TRA ANTIPOLITICA E BENI COMUNI.
pubblicata da Giuseppe Giudice il giorno domenica 1 aprile 2012 alle ore 2.13 ·
.
TRA ANTIPOLITICA E BENI COMUNI
Non mi convince affatto (di solito non mi convincono quelli pubblicati sul “Manifesto”) l’appello di diversi intellettuali (scritto da Marco Revelli ed altri) a formare un nuovo soggetto politico, una sorta di quarto polo nel sistema politico italiano. Non mi convince perché di appelli di questo tono ne ho visto tanti in vita mia senza che producessero effetti di qualche rilievo. Non mi convince perché di soggetti politici ce ne sono fin troppi; non è l’aggiunta di un altro con strategia ed obbiettivi non chiaramente definiti che può risolvere i gravi problemi della politica italiana.REvelli è uno storico di spessore. E' un comunista libertario contrario sia la socialismo reale che alle socialdemocrazie che accomuna nel fallimento. Per lui l'intero 900 è un fallimento- Se leggiamo il manifesto tramite queste premesse di carattere culturale possiamo decifrarne meglio il senso politico.
Innanzi tutto il 900 non può essere oggetto di demonizzazione. E’ stato un secolo terribile. Leggete Giorgio Ruffolo nel suo “potenza e potere” che mette bene in evidenza tramite una analisi sistemica le ragione del carattere terribile del 900. Un divario tra la potenza economica e tecnologica sviluppata, e la capacità di governare e finalizzare tale potenza. Il fascismo, il nazismo, il socialismo reale nascono da tale divario. Così come dal fenomeno ben analizzato da Polanyi del carattere socialmente disgregante ed umanamente distruttivo del capitalismo liberale.
E quindi il 900 è secolo di due guerre devastanti (l’Europa ne ha pagato il prezzo più alto) di feroci totalitarismi. Ma è anche il secolo in cui l’umanità ha compiuto i suoi più straordinari progressi. In campo scientifico, tecnologico e di sviluppo democratico e civile. L’invenzione della radio, e quindi dei mezzi di comunicazione di via etere, della relatività, della fisica quantistica, di scoperte essenziali nel campo della medicina, biologia. Dell’avventura nello spazio. Dell’informatica. Ma anche politicamente è il secolo della democrazia sociale. Delle grandi lotte del movimento operaio e socialista per l’emancipazione dei lavoratori che, quanto meno, sia pure in una ristretta parte del mondo (l’Europa Occidentale) ha prodotto il modello sociale più avanzato mai visto.
Un progresso con molte e vistose contraddizioni che sono proprie dello sviluppo capitalistico: il divario tra il sud ed il nord del pianeta. Ma le conquiste del movimento operaio in Europa rappresentavano comunque un forte elemento di speranza per tutti i popoli.
Il ritorno del capitalismo liberale ha certo prodotto regressioni. Apparentemente ha offerto opportunità ad alcune aree del III Mondo ma al prezzo di gravissimi costi ambientali, di una forte crescita delle diseguaglianze (con forti ripercussioni sugli stessi paesi avanzati), della svalorizzazione del lavoro e la regressione nel campo dell’etica sociale ed individuale.
Sappiamo tutti che i problemi della crisi della democrazia rappresentativa, di un lavoro che diventa sempre più fonte di uno sfruttamento duro e di marginalità sociale, sono il prodotto di un sistema in profonda crisi, da cui non sa uscirne, ma sa che deve scaricarne i costi sulle fasce più deboli.
Se vogliamo mettere al servizio del bene comune, a vantaggio di tutti, e salvaguardando l’ambiente i grandi progressi della tecnologia, dobbiamo trasformare strutturalmente il modello sociale ed economico dell’ultimo venticinquennio. Ed è compito della politica farlo. Di una politica che non sia la somma di frustrazioni e lamentazioni (con queste non si affronta niente) ma che offra un orizzonte di speranza in positivo.
E’ il tema del socialismo democratico nel XXI Secolo. Di un forte riequilibrio nei rapporti di forza tra politica ed economia, che consenta di operare quelle “riforme di struttura” di lombardiana memoria in grado di determinare quel mutamento qualitativo dei rapporti di potere nella società a favore del lavoro, e della razionalità sociale dello sviluppo.
E’ solo in questa visione strategica (che forse risulta un po’ semplificata) che è possibile affrontare seriamente il tema di quelli che vengono chiamati “beni comuni” (tramite un anglicismo) Ma io preferisco chiamare latinamente Beni Pubblici. Solo con una reimpostazione di un modello di economia mista e di programmazione democratica si può con chiarezza determinare che i beni pubblici (acqua, energia, reti di trasporto) non possono essere gestiti da privati , né da logiche di mercato, ma tramite una gestione pubblica democraticamente partecipata. Ma qui non v’è nulla di nuovo. Se vogliamo questa è l’ABC della socialdemocrazia. Rimando di nuovo a Bad Godesberg: “La concorrenza condotta mediante imprese pubbliche è un mezzo decisivo per prevenire un predominio privato sul mercato. Attraverso tali imprese debbono prevalere gli interessi della collettività. Esse si rendono necessarie là dove, per motivi naturali o tecnici, talune prestazioni indispensabili alla collettività possono essere fornite economicamente e razionalmente solo se la concorrenza viene eliminata. La proprietà collettiva è una forma legittima di pubblico controllo a cui nessuno Stato moderno rinuncia. Essa serve a preservare la libertà dallo strapotere delle grandi concentrazioni economiche. …………Il problema centrale del nostro tempo è quello della potenza economica. Dove non può essere assicurata una sana regolamentazione dei rapporti di forza economici, là è opportuna e necessaria la proprietà comune. Qualsiasi concentrazione di potenza economica, anche quella nelle mani dello Stato, cela in sé pericoli. La proprietà collettiva deve essere perciò organizzata secondo principi della autonomia amministrativa e del decentramento. Gli interessi degli operai e degli impiegati, nonché il pubblico interesse e quello dei consumatori, devono .essere rappresentati presso i suoi organi amministrativi. Non attraverso una burocrazia centrale, ma con una cooperazione consapevole delle responsabilità di tutti”
Cose scritte più di 50 anni fa e perfettamente valide oggi, senza scomodare i teorici del “benecomunismo”.
Chiediamoci piuttosto perchè in Italia è stato privatizzato tutto il privatizzabile, negli anni 90, ed a farlo è stato il centrosinistra. Energia (ENEL ed ENI) , autostrade, acquedotti….settori di importanza strategica per l’industria italiana (e che hanno determinato la crisi dell’apparato produttivo). C’è piuttosto da chiedersi dove erano allora molti di quelli che oggi si riempiono la bocca di “beni comuni”.
Pretendere di costruire un soggetto politico senza una chiara visione strategica mi pare solo l’ultimo tentativo di dare una sponda a quel tipo di sinistra malpancista e continuamente lagnosa che si lamenta ma non ha nulla da proporre.
Io ho sempre sostenuto che l’antipolitica è sempre esistita. ED è anche un bene che esista, in qualsiasi società, la critica al potere, anche se si esprime in forme che non ci piacciono. Ma solo in Italia l’antipolitica tenta continuamente di divenire soggetto politico. Qui c’è l’imbroglio.
Possiamo elencare tutti i difetti della democrazia rappresentativa, fondata su partiti e sindacati, ma sappiamo, dalla storia che l’alternativa ad essa è rappresentata dalla democrazia plebiscitaria ed autoritaria che può essere quella del “governo dei tecnici” o quella dei Masaniello. Nessuna delle due mi piace. Del resto il principio di delega è connaturato a quello di democrazia. Anche nei soviet, nei consigli di fabbrica si esercita la delega (certo ad un maggior livello di vicinanza ala base) . Le esperienze positive di democrazia deliberativa di Porto Alegre e di Rosario non sono una negazione della democrazia rappresentativa, ma un suo allargamento ed una sua integrazione.
La democrazia la ricostruisce dando speranze ed idee, se no si ragiona sul nulla. Se il livello culturale della politica italiana resta quello attuale, non ci salva nessuno.
PEPPE GIUDICE
Nessun commento:
Posta un commento