lunedì 20 ottobre 2008

bettiza: vuoto a sinistra

da la stampa

18/10/2008

Vuoto a sinistra





ENZO BETTIZA

Uno dei riflessi politici più interessanti, non solo sul piano pragmatico in questo momento di crisi, è la reviviscenza delle idee e dei metodi socialdemocratici in Germania, in Gran Bretagna e, parzialmente, anche nella Francia di Sarkozy che nella sua équipe di governo contiene diversi socialisti di stampo liberale. Più che mai invece, in Italia, si avverte l’assenza a sinistra di una grande formazione socialdemocratica, proprio nelle ore in cui le capitali del mondo avanzato stanno passando dalla teoria del libero mercato alla pratica dell’intervento pubblico.

La situazione italiana esibisce il paradosso che vede un ministro economico del centrodestra, il quasi colbertiano Giulio Tremonti, riempire quel vuoto appropriandosi di proposte e ricette che furono tipiche della socialdemocrazia classica e del keynesiano New Deal di Roosevelt. Sarà infatti Tremonti ad appoggiare in novembre, al vertice allargato del G8, una seconda Bretton Woods, quella che dal 1944 al 1971 stabilizzò un nuovo ordine monetario mondiale e accompagnò i «miracoli» dell’Europa distrutta dopo la fine della guerra; ed è sempre Tremonti il difensore impegnato da tempo nella difesa di un capitalismo etico.

Un capitalismo più vicino alla società e al mondo del lavoro, depurato delle giocate d’azzardo speculative e rovinose per le banche e per le Borse. Al tempo stesso, nel pieno della crisi che sconvolge l’Europa dopo l’America, vediamo salire quasi al 70% l’indice di gradimento del governo Berlusconi. Ma tutto questo non va attribuito unicamente ai meriti, alcuni autentici e altri esagerati, di una maggioranza che sarebbe più capace dell’opposizione nell’affrontare la bufera in corso. Va attribuito soprattutto al vuoto dietro le affastellate barricate dell’opposizione. In altre parole, alla paralisi, alla non credibilità di una sinistra monomaniaca la quale, oltre a polemizzare contro ogni misura dell’esecutivo, dal ridimensionamento dell’Alitalia al maestro unico nelle scuole, non sa proporre nulla di più concreto e più responsabile che possa dare al Paese il senso di una sua partecipazione costruttiva al contenimento dei tracolli. Sembrano più utili e tempestivi i fondi sovrani e ambigui di Gheddafi che le manifestazioni e le tirate di Rifondazione, di Italia dei valori e dei ministri ombra del Pd.

L’assenza, direi storica dopo le metamorfosi del 1989, di un vero e unico partito socialdemocratico italiano, collegato ai socialismi democratici europei, è stato il regalo più gratuito che la sinistra frastagliata, divisa, anacronistica, così spesso arrabbiata con se stessa, abbia potuto fare alla coalizione di destra. Mi collego qui agli ottimi articoli che sull’argomento hanno già scritto su queste colonne Emanuele Macaluso e Lucia Annunziata. Se ci fosse un’opposizione credibile, dice Macaluso, la destra potrebbe essere meglio ridimensionata dai fatti anziché dalle chiacchiere televisive.

E, criticando i rifondatori con falce e martello, giudicando lo stesso partito di Veltroni anomalo rispetto alla sinistra europea, conclude: «Fuori dai partiti socialisti europei non c’è altro, a sinistra, che possa dare voce ai lavoratori e al tempo stesso guardare l’interesse generale della collettività nazionale e internazionale». A Macaluso fa da sponda Annunziata: «Un corteo contro il governo (quello del 25 ottobre prossimo) è stato convocato proprio mentre la situazione di disastro è divenuta così grave da obbligare tutti a collaborare per fronteggiarla. Da dentro il Pd si chiede ora di cancellare il corteo o almeno di cambiarne le parole d’ordine. Se non la debolezza, la crisi ha certo accentuato la confusione del centrosinistra». Corollario: «Una sinistra, così presa dal dipanare torti e ragioni del proprio recente passato, avrà mai la capacità di divenire, come la nuova fase richiede, una parte delle istituzioni?».

La domanda implicita è secondo me: la sinistra italiana sarà mai capace di divenire, fra le macerie e le minacce di tracolli bancari e imprenditoriali, una parte responsabile e attiva della socialdemocrazia europea? Si potrebbe raccomandare alle sinistre massimaliste e in particolare all’équipe di Veltroni di osservare con attenzione le manovre d’urto anticrisi del leader laburista Gordon Brown che, intervenendo con energia nel caos finanziario londinese, ha saputo togliersi di dosso l’immagine sbiadita dello sconfitto. Si potrebbe inoltre invitarle a leggere un’intervista appena rilasciata allo Spiegel dal ministro degli Esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier. Il numero due del governo Merkel, candidato del partito socialdemocratico alle elezioni del prossimo anno, addirittura vede nel crollo dei mercati finanziari il più traumatico evento politico dopo la caduta del Muro berlinese.

Dall’autunno nero 2008, dice, il mondo non sarà più quello di prima. Il dominio di Wall Street sui mercati e del dollaro come valuta di riferimento verrà relativizzato mentre diverranno sempre più importanti i centri finanziari di Dubai, Singapore, Shanghai, Pechino. Assistiamo alla fine di un’epoca, quella del thatcherismo e della reaganomics, in cui la rapidità e l’accumulo delle rendite avevano la massima priorità, e da allora l’economia finanziaria ha dispiegato arbitrî e saccheggi rispetto all’economia reale. Non s’era mai vista dal 1990, incalza Steinmeier, affiorare «tanta socialdemocrazia» dai dibattiti al Bundestag. Perfino i liberali e i conservatori si sono messi a suonare la stessa musica di Lasalle, sostenitore fin dall’800 dell’intervento statale in economia. I tempi, così critici per i mercati, lo sono assai meno per i socialdemocratici che vedono rinascere le loro idee in Germania e si preparano a farle trionfare nelle elezioni del 2009. Essi si sono sempre battuti per assicurare alla Germania un’industria forte, una mano d’opera professionale, un ceto medio garantito. Devono al tempo stesso riconoscere che mai, come ora, si rendono conto di fare finalmente parte di una Grande Coalizione, che apre, nell’emergenza, tanti spazi di manovra per soluzioni rapide ed efficienti.

Si dirà che per Steinmeier è facile parlare così poiché è il deuteragonista dell’esecutivo di coalizione guidato con cautela da Angela Merkel. Ma non si potrà evitare di riconoscere che, a prescindere dall’alto incarico governativo, non trapeli dalle sue parole la tradizione culturale della socialdemocrazia tedesca che già nel 1959, a Bad Godesberg, «mise in soffitta» Karl Marx. È proprio quello che in fondo non hanno mai fatto con chiarezza in Italia i comunisti di Togliatti e nemmeno i postcomunisti da Occhetto in poi, confluiti nell’odierno partito democratico di cui la metà postdemocristiana detesta apertamente di essere confusa con i socialisti o la socialdemocrazia. L’altra metà, postcomunista, non lo dice ma lo pensa.

Tutti i movimenti politici e le culture della sinistra italiana, a parte il minore e non decisivo partito di Saragat, hanno sempre ostentato la loro ostilità nei confronti dei socialdemocratici che un tempo venivano bollati come «socialtraditori». Lo stesso Giorgio Amendola che, criticato dai suoi compagni, auspicava l’avvento di un «partito unico» della sinistra, non ha mai osato varcare con passo fermo la scissione di Livorno per dire che quel «partito unico» poteva essere soltanto un partito socialdemocratico. Ancora nel 1989, come ricorda Ugo Finetti nel recente libro Togliatti & Amendola (ed. Ares), il veterocomunista Tortorella lo ricordava così: «Appena eletto Luigi Longo segretario, Amendola gli mise davanti, in un articolo che fece scalpore, la proposta del superamento dell’esperienza socialdemocratica e di quella comunista in una formazione politica unificata». Si badi: superare i socialdemocratici, non raggiungerli, in una formazione unitaria. Era già il progetto del futuro partito democratico, soltanto democratico, ed erano parole che lo stesso Veltroni continua forse a pensare ancora oggi.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Il nome proposto da Amendola era Partito del Lavoro o Laburista.

Sergio Tremolada