martedì 16 aprile 2013

Alessandro Aleotti: Milano nel probabile destino del sempre uguale

MILANO NEL PROBABILE DESTINO DEL SEMPRE UGUALE Mi occupo di Milano da tanti anni. Ho analizzato, interpretato, progettato e realizzato su una molteplicità di superfici, dai media al calcio. Naturalmente, credo in ciò che faccio, anche se mi pare ovvio che le idee a cui cerco di dar forma possano trovare persone che non le condividono o addirittura che le detestano. Solo di una cosa sono certo: analizzando questa città da molto tempo, ne conosco bene l’agenda delle priorità. Sotto questo punto di vista Milano, da almeno 20 anni (cioè, dalla rottura politica del 1992), mostra un elemento costante: al dinamismo dei soggetti che “fanno Milano” (imprese, cittadini, corpi intermedi) corrisponde un’incapacità di lettura da parte dei soggetti (dalle istituzioni ai media) che “rappresentano Milano”. Purtroppo, da questo stallo non ci siamo mai mossi. Non si tratta di incapacità della classe dirigente politica o mediatica (per quanto, un qualche freno al neofitismo politico e alla superficialità mediatica varrebbe la pena azionarlo… ), ma di meccanismi che si autodefiniscono regolandosi vicendevolmente. Da almeno vent’anni il ceto politico milanese, ormai smarrita la via del “reticolo sociale” assicurato dai vecchi partiti, si è gettato – senza alcuna precauzione – sulle pericolose superfici della “percezione” e della “visibilità”, lasciando ai media il compito di analizzare e interpretare le domande sociali. I media, però, oltre a non possedere particolari “sensori diffusi” per captare i movimenti profondi della città, sono per natura orientati a rappresentare più la “notiziabilità patologica dell’eccezione” che la “fisiologia sociale della regola” (che è quella con cui deve dialogare una buona politica). Tutto questo ha portato a un ”impazzimento” del circuito politico-mediatico che parla e scrive di una Milano che non esiste. Da almeno vent’anni , in una perfetta logica bipartisan, si guardano solo le nicchie: parlando di mobilità non si pensa alle centinaia di migliaia di automobilisti disperati, ma ai pochi ciclisti che impongono il rito salvifico delle “domeniche a piedi”; così come analizzando il disagio non ci si concentra sui costi diffusi determinati, ad esempio, dal mostruoso privilegio della rendita immobiliare, ma sugli “ultimi” che ci vengono rappresentati oleograficamente come in una cartolina del dopoguerra. A questo si aggiunga che il pur notevolissimo “sistema dei saperi” della città non sembra riuscire a colmare il gap tra città “percepita” e città “vissuta”. L’articolato sistema universitario milanese, composto di ben sette atenei, percorre autonomi sentieri di conoscenza che non riescono a sedimentare sulla città alcun “elemento condiviso”. Purtroppo, senza un vero rapporto culturale con il territorio, il sistema universitario milanese è destinato a rimanere la principale “occasione perduta” della città. Certo, Milano continua a produrre grande innovazione grazie all’aggregazione degli interessi economici, sociali e culturali che la attraversano, ma questo “sapere” e questo “fare” viene inevitabilmente indirizzato verso una crescita autoreferenziale (le imprese vogliono fare più profitti, le corporazioni vogliono più potere e ogni soggetto sociale persegue la crescita dei propri interessi). Se la politica, i media e il sapere “neutro” dell’università si mostrano incapaci di produrre “sintesi” da mettere a disposizione della città, come si può uscire da questo impasse ormai ventennale? Forse ( e dico “forse” in maniera non retorica , ma autenticamente improntata al dubbio) ci vorrebbe un tentativo neo-illuminista che riproduca ciò che è stata la migliore storia intellettuale della città, dal Verri al Cattaneo. Il problema è che non basta mettere a disposizione i “luoghi” del pensiero milanese (dal Corriere all’università), ma occorre ricostruire il mosaico di una rete intellettuale che sappia analizzare mondi non sempre riconoscibili o celebrati dal circuito mainstream. Senza una vera “chiamata” delle leadership intellettuali che la città produce naturalmente in una logica del tutto indipendente dalla volontà dei circuiti egemoni, Milano non ha alcuna possibilità di rimettere in sintonia la “rappresentazione” con i “vissuti”. Si potrebbe argomentare che - essendo stato così per vent’anni – questa “sconnessione” non produce danni reali. Invece, così non è. Proprio la mancanza di un progetto “vero” in cui riconoscersi è la principale causa della asimmetria italiana in cui la città più autenticamente globale (Milano), non solo non riesce a “riconoscersi”, ma continua a essere marginalizzata dall’egemonia della Capitale e dei suoi vecchi apparati statual-novecenteschi. Cambiare i circuiti che rappresentano la città è necessario: per Milano, ma anche per il futuro dell’Italia. Alessandro Aleotti direttore@milania.it

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