Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
martedì 30 aprile 2013
Alessandro Aleotti: Letta, l'ultimo uomo
LETTA, L’ULTIMO UOMO
Nella metafora Nietzschana l’ultimo uomo è il raffigurarsi della condizione borghese: razionale nel suo porsi, ma incapace di risolvere i problemi che si situano oltre la propria dimensione. In questo senso, il governo Letta è un esperimento politico di “ultimo uomo”. Si tratta di un governo che presenta una morfologia ricavata dagli aspetti “migliori” che si trovano sulla superficie delle retoriche condivise: i ministri sono giovani, con una forte componente femminile e con una diffusa presenza di competenze tecniche e politiche. L’antropologia di questo governo si è tenuta ben lontana sia dai pericoli insiti nel neofitismo dell’avventura grillina che da quelli provenienti dalla nomina dei principali detentori del potere politico (da Berlusconi a D’Alema, da Monti a Bersani). Sul piano programmatico, il lavoro di cucitura del nuovo Presidente del Consiglio è stato ineccepibile: seppur in una incerta prospettiva di compatibilità, tutte le principali domande politiche del momento sono state accolte, dal ridimensionamento dell’Imu al reddito di cittadinanza, dall’abbattimento dei costi della politica al rilancio degli investimenti per il lavoro. Potremmo dire che se l’agire del Governo fosse un videogame, Letta avrebbe sbaragliato ogni concorrente.
Purtroppo, l’azione del Governo non è un videogame (salvo nel cortocircuito della rappresentazione mediatica), ma un gioco con un impatto sociale ed economico non trascurabile. Partendo da questo “presupposto di realtà”, è facile prevedere che questo Governo non risolverà alcuno dei problemi che si propone di affrontare. Il motivo è facilmente spiegabile: se vogliamo risolvere i problemi rispettando i vincoli interni e internazionali che il nostro Paese si è dato , il risultato sarà che ciò che chiamiamo crisi assumerà forme sempre più gravi, mentre se affrontiamo direttamente le difficoltà economiche (sostegno alle imprese, diminuzione della fiscalità, reddito di cittadinanza e difesa dei posti di lavoro), l’economia globale avrà gioco facile nel divorarci in un sol boccone, rendendo catastrofico l’esito economico di questa azione di governo. Come si esce da questo apparente “vicolo cieco”?
La soluzione non è comprensibile da chi si muove esclusivamente all’interno delle dinamiche che abbiamo definito di “ultimo uomo”, poiché essa prevede una riflessione politica ed esistenziale che metta in discussione l’assioma di una razionalità monopolizzata dal fattore economico. Occorrerebbe, per un attimo (e per motivi che hanno a che fare con la razionalità, non con la morale) staccarsi dall’idea che l’economia ci costituisce integralmente, per rendersi facilmente conto che la felicità (cioè la condizione diametralmente opposta a quella che viviamo dentro la “crisi”) non ha direttamente a che fare con l’economia dello scambio tra lavoro e denaro, ma con la disponibilità dei beni e dei servizi offerti dal nostro “stadio di civiltà”: ci interessa avere sicurezza, non denaro; salute, non denaro; libertà, non denaro; tecnologia, non denaro; tempo, non denaro.
Certamente, a questo punto si leverà l’obiezione che tutto ciò che l’uomo desidera si compra attraverso il denaro e quindi l’economia intermedia necessariamente le nostre vite. A questa obiezione, all’apparenza così stringente, possiamo opporre l’intera storia dell’uomo che ha sempre visto la “vita materiale” come regola e la “vita economica” come eccezione. Posto che è sempre azzardato (per non dire insensato) pensare di essere giunti alla “fine della storia”, il tema politico oggi più urgente è quello di ristabilire, almeno in parte, la fisiologia che ci proviene dall’intera storia dell’uomo. Quindi, è solo mettendo all’ordine del giorno della politica una prospettiva che non si impantani nel velleitario tentativo di governare gli esiti dell’economia, che possiamo pensare di veder regredire la “crisi”, cioè quell’ossessione esistenziale che deriva dal non poter risolvere all’interno del gioco economico i problemi creati dall’economia stessa. Il perno di questa nuova prospettiva politica deve essere quel pensiero razionale che ha prodotto la principale ricchezza dell’uomo contemporaneo, cioè quella “società della Tecnica” grazie alla quale oggi viviamo in maniera certamente più confortevole che in qualunque passato. Solo se la politica guarda alla Tecnica, anziché all’economia, la grigia prospettiva che ci avvolge potrà dissolversi.
Naturalmente, possiamo anche sognare che un evento imprevedibile smentisca questa nostra facile tesi e che rinasca un Dio per poterci salvare, ma ognuno di noi in cuor suo sa che all’onirico incanto dell’utopia è sempre preferibile il terreno disincanto del mondo.
Alessandro Aleotti
direttore@milania.it
Franco Astengo: Calendimaggio. Art. 1
CALENDIMAGGIO: ARTICOLO 1 L’ITALIA E’ UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA FONDATA SUL LAVORO
dal blog: http://sinistrainparlamento.blogspot.it
“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.
Tutti conoscono il dettato dell’articolo 1 della nostra Costituzione, che ho riportato qui sopra soltanto allo scopo di far seguire un brevissimo ragionamento circa il significato di queste frasi e trarne alcune considerazioni d’attualità.
La Repubblica democratica è la forma di governo scelta dalle elettrici e dagli elettori il 2 giugno 1946 contrapponendola alla monarchia.
La Repubblica democratica si caratterizza per la partecipazione del popolo al governo dello Stato, mediante l’elezione degli organi del potere legislativo da parte di tutti i cittadini.
Sotto quest’aspetto attraverso il dettato costituzionale si rende operante il principio della sovranità popolare e si compie una scelta ben precisa: quella della prevalenza della forma di “Democrazia Rappresentativa” attuata con l’elezione da parte delle elettrici e degli elettori dei loro rappresentanti al Parlamento e ai Consigli degli Enti territoriali. Una scelta rafforzata dalla necessità del voto di fiducia al Governo da parte delle Camere e dall’elezione in forma indiretta del Presidente della Repubblica.
Esistono nella previsione costituzionale anche forme di democrazia diretta, ma ben delimitate e circoscritte in due ambiti ben precisi: quello del referendum abrogativo (il referendum confermativo per atti di modifica della Costituzione è, invece, eventuale conseguenza dell’esito di una votazione parlamentare) e quello della potestà di presentazione di progetti di legge a iniziativa popolare. Democrazia diretta che si trova in una condizione evidente di minorità rispetto alla Democrazia rappresentativa.
L’altro elemento da rimarcare, in quest’occasione, riguarda il tema del Lavoro, così come questo è configurato nel dettato dell’articolo1.
Il Lavoro è considerato dalla Costituzione il valore fondamentale che qualifica la forma dello Stato: s’impone così il perseguimento di una politica di difesa sociale, tesa a eliminare le diseguaglianze e i privilegi economici attraverso la promozione e la tutela privilegiata di ogni attività lavorativa.
Nella sostanza, con il dettato del suo articolo 1 la Costituzione Repubblicana afferma il principio dello Stato di diritto che prevede la separazione dei poteri e la supremazia della legge su tutti gli altri poteri pubblici, ma lo vivifica sottolineando il carattere democratico della Repubblica e affermando il primato della Costituzione che è il manifesto dei principi e dei diritti fondamentali.
La Repubblica, che si basa unicamente sul consenso popolare, riconosce il lavoro come principio basilare della società nel senso dello Stato sociale e on conferisce più alcun valore al censo, ossia al possesso di ricchezze, soprattutto quelle ereditariamente acquisite, o ai privilegi di nascita o di casta, ma favorisce tutte le iniziative necessarie per garantire l’eguale dignità sociale e affermare il diritto del lavoro per tutti.
In conclusione di questa sommaria esposizione dei contenuti presenti nell’articolo1 della Costituzione Repubblicana credo sia il caso di svolgere una considerazione di fondo: se anche soltanto ci limitiamo ad analizzare l’insieme delle vicende politico – istituzionali dell’Italia principiando dalle modalità di nomina del governo Monti (Novembre 2011) senza risalire di più all’indietro, non possiamo fare a meno di notare come, sia al riguardo del tema della democrazia rappresentativa, dell’esercizio del consenso popolare e del tema – fondamentale – del diritto del lavoro ci si stia muovendo ai limiti, se non già al di là della Costituzione.
Ciò che si sta preparando, con l’idea di una “Convenzione delle Riforme”evidentemente orientata verso il mutamento della forma di Stato in senso presidenzialista, non può che suscitare un grave allarme.
Il tema della qualità della democrazia, così come questa è stata delineata dalla Costituzione del ’48 diventa un’assoluta priorità politica per una sinistra che intenda ancora affermare i principi della rappresentatività e della presenza dei lavoratori sulla scena politica del nostro Paese.
Franco Astengo
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lunedì 29 aprile 2013
Aldo Penna: La notte dei lunghi coltelli
Dopo il giro di valzer dell’incontro con i 5 Stelle e le continue professioni di incompatibilità con il centrodestra, il Pd aveva sperato che la formula suggerita da Napoletano, ovvero una riedizione a parti invertite del 1976, e dunque un monocolore Pd sostenuto dal centrodestra, riuscisse a sbloccare la situazione di paralisi che l’assenza di una maggioranza in Senato aveva determinato.
L’irrompere nel calendario parlamentare dell’elezione del Presidente della Repubblica accelera e fa precipitare tutti gli scenari abbozzati. La mano tesa verso il Pdl è Franco Marini, candidatura che non gode né di buona stampa, né dei consensi necessari e frana alla prova del primo voto.
Con il sorgere delle candidature 5 Stelle tutto cambia. Nella rosa, seppur in ultima posizione, c’è un uomo davvero pericoloso: Prodi. Occorre dunque bruciare subito la sua candidatura, evitare che proseguendo nelle prove a vuoto l’ostinazione dei 5 Stelle per Steano Rodotà si attenui e la caduta di altri candidati proposti e immolati produca l’emergere dell’ex Presidente del Consiglio come figura su cui anche il Movimento di Beppe Grillo converga.
Bersani non svelerà mai chi gli ha suggerito la mossa Prodi. I tradimenti hanno molte facce, e quella consumata con l’affossamento di Prodi ha cento volti oscuri che la formazione del Governo di Enrico Letta ha iniziato a mettere in luce
Come una bomba nelle stive della nave ammiraglia, la sconfitta produce effetti immediati: cade Bersani politicamente, fisicamente, emotivamente. I registi comuni dell’operazione cominciano a sentire aria di vittoria. Convincere Napolitano è un gioco. Il senso dell’eterno e dell’indispensabilità alberga in qualunque uomo, l’età è un accessorio fastidioso e il sacrificio richiesto ha il sapore della storia.
Il Presidente della Repubblica votato da metà Parlamento nel 2006 sarà innalzato, nel silenzio della Costituzione che non prevede, ma non proibisce un secondo mandato, tramite un plebiscito. Chi è abituato a tradire non vuole essere tradito e applica alla beatificazione la marchiatura della scheda.
Adesso quello sempre respinto in campagna elettorale potrà essere realizzato. Il Presidente conferisce l’incarico a un uomo giovane per gli stereotipi italiani, ben visto dal centrodestra, ministro con il centrosinistra. E così la nuova legislatura si apre all’insegna di storiche fratture: il doppio settennato e, per la prima volta, la grande coalizione non delegata. Il giaguaro ha un manto nuovo, lo smacchiatore è sulla via dell’esilio e i giornali, con sparute eccezioni, lodano l’abbraccio mortale. Ognuno pensa che stritolerà l’altro anche se il passato dopo Occhetto, Prodi, D’Alema, Veltroni, Rutelli, Bersani non lascia sperare epiloghi diversi.
Naturalmente la legge elettorale sarà solo modificata e non cambiata del tutto. Le consorterie che hanno divorato le speranze di una nazione tireranno gran sospiri di sollievo. La commistione tv-potere politico sarà costituzionalizzata, la sudditanza dei media rafforzata, la piazza vista come somma di zotici rompiscatole che disturbano i manovratori.
I costi della politica subiranno una lieve sforbiciata, ma rientreranno presto sotto forma di nuovi privilegi. L’abolizione del finanziamento pubblico del 1993, divenuto rimborso elettorale moltiplicando per quattro le cifre abolite, lo dimostrano.
Come una falange macedone, il sistema dell’informazione tenta di sommergere di ridicolo gli esponenti del Movimento 5 Stelle. Beppe Grillo e i suoi sono un corpo estraneo, parlano di abolizione dei sostegni all’editoria, cancellazione degli ordini dei giornalisti: non abbiano parola, gli italiani si redimano!
Le bordate berlusconiane sembrano timidi vagiti raffrontati alla nuova potenza di fuoco. Mentre si consuma la fiera delle vanità sotto l’insegna della responsabilità, l’Italia si immerge sempre più nel tunnel della disperazione. Le piccole imprese chiudono, il futuro ha le fosche tinte dell’impoverimento di massa e chi ha dominato continuerà a signoreggiare. Il risveglio di chi dorme sotto l’incalzare degli incubi è rovinoso, e gli italiani dormienti sembrano prossimi a destarsi.
Aldo Penna
domenica 28 aprile 2013
Fabio Vander: Per il Partito della Sinistra Italiana
Per il Partito della Sinistra Italiana
La situazione è grave. È grave per la sinistra italiana, per il centro-sinistra italiano, per la Repubblica. Una crisi di sistema e che viene da lontano, ma che oggi sta vivendo la sua fase più acuta. La vicenda della rielezione del Presidente della Repubblica ha evidenziato in modo preoccupante l’incapacità del Parlamento, dei partiti, della classe dirigente, dell’intero sistema democratico di funzionare in modo adeguato. Questo mentre la situazione economica si aggrava diffondendo povertà, disoccupazione, ingiustizie e allarme sociale.
Per reagire a questa situazione di fatto occorre una risposta politica alta, strutturata, consapevole delle proprie responsabilità.
E invece il panorama offerto dalla cronaca è tutt’altro.
Quello di una destra come mero comitato d’affari personali, concentrato di pulsioni anti-democratiche, anti-costituzionali, reazionarie, corriva con il peggio della società italiana. Tutti gli altri tentativi di proporne un profilo più moderno, democratico ed europeo sono falliti: da Casini, a Fini, ai vari “Terzi Poli”, da ultimo Monti.
Anche il PD, che doveva essere l’altra gamba del “bipolarismo” italiano si è mostrato invece un potente fattore di crisi di sistema. È un progetto fallito, non solo per insipienza tattica, ma per vizio strategico. Il fallimento era scritto nel suo codice genetico, frutto dell’equivoco di fondo di tenere insieme ciò che in una condizione di normalità andrebbe distinto: sinistra e centro, moderati e riformatori, ex-democristiani ed ex-comunisti. Nati per rappresentare l’alternativa a Berlusconi, ne hanno invece garantito la perpetuazione, l’inamovibilità dal centro della scena politica nazionale. Confermatasi clamorosamente con la nascita del governo Letta, nonostante la sconfitta elettorale e la perdita di milioni di voti.
Il PD ha perso con Veltroni e con Bersani, in versione moderata e in versione laburista, come “partito a vocazione maggioritaria” e come partito “coalizionale”. Le stesse “primarie”, presentate come il nuovo strumento democratico del XXI secolo, si sono rivelate solo vettore di disastro politico ed elettorale per Prodi nel 2006, per Veltroni nel 2008, per Bersani nel 2013.
Questi i risultati del ‘nuovismo’, di una cultura della democrazia improvvisata e tralatizia.
A questo si aggiunga che dopo il fallimento di Bersani il partito è rimasto schiacciato a destra sull’asse Letta-Renzi e legato ad un’esperienza di governo succube a Berlusconi.
Per non dire della sinistra. Il Paese delle “due sinistre” si trova da anni senza nessuna sinistra. Né radicale, né riformista, né parlamentare, né dei movimenti.
La verità è che anche qui dopo la scomparsa dei grandi soggetti storici della democrazia italiana: dal Partito comunista, al Partito socialista, alla tradizione laico-repubblicana, nulla è rimasto di serio ed adeguato.
La parabola di Rifondazione è stata mesta e senza sbocco, come dimostrato da ultimo dallo svanire del progetto di “Federazione della Sinistra”.
La proposta di Ingroia è finita, come inevitabile, nel nulla.
Quanto a Sinistra ecologia e libertà è un altro dei fattori gravi della crisi attuale. Quello di Vendola è stato sin dagli inizi un progetto politico asfittico e miope, lo sciagurato slogan “non voglio un partito ma riaprire la partita” ha portato a non avere né un partito di sinistra, né la riapertura della partita politica. La tardiva riscoperta della necessità di un “nuovo partito della sinistra di governo”, per non apparire opportunistica, dovrà vedere SEL collocarsi al servizio di un più ampio processo costituente della sinistra italiana; un processo partecipato, democratico e chiaro nelle sue premesse e nei suoi fini: rifondare la sinistra per rifondare l’Italia.
La domanda urgente è allora: data la sconfitta elettorale di “Italia Bene Comune” ovvero l’ennesimo fallimento dei gruppi dirigenti del centro-sinistra italiano, che fare?
Occorre un nuovo partito della sinistra. Un nuovo centro-sinistra. Una nuova democrazia dell’alternanza.
1) La sinistra ha bisogno, per tornare ad essere, di un nuovo partito. Che sia radicato nei luoghi di lavoro, nella società, nel territorio. Chi dice che il partito politico è una forma di organizzazione novecentesca e dunque superata, è un ignorante in fatto di politica e teoria politica ovvero è in malafede. In democrazia i partiti sono una componente indispensabile del sistema, un modo di raccogliere istanze e bisogni della società e portarli, “con metodo democratico”, a determinare la politica nazionale. Come recita la nostra Costituzione. E noi restiamo fermi al dettato costituzionale. Certo “con metodo democratico”. Il nuovo partito dovrà rinunciare a leaderismi e personalismi, a forme di investitura plebiscitaria, garantendo modalità di partecipazione, decisione e controllo da parte degli iscritti. In questo quadro il riequilibrio di genere è un valore, una risorsa costituita dalla capacità delle donne di portare nel discorso politico nuove istanze di qualità e di cittadinanza.
Ma dovrà trattarsi soprattutto di un partito di sinistra, democratico e socialista. Nazionale e internazionalista. Di sinistra perché indispensabile superare la logica stessa di un centrismo anonimo e asfittico; democratico sia nel senso che la democrazia è amputata se non c’è la sinistra, sia quanto alla vita politica interna; socialista poi perché irrinunciabile è una critica radicale e al tempo stesso democratica del capitalismo. Non basta essere anti-liberisti. La centralità del lavoro, non è istanza laburista o sindacalista, ma architrave sociale e valoriale di una prospettiva di giustizia ed eguaglianza per i lavoratori, le persone, la società.
2) Un nuovo centro-sinistra è poi indispensabile. La sinistra è disponibile ad un accordo con le forze riformiste e democratiche nella prospettiva di dare al Paese un governo autorevole, di cambiamento e di progresso. Idee, programmi, uomini e donne della sinistra sapranno contribuire, in forma autonoma ed originale, alla definizione appunto di un progetto e di un programma adatto all’Italia e all’Europa del XXI secolo.
Ma la soluzione di continuità con le esperienze degli ultimi decenni dovrà essere tangibile. Se infatti l’orizzonte europeo è imprescindibile, imprescindibile è anche rompere con le politiche liberiste e dell’austerità, che sono state i veri fattori di crisi e di instabilità. L’Europa negli ultimi venti anni è peggiorata. Peggiorato lo stato dell’economia complessiva, peggiorata la condizione dei lavoratori e dei loro diritti, come quella dei disoccupati, dei precari, dei giovani, degli anziani.
L’Europa che vogliamo è quella della giustizia, della eguaglianza, di una effettiva democratizzazione delle sue istituzioni.
3) Alternativa per noi è portare un progetto di rinnovamento e di giustizia al governo del Paese. Un progetto alternativo appunto a quello della destra. Al grumo di interessi, modi pensare e stili di vita che essa rappresenta. Siamo anzi convinti che tanto più il centro-sinistra sarà capace di accreditarsi come forza di autentico rinnovamento, quanto più la destra sarà costretta a riqualificarsi in senso democratico ed europeo. Ponendo finalmente termine al ventennio berlusconiano.
La democrazia nel suo complesso trarrà giovamento da una nuova sinistra e da un nuovo centro-sinistra. Andando oltre la stagione della cosiddetta Seconda Repubblica nell’unico modo progressivo possibile: superando gli attuali soggetti politici e contribuendo ad una democrazia articolata secondo la netta distinzione fra una sinistra e una destra, entrambe rinnovate, credibili, europee.
Il nostro è quindi un appello a tutti gli uomini e le donne della sinistra. Appello a dare vita alla Costituente del Partito della Sinistra Italiana. La Costituente come centro di raccolta di idee, energie, programmi, ma al tempo stesso protagonista sulla scena politica. Soggetto politico tra gli altri, capace di contrastare la logica esiziale delle “larghe intese” in nome di un autonomo, ambizioso, programma politico. Dobbiamo riuscire nel compito arduo ma necessario di fare politica nel mentre tentiamo di ripensare la sinistra italiana. Le due cose insieme. Saremo quello che saremo capaci di fare. Solo così si potrà ritrovare un senso e una missione, fatta di autonomia culturale e politica, qualità della classe dirigente, promozione della giustizia, dell’eguaglianza, della responsabilità nazionale.
Nei punti alti della sua storia la sinistra italiana ne è stata capace.
sabato 27 aprile 2013
venerdì 26 aprile 2013
Felice Besostri: Schauble
Ieri a radio24 Shauble è stato chiaro che più chiaro non si può:
Dalla crisi non si esce col Keynesismo in qualunque delle sue varianti, di destra, di centro di sinistra; l'uscita dalla crisi è il frutto di pratiche virtuose.Ha detto : "Siete un paese di politici imbelli senza credibilità, senza una politica industriale, diviso e disorganizzato". Lo sviluppo arriverà quando imparerete a stare al mondo. E' quel tipo di monito che da sempre ci risulta quello più ostico da digerire.
Felice Besostri
giovedì 25 aprile 2013
Rino Giuliani: Il 25 aprile
Il 25 aprile : lavoro, diritti e giustizia sociale.*
Il 25 aprile 1945 segna nella memoria delle generazioni che si sono
succedute fino ad oggi il ricordo della sollevazione popolare e della lotta
armata per riconquistare la libertà.
La libertà senza giustizia sociale può rapidamente declinare nell'arbitrio e
nella arroganza sorda di chi è più forte. E' per questo che la nostra
Costituzione a completamento di un processo storico rivolto a restituire
rafforzate le istituzioni della rappresentanza parlamentare ha indicato con
l'art 3 il cammino del superamento costante delle diversità discriminanti
esistenti fra i cittadini.
Vi è insita nella Costituzione italiana una grande energia rivolta al
cambiamento positivo.
La nostra Costituzione può anche essere oggetto di modifiche solo se si
parte dalla osservanza dei principi ispiratori e se si resta nell'ambito
rigoroso delle volontà manifestate dai padri costituenti.
Oggi la Costituzione materiale è stata oggetto di continue manutenzioni che
hanno profondamente innovato in modo rapido e consistente.
Ogni cittadino deve essere il custode inflessibile dei valori e dei principi
costituzionali. Un paese che virasse verso poteri oligarchici di fatto, che
confondesse la governabilità con l'assenza di controllo degli esecutivi, che
vedesse, come è avvenuto, il diritto al voto alterato dai premi di
maggioranza fuori da ogni logica democratica non è il paese che si è voluto
ricostruire dalle macerie della guerra e dopo la dittatura.
Il paese che viviamo oggi è indurito da decenni di predicazione dell'egoismo
e dell'individualismo.
I poveri sono sempre di più e sempre più soli. Non vi è fiducia nel futuro.
Non ci sono enti intermedi che adeguatamente organizzino le aspirazioni dei
cittadini e ne realizzino il desiderio di partecipazione. Le istituzioni
continuamente colpite non hanno la credibilità necessaria. Le persone
sono lasciate sole nella loro singolarità, nel prevalere di risentimenti,
nella emarginazione della razionalità, attratte dai richiami agli istinti,
chiuse in rancori e disperazioni che non diventeranno mai proposta politica
e condivisione fra cittadini di una comunità consapevole ed unità. Anche
nelle famiglie salta il legame forte che univa mutualmente soprattutto nei
momenti difficili.
Donne , uomini, giovani ed anziani sono ripiegati su se stessi . .
E' un intero paese,l'Italia, che si è chiuso in se stesso.
L'Europa dei popoli non è più vista come il passaggio ulteriore della
democrazia delle nazioni.
Egoismo e autoreferenza è il segno distintivo di una sterilità dei
comportamenti individuali e collettivi che si ritrova, in parte, anche nel
movimento sindacale.
In quest'ultimo caso maggiore è la gravità delle conseguenze perché
l'esercizio della democrazia nei posti di lavoro non può passare attraverso
la divisione ma con il potenziamento dell'unità dei lavoratori attraverso
l'unitarietà della loro organizzazione.
La democrazia rappresentativa nei posti di lavoro fa bene anche al mondo
delle imprese e nel pubblico impiego se si va all'attacco per rinnovare, per
cambiare i rapporti in nome della democrazia e della giustizia sociale. Il
conflitto sociale fa bene alla democrazia e fa bene quindi a tutti.
Questo 25 aprile vede un paese nel quale l'antipolitica è in effetti forma
e contenuti politici esercitati da tutti partiti, anche se fra loro diversi,
nessuno escluso.
Come uscire dal vicolo cieco?
Il miracolo rappresentato dall'inedito ritorno al Quirinale di un Presidente
della Repubblica che ne era appena uscito non rappresenta soltanto il
risultato di una eloquente capacità di reciproca neutralizzazione dei
diversi partiti oggi in parlamento ma anche la fotografia altrettanto
eloquente dello stato di salute di un paese cui, per troppi interessati
egoismi,non viene data una seconda chance.
Consola la notizia che il 25 aprile prossimo il sindaco di Milano intitolerà
un parco ad Aldo Aniasi, socialista, partigiano comandante di divisione
delle Brigate Garibaldi, medaglia d'argento al valor militare della
Resistenza , più volte sindaco della città di Milano e che la presidente
della Camera Boldrini sarà con le associazioni partigiane in piazza Duomo
per ricordare l'inizio di una vita nuova che si aprì nel 1945 per il nostro
amato paese. Oggi e sempre Resistenza.
* Rino Giuliani vicepresidente dell'Istituto Fernando Santi.
(santi news)
mercoledì 24 aprile 2013
Diego Dilettoso: La crisi del PD vista da Parigi
L’attualità degli ultimi giorni ha mostrato, in tutta la sua gravità, lo scollamento in atto tra il PD ed il suo elettorato. Non è certo l’elezione sul filo di lana di Deborah Serracchiani alla presidenza del Friuli Venezia Giulia ad invalidare questo dato di fatto. D’altronde, è ormai evidente a chiunque come gli eterni tatticismi piddini rispondano, innanzitutto, a logiche spartitorie del potere. Non si spiegherebbe altrimenti la “riedizione politica” del governo Monti che si sta profilando in queste ore. Per “motivare l’immotivabile” agli occhi degli elettori, i dirigenti democratici sostengono come in questa fase sia necessario superare le divisioni storiche tra “destra” e “sinistra” in nome di alcune “riforme condivise”. Per quanto quest’ultime continuino ad essere presentate in modo vago – ed il rapporto dei dieci “saggi” non contribuisce certo alla chiarificazione – resta largamente intuibile la direzione che queste prenderanno. Secondo i diktat della famigerata troika oltreché della Germania, la parte economica di queste “grandi riforme” coincide con il sostanziale restringimento delle politiche pubbliche nazionali, che tendono a diventare, sempre di più, dei meri esercizi di contabilità finanziaria al ribasso. In questo senso, si può sostenere che l’implosione del PD sia solo una delle possibili manifestazioni di una crisi d’identità più profonda, che tocca quasi tutti i partiti della sinistra democratica europea.
Pur con tutti i distingui del caso, anche il Parti socialiste francese sta vivendo al suo interno una crisi lacerante. Numerosi simpatizzanti, quadri, dirigenti, parlamentari, e perfino ministri socialisti, si interrogano, sempre più apertamente, sugli orientamenti strategici del governo e del Presidente. In effetti, c’è di che porsi delle domande: ad appena un anno dalla sua elezione, Hollande ha già disatteso la maggior parte delle sue promesse. Riassumendo: ha “regalato” 20 miliardi di sgravi fiscali alle aziende per stimolare un misterioso “choc di competitività”, ha aumentato le tasse a tutti (anche se, contrariamente a quanto si pensa, le ha alzate soprattutto alle classi medie), non ha ancora fatto nulla per quanto riguarda la lotta alle delocalizzazioni, l’evasione fiscale, ecc. Per quanto riguarda la politica bancaria, aveva promesso di separare le attività di deposito da quelle speculative, ma anche questo progetto è rimasto senza seguito. A livello europeo, ha accettato, dopo qualche timida protesta, il fiscal compact, ricevendo, in compensazione, un magro quanto fantomatico “patto per la crescita”. Più, in generale, ha subito la Welt politik di Angela Merkel: in sostanziale continuità con il quinquennio sarkozista, ha preferito, di fatto, schierarsi dalla parte della Germania contro i paesi del sud dell’Europa – basti pensare alla sorte toccata, di recente, a Cipro.
Per il resto, la Chambre des Députés ed il Senat sono rimasti bloccati per quasi un anno a dibattere sul Mariage pour tous (il matrimonio aperto alle coppie omosessuali): 175 ore di discussione in seduta plenaria a cui vanno addizionate le decine e decine di ore di dibattito delle commissioni parlamentari. Non si capisce bene perché ci sia voluto così tanto tempo per far approvare un progetto di legge che era uno dei capisaldi del programma presidenziale di Hollande (e anche di Ségolène Royal nel 2007) e che raccoglie il favore della maggioranza dei francesi (58%). Questo eternizzarsi dei dibattiti ha, infatti, contribuito ad acuire le tensioni tra i “pro” e gli “anti” Mariage pour tous: d’altronde, la Francia non è mai stata quel monolitico “bastione della tradizione laica” che viene dipinto in Italia; 220 anni dopo la Rivoluzione francese, sussistono ancora delle forti pulsioni identitarie in seno alle diverse confessioni religiose. Nasce il dubbio che, in un periodo di grave crisi economica, l’esecutivo cerchi, maliziosamente, di concentrare l’attenzione dell’opinione pubblica sui problemi di società piuttosto che su quelli sociali. Per rispolverare un po’ di terminologia marxista, la presidenza Hollande sembra privilegiare, più o meno scientemente, le “strutture” alle “sovrastrutture”. A coronare questa “tempesta perfetta” si sono aggiunti alcuni scandali che hanno fatto precipitare la (già bassissima) popolarità del Presidente. Recentemente, la stampa ha scoperto che il Ministro del Budget, Jerome Cahuzac, aveva un conto cifrato in Svizzera – il che è il colmo per un ministro il cui compito consisteva proprio nel combattere l’evasione fiscale… Il risultato è che, dopo appena un anno di mandato, il 75% dei francesi giudica Hollande un cattivo presidente. D’altra parte, la destra si è molto radicalizzata, ed i militanti dell’UMP chiedono con sempre maggiore insistenza un accordo elettorale con il Front National. Se la situazione non cambierà, ci sono discrete possibilità che il secondo turno delle presidenziali del 2017 si svolga tra l’estrema-destra di Marine Le Pen e la destra sempre più estremista ed affarista di Nicolas Sarkozy e Jean-François Copé.
Si ritorna al punto di partenza: la crisi del PS come del PD sono, almeno in parte, il frutto di trent’anni di sudditanza culturale nei confronti dell’ideologia mercatista. Per Hollande come per Bersani e per Renzi, il ruolo della politica sembra limitarsi all’accompagnamento, più o meno timido, delle grandi mutazioni economiche. Quest’arrendevolezza nei confronti del liberismo suona tanto più sospetta in paesi latini come l’Italia e la Francia, in cui questa teoria economica si è quasi sempre declinata in forme corrotte – Sarkozy (ma anche Cahuzac) sono i degni eredi del clima culturale da “enrichissez-vous” già in voga ai tempi di Guizot... Pochi anni fa, il grande storico Tony Judt si era posto alcune domande sul ruolo della sinistra che ancora oggi restano d’attualità: “Perché ci riesce tanto difficile anche semplicemente immaginare una società diversa? Perché sembra al di sopra delle nostre forze concepire un assetto diverso, che vada a vantaggio di tutti? Siamo condannati a oscillare all’infinito fra un ‘libero mercato’ disfunzionale e i tanto sbandierati orrori del ‘socialismo’?” (Guasto è il mondo, Bari, Laterza, 2012, p.29)
È ovvio che un socialista del 2013 non può limitare la sua azione alla difesa del Welfare State figlio delle Trente glorieuses. Le proposte per una maggiore “giustizia sociale” devono adattarsi alle realtà di un mondo globalizzato. Ma questa necessaria presa di coscienza non può coincidere, sempre e comunque, con l’accettazione passiva della regressione dei diritti sociali e civili, al contrario… Ci troviamo ancora in una fase in cui non sono chiari gli esiti dei conflitti interni alle nostre società. Tuttavia, è facilmente pronosticabile che dalle macerie dei corsi e dei ricorsi storici sorgeranno “nuove idee” ed anche alcuni “uomini di buona volontà”. In concreto, è ormai ineludibile la formazione in Italia di un partito “socialista” e “liberale” (ovviamente, non liberista) a sinistra del PD; in Francia, è probabile che le giovani generazioni di militanti e di quadri non restino a guardare le vecchie classi dirigenti mentre affondano il Parti socialiste. È difficile fare pronostici sulla forma ed i contenuti che assumeranno le istanze del progresso, ma sarebbe già una bella conquista se si ispirassero, per davvero, a due principi immortali: “Giustizia” e “Libertà”
Diego Dilettoso
martedì 23 aprile 2013
lunedì 22 aprile 2013
domenica 21 aprile 2013
Vittorio Melandri: Continuità nella continuità
CONTINUITÀ NELLA CONTINUITÀ…
ovvero, senza soluzione di continuità, sulla torre ci stanno sempre loro
L’editoriale di Eugenio Scalfari del 21 aprile (natali di Roma) come spesso accade da qualche anno in qua, rispecchia meglio di ogni altra analisi, lo stato di de-grado in cui sessant’anni di ….. discontinuità(?) nella continuità hanno ridotto il nostro paese.
Partendo dal titolo, “Solo lui può riparare il motore imballato”, abbiamo subito una dichiarazione di resa incondizionata di una intera classe dirigente, Scalfari compreso ovviamente, che in sessant’anni è stata incapace di creare quella minima discontinuità in grado di marginalizzare la pratica della “cooptazione”, e non solo, non è nemmeno capace di trovare, fra sessanta milioni di italiani, uno in grado di essere almeno “cooptato” al posto di Napolitano.
Ma questa classe dirigente, di cui Scalfari è specchio e contemporaneamente immagine riflessa, è talmente priva della capacità di provare vergogna, che ci sbattono innanzi tutto in faccia la loro INFINITA prosopopea, e la loro INFINITA arroganza, senza provare il minimo fremito….
… ma anche senza esprimere almeno… una viva e vibrante soddisfazione, per continuare a fottere noi cittadini semplici, che almeno ci potremmo consolare sapendo che siamo utili a qualcosa.
Niente di tutto questo, a noi cittadini da questa classe dirigente è riservata solo prosopopea arroganza e indifferenza.
Esemplare quante altre mai la frase seguente di Barbapapà, spesa per descrivere quanto accaduto nelle ultime ore in un Parlamento, e che sarebbe per Scalfari un “Parlamento ingovernabile e abitato da partiti autoreferenziali, due dei quali caratterizzati da populismo e demagogia e l’altro dominato da correnti contrapposte”, mentre lui no, lui non è autoreferenziale, è solo onnisciente come suo malgrado è costretto ad autodenunciare…….
“Tutto questo non era prevedibile due settimane fa, MA NON DA ME che lo sentivo arrivare e ne ero profondamente preoccupato.”
Aggiungo solo una frase ancora, anche se si potrebbe continuare a lungo, tanto la fonte dell’arroganza di Scalfari risulta profonda ed in grado di fornire inesauribili spunti di riflessione amarissima… dice Scalfari…
“Adesso Napolitano farà un governo….”
Il fatto però è che la Costituzione nei nove articoli (83-91), che disegnano figura e compiti del Presidente della Repubblica, nomina la parola Governo una volta sola, per dire che il Presidente della Repubblica…..
“Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo.”
E solo all’Art. 92. sotto il TITOLO III IL GOVERNO, Sezione I Il Consiglio dei ministri, al secondo comma la Costituzione stabilisce che:
“Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri.”
Questo in lingua italiana non significa che Napolitano “farà un governo”, e poiché continuo a pensare che Grillo sbagli a dire che siamo in presenza di un golpe, devo pensare che sbaglia anche Scalfari, diversamente avrebbe ragione Grillo, tertium non datur.
La drammatica conclusione è che è ora di buttare dalla torre insieme al marcio che ammorba la Repubblica italiana, anche gli inutili, perché arroganti, “disinfettanti” alla Scalfari, che si dimostrano solo capaci di buttare gli altri dalla torre, soprattutto quando altri ancora, hanno magari già provveduto…
vittorio melandri
sabato 20 aprile 2013
Francesco Somaini: PD allo sbando, unire la sinistra socialista
Compagni e compagne,
Mi pare che l'esplosione del PD, da alcuni di noi preconizzata da
tempo (da qualcuno prevista, da altri auspicata), sia ormai un fatto
più che acclarato.
A questo punto, quali che possano essere gli esiti delle partite per
Quirinale, governo e legislatura, si va necessariamente verso scenari
politici nuovi. Qualcosa di nuovo si dovrà fatalmente produrre nella
Sinistra italiana.
Sarebbe bene allora che la galassia del Socialismo di Sinistra, largo
e disperso riuscisse in tempi rapidi ad acquistare una voce ed una
visibilità nei processi politici che si verranno inevitabilmente ad
aprire.
Ripartire dall'ipotesi di quel patto di unità d'azione e di mutua
consultazione di cui si parlò alla Fondazione Nenni nel gennaio del
2012 mi sembra un'esigenza assolutamente vitale e non più
procrastinabile.
Riunire la galassia, superare le incomprensioni, i particolarismi e
le diffidenze reciproche, e compiere da parte di tutti uno sforzo
unitario è un'istanza ormai imprescindibile.
Lasciarla sfumare sarebbe un errore assai grave.
Un saluto,
Francesco Somaini
Franco Astengo: A occhi chiusi nella nebbia
A OCCHI CHIUSI NELLA NEBBIA
dal blog: http://sinistrainparlamento.blogspot.it
I numeri relativi alla quarta votazione dell’elezione del Presidente della Repubblica parlano chiarissimo: il PD ha bruciato anche la candidatura dell’ex-ministro di Andreotti Romano Prodi e pare muoversi davvero “a occhi chiusi nella nebbia”.
Prima di provare a tirar giù un minimo di analisi sommaria è necessario però segnalare come sia avvenuto, nella storia della Repubblica, un fatto inedito e molto grave: l’intero centrodestra non ha partecipato al voto. Un gesto di vero e proprio “spregio istituzionale”, da rimarcare con forza.
Andiamo allora al merito del risultato: Prodi si è assestato a una quota che pare rendere impossibile la prosecuzione della sua candidatura (non sarebbe bastati neppure i voti di Scelta Civica, andati al prefetto Cancellieri) mentre è andata ben oltre la propria quota di riferimento la candidatura di Stefano Rodotà proposta dal Movimento 5 Stelle (e SeL non ha contribuito in questo senso, avendo blindato il proprio voto per Prodi imponendo ai propri senatori e deputati di votare con la sigla “R.Prodi”, una scelta ai limiti del ridicolo, se non peggio).
Il disfacimento è tutto e solo del Partito Democratico senza se e senza ma.
Si tratta di un disfacimento che arriva da lontano, derivante non tanto e non solo dagli errori “tattici” compiuti dal momento delle dimissioni del governo Berlusconi in poi: dall’appoggio al governo Monti, alla pervicace insistenza di Bersani e Vendola sul “governo di cambiamento” dopo aver perso le elezioni.
Le cause di questo stato di cose sono diverse: prima fra tutte la concezione del partito fondato sulla logica maggioritaria della governabilità, la personalizzazione “in discesa” tra il centro e la periferia (ricordiamo la felice definizione del “partito frattale”), l’incapacità di proporre una sintesi politica ed organizzativa controcorrente alla degenerazione del sistema dei partiti, l’assenza di un vero dibattito politico mentre sempre più si apriva il fossato tra la società e la politica.
Il PD ha perso le elezioni per aver appoggiato e portato avanti una politica di destra e sta perdendo completamente la bussola sul piano istituzionale proprio per questa sua natura interna, sublimata dal cosiddetto metodo delle primarie, che invece di rappresentare (come pensavano certi “soloni”) un momento di ripresa della partecipazione politica hanno rappresentato, invece, il veicolo per minare alla base il partito attraverso l’esaltazione del meccanismo dell’individualismo competitivo.
La sinistra, se vuol essere tale e il PD non appare appartenere a questo schieramento, non può scimmiottare i modelli di altri che si sviluppano in contesti molti diversi: la forma – partito, la concezione della politica rivestono, sempre e comunque, un’importanza fondamentale.
Non entriamo nel merito di altri spunti d’analisi che pure meriterebbero di essere considerati, come quello riguardante il Movimento 5 Stelle (nato sul web, in funzione leaderistica, ecc, ecc) che avrebbe dovuto essere oggetto di “scouting” rivolto soggettivamente ai suoi parlamentari che, invece, non solo si è mantenuto compatto ma ha funzionato anche, attraverso una candidatura di alto livello come quella di Rodotà, vero e proprio polo d’attrazione.
Una vera e propria “fascinazione”.
E adesso pover’uomo? Ovviamente non tocca a noi indicare soluzioni, ma quella che appare maggiormente praticabile, a questo punto potrebbe essere quella di una conferma “a tempo” di Napolitano.
E’ questo il punto più basso nella vita delle istituzioni repubblicane, un punto dal quale risalire soltanto aprendo una dinamica politica diversa, restituendo alla rappresentanza il suo ruolo, proponendo una modifica del sistema elettorale in senso proporzionale e ponendo al centro questa questione nella prossima fase che dovrebbe condurre, entro pochi mesi, alle elezioni anticipate: nel frattempo urgono i grandi problemi della gestione della crisi, dalla disoccupazione, alla povertà crescente, alla disperazione dei tanti.
La sinistra d’alternativa deve trovare la strada di una riflessione comune, rielaborando strategicamente la propria presenza nel panorama politico italiano: una richiesta che ci permettiamo di avanzare in modo pressante.
E’ impensabile che all’interno di questo stato di cose che abbiamo emblematizzato descrivendo il caos sorto intorno all’elezione del nuovo Presidente della Repubblica, non abbiano rappresentanza politica i ceti maggiormente colpiti dalla crisi, non si prospetti una seria opposizione che parte dalla propria autonomia politica (quella che, clamorosamente, manca proprio al PD) e – soprattutto – non si tracci una vera alternativa di sistema.
Franco Astengo
giovedì 18 aprile 2013
Felice Besostri: Non sono un elettore presidenziale e non mi lamento
Non sono un elettore presidenziale e non mi lamento
Non intendo sottrarmi alle scelte, per quanto difficili, ma vorrei poterle esercitare con razionalità e nell’ambito di istituzioni, che funzionano con regole certe. Per questo faccio riferimento, spesso, all’ordinamento costituzionale e al sistema elettorale tedesco: il più simile a quello italiano. Alcune norme sul voto sono addirittura uguali, artt. 28 e 38 GG e 48 Cost.. Sono Costituzioni di due Stati segnati da una dittatura e che hanno inaugurato una nuova generazione di Costituzioni con impronta sociale e con un sistema di economia mista. Certamente ci sono differenze come il ruolo del Kanzler e istituti che hanno dato stabilità come la sfiducia costruttiva e la soglia di accesso del 5% per accedere alle assemblee elettive sia del Bund che dei Länder. Il Presidente sia in Italia, che in Germania è eletto da un’Assemblea allargata rispetto al Parlamento e non direttamente dal popolo, come pure è possibile in Stati con forma di Governo Parlamentare come l’Austria o la Finlandia. Nell’assemblea federale tedesca il numero dei rappresentanti dei Consigli dei Länder è pari a quella del Bundestag, mentre in Italia quelli dei Consigli regionali sono appena 58. La differenza è che in Germania la votazione inizia con candidature note, mentre in Italia se ci fossero dei nomi sostenuti ufficialmente sarebbero bruciati. Nel 2010 il candidato della maggioranza era Christian Wulff, mentre l’opposizione SPD Verdi candidava Joachim Gauch. Gauch avrebbe potuto essere eletto già allora se la Linke non lo avesse boicottato in quanto dissidente nella ex DDR ( riflettano su questo fatto i tanti ammiratori nostrani di una sinistra buona purché non socialista). Ebbene dopo 2 anni il Presidente Wulff ha dovuto dimettersi travolto da uno scandalo, di quelli che in Italia sono quisquilie: fu eletto senza tanti balletti il candidato già dell’opposizione ma con consenso di tutti i principali partiti. Grazie alla preminenza del Kanzler e di un sistema di partiti forti, il ruolo del Presidente tedesco è minore di quello italiano, perché il Cancelliere è eletto dal Bundestag su proposta del presidente Federale( art. 63.1 GG) e non nominato dal Presidente e sottoposto al voto di fiducia, con l’assurdo pratico che un governo sfiduciato resta in carica.. e non può più essere sfiduciato o anche un governo dimissionario è al riparo dalla sfiducia. La nomina in Germania segue l’elezione, cioè la fiducia, e non la precede. Se la proposta del Presidente non viene accolta il Bundestag ha 14 giorni per eleggere un cancelliere maggioranza assoluta, tuttavia se non provvede al 15° giorno può eleggere( a scrutinio segreti) elegge chi ha il maggior numero di voti, anche con la sola maggioranza relativa. In questo caso, maggioranza relativa e non assoluta, si aprono due scenari o la nomina o lo scioglimento del Bundestag e nuove elezioni. Con la Costituzione tedesca Bersani era Cancelliere, con quella italiana rischia di essere Cancellato. Non è problema di essere un bravo tattico. Per essere bravi tattici bisogna essere liberi e non vincolati: ogni vincolo limita la libertà di movimento essenziale per la spregiudicatezza tattica. Bersani non può ignorare la componente Margheritina, che deve essere pagata: finora non ha avuto nulla né come cariche istituzionali, né prospettive di Partito: verrebbe meno l’unica ragione di stare nel PD. Manca un dibattito pubblico che preceda ed accompagni le scelte. In questo contesti un elettore presidenziale può farsi guidare soltanto da criteri di contingenza: disciplina di partito o ribellione perché al servizio di un disegno alternativo a Bersani, Renzi per esempio. Formule, nomi e poca politica nel senso di programmi di governo. Eppure una politica anti-austerità dovrebbe consentire addirittura un governo PD-PdL- 5 Stelle, gli ultimi 2 euroscettici per convenzione ed il primo per convenienza. Certamente un deficit spending potrebbe essere un buon approccio per alimentare la crescita, ma si possono fare molto diverse: un conto è fare investimenti produttivi e altro mantenere ceti parassitari o foraggiare clientele. Non c’è un solo Keynes, ma tanti ! Intese di compromesso -la politica esiste per questo- quando sono necessari richiedono un forte identità: solo così puoi fare accordi seri, attenti a come mettere le virgole o i puntini sulle “i”. In Germania CDU e SPD possono fare una Große Koalition, mentre in Italia PD e PdL non sono in grado di fare un Governissimo –e non è neppure consigliabile che lo facciano.
Il PD non perché non abbia un’identità, ma perché ne ha almeno due, delle quali Bersani e Renzi sono la materializzazione, è il PdL ha una fortissima individualità, ma non la sua come partito, bensì quella del suo fondatore e padre padrone, Berlusconi. In tale contesto, con partiti e quindi elettori presidenziali, che non possono rispettare l’art. 67 Cost., che impone di agire nell’esclusivo della Nazione, e che formano le loro decisioni in assenza di una legge di attuazione dell’art. 49 Cost. può succedere di tutto e il suo contrario (espressione che sfida la logica formale) nelle votazioni presidenziali a cominciare dalla prima. La precedono sussurri e grida, speriamo che non si levi un grido di dolore. Sono a casa mia: hic manebimus optime.
Milano 18 aprile ( giorno fatidico 65 anni fa) 2013
Felice Besostri, di anni 68
mercoledì 17 aprile 2013
martedì 16 aprile 2013
Paolo Borioni: Il congresso della socialdemocrazia svedese
l'Unità, 15 aprile 2013
I socialdemocratici svedesi hanno appena concluso un interessante e vivacissimo congresso, svoltosi a Götebörg da giovedì a domenica scorsi. Il leader in carica Stefan Löfven non aveva rivali, e il suo discorso di grande effetto gli ha spianato maggiormente la strada. Con Löfven per la prima volta un leader sindacale (metalmeccanico) passa direttamente alla guida del partito. E’ evidente anche in Svezia che in ogni necessario e profondo rinnovamento rappresentare il lavoro rimane assolutamente centrale. Il partito a Götebörg ha così chiesto a Löfven soprattutto tre dirimenti innovazioni: assicurare sempre entro 90 giorni o istruzione o lavoro ai giovani disoccupati; limitare i profitti privati nel welfare; riformare i congedi parentali con più parità fra padri e madri. Argomenti che vanno al cuore del modello sociale nordico ed europeo.
Nel primo caso l’organizzazione giovanile SSU, che aveva proposto la mozione sui “90 giorni”, ha registrato un successo pieno, sottolineato dalla grande esultanza dei giovani socialisti nella grande sala di Götebörg. Nei suoi sei anni di governo la coalizione liberal-conservatrice ha tagliato di molto le risorse a disposizione delle politiche attive per il lavoro, diradandole o riducendole spesso a corsi per la redazione dei curricula o per la ricerca autonoma di un‘occupazione. Questa politiche mirano ad abbandonare i giovani al mercato precarizzante, aprendo la Svezia ai bassi salari. Löfven, invece, intende ribadire che il sistema di apprendimento e innovazione deve assicurare la formazione continua della competenze ma, al contempo, investire affinché le aziende innovino effettivamente, e quindi richiedano le competenze formate. Questo, del resto, è il vero propellente di un sistema nordico di palese successo, non la flexicurity a sé stante.
Anche sulla sempre maggiore interazione fra welfare pubblico e impresa “sociale” privata si è toccato un tema cruciale. Le riforme per “la libera scelta“ (risorse pubbliche concesse ai cittadini affinché le usino scegliendo liberamente istituti privati o pubblici) hanno prodotto risultati molto regressivi nella scuola (misurati dai test PISA) e anche nella sanità e nell’assistenza alla terza età. L’esperienza svedese indica che per estrarre profitto privato dal welfare qualità e personale vengono compressi, drenando ricchezza pubblica che perlopiù diviene esportazione di capitali. Solo nel 2011 i 2,3 miliardi di Corone di profitti privati avrebbero permesso di assumere 5750 addetti nel welfare pubblico. Le riforme “per la libera scelta” erano però state introdotte dagli stessi socialdemocratici nei “blairiani“ anni 1990, e difficilmente potevano essere rinnegate del tutto. Il partito aveva proposto al congresso di cambiare, ma solo imponendo rigidi criteri qualitativi (nel personale, nei servizi, nei materiali) per ogni istituto, pubblico o “profit“. Alcune federazioni locali (come Malmö) chiedevano invece la completa abolizione delle riforme degli anni ‘90. La proposta del sindacato LO è parsa la più vincente: rigorosi parametri di qualità minima e, comunque, apertura agli istituti “for profit“ solo se richiesto da referendum comunali. Numerosi, comunque, gli scontenti. Ma è stato soprattutto sui congedi parentali che molti (specie la rete femminista interna) si sono dichiarati insoddisfatti. Numerosi delegati avrebbero voluto in sostanza che i congedi parentali e le relative indennità monetarie fossero obbligatoriamente spartite in modo più eguale fra uomini e donne. Ma Löfven ha difeso lo status quo, lasciando alle famiglie la scelta che, dicono i dati, finisce per pesare (per i 4/5) sulle donne. Si è accusato il partito di cedere a sondaggi discutibili, favorevoli a lasciare tutto com’è. Ma il problema è più profondo: Löfven sa che la differenza salariale è la vera causa del fatto che ad assumersi il carico della cura sono ancora quasi sempre le madri: le donne, lavorando spesso nel pubblico e nel welfare guadagnano assai meno degli uomini, e rinunciano meno a malincuore al salario pieno. Interessante, proprio per questo, il dibattito che ne è nato. Si è ricordato il 1971, anno in cui la riforma fiscale distinse i redditi e i carichi fiscali dei coniugi. Olof Palme ricevette oltre 210.000 lettere di protesta senza ritirare questa misura che favoriva grandemente le famiglie bireddito, provocando un grande afflusso delle donne nel mercato del lavoro. Si discute insomma animatamente sulla capacità attuale della Socialdemocrazia di aprire nuove strade, ovvero di “fare“ opinione anziché subirla. Un dilemma di “egemonia” che interroga l’intera sinistra europea.
Paolo Borioni: Sul finanziamento della politica
L'Unità, 14 aprile 2013
Sul finanziamento della politica il lavoro dei 10 saggi fornisce indicazioni importanti e virtuose. Innanzitutto, i principi di base scelti dal “Gruppo di lavoro sulle Riforme istituzionali” ribadiscono il pericolo estremo nel lasciare campo libero solo ai privati. Occorre essere fermi su un punto: la forma di finanziamento della politica determina in modo fondamentale il tipo di società che otterremo. Tra tutte le democrazie avanzate non ci sono dubbi che il modello da evitare, da questo e da altri punti di vista, è quello Usa. Specialmente dal 1976, anno in cui la sentenza “Buckley contro Valeo” fissò il principio per cui l’erogazione di fondi alle campagne elettorali (proprie o di altri) equivaleva in sostanza ad una forma della libertà di espressione. Non a caso, senza scendere in dettagli, in quel paese sono debolissime e indirette le limitazioni al finanziamento da parte di potenti interessi. La difficoltà con cui in Usa avanzano riforme semplicemente civili (la limitazione dell’uso di armi) o ragionevoli (la riforma sanitaria) derivano dal fatto che, finanziando o meno i singoli candidati, sconfinati interessi privati in pratica selezionano già prima delle elezioni i parlamentari con possibilità reali di sedere al Congresso. Per questo anche i paesi più culturalmente affini agli Usa, come il Canada e il Regno Unito, deliberatamente evitano quel modello.
Ciò non significa, come è ovvio, non innovare. Interessante è per esempio che il rimborso delle spese elettorali venga nel documento dei “saggi” sia limitato rispetto ad alcuni eccessi recenti, e sia soprattutto legato a una puntualissima documentazione delle spese sostenute. Va però ricordato che tali eccessi, a loro volta, erano il frutto della necessità di bilanciare lo sconfinato vantaggio di Berlusconi. Oggi a lui in politica si aggiungono altri miliardari, già attivi o scalpitanti, un fenomeno non ancora presente ai tempi del referendum per l’abolizione del finanziamento ai partiti del 1993. Per questo non solo occorre contestualizzare quel referendum, ma anche il ridimensionamento del finanziamento pubblico introdotto dalla recente legge 96/2012: non si tratta di imperativi morali assoluti in ogni tempo, bensì di un doveroso adattarsi della democrazia alla terribile crisi in atto oltre che (si spera) di prefigurare una politica meno zeppa di miliardari. E quindi meno bisognosa di affidare allo Stato l’indispensabile riequilibrio delle risorse.
E’ anche molto positivo che i “saggi” incoraggino “sgravi per i contributi privati entro un determinato tetto massimo“ (che deve essere molto basso) e che consentano alle forze politiche di “usufruire gratuitamente di locali e spazi pubblici” oppure “l’accesso, anche fuori della campagna elettorale, agli spazi televisivi”. Occorre però notare che anche in questi casi si tratta di aiuti pubblici, tramite introiti mancati o strutture. Per questo, allora, è opportuno mantenere un punto della (nuova e più sobria) legge 96/2012: se si riconosce l’opportunità di incentivare il contributo privato con risorse pubbliche, è allora giusto rafforzare quella parte della norma che assicura 0,50 Euro dallo Stato per ogni euro di quote associative o di piccole donazioni raccolte privatamente dai partiti. E’ infatti il modo più sperimentato per stimolare, oltre che la donazione, anche l’emersione dei contributi. Nonché l’idea che iscriversi e partecipare in prima persona ai partiti è un atteggiamento virtuoso, alla base del modello sociale europeo. Anzi: servirebbero regole precise sulla destinazione di quote di finanziamento alle attività di base e alle sezioni, contro il verticismo e l’elitismo. Così l’interazione fra finanziamento pubblico e privato stimolerà un contatto più diretto con la base sociale, quindi una differenziazione fra destra e sinistra rispetto agli interessi rappresentati, fine necessario e offuscato se rimangono in campo solo i grandi miliardari. Infine i “saggi” auspicano che siano premiati i partiti che “si impegnano nella formazione politica”. Giustissimo: in Germania centinaia di milioni di Euro sono devoluti alle fondazioni politiche. Anche con cifre molto più modeste, ci aiuterebbe a restare in Europa anziché slittare verso il peggio dell’America.
Alessandro Aleotti: Milano nel probabile destino del sempre uguale
MILANO NEL PROBABILE DESTINO DEL SEMPRE UGUALE
Mi occupo di Milano da tanti anni. Ho analizzato, interpretato, progettato e realizzato su una molteplicità di superfici, dai media al calcio. Naturalmente, credo in ciò che faccio, anche se mi pare ovvio che le idee a cui cerco di dar forma possano trovare persone che non le condividono o addirittura che le detestano. Solo di una cosa sono certo: analizzando questa città da molto tempo, ne conosco bene l’agenda delle priorità. Sotto questo punto di vista Milano, da almeno 20 anni (cioè, dalla rottura politica del 1992), mostra un elemento costante: al dinamismo dei soggetti che “fanno Milano” (imprese, cittadini, corpi intermedi) corrisponde un’incapacità di lettura da parte dei soggetti (dalle istituzioni ai media) che “rappresentano Milano”. Purtroppo, da questo stallo non ci siamo mai mossi. Non si tratta di incapacità della classe dirigente politica o mediatica (per quanto, un qualche freno al neofitismo politico e alla superficialità mediatica varrebbe la pena azionarlo… ), ma di meccanismi che si autodefiniscono regolandosi vicendevolmente.
Da almeno vent’anni il ceto politico milanese, ormai smarrita la via del “reticolo sociale” assicurato dai vecchi partiti, si è gettato – senza alcuna precauzione – sulle pericolose superfici della “percezione” e della “visibilità”, lasciando ai media il compito di analizzare e interpretare le domande sociali. I media, però, oltre a non possedere particolari “sensori diffusi” per captare i movimenti profondi della città, sono per natura orientati a rappresentare più la “notiziabilità patologica dell’eccezione” che la “fisiologia sociale della regola” (che è quella con cui deve dialogare una buona politica). Tutto questo ha portato a un ”impazzimento” del circuito politico-mediatico che parla e scrive di una Milano che non esiste. Da almeno vent’anni , in una perfetta logica bipartisan, si guardano solo le nicchie: parlando di mobilità non si pensa alle centinaia di migliaia di automobilisti disperati, ma ai pochi ciclisti che impongono il rito salvifico delle “domeniche a piedi”; così come analizzando il disagio non ci si concentra sui costi diffusi determinati, ad esempio, dal mostruoso privilegio della rendita immobiliare, ma sugli “ultimi” che ci vengono rappresentati oleograficamente come in una cartolina del dopoguerra.
A questo si aggiunga che il pur notevolissimo “sistema dei saperi” della città non sembra riuscire a colmare il gap tra città “percepita” e città “vissuta”. L’articolato sistema universitario milanese, composto di ben sette atenei, percorre autonomi sentieri di conoscenza che non riescono a sedimentare sulla città alcun “elemento condiviso”. Purtroppo, senza un vero rapporto culturale con il territorio, il sistema universitario milanese è destinato a rimanere la principale “occasione perduta” della città. Certo, Milano continua a produrre grande innovazione grazie all’aggregazione degli interessi economici, sociali e culturali che la attraversano, ma questo “sapere” e questo “fare” viene inevitabilmente indirizzato verso una crescita autoreferenziale (le imprese vogliono fare più profitti, le corporazioni vogliono più potere e ogni soggetto sociale persegue la crescita dei propri interessi).
Se la politica, i media e il sapere “neutro” dell’università si mostrano incapaci di produrre “sintesi” da mettere a disposizione della città, come si può uscire da questo impasse ormai ventennale? Forse ( e dico “forse” in maniera non retorica , ma autenticamente improntata al dubbio) ci vorrebbe un tentativo neo-illuminista che riproduca ciò che è stata la migliore storia intellettuale della città, dal Verri al Cattaneo. Il problema è che non basta mettere a disposizione i “luoghi” del pensiero milanese (dal Corriere all’università), ma occorre ricostruire il mosaico di una rete intellettuale che sappia analizzare mondi non sempre riconoscibili o celebrati dal circuito mainstream. Senza una vera “chiamata” delle leadership intellettuali che la città produce naturalmente in una logica del tutto indipendente dalla volontà dei circuiti egemoni, Milano non ha alcuna possibilità di rimettere in sintonia la “rappresentazione” con i “vissuti”.
Si potrebbe argomentare che - essendo stato così per vent’anni – questa “sconnessione” non produce danni reali. Invece, così non è. Proprio la mancanza di un progetto “vero” in cui riconoscersi è la principale causa della asimmetria italiana in cui la città più autenticamente globale (Milano), non solo non riesce a “riconoscersi”, ma continua a essere marginalizzata dall’egemonia della Capitale e dei suoi vecchi apparati statual-novecenteschi. Cambiare i circuiti che rappresentano la città è necessario: per Milano, ma anche per il futuro dell’Italia.
Alessandro Aleotti
direttore@milania.it
lunedì 15 aprile 2013
Vittorio Melandri: Altra puntata del dramma in cui si dibatte la sinistra italiana
Altra puntata del dramma in cui si dibatte la sinistra italiana
La lettera di Renzi a la Repubblica di oggi 15 aprile (la riporto sotto per intero), perché non l’ha scritta Bersani?
Contiene una esemplare e condivisibilissima lezione di “laicità”, sentirsela fare da un “giovane democristiano”, intanto che i “laici” di sinistra del partito sono per non urtare le sensibilità cattoliche con cui si dividono le poltrone, fa male, fa molto male.
Oltretutto, il suo “uomo macchina” alle primarie, tuttora indicato come uno dei suoi “molteplici” bracci destri (Renzi è una sorta di “millebracci”), è quel Roberto Reggi in ginocchio dinnanzi al suo Vescovo (e suo grande elettore a Sindaco di Piacenza) ritratto nell’immagine, che meglio di mille dichiarazioni ne rispecchia il grado di autonomia dalla gerarchia cattolica dominante.
Vittorio Melandri
CARO direttore,
nel delicato puzzle che i partiti stanno componendo per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica torna in queste ore prepotentemente in voga l’espressione: “Ci vuole un Presidente cattolico”. In particolar modo questa espressione viene richiamata dai sostenitori, bipartisan, di Franco Marini che provano a giustificare così la candidatura del proprio beniamino. NON è questa la sede per pronunciarsi sulla possibile scelta. Se la politica non avesse perso i legami con il territorio basterebbe una banalità: due mesi fa Marini si è candidato al Senato della Repubblica dopo aver chiesto (e ahimè ottenuto) l’ennesima deroga allo Statuto del Pd. Ma clamorosamente non è stato eletto. Difficile, a mio avviso, giustificare un ripescaggio di lusso, chiamando a garante dell’unità nazionale un signore appena bocciato dai cittadini d’Abruzzo. Dunque, non è il no a Marini — già candidato quattordici anni fa — che mi spinge a riflettere sulla frase “Ci vuole un Presidente cattolico”. Mi sembra invece gravissimo e strumentale il desiderio di poggiare sulla fede religiosa le ragioni di una candidatura a custode della Costituzione e rappresentante del Paese. Faccio outing: sono cattolico, orgoglioso di esserlo e non mi vergogno del mio battesimo. Cerco, per quanto possibile, di vivere la fedeltà al messaggio e ai valori di Cristo e — peccatore come tutti, più di tutti — vivo la mia fede davanti alla coscienza.
Nell’esperienza da Sindaco, naturalmente, agisco laicamente: ho giurato sulla Costituzione, non sul Vangelo. Rappresento la città, tutta intera, non solo quelli con cui vado alla Messa la domenica. E sono tuttavia convinto che l’ispirazione religiosa, non solo cattolica non solo cristiana, possa essere molto utile alla società. In queste ultime settimane la Chiesa Cattolica ha scelto (in tempi decisamente più rapidi della politica, ma questa è un’altra storia) una guida profondamente innovativa. Papa Bergoglio sta rendendo ragione della speranza cristiana con gesti di altissimo valore simbolico e di rara bellezza. Muove e commuove il pontefice argentino, parlando al cuore dell’uomo del nostro tempo, con uno stile che regala emozione e suscita pensieri. Francesco parla anche alle altre confessioni, ai non credenti, agli agnostici: si pone come portatore di entusiasmo e di gioia di vita. Questo, del resto, dovrebbe essere il Vangelo, la Buona Notizia. I politici che si richiamano alla tradizione cattolica, invece, sono spesso propensi a porsi come custodi di una visione etica molto rigida. Non c’è peggior rischio di incrociare il cammino con i moralisti, specie quelli senza morale. Personalmente dubito di chi riduce il cristianesimo a insieme di precetti, norme etiche alle quali cercare di obbedire e che il buon cristiano dovrebbe difendere dalle insidie della contemporaneità. Questo atteggiamento, così frequente in larga parte del mondo politico cattolico, è a mio giudizio perdente.
Ma ancora più in basso si colloca chi utilizza la propria fede per chiedere posti. Per pretendere posti. Per reclamare posti non in virtù delle proprie idee, ma della propria confessione. Proprio ieri il Vangelo della domenica riportava l’entusiasmo di Pietro sulla barca incontro al suo Signore. Quanta bellezza, quanta umanità, quanto impeto. Poi ti capita di tornare alla politique politicienne e trovi il candidato che si presenta in quanto cattolico, riducendo il messaggio di fede a un semplice chiavistello per entrare nelle stanze dei bottoni. Mi vergogno, da cattolico ma prima ancora da cittadino, di una così bieca strumentalizzazione. Non mi interessa che il prossimo presidente sia cattolico. Per me può essere cristiano, ebreo, buddista, musulmano, agnostico, ateo. Mi interessa che rappresenti l’Italia. Che sappia parlare all’estero. Che sia custode dell’unità in un tempo di grandi divisioni. Che parli nelle scuole ai ragazzi. Che spieghi il senso dell’identità in un mondo globale. Che non sia lì per accontentare qualcuno. Mi interessa che sia il Presidente applaudito per le strade come è stato quel galantuomo di Giorgio Napolitano. E che sappia dialogare, ascoltare, rispettare. Che sia al di sopra di ogni sospetto e al di là di ogni paura.
Mi interessa che sia il Presidente di tutti, non solo il Presidente dei cattolici. Chi rivendica spazio in nome della confessione religiosa tradisce se stesso. E strumentalizza la propria fede. Tanti, forse troppi anni di vita nei palazzi, hanno cancellato una piccola verità: non si è cattolici perché si vuole essere eletti, ma perché si vuole essere felici. C’è di mezzo la vita, che vale più della politica. E il Quirinale non potrà mai essere la casa di una parte, ma di tutti gli italiani.
Matteo Renzi
domenica 14 aprile 2013
Claudio Bellavita: Il contenitore PD
Dopo questa drole d'èlection, per riempire le pagine si strologa spesso sul futuro del PD: resterà unito, si dividerà,cosa succederà a Bersani, chi viene dopo.
Forse sarebbe meglio fare un passo indietro per parlare di come è fatto il PD, cosa che non viene molto approfondita. Partiamo dal passaggio dal PC al PDS, una fase in cui c'è stata la massima apertura alla democrazia interna: correnti garantite a livello nazionale, voto segreto sui nomi anche all'interno delle correnti, unica pecca il tentativo di creare dentro al PDS gli stessi raggruppamenti politici che si aggregavano nell'Ulivo: come dire a tutti che l'Ulivo era una fase transitoria, il cui destino era l'egemonia da parte del gruppo dirigente proveniente dal PCI, che intanto sfoggiava un grande esempio di partecipazione democratica. Come rileva oggi Battista parlando di Bersani, è il complesso del comunista emiliano: si dialoga con tutti, si fanno anche ampie concessioni, purchè si riconosca che il pallino in mano ce lo hanno loro. Con queste premesse l'Ulivo è durato poco.
Intanto, in questo nuovo contenitore del PDS si affermavano le fedeltà correntizie e personali, approfondite poi nei DS, che poi erano quelli del PDS la cui fedeltà ai capi nazionali aveva retto alla constatazione che erano degli incapaci.
Da allora, il PD ha un gruppo dirigente nazionale, dove quelli che arrivano dalla Margherita sono sovrarappresentati perchè hanno riconosciuto chi ha il pallino in mano. Un gruppo dirigente che non accetta di essere discusso politicamente (vedi il trattamento a Renzi, e il povero Barca non sa cosa l'aspetta, diranno che è un agente della trilaterale in versione Obama) ma in cambio garantisce il cursus honorum negli enti locali e poi in parlamento ai suoi fiduciari sul territorio. Come avveniva nel PC, ma con la non lieve differenza che il cursus honorum non viene deciso collettivamente dal gruppo dirigente, e l'influenza della base è azzerata dall'organizzazione correntizia, basata sul porcellum interno e molto frammentata in sede locale, anche se con gli stessi riferimenti nazionali. Una situazione in cui nessuno comanda a niente, ma se vuoi accedere a qualunque gradino devi dire a quale dei sottopancia locali di quale dirigente nazionale dai la tua fedeltà.
Un sistema perfettamente feudale: il valvassino deve giurare nelle mani del valvassore, che ha giurato nelle mani del grande vassallo.
E l'iscritto che vuole crescere deve scegliersi il valvassino, non certo in base a cosa dice, perchè son sempre frasi fatte in serie. Per esempio vuoi mica che Alberto Monaci scriva nella sua mozione che lui garantisce la carriera dei dirigenti silenti del Monte Paschi: ma è così, e lui a sua volta ha giurato nelle mani di chi?
E' chiaro che in questo sistema qualunque nuovo ingresso al vertice disturba moltissimo, quindi prima si contiene ( nel caso di Marino è bastato), poi si denigra, poi si ostacola, poi si ignora e infine si fa dire perentoriamente dai giornalisti amici: "questi sono qui per fare una scissione".
Che in effetti sarebbe una catastrofe. Già oggi il PD nazionalmente conta poco, come certificato in modo notarile da un presidente che ha la stessa origine. Scisso si ridurrebbe da un lato a quel che fu Saragat quando c'erano i governi centristi, dall'altro a una petulante minoranza che si sente in diritto di misurare il tasso di sinistra di tutto il mondo, ma che è scaersa di aggiornamento culturale e soprattutto priva di base sociale, che sa cercare solo con la mediazione della CGIL, che sotto la retorica si ferma ai dipendenti pubblici e ai sempre minori occupati dell'industria medio grande, i quali ultimi peraltro votano poco per il pd.. Precari , disoccupati e studenti senza futuro, nel lessico del PD sono l'equivalente della solita conclusione dei grandi comizi del PC di una volta, quando si riempivano le piazze, l'appello generico e escatologico "ai giovani, alle donne, ai disoccupati, ai contadini del Sud, ai terremotati" e via aggiungendo (salvo gli immigrati che non votano e disturbano la coesione)
C'è qualcuno che ha voglia e tempo di adeguare gli obiettivi del partito alla concreta situazione del paese e dei potenziali elettori? bisogna studiare e ricercare, meglio prendersi una borsa di studio per farlo all'estero, piuttosto che farlo per consentire un bel discorso a un gran vassallo. C'è solo da unirsi ai 200.000 giovani italiani che se ne vanno ogni anno, certo non i peggiori della loro generazione, e che non sempre tornano per votare.: han già votato coi piedi
sabato 13 aprile 2013
venerdì 12 aprile 2013
Paolo Bagnoli: La gran bonaccia delle Antille
Dall'Avvenire dei lavoratori
La gran bonaccia delle Antille
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Il quadro risulta abbastanza chiaro. Ciò non significa, naturalmente, che possa dirsi normale, perché ci troviamo di fronte a un’anomalia inaggettivabile.
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di Paolo Bagnoli
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Se spiegare la situazione della politica italiana è sempre stato difficile, ora sembra un’impresa assai ardua eppure, pur trovandoci in un’anomalia cui non siamo capaci di assegnare un aggettivo che la qualifichi e la chiarisca il quadro complessivo risulta, in qualche modo, chiaro. Ciò non significa, naturalmente, che possa dirsi normale.
Vediamo. A diverse settimane dalle elezioni siamo con un Parlamento nel quale, al momento, operano solo due “commissioni speciali”. Praticamente in vacanza, addirittura sotto minaccia di occupazione da parte della truppa grilliana, artefice di un quasi-squadrismo di ritorno volto a imporre un governo del Parlamento senza l’esistenza di un “governo” vero. Le due “commissioni speciali” hanno il compito, una per Camera, di vagliare i progetti di legge che sono stati presentati; due commissioni onnicomprensive le quali, prima di rimettere un provvedimento in aula, devono fornire tutti quei pareri che l’iter parlamentare assegna alla competenza di commissioni diverse. È cosa che vediamo assai ardua. Non ce la facciamo proprio a capire come ciò possa surrogare un larva di normalità.
Si dice che il governo c’è, quello di Monti; e qui non si sa se piangere o ridere; forse è meglio chiudere gli occhi e far finta di nulla. Monti, infatti, al di là del merito – meglio sarebbe dire, al di là del demerito – è stato fiduciato da un Parlamento che non c’è. Il governo, quindi, sta seduto sopra un Parlamento con il quale non solo non ha vincolo formale alcuno, ma rispetto al quale è, politicamente parlando, del tutto estraneo. Non siamo esperti di Europa come il professor Monti, ma saremmo curiosi di sapere da lui se, nell’Europa che cita come fosse la terra promessa, sia mai avvenuto un qualcosa del genere. Andiamo avanti.
Napolitano ha chiamato Bersani dandogli un pre-incarico, ossia un mandato limitato a verificare se un suo possibile governo potesse avere la fiducia delle Camere. Bersani, che di animali se ne intende – dai giaguari ai tacchini – avrebbe dovuto sapere che vendere la pelle dell’orso prima di averlo preso non è saggio. E invece l’ha venduta due volte: la prima, quando ha ritenuto che al Pd e alla sua alleanza non poteva che toccare l’onore e l’onere della responsabilità del governo; la seconda, quando ha pateticamente corteggiato Grillo perché, se i Cinquestelle avevano dato qualche voto per far passare Grasso, a suo avviso allora l’operazione si poteva replicare vista anche l’assonanza programmatica tra le parti, cosa peraltro tutta da vedere, Tav in testa.
Senz'addentrarci qui nell'esegesi grillologica che oramai abbonda, ci poniamo una domanda. Possibile che Bersani non abbia capito che, se Grillo ha una qualche possibilità di tenere insieme –cosa non proprio facilissima – il suo bel gruzzolo di parlamentari, essa consiste proprio nel rappresentarsi, nonché nel comportarsi, come forza antisistema totalmente opposta alle forze del sistema? Si può essere più ingenui, per non dire sprovveduti?
Forse Bersani non se la caverebbe male come presidente del consiglio, insomma senza fama e senza lodo. Certo, chiedere un po’ di lavoro dopo aver votato i provvedimenti Fornero qualche dubbio, almeno in chi scrive, lo fa nascere.
I grillini, sia detto senza offesa, sembrano marinai privi di bussola capitati in un mare di cui sanno soltanto il nome, né conoscono i venti, né le onde. Da loro Bersani si è preso una bella usciata in faccia. Poi è salito al Colle e ha riferito al presidente Napolitano. Ma non si è capito se questo pre-incarico è stato, diciamo, congelato, oppure no. Le cose, naturalmente, cambiano se Bersani è una specie di pre-incaricato provvisoriamente esodato; almeno fino a che Napolitano è presidente, oppure se si tratta di un licenziato in via definitiva.
Che cosa farà il nuovo Capo dello Stato? Nessuno lo sa. Una situazione che ricorda la calviniana “bonaccia delle Antille”. Napolitano ha avuto, così, un colpo di genio; ha impegnato il calendario con la nomina di due commissioni – la parola "saggi", per favore, lasciamola per altro – con il compito, questa volta non "a casa", ma dentro lo stesso Quirinale, di elaborare proposte che sul piano istituzionale e su quello economico facilitino la quadratura del cerchio che poi è una “quadra” formata da Pd, Pdl, Scelta civica e 5 Stelle. Essa sembra dovrebbe risolversi nella compatibilità di ridursi a una terna per riuscire a far nascere un governo che non sia, tuttavia, un governissimo. Questa terna di governo deve mettersi d’accordo sul prossimo presidente della repubblica, vedere come dare un salvacondotto a Berlusconi – il quale, sia detto fra inciso, si è ritrovato a essere al centro di tutto e tiene, almeno a parole, il prezzo alto. Inoltre la terna deve siglare un accordo su alcuni punti, in primis sulla legge elettorale, per tornare, tra un anno forse, alle elezioni.
Così, dietro la parvenza del lavoro delle due commissioni, si prende tempo e si affilano i colloqui, si formulano le proposte e vengono messe a punto le transazioni. Non sappiamo se ci troviamo nella prassi di uno Stato democratico-parlamentare oppure no, ma la cosa non sembra interessare. E forse, sotto l’urgere del disfacimento istituzionale, quella di Napolitano è stata la scelta più saggia.
Sulla drammaticità delle condizioni in cui versa lo Stato si potrebbero scrivere enciclopedie. L’ultimo sintomo, tuttavia, è proprio una perla. Mentre Monti ha portato la pressione fiscale al 52% trovandosi, alla fine costretto, a dare un po’ di soldi ai creditori dello Stato, si è scoperto che quest’ultimo non sa con precisione con chi ha a che fare, come ci dice il contrasto tra il Tesoro e la Ragioneria generale. Ci ripetiamo: professor Monti, ma è europeo tutto ciò?
In siffatto contesto, veramente surreale e forse bisognerà cominciare a parlare di “surrealtà italiana”, Bersani ha disinvoltamente chiuso l’occhio alla sponda grillina e da vecchio comunista iperrealista si è ricordato della vecchia lezione del suo vecchio partito: mai rimanere senza alleati. Così ha agguantato subito il non amato Monti e si vedrà pure con Berlusconi; scommettiamo che alla fine usciranno tutti felici e contenti perché ognuno avrà il suo. Meglio così, naturalmente, almeno qualcosa rimane in piedi e la speranza, come sempre, è dura a morire.
Tant'altro ci sarebbe da dire. Ci limitiamo ora a una sola osservazione. Confessiamo che il generalizzato alzare le mani al “castismo” non ci piace; è demagogico. I costi della politica vanno ridotti, nel senso che vanno ridotti gli sprechi, la malversazione del pubblico denaro e i tanto condannati privilegi. Ma certo la questione non si affronta con la dichiarazione, che vuole essere popolare e fare notizia, che appena uno è eletto a una carica si riduce lo stipendio, vende non si sa quante macchine blu, rinuncia non si sa più a cos'altro. E intanto il partito di Di Pietro, pur avendo cessato di esistere, non si scioglie per non perdere i soldi pubblici.
Il bene, come suona un vecchio proverbio, non fa rumore; in questi casi, invece, ciò che si vuol fare è soprattutto rumore, ma in un paese in cui la miseria è abbassata a vera e propria povertà fino a portare taluni a togliersi la vita, in un paese in cui i licenziati sono stati nell’ultimo anno oltre un milione, tutto ciò non rappresenta niente anche quando le intenzioni possono essere positive.
La gente vuole e ha bisogno di altro; la recente contestazione di cui è stata oggetto la presidente della Camera a Civitanova Marche ne è la tragica, disperata, conferma. Quel fatto sì che ha prodotto notizia!
Qui habet aures audiendi, audiat! – "Chi ha orecchi per intendere, intenda". Aggiungiamo che quelli dovrebbero essere gli orecchi dei partiti, dei partiti veri, s’intende. Ma non esistendone più, nessuno sembra ascolterà.
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giovedì 11 aprile 2013
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