come ENI ed ENEL ad aumentare in modo consistente le spese in ricerca e sviluppo e gli investimenti nelle fonti rinnovabili sul territorio nazionale. Nel contempo, occorrerà spendere al meglio i cospicui finanziamenti europei e nazionali per il Mezzogiorno ed agire a livello europeo per riformare la Politica Agricola Comune e per lanciare dei titoli obbligazionari sulla traccia del Piano Delors. In conclusione, bisogna creare una rete in cui siano coinvolte tutte le associazioni e i movimenti che operano sul territorio e nella società civile, gli attori istituzionali e i raggruppamenti politici che si possono riconoscere in una piattaforma programmatica volta a coniugare equità, sviluppo e difesa dell’ambiente. La rete deve dotarsi di un centro di coordinamento unitario per aggregare le componenti sulle varie iniziative. Bisognerà impegnarsi per mobilitare: 1. le fasce sociali più deboli; 2. le forze finanziarie e imprenditoriali più illuminate; 3. i settori della pubblica amministrazione, come quello degli insegnanti, che avranno un ruolo strategico nella formazione delle nuove leve. L’obiettivo è quello di costruire una nuova forza politica che possa presentarsi alle elezioni europee del 2009 con una struttura organizzativa solida, una chiara strategia ed obiettivi realistici.
di Stefano Sylos Labini
Idee per lo sviluppo
Spesso i grandi cambiamenti si sono verificati in seguito ad eventi catastrofici come è accaduto dopo le due guerre mondiali e la grande crisi del 1929. Anche la caduta del comunismo all’inizio degli anni ’90 ha spalancato le porte ad imponenti processi di privatizzazione e di deregolamentazione che hanno contrassegnato l’evoluzione dell’economia mondiale negli ultimi quindici anni. Oggi si stanno delineando nuovi scenari che stanno mettendo in crisi il modello di sviluppo dominante e che vanno ricondotti in primo luogo alla comparsa di nuove aree produttive in cui vivono più di due miliardi di persone. Così, la tensione per la richiesta di energia e di generi alimentari, che viene amplificata dalla speculazione finanziaria, sta mettendo a rischio il già precario livello di vita delle fasce sociali più deboli del pianeta, mentre sono sempre più preoccupanti gli effetti dell’attività umana sull’ambiente e sul clima globale. Sia l’uomo della strada che gli imprenditori e i politici stanno diventando più consapevoli che se non si metteranno in atto misure per cambiare i modelli di produzione e di consumo e se non ci sarà una più equa distribuzione della ricchezza la nostra economia e la nostra società saranno oggetto di un pesante impoverimento e di un peggioramento delle condizioni di convivenza civile. Molti ormai sono convinti che accanto alla libera iniziativa privata ci debba essere un incisivo intervento dello Stato il quale deve orientare e guidare il processo di sviluppo. Non si tratta di spingere l’espansione della burocrazia e dell’apparato statale che ha perso di credibilità e si è spesso rivelato inefficiente e corrotto. Il compito dello Stato è invece quello di canalizzare le risorse finanziarie verso i settori strategici dell’economia come l’energia e l’agricoltura, l’istruzione e le infrastrutture, ed impegnarsi per potenziare gli investimenti e l’innovazione nelle fonti rinnovabili, nell’efficienza energetica, nei mezzi di trasporto ecologici, negli impianti per la selezione, il trattamento e il riciclaggio dei rifiuti. Nel contempo, lo Stato può intervenire attraverso una politica di regolamentazione per vietare i prodotti e i comportamenti che entrano in conflitto con i beni comuni, come la sicurezza dei cittadini e la salvaguardia dell’ambiente. Bisogna dire che per alcuni versi il centrodestra ha presentato dei piani di intervento ben più diretti, anche se non condivisibili, rispetto al Partito Democratico. Quest’ultimo, dopo aver effettuato delle privatizzazioni aberranti come Telecom e Autostrade, si è inchinato all’ideologia della concorrenza e delle liberalizzazioni senza capire che in diversi settori come quello energetico, bancario, assicurativo, vi è il dominio di pochi produttori che controllano e si spartiscono il mercato. Il centrodestra sta invece proponendo degli interventi estremamente centralizzati come il rilancio dell’energia nucleare e la costruzione del Ponte di Messina che, se da un lato sono più in linea con una politica di programmazione dello sviluppo quale deve essere una politica di sinistra, non sono però condivisibili poiché si tratta di scelte molto costose, impraticabili, con tempi lunghi e dai ritorni incerti. Dunque, le forze di sinistra non solo devono difendere i diritti dei lavoratori ed i redditi delle fasce sociali più deboli oltre ad impegnarsi nella salvaguardia dell’ambiente e del territorio, ma hanno anche il compito di proporre un progetto di sviluppo su cui attirare il consenso della maggioranza della popolazione, un progetto che sia fattibile e conveniente da un punto di vista economico e industriale. Gli obiettivi sono quelli di rilanciare gli investimenti sia pubblici che privati per modernizzare il sistema di produzione e le infrastrutture, di ridurre il divario tra il Mezzogiorno e il resto del Paese e di promuovere una politica volta a contrastare gli sprechi di risorse, materiali ed energia che in certi settori come quello dei trasporti e dei consumi di massa raggiungono livelli altissimi. Per quanto riguarda gli investimenti, considerando le ristrettezze del bilancio pubblico, sarà necessario coinvolgere le banche in un nuovo patto sociale insieme ai sindacati e alle imprese per il finanziamento degli investimenti privati e spingere le grandi società energetiche ancora sotto il controllo dello Stato come ENI ed ENEL ad aumentare in modo consistente le spese in ricerca e sviluppo e gli investimenti nelle fonti rinnovabili sul territorio nazionale. Nel contempo, occorrerà spendere al meglio i cospicui finanziamenti europei e nazionali per il Mezzogiorno ed agire a livello europeo per riformare la Politica Agricola Comune e per lanciare dei titoli obbligazionari sulla traccia del Piano Delors. In conclusione, bisogna creare una rete in cui siano coinvolte tutte le associazioni e i movimenti che operano sul territorio e nella società civile, gli attori istituzionali e i raggruppamenti politici che si possono riconoscere in una piattaforma programmatica volta a coniugare equità, sviluppo e difesa dell’ambiente. La rete deve dotarsi di un centro di coordinamento unitario per aggregare le componenti sulle varie iniziative. Bisognerà impegnarsi per mobilitare: 1. le fasce sociali più deboli; 2. le forze finanziarie e imprenditoriali più illuminate; 3. i settori della pubblica amministrazione, come quello degli insegnanti, che avranno un ruolo strategico nella formazione delle nuove leve. L’obiettivo è quello di costruire una nuova forza politica che possa presentarsi alle elezioni europee del 2009 con una struttura organizzativa solida, una chiara strategia ed obiettivi realistici.
Pescati nella Rete: Fabrizio Cicchitto
dal sito www.lastampa.it
16/6/2008
Il fascino discreto di Gramsci
FABRIZIO CICCHITTO
Gentile direttore, la singolarità della figura di Gramsci sta nel fatto che per un verso essa è tutta collocata nella storia del Pcd’I degli anni Venti e Trenta, che per altro verso ha sviluppato una elaborazione culturale utilizzata da Togliatti e dal Pci dagli anni Quaranta agli anni Settanta, e che un aspetto della sua riflessione, con i dovuti cambiamenti, può essere tuttora utilizzata da qualunque forza politica, quindi, come ha scritto Lucia Annunziata, paradossalmente anche dal centro-destra.Il nocciolo duro dei Quaderni dal carcere è costituito dalla riflessione sulle ragioni della sconfitta del leninismo, inteso come rottura rivoluzionaria, nell'Occidente. Gramsci ha rintracciato queste ragioni innanzitutto nell'esistenza nell'Occidente di una robusta società civile che non consentiva le scorciatoie trovate da Lenin e da Trockij («la rivolta contro il capitale», appunto) nella Russia zarista. Allora nei Quaderni si è posto il problema di quale doveva essere la strategia del movimento comunista nell'Occidente e l'ha identificata in quella che è stata chiamata la conquista dell'egemonia: in una società dominata sul terreno delle forze produttive dal capitalismo e sul terreno politico da conservatori, moderati e riformisti, l'obiettivo dei comunisti deve essere quello della graduale conquista del «cervello» di quella società, cioè delle sue casematte ideologico-culturali: la scuola, le case editrici, le redazioni dei giornali, la magistratura, l'elaborazione culturale e l'organizzazione della cultura in quanto tali. Partendo da tale lavorio nel profondo e sfruttando le eventuali crisi organiche di un determinato sistema economico-sociale-politico di stampo capitalista e moderato, un partito comunista dell'Occidente sarebbe potuto risalire alla conquista del totale potere politico.La nozione gramsciana di egemonia, presa nella sua organicità, è caratterizzata da un totalitarismo sottile e sofisticato, diverso da quello rozzo e criminale dello stalinismo, ma comunque pervasivo e pericoloso. Togliatti ebbe la genialità di depurare il lascito gramsciano di tutti i suoi elementi ereticali rispetto allo stalinismo e si pose l'obiettivo di lavorare per superare la vittoria politica di De Gasperi e della Dc, attraverso l'esercizio dell'egemonia sul piano culturale e quindi con la graduale conquista delle casematte ideologico-istituzionali-giudiziarie del sistema. Su questo piano il Pci è stato di una bravura straordinaria anche approfittando della distrazione della Dc e poi del Psi e dei partiti laici su questo terreno.L'importanza di questa operazione si è vista in una fase di crisi organica del sistema, dal 1989 al 1994, quando in seguito al crollo del muro di Berlino e all'adesione dell'Italia al trattato di Mastricht sono venuti meno alcuni dei fondamenti della Prima Repubblica, dall'assenza della concorrenza sul piano economico alla dialettica comunismo-anticomunismo sul piano politico. A quel punto la forza più attrezzata sul terreno del controllo delle casematte ideologico-culturali (giornali e magistratura), cioè il Pci-Pds, ha avuto gli strumenti insieme mediatici e operativi-militari per liquidare le altre (la Dc, il Psi, i partiti laici) come è avvenuto con Tangentopoli. Subito dopo, però, questa forza è stata messa in questione da chi, come Berlusconi - non per un disegno politico precostituito, ma anzi per via imprenditoriale - si era dotato di un mezzo, la presenza sul terreno della televisione privata, che, almeno nella fase iniziale, si è rivelato in grado di contestare il peso e il ruolo esercitato appunto da alcune delle «casematte tradizionali» (in primo luogo la carta stampata e la magistratura fortemente collegate). A ciò si sono aggiunti un nuovo modo di fare politica e la demistificazione dell'egemonia culturale della sinistra attraverso la valorizzazione di autori e culture cattoliche e liberalsocialiste fino ad allora emarginate e neglette.Allora, a mio avviso, un «pezzo» dell'elaborazione gramsciana ha tuttora una sua modernità, a condizione che la si sottoponga a una duplice operazione culturale: quella di considerare Antonio Gramsci nel suo contesto storico e nella sua organica collocazione nella storia comunista e quella di relativizzare e storicizzare la nozione di egemonia che, presa nella sua globalità, ha una organica valenza totalitaria. Invece, se utilizziamo una nozione relativizzata di egemonia ridimensionandola al ruolo di strumento di quella «battaglia delle idee» che è uno degli elementi della lotta politica (relativismo che non è in Gramsci), allora parliamo di una categoria che ha tuttora una sua validità e funzione e che ogni schieramento politico deve essere in grado di esercitare al di fuori di ogni pretesa totalizzante. Nel passato il fatto di non essersi posto il problema della battaglia culturale è stato un punto debole della Dc. Su questo terreno, oggi, il centro-destra ha comportamenti contradditori ma delle carte da giocare, mentre la sinistra sta perdendo colpi per la crisi devastante della sua cultura: essa si difende per la permanente potenza della sua organizzazione culturale e della conseguente gestione del potere che finora è servita ad attutire gli effetti della disintegrazione del suo messaggio globale.Presidente del Gruppo parlamentare del Popolo della Libertà alla Camera
16/6/2008
Il fascino discreto di Gramsci
FABRIZIO CICCHITTO
Gentile direttore, la singolarità della figura di Gramsci sta nel fatto che per un verso essa è tutta collocata nella storia del Pcd’I degli anni Venti e Trenta, che per altro verso ha sviluppato una elaborazione culturale utilizzata da Togliatti e dal Pci dagli anni Quaranta agli anni Settanta, e che un aspetto della sua riflessione, con i dovuti cambiamenti, può essere tuttora utilizzata da qualunque forza politica, quindi, come ha scritto Lucia Annunziata, paradossalmente anche dal centro-destra.Il nocciolo duro dei Quaderni dal carcere è costituito dalla riflessione sulle ragioni della sconfitta del leninismo, inteso come rottura rivoluzionaria, nell'Occidente. Gramsci ha rintracciato queste ragioni innanzitutto nell'esistenza nell'Occidente di una robusta società civile che non consentiva le scorciatoie trovate da Lenin e da Trockij («la rivolta contro il capitale», appunto) nella Russia zarista. Allora nei Quaderni si è posto il problema di quale doveva essere la strategia del movimento comunista nell'Occidente e l'ha identificata in quella che è stata chiamata la conquista dell'egemonia: in una società dominata sul terreno delle forze produttive dal capitalismo e sul terreno politico da conservatori, moderati e riformisti, l'obiettivo dei comunisti deve essere quello della graduale conquista del «cervello» di quella società, cioè delle sue casematte ideologico-culturali: la scuola, le case editrici, le redazioni dei giornali, la magistratura, l'elaborazione culturale e l'organizzazione della cultura in quanto tali. Partendo da tale lavorio nel profondo e sfruttando le eventuali crisi organiche di un determinato sistema economico-sociale-politico di stampo capitalista e moderato, un partito comunista dell'Occidente sarebbe potuto risalire alla conquista del totale potere politico.La nozione gramsciana di egemonia, presa nella sua organicità, è caratterizzata da un totalitarismo sottile e sofisticato, diverso da quello rozzo e criminale dello stalinismo, ma comunque pervasivo e pericoloso. Togliatti ebbe la genialità di depurare il lascito gramsciano di tutti i suoi elementi ereticali rispetto allo stalinismo e si pose l'obiettivo di lavorare per superare la vittoria politica di De Gasperi e della Dc, attraverso l'esercizio dell'egemonia sul piano culturale e quindi con la graduale conquista delle casematte ideologico-istituzionali-giudiziarie del sistema. Su questo piano il Pci è stato di una bravura straordinaria anche approfittando della distrazione della Dc e poi del Psi e dei partiti laici su questo terreno.L'importanza di questa operazione si è vista in una fase di crisi organica del sistema, dal 1989 al 1994, quando in seguito al crollo del muro di Berlino e all'adesione dell'Italia al trattato di Mastricht sono venuti meno alcuni dei fondamenti della Prima Repubblica, dall'assenza della concorrenza sul piano economico alla dialettica comunismo-anticomunismo sul piano politico. A quel punto la forza più attrezzata sul terreno del controllo delle casematte ideologico-culturali (giornali e magistratura), cioè il Pci-Pds, ha avuto gli strumenti insieme mediatici e operativi-militari per liquidare le altre (la Dc, il Psi, i partiti laici) come è avvenuto con Tangentopoli. Subito dopo, però, questa forza è stata messa in questione da chi, come Berlusconi - non per un disegno politico precostituito, ma anzi per via imprenditoriale - si era dotato di un mezzo, la presenza sul terreno della televisione privata, che, almeno nella fase iniziale, si è rivelato in grado di contestare il peso e il ruolo esercitato appunto da alcune delle «casematte tradizionali» (in primo luogo la carta stampata e la magistratura fortemente collegate). A ciò si sono aggiunti un nuovo modo di fare politica e la demistificazione dell'egemonia culturale della sinistra attraverso la valorizzazione di autori e culture cattoliche e liberalsocialiste fino ad allora emarginate e neglette.Allora, a mio avviso, un «pezzo» dell'elaborazione gramsciana ha tuttora una sua modernità, a condizione che la si sottoponga a una duplice operazione culturale: quella di considerare Antonio Gramsci nel suo contesto storico e nella sua organica collocazione nella storia comunista e quella di relativizzare e storicizzare la nozione di egemonia che, presa nella sua globalità, ha una organica valenza totalitaria. Invece, se utilizziamo una nozione relativizzata di egemonia ridimensionandola al ruolo di strumento di quella «battaglia delle idee» che è uno degli elementi della lotta politica (relativismo che non è in Gramsci), allora parliamo di una categoria che ha tuttora una sua validità e funzione e che ogni schieramento politico deve essere in grado di esercitare al di fuori di ogni pretesa totalizzante. Nel passato il fatto di non essersi posto il problema della battaglia culturale è stato un punto debole della Dc. Su questo terreno, oggi, il centro-destra ha comportamenti contradditori ma delle carte da giocare, mentre la sinistra sta perdendo colpi per la crisi devastante della sua cultura: essa si difende per la permanente potenza della sua organizzazione culturale e della conseguente gestione del potere che finora è servita ad attutire gli effetti della disintegrazione del suo messaggio globale.Presidente del Gruppo parlamentare del Popolo della Libertà alla Camera
lunedì 16 giugno 2008
Pescati nella Rete: Michele Prospero
Dal sito ww.sinistra-democratica.it
Una nuova cultura politica, una prontezza organizzativa
Dopo una sconfitta così bruciante come quella di aprile occorre davvero una sinistra radicale, cioè capace di porsi le domande che penetrino fino alla radici e di rintracciare i nudi fondamenti delle questioni cruciali senza inutili infingimenti. E’ evidente il quadro di partenza. Un Pd in difficoltà in cui abitano anime diverse, una leadership fiaccata e senza una strategia politica consapevole delle scadenze del medio periodo. La sua navigazione è incerta (all’insegna di un moscio governo ombra in salsa neoconsociativa) e precaria sembra una sua stabilizzazione come partito, non come mero cartello elettorale, peraltro eroso dalla debacle elettorale e esposto persino al vento delle devastanti scissioni. E inoltre (e fuori del parlamento) una sinistra residuale che al momento vive più come stato d’animo diffuso che come soggetto politico. Se ancora per molto si continuerà a non dare sbocchi politici organizzativi convincenti ad una domanda di sinistra rimasta inevasa dopo la nascita del Pd, il rischio più concreto è la completa polverizzazione di ogni cultura critica. In fasi come questa, cultura e organizzazione sono profondamente intrecciate. Occorre un pensiero politico che scavi oltre la superficie (e quindi al di là di domande fasulle che appartengono ad un’altra fase storica, e pertanto palesemente fuorvianti) e una prontezza organizzativa che consenta al movimento di uscire dalla sua provvisorietà. Analisi cruda e iniziativa curiosa nel territorio alla ricerca di nuovi quadri politici sono congiunti se non si vuole diffondere la sensazione sgradevole di girare a vuoto in attesa di chissà quali eventi favorevoli capaci di ridare un po’ di fiato.Da dove ripartire per sfidare, per quanto possibile e con il necessario realismo, gli eventi con l’intenzione di aprire una prospettiva politica nuova? Marx diceva che “la politica è studio. Pensare con rigore logico ed esprimere chiaramente i pensieri: ciò impone di studiare. Studiare, studiare!”. Se una sinistra avrà la forza di rinascere (e la cosa è tutt’altro che scontata) non potrà anzitutto che proporsi come una cultura politica vivente in grado di ridare un senso all’agire collettivo dopo la catastrofe. L’irreparabile degrado della politica ridotta a casta, a pratiche spicciole di potere è ben visibile da ultimo nelle tristi vicende di Genova. Le esperienze amministrative condotte in questi anni di post-politica, a sud in maniera ancora più degradante, rivelano il crollo valoriale della politica. Affari, compromessi opachi, carriere blindate e niente passione civile, nessuna cura nel diffondere responsabilità e nel costruire nuove classi dirigenti. Non è una pura questione morale: questo tipo di politica che definisce blocchi di potere privati non può essere riformata, occorre la forza per imporre una diversa pratica della politica. Non basta a definire la sinistra, ma la politica come militanza disinteressata è, nelle condizioni di assoluto degrado del vivere civile, una risorsa preliminare senza la quale non si riparte (e trovare in giro energie da mobilitare in tale direzione non sarà affatto agevole). Solo investendo con estrema coerenza su questo senso ormai fin troppo residuale della politica come cultura civile è possibile provare a riannodare legami con quel che è rimasto (neppure questo è scontato) di disinteressato e curioso nella società. Se non si coglie nella sconfitta elettorale anche il segno della catastrofe di una politica ridotta a economia e a occasione di scalata sociale, allora non si farà alcun passo concreto per riproporre con credibilità la questione della sinistra oggi. Non si può predicare una nuova politica senza nel contempo impostare una battaglia visibile per la disincentivazione economica delle cariche elettive, la cui conquista è spesso l’unico motivo delle aspre contese all’interno dei partiti. Più soldi alla politica come analisi e partecipazione meno ai politici come ceto di professione è forse il requisito di una risposta non qualunquistica al tema dei costi della casta. Il fatto è che la remunerazione sin troppo abnorme delle cariche elettive rende il politico un ceto economicamente privilegiato le cui fortune esagerate cancellano ogni significato alla capacità di rappresentanza, come si evince dalla lettera degli operai di Melfi. La battaglia contro un sistema viziato dalla corruzione intellettuale che induce all’omologazione in un ceto politico autoreferenziale è il primo tassello di una ripresa democratica. Non è un caso che più la politica stringe legami con l’economia, la finanza, i facili guadagni e più essa decade nella sua capacità di esprimere classi dirigenti di elevata qualità (una tale politica degenerata ha bisogno di clienti, non di militanti, di conformisti non di competenza). Su questo immenso deserto ha potuto vincere l’antipolitica e ha potuto maturare l’eutanasia di una grande forza della sinistra. L’Italia reale è diventata così degradata nella sua struttura civile che la politica è essa stessa parte di un collasso più generale e non ha risorse per indicare prospettive diverse. Accade perciò che una situazione politica assai delicata, una sorta di passaggio dal berlusconismo movimento al berlusconismo regime, venga affrontata dalla “opposizione” parlamentare con le mitiche etichette di Westminster che prevedono governo ombra e fair play istituzionale ma non escludono battaglie rigorose e intransigenti. E’ chiaro che i segnali di regressione democratica si moltiplicano proprio mentre dall’opposizione parlamentare proviene un inconfondibile segnale di sciogliete le righe. Si sta passando ad un regime opaco nella completa sensazione di impotenza, di resa alla forza degli eventi, di pigrizia dinanzi alle esigenze di una lettura critica del processo. Dalla ipotesi di “scuola” avanzata da Berlusconi dopo il voto per le dimissioni del capo dello Stato, al ricorso (poi ricusato) allo strumento del decreto per materie come le intercettazioni che prevedevano pene e toccavano garanzie, è evidente che la cultura delle regole non esiste nella destra. Quando poi cantanti e uomini della cultura di massa si affrettano a consegnare attestati di modernità a Berlusconi e il papa dichiara la sua “gioia” per il nuovo clima politico, lo sfaldamento etico-politico in corso assume proporzioni di guardia. Si sta realizzando a tappe accelerate l’ingresso in una democrazia opaca in cui certo si vota ancora (con una legge incostituzionale che dà un premio di maggioranza del 55 per cento quale che sia l’entità dei voti raccolti , e quindi risolve in origine l’enigma della governabilità, e poi però aggiunge un ulteriore elemento selettivo come quello dello sbarramento) ma i valori della costituzione (quali sono i valori se le cariche istituzionali indicano in Almirante uno dei padri della patria?) e gli organi di garanzia sono di fatto svuotati. Plebi che osannano il capo, campioni della gangster economy intrecciata così in profondità con la new economy, lavoro autonomo e del commercio, piccola impresa diffusa definiscono il blocco sociale granitico di questa destra pronta a tramutarsi in silenzioso regime. Agli egoismi sociali più sfrenati, alle idiosincrasie primitive contro il fisco, la destra aggiunge una copertura etica concessa dalla chiesa dei tempi nuovi (anzi antichi) e dalla rivolta contro lo straniero, il clandestino, il rom, il nomade. Il fatto è che la sinistra che con giusta coerenza si batte per i diritti civili elementari o contro ogni diritto penale a base etnica viene percepita oggi come estranea proprio dai ceti popolari che hanno introiettato il senso comune della insicurezza come minaccia prioritaria. Il problema non è affatto quello di diminuire la doverosa sensibilità per i diritti individuali violati, come suggeriscono inopinatamente i tanti sindaci sceriffi, ma quello di tornare ad essere una potenza sociale reale che nel territorio costruisce una cultura civile e inaugura battaglie concrete per i diritti. Solo se la sinistra ricostruisce le forze materiali di una potenza sociale che conquista spazi di vita (nell’Europa che in nome della sacralità del contratto individuale propone di allungare il tempo di lavoro a 60 ore settimanali!) può difendere anche i diritti nuovi e antichi delle persone. La xenofobia può essere sconfitta solo se la sinistra radica nei ceti popolari culture nuove capaci di smascherare l’operazione della destra che trasforma le battaglie per i diritti materiali indispensabili in caccia alle streghe in nome di una identità etico-religiosa violata. La sicurezza può tornare ad essere semplicemente uno dei problemi da risolvere e non il solo problema-incubo soltanto quando la sinistra avrà la forza per colpire tutte le insicurezze del tempo postmoderno (nel lavoro, nella cura, nella professione, nella casa, nella città). Invece di sterili questioni e di schematismi astratti, la sinistra dovrebbe trovare le coordinate culturali per dare organizzazione (e quindi sbocco politico) ai disagi dei tempi postmoderni. Tutte le categorie della politica vanno modulate attorno agli specifici malesseri sociali espressi da questo specifico tempo storico che produce nuove esclusioni e permanenti marginalità senza possibilità alcuna di confidare in uno spazio pubblico. Nessun ricordo suggerito dall’ideologia, ma la fotografia realistica di ciò che oggi esiste nell’ipercapitalismo dovrebbe indurre a porre di nuovo al centro dell’agenda il disagio del corpo che lavora e vive nell’insicurezza dopo il declino del salario e il riflusso di ogni politica pubblica efficace. Generazioni intere di flessibili a tempo indeterminato, di lavoratori che a 50 anni già riempiono le lunghe liste di mobilità, di lavoratori cognitivi che non trovano alcun riconoscimento del merito, di persone che guadagnano quanto basta per pagare l’affitto o il mutuo, non aspettano che nel laboratorio annebbiato di una sinistra smarrita qualcuno riproponga, a tempo ormai scaduto, una sintesi di socialismo europeo e di comunismo italiano. Il problema non è questo, la sinistra (in Italia e in Europa, nelle sue versioni radicali e riformiste) deve tornare più semplicemente ad essere quel movimento reale che contrasta le potenze reali dominanti e conquista sul campo del conflitto sociale e politico i diritti essenziali per la persona che lavora. Tutto il resto è solo chiacchiera, archeologia che non servirà alla sinistra (radicale o riformista) per risollevarsi. Oggi non esiste maggiore prova di un sobrio realismo politico di quella che riannoda gli interessi del lavoro, del cervello sociale diffuso nella società della conoscenza, come sostrato di una nuova cittadinanza.
*professore di Filosofia del Diritto e di scienza politica presso la facoltà di Scienze della comunicazione della `Sapienza`del Comitato Promotore di Sd
Una nuova cultura politica, una prontezza organizzativa
Dopo una sconfitta così bruciante come quella di aprile occorre davvero una sinistra radicale, cioè capace di porsi le domande che penetrino fino alla radici e di rintracciare i nudi fondamenti delle questioni cruciali senza inutili infingimenti. E’ evidente il quadro di partenza. Un Pd in difficoltà in cui abitano anime diverse, una leadership fiaccata e senza una strategia politica consapevole delle scadenze del medio periodo. La sua navigazione è incerta (all’insegna di un moscio governo ombra in salsa neoconsociativa) e precaria sembra una sua stabilizzazione come partito, non come mero cartello elettorale, peraltro eroso dalla debacle elettorale e esposto persino al vento delle devastanti scissioni. E inoltre (e fuori del parlamento) una sinistra residuale che al momento vive più come stato d’animo diffuso che come soggetto politico. Se ancora per molto si continuerà a non dare sbocchi politici organizzativi convincenti ad una domanda di sinistra rimasta inevasa dopo la nascita del Pd, il rischio più concreto è la completa polverizzazione di ogni cultura critica. In fasi come questa, cultura e organizzazione sono profondamente intrecciate. Occorre un pensiero politico che scavi oltre la superficie (e quindi al di là di domande fasulle che appartengono ad un’altra fase storica, e pertanto palesemente fuorvianti) e una prontezza organizzativa che consenta al movimento di uscire dalla sua provvisorietà. Analisi cruda e iniziativa curiosa nel territorio alla ricerca di nuovi quadri politici sono congiunti se non si vuole diffondere la sensazione sgradevole di girare a vuoto in attesa di chissà quali eventi favorevoli capaci di ridare un po’ di fiato.Da dove ripartire per sfidare, per quanto possibile e con il necessario realismo, gli eventi con l’intenzione di aprire una prospettiva politica nuova? Marx diceva che “la politica è studio. Pensare con rigore logico ed esprimere chiaramente i pensieri: ciò impone di studiare. Studiare, studiare!”. Se una sinistra avrà la forza di rinascere (e la cosa è tutt’altro che scontata) non potrà anzitutto che proporsi come una cultura politica vivente in grado di ridare un senso all’agire collettivo dopo la catastrofe. L’irreparabile degrado della politica ridotta a casta, a pratiche spicciole di potere è ben visibile da ultimo nelle tristi vicende di Genova. Le esperienze amministrative condotte in questi anni di post-politica, a sud in maniera ancora più degradante, rivelano il crollo valoriale della politica. Affari, compromessi opachi, carriere blindate e niente passione civile, nessuna cura nel diffondere responsabilità e nel costruire nuove classi dirigenti. Non è una pura questione morale: questo tipo di politica che definisce blocchi di potere privati non può essere riformata, occorre la forza per imporre una diversa pratica della politica. Non basta a definire la sinistra, ma la politica come militanza disinteressata è, nelle condizioni di assoluto degrado del vivere civile, una risorsa preliminare senza la quale non si riparte (e trovare in giro energie da mobilitare in tale direzione non sarà affatto agevole). Solo investendo con estrema coerenza su questo senso ormai fin troppo residuale della politica come cultura civile è possibile provare a riannodare legami con quel che è rimasto (neppure questo è scontato) di disinteressato e curioso nella società. Se non si coglie nella sconfitta elettorale anche il segno della catastrofe di una politica ridotta a economia e a occasione di scalata sociale, allora non si farà alcun passo concreto per riproporre con credibilità la questione della sinistra oggi. Non si può predicare una nuova politica senza nel contempo impostare una battaglia visibile per la disincentivazione economica delle cariche elettive, la cui conquista è spesso l’unico motivo delle aspre contese all’interno dei partiti. Più soldi alla politica come analisi e partecipazione meno ai politici come ceto di professione è forse il requisito di una risposta non qualunquistica al tema dei costi della casta. Il fatto è che la remunerazione sin troppo abnorme delle cariche elettive rende il politico un ceto economicamente privilegiato le cui fortune esagerate cancellano ogni significato alla capacità di rappresentanza, come si evince dalla lettera degli operai di Melfi. La battaglia contro un sistema viziato dalla corruzione intellettuale che induce all’omologazione in un ceto politico autoreferenziale è il primo tassello di una ripresa democratica. Non è un caso che più la politica stringe legami con l’economia, la finanza, i facili guadagni e più essa decade nella sua capacità di esprimere classi dirigenti di elevata qualità (una tale politica degenerata ha bisogno di clienti, non di militanti, di conformisti non di competenza). Su questo immenso deserto ha potuto vincere l’antipolitica e ha potuto maturare l’eutanasia di una grande forza della sinistra. L’Italia reale è diventata così degradata nella sua struttura civile che la politica è essa stessa parte di un collasso più generale e non ha risorse per indicare prospettive diverse. Accade perciò che una situazione politica assai delicata, una sorta di passaggio dal berlusconismo movimento al berlusconismo regime, venga affrontata dalla “opposizione” parlamentare con le mitiche etichette di Westminster che prevedono governo ombra e fair play istituzionale ma non escludono battaglie rigorose e intransigenti. E’ chiaro che i segnali di regressione democratica si moltiplicano proprio mentre dall’opposizione parlamentare proviene un inconfondibile segnale di sciogliete le righe. Si sta passando ad un regime opaco nella completa sensazione di impotenza, di resa alla forza degli eventi, di pigrizia dinanzi alle esigenze di una lettura critica del processo. Dalla ipotesi di “scuola” avanzata da Berlusconi dopo il voto per le dimissioni del capo dello Stato, al ricorso (poi ricusato) allo strumento del decreto per materie come le intercettazioni che prevedevano pene e toccavano garanzie, è evidente che la cultura delle regole non esiste nella destra. Quando poi cantanti e uomini della cultura di massa si affrettano a consegnare attestati di modernità a Berlusconi e il papa dichiara la sua “gioia” per il nuovo clima politico, lo sfaldamento etico-politico in corso assume proporzioni di guardia. Si sta realizzando a tappe accelerate l’ingresso in una democrazia opaca in cui certo si vota ancora (con una legge incostituzionale che dà un premio di maggioranza del 55 per cento quale che sia l’entità dei voti raccolti , e quindi risolve in origine l’enigma della governabilità, e poi però aggiunge un ulteriore elemento selettivo come quello dello sbarramento) ma i valori della costituzione (quali sono i valori se le cariche istituzionali indicano in Almirante uno dei padri della patria?) e gli organi di garanzia sono di fatto svuotati. Plebi che osannano il capo, campioni della gangster economy intrecciata così in profondità con la new economy, lavoro autonomo e del commercio, piccola impresa diffusa definiscono il blocco sociale granitico di questa destra pronta a tramutarsi in silenzioso regime. Agli egoismi sociali più sfrenati, alle idiosincrasie primitive contro il fisco, la destra aggiunge una copertura etica concessa dalla chiesa dei tempi nuovi (anzi antichi) e dalla rivolta contro lo straniero, il clandestino, il rom, il nomade. Il fatto è che la sinistra che con giusta coerenza si batte per i diritti civili elementari o contro ogni diritto penale a base etnica viene percepita oggi come estranea proprio dai ceti popolari che hanno introiettato il senso comune della insicurezza come minaccia prioritaria. Il problema non è affatto quello di diminuire la doverosa sensibilità per i diritti individuali violati, come suggeriscono inopinatamente i tanti sindaci sceriffi, ma quello di tornare ad essere una potenza sociale reale che nel territorio costruisce una cultura civile e inaugura battaglie concrete per i diritti. Solo se la sinistra ricostruisce le forze materiali di una potenza sociale che conquista spazi di vita (nell’Europa che in nome della sacralità del contratto individuale propone di allungare il tempo di lavoro a 60 ore settimanali!) può difendere anche i diritti nuovi e antichi delle persone. La xenofobia può essere sconfitta solo se la sinistra radica nei ceti popolari culture nuove capaci di smascherare l’operazione della destra che trasforma le battaglie per i diritti materiali indispensabili in caccia alle streghe in nome di una identità etico-religiosa violata. La sicurezza può tornare ad essere semplicemente uno dei problemi da risolvere e non il solo problema-incubo soltanto quando la sinistra avrà la forza per colpire tutte le insicurezze del tempo postmoderno (nel lavoro, nella cura, nella professione, nella casa, nella città). Invece di sterili questioni e di schematismi astratti, la sinistra dovrebbe trovare le coordinate culturali per dare organizzazione (e quindi sbocco politico) ai disagi dei tempi postmoderni. Tutte le categorie della politica vanno modulate attorno agli specifici malesseri sociali espressi da questo specifico tempo storico che produce nuove esclusioni e permanenti marginalità senza possibilità alcuna di confidare in uno spazio pubblico. Nessun ricordo suggerito dall’ideologia, ma la fotografia realistica di ciò che oggi esiste nell’ipercapitalismo dovrebbe indurre a porre di nuovo al centro dell’agenda il disagio del corpo che lavora e vive nell’insicurezza dopo il declino del salario e il riflusso di ogni politica pubblica efficace. Generazioni intere di flessibili a tempo indeterminato, di lavoratori che a 50 anni già riempiono le lunghe liste di mobilità, di lavoratori cognitivi che non trovano alcun riconoscimento del merito, di persone che guadagnano quanto basta per pagare l’affitto o il mutuo, non aspettano che nel laboratorio annebbiato di una sinistra smarrita qualcuno riproponga, a tempo ormai scaduto, una sintesi di socialismo europeo e di comunismo italiano. Il problema non è questo, la sinistra (in Italia e in Europa, nelle sue versioni radicali e riformiste) deve tornare più semplicemente ad essere quel movimento reale che contrasta le potenze reali dominanti e conquista sul campo del conflitto sociale e politico i diritti essenziali per la persona che lavora. Tutto il resto è solo chiacchiera, archeologia che non servirà alla sinistra (radicale o riformista) per risollevarsi. Oggi non esiste maggiore prova di un sobrio realismo politico di quella che riannoda gli interessi del lavoro, del cervello sociale diffuso nella società della conoscenza, come sostrato di una nuova cittadinanza.
*professore di Filosofia del Diritto e di scienza politica presso la facoltà di Scienze della comunicazione della `Sapienza`del Comitato Promotore di Sd
domenica 15 giugno 2008
Pescati nella Rete: Furio Colombo
Ronde sinistre
Ieri 14 giugno 2008, 23.28.05 rvignoli
di Furio Colombo
Ci sarà affollamento di notte, nelle strade italiane o, come dicono loro, “sul territorio”. Al calare del sole, a Milano o a Cosenza, ad Abbiategrasso o a Bologna, potrete incontrare polizia, carabinieri, guardia di finanza, le ronde padane e, adesso, dopo il parere entusiastico del presidente della provincia di Milano Penati (Ds-Pd) e dei sindaci e amministratori di area Pd della Lombardia, anche i volontari del nuovo Partito Democratico, non si sa se divisi in pattuglie cristiane e laiche. Ma non basta. Agli ex progressisti, leghisti e forze dell’ordine si aggiunge ora l’annuncio che ci saranno i soldati.
Finalmente l’esercito a difesa delle nostre città, recitano gli annunci. Come scandalizzarci se Penati e, anzi, tutto il Pd Lombardo proclamano identità di intenti e di vedute a proposito di questo pattugliamento militare e di emergenza del “territorio”, e in più offrono volontari ex progressisti e neo-antizingari, forse come forma pubblica di espiazione per essere stati di sinistra nei giorni bui della democrazia?
Strano che nessuno noti, da destra o da sinistra, lo schiaffo a polizia e carabinieri, dichiarati pubblicamente “fannulloni” benché uno di loro sia appena stato ucciso mentre sventava la rapina a una banca. Tutta questa ressa di pattugliatori genera ansia e paura invece di pace. E dichiara che ci vuole l’esercito, altro che polizia e carabinieri, per riportare la calma nei noti tumulti insurrezionali di Roma e Milano, nei blocchi e barricate sull’autostrada del Sole.
15 giugno 2008
Ieri 14 giugno 2008, 23.28.05 rvignoli
di Furio Colombo
Ci sarà affollamento di notte, nelle strade italiane o, come dicono loro, “sul territorio”. Al calare del sole, a Milano o a Cosenza, ad Abbiategrasso o a Bologna, potrete incontrare polizia, carabinieri, guardia di finanza, le ronde padane e, adesso, dopo il parere entusiastico del presidente della provincia di Milano Penati (Ds-Pd) e dei sindaci e amministratori di area Pd della Lombardia, anche i volontari del nuovo Partito Democratico, non si sa se divisi in pattuglie cristiane e laiche. Ma non basta. Agli ex progressisti, leghisti e forze dell’ordine si aggiunge ora l’annuncio che ci saranno i soldati.
Finalmente l’esercito a difesa delle nostre città, recitano gli annunci. Come scandalizzarci se Penati e, anzi, tutto il Pd Lombardo proclamano identità di intenti e di vedute a proposito di questo pattugliamento militare e di emergenza del “territorio”, e in più offrono volontari ex progressisti e neo-antizingari, forse come forma pubblica di espiazione per essere stati di sinistra nei giorni bui della democrazia?
Strano che nessuno noti, da destra o da sinistra, lo schiaffo a polizia e carabinieri, dichiarati pubblicamente “fannulloni” benché uno di loro sia appena stato ucciso mentre sventava la rapina a una banca. Tutta questa ressa di pattugliatori genera ansia e paura invece di pace. E dichiara che ci vuole l’esercito, altro che polizia e carabinieri, per riportare la calma nei noti tumulti insurrezionali di Roma e Milano, nei blocchi e barricate sull’autostrada del Sole.
15 giugno 2008
sabato 14 giugno 2008
segnalazione: alessandro dal lago
IL RAZZISMO «DE NOANTRI»(da Il Manifesto del 13 giugno 2008)Dall'entrata in carica del governo Berlusconi, la persecuzione deglistranieri, dei migranti, dei rom e dei cittadini italiani sinti èdivenuta capillare e ossessiva.Si direbbe inoltre che il razzismo di strada sia in qualche modocoordinato o in sintonia con l'attivismo istituzionale: controllidella polizia sugli autobus, sgomberi dei nomadi, rastrellamenti diprostitute e transessuali, schedatura dei sinti, decreti che attuanoprincipi discriminatori e incostituzionali come l'aggravante dei reatiper clandestinità.La risposta politica a questa tenaglia xenofoba è inesistente. Lasinistra radicale ex parlamentare sembra ancora frastornata dallabatosta elettorale, mentre l'opposizione di sua maestà, a partedichiarazioni rituali, collabora con il governo. Fa impressione vedereun Veltroni negoziare qualsiasi cosa con Berlusconi, magari i suoispazi tv mentre la polizia rastrella i rom. La magistratura, a cuipure si devono le poche critiche argomentate al pacchetto sicurezza,sembra attestata su una difesa dei propri spazi e prerogative. Ma ciòche appare inaudito, in una cosiddetta democrazia liberale, èl'atteggiamento della stampa (sulla tv meglio sorvolare). A parte lacampagna xenofoba di Libero o del Giornale, i cosiddetti giornaliindipendenti insistono sull'«insicurezza dei cittadini», mentre aessere minacciati e umiliati, giorno per giorno, sono esseri umani,cittadini italiani e no, discriminati in base all'origine. Iquotidiani riportano gli episodi di razzismo istituzionale, quando sidegnano di riportarli, con un tono indifferente o sbarazzino.Non si può definire quello che sta avvenendo in Italia se non comefascistoide. In primo luogo, per l'impunità di cui sembrano godere gliaggressori (Napoli) o anche per la vera e propria simpatia (ilvendicatore del Pigneto, che sarebbe uno di sinistra, de noantri,secondo la Repubblica). Ma anche per l'evidente coperturaistituzionale, come nelle incredibili dichiarazioni di Bossi dopo iroghi di Napoli, al solito accolte dai media come simpatichemanifestazioni di goliardia. Quando definisco fascistoide la svoltaitaliana mi riferisco al fatto banale che è promossa dalle istituzioniin un quadro formalmente democratico, e che forse resterà tale. Ma inquesto non vedo alcuna consolazione. A parte il fatto ben noto che lastoria si ripresenta sempre in forma di farsa, che le istituzioniperseguitino nomadi e «diversi» (compresi cittadini italiani) conl'appoggio dell'opinione pubblica o magari della maggioranza deglielettori è un'aggravante e anche un motivo di angoscia.Tutto diviene possibile. Se e quando il governo deciderà di smetteredi suonare la grancassa, la persecuzione continuerà in forme menoappariscenti ma comunque disumane: nomadi in fuga non si sa dove, coni loro bambini cacciati dalle scuole, gente costretta a stare almenoun anno e mezzo nei Cpt, donne perseguitate sui marciapiedi,annegamenti di migranti. Il dramma è che all'estero, al di là degliinterventi di qualche parlamentare europeo e di organizzazioni comeAmnesty, sembra che la gente non sappia o non ci creda. Ah, lesitaliens!L'anomalia italiana, il malato d'Europa, si dice alzando le spalle. Mail problema non sono i nostri conti, cari burocrati europei. Sedavvero si pensasse a questa svolta come a un'eccezione folcloristicasi commetterebbe un errore di valutazione mortale. Che la persecuzioneavvenga contro le minoranze e i marginali significa che lemaggioranze, anche quelle non apertamente razziste e magaririformiste, possono continuare a bearsi ottusamente delle loro libertàe dei loro privilegi. Basta che non guardino e non vogliano sapere.Come avrebbero dovuto insegnarci i casi olandese, austriaco e danese,l'Europa non è affatto protetta dalla xenofobia.Sugli stranieri e sui nomadi si possono scaricare l'insicurezzaeconomica o esistenziale, la paura del futuro, la fine delle illusionieuropee. Dovunque, un ceto politico cinico e avventurista puòsfruttare, come avviene in Italia, l'insoddisfazione generale a finidi consenso. Non costa nulla. E qui si misura la miopia di chi, danoi, nella cosiddetta sinistra moderata, ha gettato benzina sul fuoco,corrodendo le basi antifasciste della prima repubblica, piagnucolandosui caduti di Salò, come se non fossero morti rastrellando ipartigiani e collaborando con i nazisti, e quindi facilitando losterminio di ebrei, antifascisti, omosessuali e nomadi. Questorevisionismo straccione e mortuario per fortuna non è ancora passatoin Europa, almeno ufficialmente. Nessuno si sognerebbe di resuscitarePétain, Mosley, Quisling o altri emuli di un Giorgio Almirante, cheoggi vogliono far passare per un padre della patria.Ma proprio perché gran parte dell'Europa è meno accecata che da noi (oresta legata a parole alle sue origini antifasciste), è necessario chela xenofobia italiana sia registrata, documentata e fatta conoscereall'esterno. Essere più o meno globalizzati, competere economicamentecon il resto del mondo, e magari godere di una moneta forte, per farcontenti quattro banchieri di Francoforte o gli esportatori americani,non è affatto incompatibile con forme più o meno larvate di fascismo.Anzi. Non sono solo i ceffi della Lega a governarci all'interno, maanche l'erre moscia di Tremonti e il fanatismo burocratico del giovaneFrattini a rappresentarci nel mondo. Attenti, europei con un minimosenso di decenza. Oggi, i pogrom cominciano nel pittoresco stivalemediterraneo, ma domani...Alessandro Dal Lago(da Il Manifesto del 13 giugno 2008)
segnalazione: l'esempio della Svezia
Dal sito chiarelettere
In Italia si continua a morire di lavoro. Gli incidenti degli ultimi giorni hanno riportato per un attimo l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica su un fenomeno che nel nostro paese fa quasi 4 vittime al giorno. Ci si aspetterebbe una risposta immediata, urgente. E invece le solite frasi di circostanza. la normativa c'è, ma è insufficiente, o rimane inapplicata. Siamo il paese europeo con il maggior numero di "morti bianche". Pubblichiamo un capitolo del libro di Salvatore Giannella, "Voglia di cambiare", perché si deve raccontare che le cose possono andare diversamente. In Svezia non è un sogno. Nel 2006 ci sono stati sessantasette morti sul lavoro (da noi sono più di mille) con condizioni di lavoro tra le migliori al mondo. Di lavoro in Italia si muore. In Svezia nodi Salvatore Giannella*Strage continua
Nella saletta d’attesa dell’aeroporto di Bari, nelle prime ore d’agosto del 2007, i titoli della «Gazzetta del Mezzogiorno» colorano di sangue l’alba di un giorno vacanziero. Un giorno che, con i suoi numeri, simboleggia l’ormai quotidiano bollettino di guerra di una strage continua. Sei morti bianche in appena ventiquattro ore. Quattro vite stroncate nella sola Puglia. Giovanissima la vittima di Taranto. Domenico Occhinegro, Mimmo per gli amici, aveva soltanto ventisei anni e una vita davanti a sé. Doveva sposarsi nell’ottobre del 2008. Era felice, e nel suo paese, Palagiano, vicino al capoluogo jonico, lo ricordano come un ragazzo dolce, pieno di entusiasmo. A Domenico era stata promessa una piccola promozione e per questo si dava da fare ancora di più. Mimmo è morto per un incidente sul lavoro nel reparto TUL/2 (Tubificio Longitudinale 2) dello stabilimento siderurgico Ilva. È stato investito da un tubo d’acciaio rimanendo schiacciato. Dai resoconti si precisa che il corpo è stato stritolato tra il tubo e la sella di una trave che fa parte di un sistema di movimentazione chiamato walking beam. Quello costato la vita a Domenico Occhinegro è l’ultimo di una lunga serie di incidenti avvenuti all’Ilva di Taranto, incidenti che hanno contribuito al record negativo nazionale della città pugliese, capitale dell’acciaio (le città dove si muore di più sul lavoro, secondo un’indagine Eurispes del 2006, sono Taranto, seguita da Gorizia e da Ragusa).Trentacinque morti dal 1993 a oggi, sei dei quali negli ultimi due anni. Il 9 giugno era morto un operaio di diciannove anni, Andrea D’Alessano, di Oria (Brindisi), dipendente della ditta Modomecappaltatrice dei lavori di manutenzione. Il giovane, mentre stava per prendere un ascensore per raggiungere alcuni colleghi di fatica impegnati nei lavori di fermata straordinaria dell’altoforno4, fu colpito in testa da un pesante martello, chiamato in gergo «mazzetta», piovuto dall’alto.Il 3 luglio, per un incidente capitato nell’Agglomerato 2 dello stabilimento siderurgico, un operaio dell’azienda Tecnoprogress, Giuseppe Cavallo, trentanove anni, è rimasto orrendamente mutilato:gli hanno dovuto amputare la gamba sinistra. Nello stesso reparto TUL/2 un altro giovane, Vito Antonio Rafanelli, originario di Molfetta, era morto nell’agosto del 2006, schiacciato traun tubo e una macchina maledetta, spesso al centro di analoghi incidenti: una «cianfrinatrice» usata per smussare le imperfezioni sui tubi. Era il giorno del compleanno di Vito, compiva trentatréanni. «Morti fisiologiche»: così sono stati definiti tutti quei decessi dell’Ilva, secondo quanto riferito in una puntata televisiva di Annozero nel dicembre 2007.Come ricorda la coraggiosa newsletter ligure «Oli», «L’Ilva era allora ed è oggi la siderurgia in Italia. Di proprietà dell’Ilva di Stato erano gli impianti di Terni, Taranto, Bagnoli, Piombino e anchelo stabilimento torinese, poi acquistato dalla ThyssenKrupp, dove sono morti sette operai. Non si tratta di storia antica. Venduti ai privati, gli stabilimenti hanno conosciuto una gestione diversa.La forbice ha tagliato gli sprechi, ma pare sia andata ben oltre. Fisiologico è il modo di porsi nei confronti della mano d’opera. Fisiologiche le conseguenze quando l’utile la fa da padrone».Quel drammatico 1° agosto 2007 la Puglia ha pianto altri morti nei cantieri edili di Otranto e di Brindisi. Nella prima città un operaio, Andrea Sindaco, di trentatré anni, è stato schiacciato dal braccio meccanico di una gru, che gli è piombato addosso. Andrea stava lavorando in un cantiere di via Renis per realizzare, ironia della sorte, il centro benessere di un albergo. Sulla tabella dei lavori era prevista la realizzazione di un piazzale in cemento. Operazioni del genere richiedono l’impiego di una betoniera e di una elettropompa, montata su una gru meccanica di circa trenta metri. Per eseguire un getto a regola d’arte, all’estremità del braccio meccanico c’è un tubo flessibile. Chissà quante altre volte Andrea, fratello del proprietario dell’impresa edile, aveva effettuato quell’operazione. E, com’era abitudine, Andrea s’era sistemato vicino al tubo per controllare gli spostamenti. A manovrare la gru, invece, era un operaio di un’altra ditta che aveva fornito sia la betoniera sia la pompa. All’improvviso, però, il braccio meccanico si è spezzato ed è franato su Andrea ammazzandolo sul colpo. Di Taranto era anche Cosimo Perrini, precipitato per otto metri dal tetto di un cinema in costruzione senza alcuna fune di trattenuta a proteggerlo.Aveva sessantatré anni, lavorava per la ditta tarantina Cover-tech, amministrata dal figlio Renato Perrini, trentacinque anni. La Cover-tech aveva ricevuto l’incarico dalla Cogi di Brindisi, che sta realizzando una multisala nel quartiere brindisino di Bozzano, di eseguire l’impermeabilizzazione di una porzione dell’edificio. Cosimo ha perso l’equilibrio mentre predisponeva le guaine sul lastrico solare. È precipitato in un lucernaio. Forse, a spingerlo in quella maledetta apertura, è stata una forte raffica di vento. È stato ipotizzato che Cosimo possa aver avuto un «infarto pindarico», ossia durante il volo di otto metri. Ma non c’è dubbio che avrebbe avuto salva la vita se ci fosse stata la regolamentare fune di trattenuta.Il nome di Perrini, simbolo delle centinaia di lavoratori che muoiono per caduta, di Sindaco e di altri vanno ad aggiungersi alle migliaia, sparsi nelle cronache di tutti i giorni alla voce, meno allarmante di omicidi, «disgrazie sul lavoro» o «morti bianche». All’Inail ne hanno contate milleduecentosettantaquattro nel 2005. Sono aumentate a milletrecentodue nel 2006, con la Lombardia che, con le sue duecentodiciassette vittime, detiene il triste primato nazionale, seguito da Veneto (centosei) e dall’Emilia Romagna (centocinque). E non è andata meglio nel 2007. Un milione di incidenti l’anno e più di mille morti, un lavoratore ucciso ogni sette ore: è il bollettino della «guerra a bassa intensità» che denuncia l’Anmil, l’Associazione dei mutilati e invalidi del lavoro.Li abbiamo già dimenticati, gli Occhinegro, i Sindaco, i Perrini e tutti gli altri caduti dell’estate 2007. Presto saranno dimenticati anche i sette caduti sulla trincea della ThyssenKrupp di Torino. Un lavoro sicuro è possibile Il traguardo allora da indicare per i nostri politici è, almeno a parole, un lavoro sicuro. A Stoccolma scopro che non è un sogno. Scopro una terra dove abita il buon lavoro, quello con le migliori tutele al mondo.Nei giorni del mio arrivo, un’operaia ha bloccato la produzione nella sua fabbrica perché ha segnalato delle mancanze nel sistema di sicurezza. Alcuni colleghi l’hanno accusata di aver esagerato, ma l’ispettore del lavoro le ha dato ragione e la produzione è ripresa solo dopo aver sistemato la falla nella sicurezza. Il pensiero corre di nuovo all’Italia. Sentite come è andata a un operaio nella fonderia Officine Pilenga di Comun Nuovo nel bergamasco. Avendo segnalato ai suoi capi condizioni rischiose per i lavoratori, è stato accusato di mobbing per aver messo a rischio la salute del suo caporeparto: sospeso tre giorni dal lavoro, senza stipendio. E a nulla è valsa la denuncia del responsabile per la sicurezza dell’azienda, Valter Albani, sindacalista Cgil. Nel suo reparto officina, dove operano torni, frese e foratori, questo lavoratore, diligente e con alta professionalità, ha cominciato a segnalare ai responsabili condizioni di pericolo oggettivo: mancanza di carter, sistemi di purificazione dei vapori non funzionanti, olio e acqua chimica sul pavimento. Risultato: nessuno. Così il dipendente ha deciso di evidenziare i problemi sugli spazi liberi dei fogli di produzione giornalieri che devono essere compilati a ogni turno. L’effetto in questo caso c’è stato. L’uomo è stato convocato dal caporeparto: «Gli è stato detto che non era quello il modo di segnalare i rischi. Bisogna farlo verbalmente, o tramite apposite schede, che però io non ho mai visto», spiega Albani. Niente scandalo in Italia, non siamo svedesi...L’esempio della ScaniaNei nostri incontri settimanali, Enzo Biagi mi diceva spesso: «Sono un cronista che, più delle statistiche e delle analisi sociologiche, privilegia le storie». La Svezia del buon lavoro ha la storia e il volto dell’operaio che mi viene incontro in una fabbrica di Soedertaelje, a mezz’ora d’auto da Stoccolma. Tommy Baecklund, cinquantotto anni, è uno dei più anziani ombudsman dei lavoratori operante al nord, responsabile della sicurezza alla Scania, la principale azienda di veicoli industriali. A lui approdano i reclami di ognuno dei tremilaquattrocento dipendenti filtrati da centoventi altri ombudsman che lavorano tra queste mura. La partecipazione dei lavoratori alla politica di prevenzione qui è più sviluppata che altrove in Europa.Sono circa duecentomila i delegati alla sicurezza. La nomina di un delegato alla sicurezza è obbligatoria per tutte le imprese con almeno cinque dipendenti. I delegati regionali sono invece circa millecinquecento e coprono centosettantamila piccole e piccolissime imprese. Tommy è entrato in fabbrica a ventitré anni come collaudatore. Ricevette per la prima volta questo incarico nel 1978. L’incarico valeva per tre anni, ma da allora è sempre stato riconfermato: la fiducia dei suoi colleghi ha premiato il costante calo degli incidenti in fabbrica.Dal suo computer, sovrastato da un piccolo casco giallo simbolo della sicurezza, estrae le cifre puntuali: l’ultimo incidente mortale c’è stato quindici anni fa. Da allora alla Scania hanno registrato meno infortuni e sempre più lievi. Nel 1989 per un milione di ore lavorative ci sono stati quarantacinque incidenti. Nel 1990 gli incidenti sono scesi a trentasette; un anno dopo a ventiquattro; poi a venti; poi a dodici. Nel 2007, hanno toccato la punta più bassa finora: dieci. «E ci battiamo per cancellare anche questa piccola cifra residua», sottolinea orgoglioso Tommy.Nel suo ufficio angusto, in cui si fatica a stare in tre (io, lui e il fotografo), Tommy ricostruisce una giornata tipo nella sua vita. Ogni mattina all’arrivo in fabbrica trova nel computer segnalazioni di eventuali inconvenienti che richiedono il suo intervento risolutivo. Un operaio ha avuto il dito del piede fratturato da una lamiera scivolata di mano? Uno «scudo» d’acciaio proteggerà d’ora in poi la parte superiore delle scarpe di chi lavora in quel reparto. Una fiammata della fornace ha sfiorato un lavoratore che si è avvicinato troppo al fuoco? Viene posizionato un raggio laser a pochi metri dalla fornace: se qualcuno lo supera, automaticamente cala un portellone per chiudere la bocca della fornace e renderla così inoffensiva.Tommy mi informa che da parte dei dirigenti della Scania c’è la massima collaborazione nel trovare antidoti ai rischi: più che le norme di legge (i codici svedesi prevedono multe salate e anche l’arresto dei responsabili aziendali, evenienza mai successa) in Svezia vale il confronto continuo e l’accettazione comune delle priorità in fabbrica. Che, nel caso specifico della Scania, vedono al primo posto la sicurezza e l’ambiente, seguiti dalla qualità del prodotto, dalla puntualità nella consegna e, infine, dai profitti che non mancano proprio perché sono stati rispettati sicurezza, tempi e qualità. «In Italia, dove pure gli strumenti legislativi sono buoni, mi risulta che queste priorità siano in molti casi rovesciate. E questa esasperata attenzione al profitto e disattenzione verso il decisivo capitale umano spiega quella mostruosità del dato statistico dei tre-quattro morti che piangete ogni giorno. Voi italiani dovreste chiedere la tolleranza zero verso chi sbaglia. E dovreste far funzionare al meglio i controlli, dall’interno della fabbrica e dall’esterno, tramite gli ispettori. «E magari sviluppare il sistema dei premi per le aziende e gli operai che raggiungono obiettivi non solo di fatturato ma anche di sicurezza. Così avverrà quel cambiamento di cultura necessario anche da parte di molti lavoratori che tendono a sottovalutare l’applicazione delle norme di sicurezza», le parole dell’ombudsman chiariscono meglio di tante esternazioni la nostra situazione in materia.La graduatoria che monitorizza le condizioni di lavoro, a cura dell’Ufficio internazionale del lavoro, assegna alla Svezia la medaglia d’oro: al secondo posto c’è la Finlandia, seguita da Norvegia, Danimarca, Olanda, Belgio e Francia. Al nono posto è la Germania, al tredicesimo la Spagna, al ventesimo si piazza l’Italia, preceduta da quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale, ma davanti agli Stati Uniti, in venticinquesima posizione. Chiudono la classifica dei novanta Stati monitorati, la Sierra Leone e il Nepal. La Svezia vince il Nobel dei diritti dopo che sono stati esaminati, oltre alla flessibilità e all’occupazione, anche tutele antilicenziamento, livello e continuità salariale, accesso delle donne, sicurezza dei lavoratori. Prendiamo quest’ultima voce: nel 2006 in tutta la Svezia ci sono state sessantasette morti bianche, equivalenti a 1,6 morti per centomila occupati. La stessa proporzione (quella «proporzione minima possibile» evocata da Romano Prodi) farebbe abbassare in Italia la media da milletrecentodue morti in un anno a «soli» trecentonovanta. Come ricorda Samuel Engblom, un avvocato specializzato in diritto del lavoro che ha il suo ufficio nel centro storico di Stoccolma, «trent’anni fa il bilancio delle morti in fabbrica era tre volte più alto. La maggiore sicurezza da noi rispetto a tanti altri paesi del mondo è il risultato del dialogo costante tra sindacati e datori di lavoro».Oggi le migliaia di ombudsman in azione in fabbriche e nei cantieri edili dove elmetti e controlli sono la regola rispettata, in scuole e nell’esercito, insomma in ogni posto dove ci siano più di cinque lavoratori, oltre a trovare soluzioni per prevenire gli incidenti, hanno il potere/dovere di bloccare il lavoro quando c’è un pericolo potenziale.E non sono esagerazioni.Ho informato Tommy che proprio nei giorni in cui lo incontravo, in quell’agosto 2007, era stato dato il via libera definitivo della nostra Camera (duecentottantaquattro i sì del centrosinistra, un no, duecentodieci astenuti del centrodestra) al disegno di legge sulla sicurezza sul lavoro: con questa legge delega entrata in vigore il 25 agosto, il governo Prodi si era impegnato ad adottare entro nove mesi un testo unico che doveva prevedere, con l’assunzione di trecento nuovi ispettori e l’inasprimento delle pene, un maggior rilievo ai «rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza» (per il testo integrale della legge si veda: www.lavoro.gov.it).La sera, in albergo, tiro fuori carte d’archivio che ho portato da Milano. C’è chi in Italia teorizza un calo di attenzione di settori della società civile italiana verso gli operai, da qualche anno considerati marginali. In quei settori certamente non figurava Enzo Biagi: ho ritrovato gli appunti riguardanti uno dei colloqui settimanali con lui, nel suo ufficio al primo piano della libreria Rizzoli a Milano. Quel giorno, erano gli inizi di marzo del 2006, il colloquio verteva proprio su questo tema.L’innesco dell’attualità era dato dalla festa a Rimini per il primo centenario di vita della Cgil, il principale sindacato italiano, e lui aveva mandato ai convegnisti un video registrato con parole chiare: «Ho ricevuto una grande lezione da mio padre operaio... Il mio pensiero va ai tanti operai che ho conosciuto nella mia vita... L’Italia è grande non solo per Leonardo da Vinci o Marconi, ma anche per gli operai, e per la loro umanità, quegli operai che oggi sono diventati quasi invisibili e senza voce».Quel giorno del mio incontro con Biagi, il tributo consueto di vite umane fu dovuto a una frana che seppellì vivi alle porte di Milano due carpentieri che lavoravano per costruire la fogna: un muratore di ben sessantanove anni e un giovane albanese. Oggi che Biagi non c’è più, rileggo con emozione gli appunti presi durante quell’incontro in cui il grande vecchio del giornalismo si domandava sconcertato se erano concepibili più di un migliaio di funerali di Stato all’anno per i martiri del lavoro. Ormai si va in molti cantieri italiani come si va in guerra – sottolineava Biagi. E le cifre confermano l’emergenza nazionale: quattro morti al giorno sono un bilancio agghiacciante.Che fare? Ricette sono state avanzate da tempo e da più parti, sindacati compresi. Io mi limito a lanciare un appello al prossimo ministro del Lavoro: introduca la patente a punti per le imprese, sulla scia di quella introdotta per gli automobilisti e che ha provocato la riduzione degli incidenti stradali. Una patente a punti in questo settore a rischio dovrebbe penalizzare le aziende che non rispettano le regole e la sicurezza dei lavoratori, escludendole dagli appalti e addirittura arrivando a ritirare il permesso di lavoro in caso di ripetute irregolarità nel rispetto delle norme infortunistiche e previdenziali. E, ministro del Lavoro prossimo venturo, aumenti e faccia funzionare bene i controlli. Perché quando funziona il controllo finiscono il lavoro nero e gli infortuni. Una prova degli effetti benefici dei controlli? Eccola: qualche tempo fa un sindacato, la Filca Cisl, ha avuto l’idea di un documento unico per facilitare il dialogo tra gli enti pubblici e quelli sociali. Un documento comprendente le certificazioni dell’Inps, dell’Inail e delle Casse Edili per attestare i versamenti effettuati da parte delle imprese sia in campo previdenziale sia fiscale. Un esperimento fatto in Umbria, per la ricostruzione delle aree colpite dal terremoto del 1997, ha dato risultati straordinari ed è la prova evidente dell’efficacia dei maggiori controlli. Il bilancio: le imprese del settore sono raddoppiate e non si è verificato nemmeno un incidente mortale nei circadodicimila cantieri.
Sicurezza e parità sessualeNel Parlamento svedese la metà dei membri sono donne. Il lettore mi conceda un ampliamento dell’orizzonte del buon lavoro in Svezia. Qui la sicurezza non è tutto. In Italia la parola lavoro è prevalentemente al maschile. Un recente studio dell’Eurispes sulle donne che lavorano pone l’Italia all’ultimo posto in Europa: 45,1 per cento contro il 71,6 della Svezia. Qui l’intelligenza e la professionalità delle donne sono ritenute una risorsa chiave del paese e lo Stato si è organizzato perché questa sia messa a disposizione del lavoro attraverso una fitta rete di servizi, a partire dagli asili: perché il figlio non è solo della donna, ma una risorsa per il futuro dello Stato. Questo secondo, ma non secondario, aspetto del pianeta del buon lavoro in Svezia è reso evidente dalle centosessanta donne parlamentari su trecentoquarantanove membri complessivi presenti nella massima istituzione politica della Svezia: il Parlamento unicamerale svedese (detto Riksdag), che in base alla Costituzione ha autorità suprema: una sorridente nuvola rosa che orienta le linee di uno Stato verso la parità totale tra i due sessi. Nel Parlamento le donne sono a quota 46 per cento, contro il 18 per cento della nostra Camera e il 13 per cento al Senato. Dà una sensazione piacevole vedere, in un salone del Parlamento di Stoccolma, il signor Per Waetberg, presidente del Parlamento, posare davanti al fotografo con le centosessanta rappresentanti femminili, alcune delle quali per l’occasione hanno portato i loro bambini.La Svezia è forse il paese da più lungo tempo interessato al tema della parità tra uomini e donne. Già dal 1932 uno dei fondamenti del Patto di Saltsjobaden, formato dal governo socialdemocratico e dai rappresentanti dei lavoratori (sindacati, patronati eccetera) è il principio «a lavoro uguale, salario uguale». Tale principio, originariamente formulato al fine di riconoscere la pari dignità del lavoro manuale e non, è stato rapidamente esteso alla necessità di offrire pari possibilità agli uomini e alle donne.Svezia e Norvegia sono stati i primi paesi ad aver legiferato su questo tema. Di quel Patto, fondamentale per la socialdemocrazia scandinava e del tutto ignoto in Italia, c’è da ricordare il principio base: «Voi imprenditori siete bravi a far soldi. Vi incoraggeremo, purché paghiate le tasse. E noi con le tasse faremo il welfare state». La sfida della parità dei sessi nei luoghi di lavoro e nelle istituzioni è ancora all’ordine del giorno. Me la sintetizza, nel suo ufficio interno al Parlamento, Gunilla Upmark, una giurista passata dal tribunale di Stoccolma a capo della commissione del Lavoro del Parlamento svedese. Gunilla si serve, invece che di molte parole, di soli quattro numeri chiave:– 100 per cento del salario: oltre mezzo secolo fa la donna guadagnava la metà, oggi siamo all’80 per cento. Lo stesso discorso vale per l’Italia, dove non conta la bravura e nemmeno l’anzianità. Conta il sesso: se sei donna guadagni meno, il 9 per cento in meno di un collega «maschio» e fino al 26 per cento nel ruolo di manager. Essere donna non paga. Sull’Italia pesa il fatto che solo una minoranza di donne lavora fuori casa: il 46,3 per cento, penultima in Europa, segue Malta, secondo il rapporto della Ue sullo stato di attuazione della strategia di Lisbona, il cui obiettivo è il 60 per cento di occupazione femminile entro il 2010 in Europa (obiettivo cui si sta avvicinando sempre più la Spagna di Zapatero, che punta sulle donne – 53,2 per cento di occupazione femminile – per rivitalizzare l’economia).– 50 per cento di occupate nelle istituzioni e nelle imprese. E qui, nonostante alcuni picchi, c’è ancora strada da percorrere. «Dagens Industri», l’equivalente svedese di «Il Sole 24 Ore», mette in prima pagina una «donna potente», Lena Treschow Torell (plurilaureata in materie scientifiche, professoressa universitaria, amministratrice delegata e membro di svariati consigli d’amministrazione, tra cui quelli di Gambro e Saab) con l’indice minacciosamente alzato a sottolineare che il processo di inserimento delle donne nell’università e nel mondo della finanza va lentamente, troppo lentamente. Un misero 16 per cento di cattedre femminili nelle università di Svezia, un lillipuziano 1,5 per cento ai vertici della Borsa di Stoccolma. E lei, che è inclusa in entrambe le percentuali, inizia a ripensare la sua precedente opposizione alle quote rosa in questi due settori. In Italia le donne ai vertici sono ancora considerate «simpatiche eccezioni» (solo il 5 per cento siede nei consigli d’amministrazione).– 50 per cento dei congedi per paternità (qui il cammino è duro, ma l’asticella sale: venti padri su cento usufruiscono oggi di questa opportunità, fino a pochi anni fa si contavano sulle dita di una mano. Come si contano oggi, nel 2008, in Italia: solo quattro mariti su cento utilizzano la legge del congedo di paternità nata otto anni fa).– E infine lo zero per cento di violenze contro le donne: gli ultimi dati indicano in cinquecento, su nove milioni di abitanti, i condannati per casi di violenza (in Italia invece l’Istat fornisce cifre da choc: quattordici milioni le donne vittime di violenza fisica e psichica, sette milioni gli stupri e abusi, per il 70 per cento colpevole è il partner).Saluto Gunilla e vado a trovare il magnate italo-svedese simbolo della nuova imprenditoria: Salvatore Grimaldi, sessantadue anni, duemila dipendenti in tutto il mondo, una casa museo affacciata sulle acque baltiche dove una volta l’anno organizza un festoso convivio alla ripresa dei lavori dopo la pausa estiva. Emigrato dall’Italia quando aveva sette anni, dopo aver lavorato come operaio in Volvo e Scania è cresciuto forte con le sue industrie di biciclette (oggi sono suoi i marchi storici Bianchi e Legnano) e dei macchinari di precisione (l’ultimo gioiello è un bonificatore che elimina le particelle d’olio nell’aria delle officine). «Lo spazio che ho avuto per far crescere la mia creatività imprenditoriale è stato garantito qui in Svezia da buone leggi e dal rispetto comune di queste. In Italia, purtroppo, non servono solo buone leggi: serve la coscienza collettiva della legalità, la voglia di rispettare le regole, una forte dose di autocontrollo, e così si potrà arrivare pure alla riduzione delle morti bianche: a cominciare da Taranto. Io a Taranto ci sono nato e, come figlio di marinaio, mi piacerebbe tornare a portare l’esperienza arricchente del buon lavoro scandinavo. Taranto, come l’Italia, ha risorse per trovare finalmente spazio sui giornali in chiave positiva.»
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Anno di adesione all’Unione europea: 1995Sistema politico: monarchia costituzionaleCapitale: StoccolmaSuperficie: 449.964 km2Popolazione: 8,9 milioniCapo dello Stato: re Carl XVI GustafCapo del governo: Fredrik ReinfeldtTasso di nascita: 10,2 nati ogni 1000 abitantiMortalità infantile: 2,76 morti ogni 1000 natiEtà media: 41,1 anni (in Italia, 42,5)Aspettativa di vita: 80,63 anni in mediaTasso di disoccupazione: 4,5 per cento
Il modello politicoIl re ha esclusivamente poteri di rappresentanza. La riforma costituzionale del 1971 cambiò il sistema bicamerale in uno monocamerale. Il potere legislativo spetta al Parlamento monocamerale (Riksdag) di 349 seggi, assegnati con il sistema proporzionale con sbarramento. 310 seggi sono assegnati in 29 collegi plurinominali, i restanti 39 sono distribuiti tra i partiti. Per entrare in Parlamento, ogni partito deve ottenere almeno il 4 per cento dei suffragi. Le elezioni si svolgono ogni quattro anni. Nella consultazione del settembre 2002, il partito socialdemocratico ha conquistato 144 seggi (40 per cento dei suffragi) e ha costituito un governo di minoranza, sotto la guida di Goran Persson, con l’appoggio esterno di Verdi e Partito di Sinistra. Alle ultime elezioni del 17 settembre 2006 i quattro partiti di centrodestra hanno ottenuto una vittoria di stretta misura, contando una maggioranza di 7 seggi, mentre il Partito Socialdemocratico ha fatto peggio che nel 1998, rimanendo pur sempre (con 130 seggi) il primo partito del Riksdag. I Moderati hanno conseguito un grosso successo (97 seggi, rispetto ai precedenti 55), ma i Liberali non sono riusciti a bissare l’exploit del 2002, perdendo notevolmente terreno (da 48 a 28 seggi). Il primo ministro socialdemocratico Persson ha riconosciuto la sconfitta e ha rassegnato le dimissioni. Il suo posto è stato preso da Fredrik Reinfeldt, segretario del Partito Moderato, eletto con 175 su 349 voti.Prossime elezioni: settembre 2010.
L’economiaLa Svezia ha un reddito pro capite tra i più alti in Europa. Il settore pubblico rappresenta un’importante risorsa sia in termini di occupazione (assorbendo circa il 34 per cento della forza lavoro) sia di valore. L’industria, in particolare nei settori siderurgico, chimico, dell’elettronica e delle telecomunicazioni, dell’auto e dei veicoli pesanti e in quello della lavorazione del legno e della carta conta per il 29 per cento del Pil, l’agricoltura per il 2 per cento.
Gli incidenti sul lavoro. Svezia e Italia a confronto1 per cento su 100.000 occupati. In Italia invece è il 2,5 per cento. 57 i morti registrati in un anno. L’Italia, invece, ha il primato europeo di cui volentieri si farebbe a meno: quello del lavoro meno sicuro. In dieci anni gli infortuni mortali in Svezia sono diminuiti del 56,6 per cento e nel nostro paese del 25,49 per cento; in Germania del 48,3 per cento, nell’Unione europea del 29,41 (fonte: Eurostat). Questi i numeri più recenti, relativi al 2007: in Italia 832.037 sono stati gli infortunati sul lavoro (l’87 per cento dei casi ha riguardato lavoratori maschi); 208.588 sono stati i casi di invalidità grave, 27.466 quelli molto gravi, 7761 quelli di assoluta gravità; un morto ogni sette ore, questa è la drammatica media registrata nel corso dell’anno; mille i morti sul lavoro, anche se la tendenza segna una leggera diminuzione degli incidenti mortali rispetto agli anni precedenti. Tra i morti, uno su sei (16,5 per cento) è immigrato, a conferma del fatto che «gli immigrati risultano tra i lavoratori più deboli ed esposti agli infortuni, solitamente meno pagati e inquadrati a livelli più bassi». In Svezia alla crescita economica contribuiscono in maniera determinante i lavoratori immigrati: la loro quota è la più alta d’Europa (11,2 per cento), quasi cinque volte più che in Italia (2,8 per cento). Come negli anni passati, in Italia si muore più al Nord, con in testa la Lombardia. E con il personale a disposizione per le verifiche, se si dovessero controllare tutte le aziende italiane, ognuna di esse riceverebbe un controllo ogni ventitré anni (fonte: secondo Rapporto sulla tutela delle vittime del lavoro, consegnato al capo dello Stato Giorgio Napolitano nel febbraio 2008 da Pietro Mercadelli, presidente dell’Anmil, Associazione nazionale invalidi sul lavoro). Le donne al lavoro: 70,7 per cento. Il tasso di occupazione delle donne in Svezia. Nel panorama europeo questo dato è superato solo dalla Danimarca (73,4 per cento). La media continentale si attesta al 57,4 per cento; nel caso dell’Italia si registra solo un 46,3 per cento.
Link utiliIl portale nazionale della pubblica amministrazione: www.sverige.se è un portale d’accesso a tutti i siti web del settore pubblico nazionale ed è un ottimo punto di partenza per chiunque desideri cercare un’istituzione o un organismo pubblico. Il sito descrive inoltre in maniera particolareggiata il funzionamento del settore pubblico svedese, fornisce link utili ai siti del Parlamento svedese, del governo, dei consigli di contea, dei comuni e delle autorità, degli uffici della previdenza sociale e delle università. Il sito internet ufficiale dell’Ente svedese per viaggi e turismo www.visitsweden.com (in italiano) contiene una guida pratica e dettagliata al paese. Le pagine forniscono guide apposite a seconda del paese di origine selezionato dall’utente. Le rubriche «Cosa fare», «Dove pernottare» e «Dove andare» aiutano gli utenti a organizzare il proprio soggiorno in Svezia.Per un quadro aggiornato sugli infortuni sul lavoro in Italia, si suggeriscono i portali www.inail.it dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, e www.anmil.it dell’Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro.*Autore di Voglia di cambiare (Chiarelettere, 2008)Vai alla scheda del libro
In Italia si continua a morire di lavoro. Gli incidenti degli ultimi giorni hanno riportato per un attimo l'attenzione dei media e dell'opinione pubblica su un fenomeno che nel nostro paese fa quasi 4 vittime al giorno. Ci si aspetterebbe una risposta immediata, urgente. E invece le solite frasi di circostanza. la normativa c'è, ma è insufficiente, o rimane inapplicata. Siamo il paese europeo con il maggior numero di "morti bianche". Pubblichiamo un capitolo del libro di Salvatore Giannella, "Voglia di cambiare", perché si deve raccontare che le cose possono andare diversamente. In Svezia non è un sogno. Nel 2006 ci sono stati sessantasette morti sul lavoro (da noi sono più di mille) con condizioni di lavoro tra le migliori al mondo. Di lavoro in Italia si muore. In Svezia nodi Salvatore Giannella*Strage continua
Nella saletta d’attesa dell’aeroporto di Bari, nelle prime ore d’agosto del 2007, i titoli della «Gazzetta del Mezzogiorno» colorano di sangue l’alba di un giorno vacanziero. Un giorno che, con i suoi numeri, simboleggia l’ormai quotidiano bollettino di guerra di una strage continua. Sei morti bianche in appena ventiquattro ore. Quattro vite stroncate nella sola Puglia. Giovanissima la vittima di Taranto. Domenico Occhinegro, Mimmo per gli amici, aveva soltanto ventisei anni e una vita davanti a sé. Doveva sposarsi nell’ottobre del 2008. Era felice, e nel suo paese, Palagiano, vicino al capoluogo jonico, lo ricordano come un ragazzo dolce, pieno di entusiasmo. A Domenico era stata promessa una piccola promozione e per questo si dava da fare ancora di più. Mimmo è morto per un incidente sul lavoro nel reparto TUL/2 (Tubificio Longitudinale 2) dello stabilimento siderurgico Ilva. È stato investito da un tubo d’acciaio rimanendo schiacciato. Dai resoconti si precisa che il corpo è stato stritolato tra il tubo e la sella di una trave che fa parte di un sistema di movimentazione chiamato walking beam. Quello costato la vita a Domenico Occhinegro è l’ultimo di una lunga serie di incidenti avvenuti all’Ilva di Taranto, incidenti che hanno contribuito al record negativo nazionale della città pugliese, capitale dell’acciaio (le città dove si muore di più sul lavoro, secondo un’indagine Eurispes del 2006, sono Taranto, seguita da Gorizia e da Ragusa).Trentacinque morti dal 1993 a oggi, sei dei quali negli ultimi due anni. Il 9 giugno era morto un operaio di diciannove anni, Andrea D’Alessano, di Oria (Brindisi), dipendente della ditta Modomecappaltatrice dei lavori di manutenzione. Il giovane, mentre stava per prendere un ascensore per raggiungere alcuni colleghi di fatica impegnati nei lavori di fermata straordinaria dell’altoforno4, fu colpito in testa da un pesante martello, chiamato in gergo «mazzetta», piovuto dall’alto.Il 3 luglio, per un incidente capitato nell’Agglomerato 2 dello stabilimento siderurgico, un operaio dell’azienda Tecnoprogress, Giuseppe Cavallo, trentanove anni, è rimasto orrendamente mutilato:gli hanno dovuto amputare la gamba sinistra. Nello stesso reparto TUL/2 un altro giovane, Vito Antonio Rafanelli, originario di Molfetta, era morto nell’agosto del 2006, schiacciato traun tubo e una macchina maledetta, spesso al centro di analoghi incidenti: una «cianfrinatrice» usata per smussare le imperfezioni sui tubi. Era il giorno del compleanno di Vito, compiva trentatréanni. «Morti fisiologiche»: così sono stati definiti tutti quei decessi dell’Ilva, secondo quanto riferito in una puntata televisiva di Annozero nel dicembre 2007.Come ricorda la coraggiosa newsletter ligure «Oli», «L’Ilva era allora ed è oggi la siderurgia in Italia. Di proprietà dell’Ilva di Stato erano gli impianti di Terni, Taranto, Bagnoli, Piombino e anchelo stabilimento torinese, poi acquistato dalla ThyssenKrupp, dove sono morti sette operai. Non si tratta di storia antica. Venduti ai privati, gli stabilimenti hanno conosciuto una gestione diversa.La forbice ha tagliato gli sprechi, ma pare sia andata ben oltre. Fisiologico è il modo di porsi nei confronti della mano d’opera. Fisiologiche le conseguenze quando l’utile la fa da padrone».Quel drammatico 1° agosto 2007 la Puglia ha pianto altri morti nei cantieri edili di Otranto e di Brindisi. Nella prima città un operaio, Andrea Sindaco, di trentatré anni, è stato schiacciato dal braccio meccanico di una gru, che gli è piombato addosso. Andrea stava lavorando in un cantiere di via Renis per realizzare, ironia della sorte, il centro benessere di un albergo. Sulla tabella dei lavori era prevista la realizzazione di un piazzale in cemento. Operazioni del genere richiedono l’impiego di una betoniera e di una elettropompa, montata su una gru meccanica di circa trenta metri. Per eseguire un getto a regola d’arte, all’estremità del braccio meccanico c’è un tubo flessibile. Chissà quante altre volte Andrea, fratello del proprietario dell’impresa edile, aveva effettuato quell’operazione. E, com’era abitudine, Andrea s’era sistemato vicino al tubo per controllare gli spostamenti. A manovrare la gru, invece, era un operaio di un’altra ditta che aveva fornito sia la betoniera sia la pompa. All’improvviso, però, il braccio meccanico si è spezzato ed è franato su Andrea ammazzandolo sul colpo. Di Taranto era anche Cosimo Perrini, precipitato per otto metri dal tetto di un cinema in costruzione senza alcuna fune di trattenuta a proteggerlo.Aveva sessantatré anni, lavorava per la ditta tarantina Cover-tech, amministrata dal figlio Renato Perrini, trentacinque anni. La Cover-tech aveva ricevuto l’incarico dalla Cogi di Brindisi, che sta realizzando una multisala nel quartiere brindisino di Bozzano, di eseguire l’impermeabilizzazione di una porzione dell’edificio. Cosimo ha perso l’equilibrio mentre predisponeva le guaine sul lastrico solare. È precipitato in un lucernaio. Forse, a spingerlo in quella maledetta apertura, è stata una forte raffica di vento. È stato ipotizzato che Cosimo possa aver avuto un «infarto pindarico», ossia durante il volo di otto metri. Ma non c’è dubbio che avrebbe avuto salva la vita se ci fosse stata la regolamentare fune di trattenuta.Il nome di Perrini, simbolo delle centinaia di lavoratori che muoiono per caduta, di Sindaco e di altri vanno ad aggiungersi alle migliaia, sparsi nelle cronache di tutti i giorni alla voce, meno allarmante di omicidi, «disgrazie sul lavoro» o «morti bianche». All’Inail ne hanno contate milleduecentosettantaquattro nel 2005. Sono aumentate a milletrecentodue nel 2006, con la Lombardia che, con le sue duecentodiciassette vittime, detiene il triste primato nazionale, seguito da Veneto (centosei) e dall’Emilia Romagna (centocinque). E non è andata meglio nel 2007. Un milione di incidenti l’anno e più di mille morti, un lavoratore ucciso ogni sette ore: è il bollettino della «guerra a bassa intensità» che denuncia l’Anmil, l’Associazione dei mutilati e invalidi del lavoro.Li abbiamo già dimenticati, gli Occhinegro, i Sindaco, i Perrini e tutti gli altri caduti dell’estate 2007. Presto saranno dimenticati anche i sette caduti sulla trincea della ThyssenKrupp di Torino. Un lavoro sicuro è possibile Il traguardo allora da indicare per i nostri politici è, almeno a parole, un lavoro sicuro. A Stoccolma scopro che non è un sogno. Scopro una terra dove abita il buon lavoro, quello con le migliori tutele al mondo.Nei giorni del mio arrivo, un’operaia ha bloccato la produzione nella sua fabbrica perché ha segnalato delle mancanze nel sistema di sicurezza. Alcuni colleghi l’hanno accusata di aver esagerato, ma l’ispettore del lavoro le ha dato ragione e la produzione è ripresa solo dopo aver sistemato la falla nella sicurezza. Il pensiero corre di nuovo all’Italia. Sentite come è andata a un operaio nella fonderia Officine Pilenga di Comun Nuovo nel bergamasco. Avendo segnalato ai suoi capi condizioni rischiose per i lavoratori, è stato accusato di mobbing per aver messo a rischio la salute del suo caporeparto: sospeso tre giorni dal lavoro, senza stipendio. E a nulla è valsa la denuncia del responsabile per la sicurezza dell’azienda, Valter Albani, sindacalista Cgil. Nel suo reparto officina, dove operano torni, frese e foratori, questo lavoratore, diligente e con alta professionalità, ha cominciato a segnalare ai responsabili condizioni di pericolo oggettivo: mancanza di carter, sistemi di purificazione dei vapori non funzionanti, olio e acqua chimica sul pavimento. Risultato: nessuno. Così il dipendente ha deciso di evidenziare i problemi sugli spazi liberi dei fogli di produzione giornalieri che devono essere compilati a ogni turno. L’effetto in questo caso c’è stato. L’uomo è stato convocato dal caporeparto: «Gli è stato detto che non era quello il modo di segnalare i rischi. Bisogna farlo verbalmente, o tramite apposite schede, che però io non ho mai visto», spiega Albani. Niente scandalo in Italia, non siamo svedesi...L’esempio della ScaniaNei nostri incontri settimanali, Enzo Biagi mi diceva spesso: «Sono un cronista che, più delle statistiche e delle analisi sociologiche, privilegia le storie». La Svezia del buon lavoro ha la storia e il volto dell’operaio che mi viene incontro in una fabbrica di Soedertaelje, a mezz’ora d’auto da Stoccolma. Tommy Baecklund, cinquantotto anni, è uno dei più anziani ombudsman dei lavoratori operante al nord, responsabile della sicurezza alla Scania, la principale azienda di veicoli industriali. A lui approdano i reclami di ognuno dei tremilaquattrocento dipendenti filtrati da centoventi altri ombudsman che lavorano tra queste mura. La partecipazione dei lavoratori alla politica di prevenzione qui è più sviluppata che altrove in Europa.Sono circa duecentomila i delegati alla sicurezza. La nomina di un delegato alla sicurezza è obbligatoria per tutte le imprese con almeno cinque dipendenti. I delegati regionali sono invece circa millecinquecento e coprono centosettantamila piccole e piccolissime imprese. Tommy è entrato in fabbrica a ventitré anni come collaudatore. Ricevette per la prima volta questo incarico nel 1978. L’incarico valeva per tre anni, ma da allora è sempre stato riconfermato: la fiducia dei suoi colleghi ha premiato il costante calo degli incidenti in fabbrica.Dal suo computer, sovrastato da un piccolo casco giallo simbolo della sicurezza, estrae le cifre puntuali: l’ultimo incidente mortale c’è stato quindici anni fa. Da allora alla Scania hanno registrato meno infortuni e sempre più lievi. Nel 1989 per un milione di ore lavorative ci sono stati quarantacinque incidenti. Nel 1990 gli incidenti sono scesi a trentasette; un anno dopo a ventiquattro; poi a venti; poi a dodici. Nel 2007, hanno toccato la punta più bassa finora: dieci. «E ci battiamo per cancellare anche questa piccola cifra residua», sottolinea orgoglioso Tommy.Nel suo ufficio angusto, in cui si fatica a stare in tre (io, lui e il fotografo), Tommy ricostruisce una giornata tipo nella sua vita. Ogni mattina all’arrivo in fabbrica trova nel computer segnalazioni di eventuali inconvenienti che richiedono il suo intervento risolutivo. Un operaio ha avuto il dito del piede fratturato da una lamiera scivolata di mano? Uno «scudo» d’acciaio proteggerà d’ora in poi la parte superiore delle scarpe di chi lavora in quel reparto. Una fiammata della fornace ha sfiorato un lavoratore che si è avvicinato troppo al fuoco? Viene posizionato un raggio laser a pochi metri dalla fornace: se qualcuno lo supera, automaticamente cala un portellone per chiudere la bocca della fornace e renderla così inoffensiva.Tommy mi informa che da parte dei dirigenti della Scania c’è la massima collaborazione nel trovare antidoti ai rischi: più che le norme di legge (i codici svedesi prevedono multe salate e anche l’arresto dei responsabili aziendali, evenienza mai successa) in Svezia vale il confronto continuo e l’accettazione comune delle priorità in fabbrica. Che, nel caso specifico della Scania, vedono al primo posto la sicurezza e l’ambiente, seguiti dalla qualità del prodotto, dalla puntualità nella consegna e, infine, dai profitti che non mancano proprio perché sono stati rispettati sicurezza, tempi e qualità. «In Italia, dove pure gli strumenti legislativi sono buoni, mi risulta che queste priorità siano in molti casi rovesciate. E questa esasperata attenzione al profitto e disattenzione verso il decisivo capitale umano spiega quella mostruosità del dato statistico dei tre-quattro morti che piangete ogni giorno. Voi italiani dovreste chiedere la tolleranza zero verso chi sbaglia. E dovreste far funzionare al meglio i controlli, dall’interno della fabbrica e dall’esterno, tramite gli ispettori. «E magari sviluppare il sistema dei premi per le aziende e gli operai che raggiungono obiettivi non solo di fatturato ma anche di sicurezza. Così avverrà quel cambiamento di cultura necessario anche da parte di molti lavoratori che tendono a sottovalutare l’applicazione delle norme di sicurezza», le parole dell’ombudsman chiariscono meglio di tante esternazioni la nostra situazione in materia.La graduatoria che monitorizza le condizioni di lavoro, a cura dell’Ufficio internazionale del lavoro, assegna alla Svezia la medaglia d’oro: al secondo posto c’è la Finlandia, seguita da Norvegia, Danimarca, Olanda, Belgio e Francia. Al nono posto è la Germania, al tredicesimo la Spagna, al ventesimo si piazza l’Italia, preceduta da quasi tutti i paesi dell’Europa occidentale, ma davanti agli Stati Uniti, in venticinquesima posizione. Chiudono la classifica dei novanta Stati monitorati, la Sierra Leone e il Nepal. La Svezia vince il Nobel dei diritti dopo che sono stati esaminati, oltre alla flessibilità e all’occupazione, anche tutele antilicenziamento, livello e continuità salariale, accesso delle donne, sicurezza dei lavoratori. Prendiamo quest’ultima voce: nel 2006 in tutta la Svezia ci sono state sessantasette morti bianche, equivalenti a 1,6 morti per centomila occupati. La stessa proporzione (quella «proporzione minima possibile» evocata da Romano Prodi) farebbe abbassare in Italia la media da milletrecentodue morti in un anno a «soli» trecentonovanta. Come ricorda Samuel Engblom, un avvocato specializzato in diritto del lavoro che ha il suo ufficio nel centro storico di Stoccolma, «trent’anni fa il bilancio delle morti in fabbrica era tre volte più alto. La maggiore sicurezza da noi rispetto a tanti altri paesi del mondo è il risultato del dialogo costante tra sindacati e datori di lavoro».Oggi le migliaia di ombudsman in azione in fabbriche e nei cantieri edili dove elmetti e controlli sono la regola rispettata, in scuole e nell’esercito, insomma in ogni posto dove ci siano più di cinque lavoratori, oltre a trovare soluzioni per prevenire gli incidenti, hanno il potere/dovere di bloccare il lavoro quando c’è un pericolo potenziale.E non sono esagerazioni.Ho informato Tommy che proprio nei giorni in cui lo incontravo, in quell’agosto 2007, era stato dato il via libera definitivo della nostra Camera (duecentottantaquattro i sì del centrosinistra, un no, duecentodieci astenuti del centrodestra) al disegno di legge sulla sicurezza sul lavoro: con questa legge delega entrata in vigore il 25 agosto, il governo Prodi si era impegnato ad adottare entro nove mesi un testo unico che doveva prevedere, con l’assunzione di trecento nuovi ispettori e l’inasprimento delle pene, un maggior rilievo ai «rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza» (per il testo integrale della legge si veda: www.lavoro.gov.it).La sera, in albergo, tiro fuori carte d’archivio che ho portato da Milano. C’è chi in Italia teorizza un calo di attenzione di settori della società civile italiana verso gli operai, da qualche anno considerati marginali. In quei settori certamente non figurava Enzo Biagi: ho ritrovato gli appunti riguardanti uno dei colloqui settimanali con lui, nel suo ufficio al primo piano della libreria Rizzoli a Milano. Quel giorno, erano gli inizi di marzo del 2006, il colloquio verteva proprio su questo tema.L’innesco dell’attualità era dato dalla festa a Rimini per il primo centenario di vita della Cgil, il principale sindacato italiano, e lui aveva mandato ai convegnisti un video registrato con parole chiare: «Ho ricevuto una grande lezione da mio padre operaio... Il mio pensiero va ai tanti operai che ho conosciuto nella mia vita... L’Italia è grande non solo per Leonardo da Vinci o Marconi, ma anche per gli operai, e per la loro umanità, quegli operai che oggi sono diventati quasi invisibili e senza voce».Quel giorno del mio incontro con Biagi, il tributo consueto di vite umane fu dovuto a una frana che seppellì vivi alle porte di Milano due carpentieri che lavoravano per costruire la fogna: un muratore di ben sessantanove anni e un giovane albanese. Oggi che Biagi non c’è più, rileggo con emozione gli appunti presi durante quell’incontro in cui il grande vecchio del giornalismo si domandava sconcertato se erano concepibili più di un migliaio di funerali di Stato all’anno per i martiri del lavoro. Ormai si va in molti cantieri italiani come si va in guerra – sottolineava Biagi. E le cifre confermano l’emergenza nazionale: quattro morti al giorno sono un bilancio agghiacciante.Che fare? Ricette sono state avanzate da tempo e da più parti, sindacati compresi. Io mi limito a lanciare un appello al prossimo ministro del Lavoro: introduca la patente a punti per le imprese, sulla scia di quella introdotta per gli automobilisti e che ha provocato la riduzione degli incidenti stradali. Una patente a punti in questo settore a rischio dovrebbe penalizzare le aziende che non rispettano le regole e la sicurezza dei lavoratori, escludendole dagli appalti e addirittura arrivando a ritirare il permesso di lavoro in caso di ripetute irregolarità nel rispetto delle norme infortunistiche e previdenziali. E, ministro del Lavoro prossimo venturo, aumenti e faccia funzionare bene i controlli. Perché quando funziona il controllo finiscono il lavoro nero e gli infortuni. Una prova degli effetti benefici dei controlli? Eccola: qualche tempo fa un sindacato, la Filca Cisl, ha avuto l’idea di un documento unico per facilitare il dialogo tra gli enti pubblici e quelli sociali. Un documento comprendente le certificazioni dell’Inps, dell’Inail e delle Casse Edili per attestare i versamenti effettuati da parte delle imprese sia in campo previdenziale sia fiscale. Un esperimento fatto in Umbria, per la ricostruzione delle aree colpite dal terremoto del 1997, ha dato risultati straordinari ed è la prova evidente dell’efficacia dei maggiori controlli. Il bilancio: le imprese del settore sono raddoppiate e non si è verificato nemmeno un incidente mortale nei circadodicimila cantieri.
Sicurezza e parità sessualeNel Parlamento svedese la metà dei membri sono donne. Il lettore mi conceda un ampliamento dell’orizzonte del buon lavoro in Svezia. Qui la sicurezza non è tutto. In Italia la parola lavoro è prevalentemente al maschile. Un recente studio dell’Eurispes sulle donne che lavorano pone l’Italia all’ultimo posto in Europa: 45,1 per cento contro il 71,6 della Svezia. Qui l’intelligenza e la professionalità delle donne sono ritenute una risorsa chiave del paese e lo Stato si è organizzato perché questa sia messa a disposizione del lavoro attraverso una fitta rete di servizi, a partire dagli asili: perché il figlio non è solo della donna, ma una risorsa per il futuro dello Stato. Questo secondo, ma non secondario, aspetto del pianeta del buon lavoro in Svezia è reso evidente dalle centosessanta donne parlamentari su trecentoquarantanove membri complessivi presenti nella massima istituzione politica della Svezia: il Parlamento unicamerale svedese (detto Riksdag), che in base alla Costituzione ha autorità suprema: una sorridente nuvola rosa che orienta le linee di uno Stato verso la parità totale tra i due sessi. Nel Parlamento le donne sono a quota 46 per cento, contro il 18 per cento della nostra Camera e il 13 per cento al Senato. Dà una sensazione piacevole vedere, in un salone del Parlamento di Stoccolma, il signor Per Waetberg, presidente del Parlamento, posare davanti al fotografo con le centosessanta rappresentanti femminili, alcune delle quali per l’occasione hanno portato i loro bambini.La Svezia è forse il paese da più lungo tempo interessato al tema della parità tra uomini e donne. Già dal 1932 uno dei fondamenti del Patto di Saltsjobaden, formato dal governo socialdemocratico e dai rappresentanti dei lavoratori (sindacati, patronati eccetera) è il principio «a lavoro uguale, salario uguale». Tale principio, originariamente formulato al fine di riconoscere la pari dignità del lavoro manuale e non, è stato rapidamente esteso alla necessità di offrire pari possibilità agli uomini e alle donne.Svezia e Norvegia sono stati i primi paesi ad aver legiferato su questo tema. Di quel Patto, fondamentale per la socialdemocrazia scandinava e del tutto ignoto in Italia, c’è da ricordare il principio base: «Voi imprenditori siete bravi a far soldi. Vi incoraggeremo, purché paghiate le tasse. E noi con le tasse faremo il welfare state». La sfida della parità dei sessi nei luoghi di lavoro e nelle istituzioni è ancora all’ordine del giorno. Me la sintetizza, nel suo ufficio interno al Parlamento, Gunilla Upmark, una giurista passata dal tribunale di Stoccolma a capo della commissione del Lavoro del Parlamento svedese. Gunilla si serve, invece che di molte parole, di soli quattro numeri chiave:– 100 per cento del salario: oltre mezzo secolo fa la donna guadagnava la metà, oggi siamo all’80 per cento. Lo stesso discorso vale per l’Italia, dove non conta la bravura e nemmeno l’anzianità. Conta il sesso: se sei donna guadagni meno, il 9 per cento in meno di un collega «maschio» e fino al 26 per cento nel ruolo di manager. Essere donna non paga. Sull’Italia pesa il fatto che solo una minoranza di donne lavora fuori casa: il 46,3 per cento, penultima in Europa, segue Malta, secondo il rapporto della Ue sullo stato di attuazione della strategia di Lisbona, il cui obiettivo è il 60 per cento di occupazione femminile entro il 2010 in Europa (obiettivo cui si sta avvicinando sempre più la Spagna di Zapatero, che punta sulle donne – 53,2 per cento di occupazione femminile – per rivitalizzare l’economia).– 50 per cento di occupate nelle istituzioni e nelle imprese. E qui, nonostante alcuni picchi, c’è ancora strada da percorrere. «Dagens Industri», l’equivalente svedese di «Il Sole 24 Ore», mette in prima pagina una «donna potente», Lena Treschow Torell (plurilaureata in materie scientifiche, professoressa universitaria, amministratrice delegata e membro di svariati consigli d’amministrazione, tra cui quelli di Gambro e Saab) con l’indice minacciosamente alzato a sottolineare che il processo di inserimento delle donne nell’università e nel mondo della finanza va lentamente, troppo lentamente. Un misero 16 per cento di cattedre femminili nelle università di Svezia, un lillipuziano 1,5 per cento ai vertici della Borsa di Stoccolma. E lei, che è inclusa in entrambe le percentuali, inizia a ripensare la sua precedente opposizione alle quote rosa in questi due settori. In Italia le donne ai vertici sono ancora considerate «simpatiche eccezioni» (solo il 5 per cento siede nei consigli d’amministrazione).– 50 per cento dei congedi per paternità (qui il cammino è duro, ma l’asticella sale: venti padri su cento usufruiscono oggi di questa opportunità, fino a pochi anni fa si contavano sulle dita di una mano. Come si contano oggi, nel 2008, in Italia: solo quattro mariti su cento utilizzano la legge del congedo di paternità nata otto anni fa).– E infine lo zero per cento di violenze contro le donne: gli ultimi dati indicano in cinquecento, su nove milioni di abitanti, i condannati per casi di violenza (in Italia invece l’Istat fornisce cifre da choc: quattordici milioni le donne vittime di violenza fisica e psichica, sette milioni gli stupri e abusi, per il 70 per cento colpevole è il partner).Saluto Gunilla e vado a trovare il magnate italo-svedese simbolo della nuova imprenditoria: Salvatore Grimaldi, sessantadue anni, duemila dipendenti in tutto il mondo, una casa museo affacciata sulle acque baltiche dove una volta l’anno organizza un festoso convivio alla ripresa dei lavori dopo la pausa estiva. Emigrato dall’Italia quando aveva sette anni, dopo aver lavorato come operaio in Volvo e Scania è cresciuto forte con le sue industrie di biciclette (oggi sono suoi i marchi storici Bianchi e Legnano) e dei macchinari di precisione (l’ultimo gioiello è un bonificatore che elimina le particelle d’olio nell’aria delle officine). «Lo spazio che ho avuto per far crescere la mia creatività imprenditoriale è stato garantito qui in Svezia da buone leggi e dal rispetto comune di queste. In Italia, purtroppo, non servono solo buone leggi: serve la coscienza collettiva della legalità, la voglia di rispettare le regole, una forte dose di autocontrollo, e così si potrà arrivare pure alla riduzione delle morti bianche: a cominciare da Taranto. Io a Taranto ci sono nato e, come figlio di marinaio, mi piacerebbe tornare a portare l’esperienza arricchente del buon lavoro scandinavo. Taranto, come l’Italia, ha risorse per trovare finalmente spazio sui giornali in chiave positiva.»
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Anno di adesione all’Unione europea: 1995Sistema politico: monarchia costituzionaleCapitale: StoccolmaSuperficie: 449.964 km2Popolazione: 8,9 milioniCapo dello Stato: re Carl XVI GustafCapo del governo: Fredrik ReinfeldtTasso di nascita: 10,2 nati ogni 1000 abitantiMortalità infantile: 2,76 morti ogni 1000 natiEtà media: 41,1 anni (in Italia, 42,5)Aspettativa di vita: 80,63 anni in mediaTasso di disoccupazione: 4,5 per cento
Il modello politicoIl re ha esclusivamente poteri di rappresentanza. La riforma costituzionale del 1971 cambiò il sistema bicamerale in uno monocamerale. Il potere legislativo spetta al Parlamento monocamerale (Riksdag) di 349 seggi, assegnati con il sistema proporzionale con sbarramento. 310 seggi sono assegnati in 29 collegi plurinominali, i restanti 39 sono distribuiti tra i partiti. Per entrare in Parlamento, ogni partito deve ottenere almeno il 4 per cento dei suffragi. Le elezioni si svolgono ogni quattro anni. Nella consultazione del settembre 2002, il partito socialdemocratico ha conquistato 144 seggi (40 per cento dei suffragi) e ha costituito un governo di minoranza, sotto la guida di Goran Persson, con l’appoggio esterno di Verdi e Partito di Sinistra. Alle ultime elezioni del 17 settembre 2006 i quattro partiti di centrodestra hanno ottenuto una vittoria di stretta misura, contando una maggioranza di 7 seggi, mentre il Partito Socialdemocratico ha fatto peggio che nel 1998, rimanendo pur sempre (con 130 seggi) il primo partito del Riksdag. I Moderati hanno conseguito un grosso successo (97 seggi, rispetto ai precedenti 55), ma i Liberali non sono riusciti a bissare l’exploit del 2002, perdendo notevolmente terreno (da 48 a 28 seggi). Il primo ministro socialdemocratico Persson ha riconosciuto la sconfitta e ha rassegnato le dimissioni. Il suo posto è stato preso da Fredrik Reinfeldt, segretario del Partito Moderato, eletto con 175 su 349 voti.Prossime elezioni: settembre 2010.
L’economiaLa Svezia ha un reddito pro capite tra i più alti in Europa. Il settore pubblico rappresenta un’importante risorsa sia in termini di occupazione (assorbendo circa il 34 per cento della forza lavoro) sia di valore. L’industria, in particolare nei settori siderurgico, chimico, dell’elettronica e delle telecomunicazioni, dell’auto e dei veicoli pesanti e in quello della lavorazione del legno e della carta conta per il 29 per cento del Pil, l’agricoltura per il 2 per cento.
Gli incidenti sul lavoro. Svezia e Italia a confronto1 per cento su 100.000 occupati. In Italia invece è il 2,5 per cento. 57 i morti registrati in un anno. L’Italia, invece, ha il primato europeo di cui volentieri si farebbe a meno: quello del lavoro meno sicuro. In dieci anni gli infortuni mortali in Svezia sono diminuiti del 56,6 per cento e nel nostro paese del 25,49 per cento; in Germania del 48,3 per cento, nell’Unione europea del 29,41 (fonte: Eurostat). Questi i numeri più recenti, relativi al 2007: in Italia 832.037 sono stati gli infortunati sul lavoro (l’87 per cento dei casi ha riguardato lavoratori maschi); 208.588 sono stati i casi di invalidità grave, 27.466 quelli molto gravi, 7761 quelli di assoluta gravità; un morto ogni sette ore, questa è la drammatica media registrata nel corso dell’anno; mille i morti sul lavoro, anche se la tendenza segna una leggera diminuzione degli incidenti mortali rispetto agli anni precedenti. Tra i morti, uno su sei (16,5 per cento) è immigrato, a conferma del fatto che «gli immigrati risultano tra i lavoratori più deboli ed esposti agli infortuni, solitamente meno pagati e inquadrati a livelli più bassi». In Svezia alla crescita economica contribuiscono in maniera determinante i lavoratori immigrati: la loro quota è la più alta d’Europa (11,2 per cento), quasi cinque volte più che in Italia (2,8 per cento). Come negli anni passati, in Italia si muore più al Nord, con in testa la Lombardia. E con il personale a disposizione per le verifiche, se si dovessero controllare tutte le aziende italiane, ognuna di esse riceverebbe un controllo ogni ventitré anni (fonte: secondo Rapporto sulla tutela delle vittime del lavoro, consegnato al capo dello Stato Giorgio Napolitano nel febbraio 2008 da Pietro Mercadelli, presidente dell’Anmil, Associazione nazionale invalidi sul lavoro). Le donne al lavoro: 70,7 per cento. Il tasso di occupazione delle donne in Svezia. Nel panorama europeo questo dato è superato solo dalla Danimarca (73,4 per cento). La media continentale si attesta al 57,4 per cento; nel caso dell’Italia si registra solo un 46,3 per cento.
Link utiliIl portale nazionale della pubblica amministrazione: www.sverige.se è un portale d’accesso a tutti i siti web del settore pubblico nazionale ed è un ottimo punto di partenza per chiunque desideri cercare un’istituzione o un organismo pubblico. Il sito descrive inoltre in maniera particolareggiata il funzionamento del settore pubblico svedese, fornisce link utili ai siti del Parlamento svedese, del governo, dei consigli di contea, dei comuni e delle autorità, degli uffici della previdenza sociale e delle università. Il sito internet ufficiale dell’Ente svedese per viaggi e turismo www.visitsweden.com (in italiano) contiene una guida pratica e dettagliata al paese. Le pagine forniscono guide apposite a seconda del paese di origine selezionato dall’utente. Le rubriche «Cosa fare», «Dove pernottare» e «Dove andare» aiutano gli utenti a organizzare il proprio soggiorno in Svezia.Per un quadro aggiornato sugli infortuni sul lavoro in Italia, si suggeriscono i portali www.inail.it dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, e www.anmil.it dell’Associazione nazionale mutilati e invalidi del lavoro.*Autore di Voglia di cambiare (Chiarelettere, 2008)Vai alla scheda del libro
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