Quando ancora la pagina numero tre dei quotidiani era la “terza pagina”, la “terza pagina” del quotidiano della mia città, Piacenza, Libertà di giovedì 20 marzo 1980, si apriva con un articolo firmato da Vittorio Agosti dal titolo: “Adriano Olivetti tra Maritain e Mounier”.
Era stato scritto per ricordare che erano passati vent’anni (27 febbraio 1960) dalla morte di Adriano, quell’imprenditore, per dirla con le parole di Agosti, che era.....
.... “un uomo ben piantato ed attivo nel suo tempo ..(che) ha avuto il merito di capirne a fondo i problemi e le inquietudini, tentando di alzarne il tono sociale e civile …cercando di mettere sempre l’uomo in anticipo sui suoi prodotti.”
Adriano aveva ereditato da suo padre Camillo il controllo di un’azienda fondata, a far data da oggi, giusto cento anni or sono; quando il 29 0ttobre 1908 in Ivrea, 12 soci, appunto sotto l’impulso di Camillo, costituirono la - Società in accomandita Olivetti -, la “Ing. C. Olivetti & c.”, azienda con 20 dipendenti, prima fabbrica italiana voluta per produrre macchine per scrivere, come si legge in un manifesto pubblicitario in cui campeggia un Alighieri che sembra dire agli italiani: con questa macchina potete scrivere anche voi.
Quando alla fine degli anni novanta Laura Curino e Gabriele Vacis hanno deciso di raccontare a teatro l’epopea Olivetti, non a caso hanno scolpito per il loro lavoro un titolo in cui spicca questo inciso: “alle radici di un sogno”.
Il sogno è svanito da tempo, e in un paese così poco civile come si rivela ogni giorno di più il nostro, quello di Camillo e Adriano Olivetti, forse non poteva essere altro che un sogno, a suggello della cui fine si possono fra i tanti citare due emblematici episodi.
La notizia apparsa a pagina diciannove del Corriere della Sera di martedì 29 luglio 2003, notizia con cui, nell’indifferenza generale si apponeva una sorta di burocratico timbro sull’addio alla Borsa di Milano del nome Ing. C. Olivetti & c. S.p.A., nome cui da tempo non corrispondeva più una realtà industriale del nostro paese, e, più recente, la notizia che il ministro della Cultura Sandro Bondi, con alto sprezzo del pudore, e senza provare la ben che minima vertigine per la vergogna, in un suo libro ha paragonato Silvio Berlusconi ad Adriano Olivetti.
Se il sogno degli Olivetti è finito in macerie (è di oggi 24 ottobre la notizia della chiusura ad Agliè nel canavese, di un ultimo residuo stabilimento legato a quella filiera), la stessa cosa non si può dire del loro ricordo, a cui va ascritta una pubblicistica davvero imponente e alla cui memoria appunto, si stanno approntando adeguati “festeggiamenti” per onorare il centenario della nascita della loro azienda.
Di Adriano Olivetti personalmente ho fatto appena in tempo ad avvertire gli ultimi “profumi” rimasti, essendo entrato in Olivetti nel 1970, dieci anni dopo la sua morte, ed avendo occupato posizioni di ultima fila, per tutti i quindici anni circa che vi ho trascorso.
Non ho però esitazioni o timidezze nell’affermare che quei “profumi” mi hanno segnato indelebilmente.
A fronte del trionfo odierno dei prodotti sull’uomo, anche di quelli sempre più brutti nella forma e scadenti nella sostanza, che oggi vengono sistematicamente premiati dal mercato, rimango fermo nella convinzione che la strada giusta sia ancora quella tentata da Adriano, quella di mettere sempre l’uomo in anticipo.
Anche quando nel tentare l’impresa si commettono errori.
E a proposito degli errori di Adriano, recentemente mi è capitato di ascoltare autorevolissime testimonianze in tema, portate da Nerio Nesi, che della Olivetti fu direttore finanziario voluto dallo stesso Adriano, e da Michele Pacifico, che partecipò all’avventura della divisione elettronica, che sempre Adriano decise di animare sin dalla prima metà degli anni cinquanta, quando a Pisa fondò un centro di ricerche elettroniche, alla cui direzione chiamò Mario Tchou, ingegnere di origini cinesi.
In occasione della presentazione a Milano presso la Casa della Cultura, del libro di Emilio Renzi “Comunità concreta – le opere e il pensiero di Adriano Olivetti”, Nesi ha affermato che il contemporaneo impegno finanziario sostenuto per acquistare la Underwood negli Stati Uniti e quello per lanciare l’Olivetti nell’elettronica, era superiore alle possibilità delle casse aziendali, una carenza struttural-finanziaria al cui miglioramento la famiglia, divisa al suo interno, non sopperì in alcun modo; Pacifico, sempre nella stessa occasione ha poi riaffermato la sua convinzione che in presenza del colosso IBM, allora leader incontrastato del mercato, la “missione elettronica” si rivelò per tutti, non solo per Olivetti, una missione impossibile, tentando la quale, l’azienda eporediese si scavò la fossa nella quale alla fine sprofondò.
Certo è che le morti, nel 1960 di Adriano, sul treno che lo conduceva a Losanna, e di Mario Tchou nel 1961, in un incidente automobilistico (che qualcuno definisce ancora misterioso), hanno fatto venir meno le volontà più determinate a percorrere anche in Italia e in tempo utile la “via elettronica”, e il figlio di Adriano, Roberto, da solo non si rivelò all’altezza di sbarrare la strada a quel “Gruppo di intervento” costituito da Fiat, Pirelli, IMI e Mediobanca, tanto forte economicamente quanto miope, sia sul piano culturale che imprenditoriale.
Una volta preso il comando, quel “gruppo” (che oggi chiameremmo “salotto buono della imprenditoria italiana”, per distinguerlo, almeno nominalmente, dal “salotto meno buono” di quelli che hanno fatto del falso in bilancio un motivo d’orgoglio) diede presto seguito alla raccomandazione di Valletta, estirpare il “neo” (l’elettronica) dalla Olivetti, e così fu e nel 1964 tutta la divisione elettronica venne ceduta in blocco alla General Electric.
Ancora una volta le radici italiane in un intero settore industriale venivano essiccate nonostante la linfa, le capacità, che le nutrivano.
A Piacenza dove vivo, la Ing. C. Olivetti & c. S.p.A. è stata presente, oltre che con le sue strutture commerciali, con uno dei tre poli di formazione in cui quello specifico settore aziendale era articolato, ad Ivrea/Burolo, a Firenze e appunto a Piacenza. Una presenza accompagnata dalla più serena indifferenza della città, durata trent’anni, dal 1967 alla fine degli novanta, quando qualche distratta cronaca giornalistica accompagnò una migrazione mesta, capace di lasciarsi dietro solo un riferimento toponomastico, quello all’ex palazzo Olivetti sul Pubblico Passeggio.
Vittorio Agosti nel 1980 concludeva il suo pezzo con un sentito omaggio all’utopia di Adriano, un’utopia “di quelle che onorano l’uomo”.
Oggi, che del “sogno” degli Olivetti sono state estirpate anche le seccate “radici”, a suo padre Camillo e all’ “imprenditore di idee” evocato da Franco Ferrarotti, alla “sorpresa italiana” illustrata da Giorgio Soavi, e alla “Comunità concreta” in cui Emilio Renzi riconosce “le opere e il pensiero di Adriano Olivetti”, possiamo solo rivolgere un pensiero carico di nostalgia, fargli festa come si conviene ai bene educati, e chiuderla qui, perchè visti i tempi, credo proprio di averla fatta troppo lunga.
Poffarre, abbiamo altro a cui pensare.
Vittorio Melandri
1 commento:
Adriano Olivetti ,una persona civile che diede alla politica il suo contributo di idee senza pensare di rappresentare una "società civile" e che questo gli desse il diritto di chiedere dei posti. La società civile della seconda repubblica non porta idee ma chiede posti.
Un ricordo del padre Camillo, che si fece le barricate a Milano contro Bava Beccaris, e che nel 1944 andò a morire a casa di un suo operaio di Biella, compagno di quelle barricate. A Biella, per fortuna e per civiltà, non ci furono deportazioni di ebrei.
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