martedì 18 febbraio 2014

GL Savona: Lettera sul lavoro

LETTERA APERTA ALLE FORZE DI SINISTRA: LAVORO, DA CHE PARTE VOGLIAMO ANDARE? Traendo spunto dalle recenti affermazioni pubbliche di Matteo Renzi, ci appare quanto mai opportuno sollevare un dibattito a Sinistra, anche in sede scientifica, circa la direzione da intraprendere sul tema del lavoro. Sono o non sono le forze e i movimenti di Sinistra, marxisti e non, cresciuti col collante sociale del lavoro e della solidarietà sociale? Vogliamo, dunque, offrire il nostro apporto in questa fase di tremenda incertezza? Viceversa dovremmo ritenerci complici, per usare le parole di Norberto Bobbio, di quella “potente controffensiva capitalistica innescata dalla mondializzazione dei mercati e dalla rivoluzione delle tecnologie informatiche” che sta andando ben aldilà del liberalismo, verso un “fanatismo liberale”. Dice dunque il Segretario del Pd, che serve più “flessibilità in uscita”, ma una garanzia reddituale di almeno un biennio per chi esce dal lavoro e un serio pilastro dato dalla formazione professionale. Dietro le parole di Renzi due scenari: uno, teoricamente positivo, l’estensione degli ammortizzatori sociali anche ai non assicurati, l’altro, dalle tinte fosche, l’abrogazione o l’aggiramento dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, già intaccato dalla Riforma Fornero, ma soprattutto lo svuotamento dello stato sociale. Si badi, e qui sgombriamo subito il campo da retoriche obsolete, la difesa dell’articolo 18 non è ideologica, bensì fattuale. Non soltanto perché insigni studiosi dimostrano il vacillare dell’ “assioma” flessibilità = occupazione, ma soprattutto perché l’articolo 18 è già stato eluso, di fatto, dalla capitalizzazione e dalla mercificazione del lavoro. Ancorché, come in un sogno, ritornasse lo schema tipico e rigido del lavoro a tempo indeterminato, il reintegro previsto dall’art. 18 ben poco potrà contro l’esodo di intere produzioni e le mille manovre elusive del mercato e delle parti sociali. Abolire o svilire l’art. 18 è come aiutare la corrente di un fiume in piena. Se non sappiamo ancora che strada prendere, ci sia chiaro, perlomeno, dove non dobbiamo andare. Sia stella polare, ancora una volta, la nostra Costituzione, che all’art. 41, tutelando l’iniziativa economica privata ne limita il raggio d’azione, vietando che essa entri in contrasto con l’utilità sociale, la sicurezza, la libertà e la dignità umana. Retorica? Non crediamo. Non esiste crisi o causa di forza maggiore che possa indurci ad accettare le nefandezze del mercato, la mercificazione del lavoro, lo svuotamento dello stato sociale e della concertazione. Oggi ciò che ci rende vulnerabili è proprio la mancanza di sicurezza sociale. Si deve cambiare, certamente, ma non lo si può fare senza gradualismo riformista e senza valori. Pare il caso di ricordare il motto Rosselliano “ Uomini, non servi; coscienze non numeri; produttori, non prodotti”. Sarà nostra intenzione, pur con i nostri limiti e quelli dettati da ragioni di brevità e divulgazione, ripercorrere le tappe fondamentali del recente giuslavorismo italiano, partendo da quel Pacchetto Treu del 1997, che ispirandosi al tema della flessibilità fu poi il grimaldello per quella Legge Biagi, o meglio Biagi-Maroni, che nel decennio successivo ha destabilizzato fortemente il sistema occupazionale, fino ai tentennamenti della Riforma Fornero. Lo faremo non per erudizione, ma per mostrare l’incerto flusso, l’approssimazione e talora l’ ipocrisia di un legislatore che tra garanzie e riforme è un vero elefante tra i cristalli. Proprio attraverso l’analisi del percorso, delle sue lacune più gravi, noi dobbiamo offrire un serio contributo pratico. Se così non fosse, non dobbiamo stupirci, se piazze violente e al servizio di poteri reazionari, sembreranno ai più l’unica via percorribile. DAL PACCHETTO TREU ALLA LEGGE BIAGI: DA UNA GIUSTA FLESSIBILITA’ IN ENTRATA AL PRECARIATO CRONICO Il rapporto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato, non poteva più essere il modello in un mondo del lavoro sempre più lontano dal mito della piena occupabilità, tuttavia le riforme che dalla fine degli anni Novanta ad oggi sono intervenute in tal senso hanno pigiato sull’acceleratore della flessibilità senza tener conto del contesto sociale di riferimento. A seguito di un iter che parte negli anni Ottanta, quando l’allora Ministro del Lavoro De Michelis mette in discussione il “posto fisso”, si giunge alla legge n°196/1997 nota come “Pacchetto Treu”. A Tiziano Treu va riconosciuto un merito: la sua legge va nel senso della concertazione tra le parti sociali, e fu, tutto sommato, un ragionevole compromesso fra le pretese di flessibilità degli imprenditori e le esigenze di garanzia di matrice sindacale. La flessibilità in entrata viene favorita da disposizioni riguardanti il contratto di lavoro a tempo determinato, il tirocinio, la formazione lavoro, la work experience. Questo era il punto forte della riforma. La possibilità di un ingresso aziendale in forma soft, senza un impegno troppo gravoso del datore di lavoro è senz’altro un lato positivo, se però finalizzata ad un futuro consolidarsi del rapporto. Qui, la prima proposta di revisione alle forme di precariato tuttora vigenti. Il percorso aziendale della risorsa andrebbe vigilato da terze parti, non attraverso meri registri di presenza, ma attraverso un quaderno di competenze che attesti i passi avanti del lavoratore nell’ottica di una possibile assunzione. Secondo noi tale registro, o forma equivalente di verifica, come le riunioni di tutoraggio, va redatto in senso conservativo e positivo, perché nei limiti del possibile deve indurre la persone al miglioramento e all’inclusione. Ricordiamoci che il lavoratore è contraente debole, di fatto e non per pregiudizio ideologico. Troppo spesso, specie nei lavori di concetto, vi è un turbinoso avvicendarsi di tirocinanti, trattati come vuoti a perdere, con scadimento delle competenze e della motivazione. I due punti deboli del Pacchetto Treu, invece, furono l’introduzione del lavoro interinale, storicamente vietato nel nostro sistema fin dalla Legge N° 1369/1960 e la creazione dei c.d. Co.co.co., quelle collaborazioni coordinate continuative, poi riviste da Biagi, che tuttora creano numerosi problemi di classificazione e mascherano, quasi sempre, la effettiva subordinazione, come vedremo più avanti. Il superamento, seppur parziale, del divieto di intermediazione tra domanda e offerta e di lavoro è stato un fatto di portata epocale e a nostro avviso tremendamente negativo in un contesto culturale come quello italiano. Il divieto previsto nella legge del 1960 era una forte garanzia per il lavoratore, poiché laddove non sussista un rapporto diretto e genuino col datore di lavoro, ma vi sia un intermediario privato, vengono meno garanzie essenziali. In un paese come l’Italia, con scarsa disciplina e coesione sociale, con riluttanti precedenti di caporalato e sfruttamento, il divieto di intermediazione andrebbe reintrodotto, o quantomeno esteso alla stragrande maggioranza dei casi. Come vedremo la Legge Biagi ha poi esacerbato il concetto passando dal lavoro interinale alla vera e propria somministrazione di lavoro. L’idea di defalcare il monopolio del collocamento pubblico, oggi “centro per l’impiego”, con funzioni frammentarie, nasceva dall’assunto, tutto da dimostrare che una moltitudine di soggetti potevano incrementare l’incontro tra domanda e offerta. Il risultato è invece una confusione di competenze e un aumento dei costi di gestione. Si dovrebbe reintrodurre il pubblico collocamento per una serie di ragioni così sintetizzabili: la prima, di gran lunga la più importante è che il lavoro si svolge nell’interesse della collettività, la seconda, a corollario, per ragioni di imparzialità, uguaglianza ed equità, che solo un ente pubblico può garantire, la terza, perché si può lucrare sulla manodopera, ma non sulle persone, la quarta, perché nessuno vieterebbe al pubblico collocamento di collaborare con soggetti privati, per finalità di incontro tra domanda ed offerta, purché il collocamento resti il capofila. Col Libro Bianco sul lavoro del 2001, arriva una nuova ondata riformatoria, ispirata al pensiero dell’economista Marco Biagi, che si pone su linee di flessibilità di matrice anglossassone. L’iter di adozione del D.lgs. 276/2003 fu faticoso, soprattutto perché, già allora, il testo originario conteneva una revisione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, che fu poi stralciata. La legge Biagi, o meglio Biagi-Maroni, perché il leghista, allora ministro del lavoro, ne fu il primo firmatario dopo la tragica scomparsa di Biagi, segna un vero e proprio cambio di ritmo nell’impianto delle garanzie. Il primo profilo di rilievo, come già evidenziato, è l’introduzione del lavoro somministrato, abrogando contestualmente la Legge 1369/1960 che Treu aveva risparmiato. Con Biagi si realizza pienamente quell’affitto di manodopera, storicamente vietato, con la triangolazione tra lavoratore, utilizzatore e somministrante, che trova il solo limite, di difficilissima sanzionabilità dato dalla “somministrazione abusiva o irregolare”. Il secondo profilo di ulteriore confusione, è dato dalla creazione di una miriade di forme di contratto di lavoro atipiche, alcune assolutamente estranee al mondo del lavoro italiano. Il terzo profilo, a fronte di una forte flessibilità in entrata e uscita (fermo restando per fortuna l’articolo 18, che peraltro si applica alle unità produttive con più di 15 dipendenti), l’assenza di una riforma degli ammortizzatori sociali. Di qui la grande lacuna di aver puntato su un modello di flexicurity che non integra una rete di sicurezza sociale. CO.CO.PRO E L’UMILIAZIONE DEL VOUCHER Della moltitudine di forme contrattuali atipiche presenti nel D.lgs. 276/2003 (job on call, job sharing, lavoro accessorio, intermittente, staff leasing e si noti la denominazione anglofona di molti contratti), ci soffermiamo a titolo esemplificativo sul lavoro a progetto e su quello mediante buoni. Con il Pacchetto Treu, si introdusse l’ibrida figura delle c.d. collaborazioni coordinate continuative (Co.co.co), percui un soggetto prestava l’opera continuativamente, in maniera coordinata con il datore di lavoro, pur non rinvenendosi il vincolo di subordinazione, bensì quello misto di autonomia e subordinazione, detto di “parasubordinazione”. Biagi ha collegato queste prestazioni all’esistenza di uno specifico progetto, pena l’ illegittimità. Il regime elusivo di questi contratti di lavoro era nella norma stessa, che riconoscendone il peccato originale di mascherare molto spesso una vera e propria subordinazione al pari dei lavoratori “ordinari”, statuisce che la collaborazione, non collegata ad un progetto, si consideri rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato fin dalla costituzione del rapporto stesso. In tal senso, Fornero, codificando banalmente la giurisprudenza consolidata, ha stabilito che l’assenza del progetto fa scattare una presunzione assoluta, vale a dire che non ammette prova contraria, circa l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato. Ma poiché il lavoratore, ricordiamolo è contraente debole, in quanti casi e con quali risultati si rivolgerà al giudice per evidenziare l’assenza di uno specifico progetto? Poiché il contratto a progetto non offre tutele al lavoratore e poiché esiste sia il lavoro autonomo sia quello subordinato a tempo determinato, ma per quale ragione il lavoro a progetto deve avere cittadinanza nel nostro ordinamento? Si consideri, inoltre, che molto spesso, il lavoratore a progetto non è neppure sottoposto a visite mediche di idoneità e non riceve formazione in materia di sicurezza sul lavoro. Crescente utilizzo ha avuto recentemente il lavoro occasionale accessorio, disciplinato da Biagi e oggi retribuito col sistema dei buoni o voucher. Il datore di lavoro che si avvale di prestazioni saltuarie da parte di collaboratori acquista i buoni prima della costituzione del rapporto di lavoro senza neppure dover stipulare un contratto. I buoni hanno un determinato valore nominale e possono essere venduti a carnet ritirabili anche dai tabaccai. L’idea di un lavoratore ricaricabile come una scheda telefonica è prassi umiliante, poiché incarna in pieno la mercificazione della persona, senza considerare che, il primario intento del legislatore di assicurare agli enti previdenziali lavoratori occasionali, è di fatto vanificato da forme di subordinazione mascherata, specie nel lavoro di concetto. L’IPOCRISIA DELLA RIFORMA FORNERO E L’AGGIRAMENTO DELL’ARTICOLO 18 La Legge n° 92 del 28/06/2012 nasce in un contesto annunciato come apocalittico, dove trombe squillanti minacciano l’uscita dell’Italia dall’Europa. Il necessario dibattito e la grande occasione di una revisione critica del mondo del lavoro viene dissipato in nome dell’emergenza e di una fede cieca nel libero mercato. Il risultato è un testo disorganico e di scarsa tecnica legislativa, che tuttavia apre una breccia ulteriore nel sistema di garanzie realizzato nel 1970 con lo Statuto dei lavoratori. In sintesi vorremmo evidenziare tre punti: Il primo: la sostanziale liberalizzazione del contratto a tempo determinato, attraverso la sua “acausalità”, vale a dire che contratti a termine potranno essere stipulati senza alcuna ragione aziendale di carattere tecnico, produttivo od organizzativo. Un altro favore alla precarietà e alla mercificazione del lavoro. Il secondo: il grave ed ideologico aggiramento dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. La Riforma ha conservato le fattispecie classiche di licenziamento per giusta causa e giustificato motivo ma ha ribaltato il sistema dei rimedi, escludendo il reintegro automatico e indicando dei limiti massimi di risarcimento in caso di licenziamento illegittimo del lavoratore. In parole semplici il datore di lavoro può mettere a bilancio in via preventiva il costo di un licenziamento illegittimo. Il reintegro diventa ipotesi residuale, eludendo il principio del risarcimento in forma specifica di cui all’art. 2058 del codice civile. Il giudice potrà sempre considerare il reintegro del lavoratore troppo oneroso per l’azienda. In sostanza, visti anche i tempi e i costi processuali, licenziare anche illegittimamente sarà conveniente al datore di lavoro. Il terzo punto attiene agli ammortizzatori sociali. Ferma restando la cassa integrazione ordinaria, straordinaria e in deroga, ci preme rimarcare che ogni proclama di istituire assicurazioni sociali universalistiche, cioè estese anche a inoccupati o precari, è andato disatteso. La c.d. ASPI (assicurazione sociale per l’impiego) ha gli stessi requisiti della preesistente indennità di disoccupazione: assicura contro la disoccupazione involontaria chi ha un contratto stabile o comunque si trova da tempo inserito nel mercato del lavoro. Si ribadisce il modello di welfare improntato su rapporti stabili che non esistono più. CONCLUSIONI: RENZI, l’ITALIA NON E’ LA DANIMARCA! Tirando le somme è tornando ai proclami di Matteo Renzi su un nuovo Codice del lavoro, vorremmo ricordare quelle che sono le tesi di base sul sistema del welfare, affinché qualunque revisione della materia non sia avulsa dal contesto. Citiamo la Danimarca, perché molto spesso, l’idolo della flessibilità a cui molti presunti riformatori si raccomandano è di marchio scandinavo. Il primo punto da tenere in mente, come ha ben sottolineato Bruno Amoroso, dell’Università di Roskilde, è che la combinazione di flessibilità sul mercato del lavoro con la sicurezza sociale dei lavoratori, in Danimarca come in altri modelli Nordeuropei, è data in principio da un fattore socio-culturale: efficiente organizzazione del sistema economico complessivo, capacità di innovazione economica e istituzionale, alti livelli di formazione professionale, forte concertazione delle parti sociali nell’individuazione di obiettivi sia settoriali che generali, coesione ed omogeneità sociale. Si noterà immediatamente che queste non sono caratteristiche italiane. Una importante riflessione va fatta sull’accezione del termine flessibilità. Se per flessibilità intendiamo facilità di liberarsi di un lavoratore, siamo sulla strada dello strapotere imprenditoriale e di un addebitamento della crisi alla parte debole; se, invece, la flessibilità che intendiamo creare è “numerica”, allora andiamo nel senso della dinamicità e mobilità nel mercato del lavoro. In tal senso è efficiente un sistema in cui se 100 persone perdono il lavoro, 80 lo ritroveranno in forma autonoma, dopo aver ricevuto un sussidio e solo 20 dovranno rivolgersi ai sistemi di sostegno e reinserimento lavorativo. In sostanza un sistema è altamente flessibile, non soltanto perché si licenzia facilmente, ma soprattutto perché c’è un alto livello di sicurezza sociale. Vale a dire mi muovo, perché se cado non c’è il vuoto, ma il parapetto dello stato sociale. Il tema del sostegno al reddito in caso di disoccupazione, deve seguire due linee di principio imprescindibili: deve essere universalistico, tutelando anche le attuali forme di precariato e inoccupazione, deve affiancarsi e non sostituirsi agli ammortizzatori sociali preesistenti, altrimenti fa capolino lo spettro dello Stato minimo di matrice neoliberista. Come ha ben scritto Giovanni Orlandini, dell’Università di Siena: “ Bisogna evitare che il reddito minimo garantito, da misura di inclusione sociale […] si traduca in una forma di redistribuzione a somma zero tra i lavoratori delle risorse oggi utilizzate per gli ammortizzatori esistenti”. Ci siamo già espressi, criticando in modo a nostro avviso costruttivo, le proposte sul “reddito minimo garantito” provenienti dall’area di S.E.L., nel senso di ammortizzatori sociali che siano ideati sulla base di una effettiva analisi del sistema italiano e non importando idee alla moda. Viceversa ci si muove continuamente tra gli strombazzamenti di un reddito di cittadinanza erogato a tutti indistintamente, quindi nella sua forma più pura e utopica, a forme di indennità che, al di là del nomen juris, replicano costantemente lo schema di tutele legate a chi ha già un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Non si dimentichi, inoltre, che la precarietà, non ha solo una componente contrattuale, ma anche soggettivo-territoriale, laddove anche lavoratori con contratti tipici e a tempo indeterminato possono vivere situazioni di sofferenza, se sono monoreddito, se hanno basse retribuzioni, se hanno figli o familiari a carico e i servizi sociali sono carenti, se sono ragazze madri, se l’ orario di lavoro è fortemente dilatato, ecc. Non dobbiamo trascurare la confusione che spesso si fa tra reddito minimo garantito e salario minimo imposto per legge. Il primo è una forma di sostegno al reddito di chi ha perso il lavoro o non lo trova, il secondo serve a garantire l’uniformità di trattamento economico tra i lavoratori per evitare il dumping all’interno del mercato nazionale, in parole povere per evitare la concorrenza tra lavoratori, la guerra tra i poveri gradita agli sfruttatori. Troppo spesso si legge l’art. 36 della Costituzione come se non fosse norma vincolante. La parcellizzazione contrattuale creata dalla Legge Biagi e la deregolamentazione dei contratti collettivi nazionali hanno creato zone franche dove imprenditori senza scrupolo possono volteggiare come aquile. Se confrontiamo la marcia dei 40.000 lavoratori Fiat negli anni Ottanta con il Referendum Mirafiori che ha interessato meno di 5000 lavoratori, ci rendiamo conto di quella drammatica rivoluzione culturale ormai evidentissima, percui i lavoratori sono ormai abbandonati alla contrattazione individuale senza alcuna possibilità di ricorrere alla negoziazione collettiva. Un ultimo rilievo sulla formazione professionale, indicata da Renzi come pilastro delle politiche attive del lavoro. Oggi la formazione professionale è gestita soprattutto a livello locale da Regioni e Province, che si appoggiano spesso ad intermediari privati finanziandoli. In molti casi la formazione torna più a favore dei formatori che dei formati, poiché manca quella concertazione tra Stato e imprese che invece si ritrova in altri modelli. Occorre una maggiore verifica sui formatori e un maggior raccordo tra le esigenze dell’impresa e quelle degli aspiranti lavoratori, al contrario la formazione rischia di diventare un business per chi la eroga. In questo quadro l’idea da seguire è secondo noi quella di un gradualismo riformista che superi col tempo la flessibilità non assicurata di Biagi, le derive neoliberiste europee seguite a sprazzi da Elsa Fornero e miri a una normalizzazione del sistema di welfare su basi culturali che dobbiamo coltivare internamente. I due nodi sono la creazione di ammortizzatori sociali universalistici ed il taglio del costo del lavoro. Sociologi ed economisti hanno da tempo indicato alcune vie, non resta che provare a seguirle. Un ammortizzatore sociale universalistico che copra anche i lavoratori atipici è la necessaria conseguenza della parcellizzazione creata da Biagi, in attesa che molte forme atipiche vengano riassorbite. Proprio a causa della situazione contingente sembra interessante la visione di Alain Supiot, giuslavorista francese, che immagina un sistema di garanzie “a cerchi concentrici”, percui realtà lavorative ontologicamente diverse (ad esempio un operaio di catena e un autonomo parasubordinato) andrebbero tutelate in modo combinato modulando tutele universali con protezioni a base individuale. Dove prendere i soldi? La prima direttiva da seguire è la separazione tra assistenza e previdenza, vale a dire tra fiscalità generale a carico di tutti e contributi sociali, che sono a carico di lavoratori e imprese (l’INPS per capirci). Partendo dalla giusta considerazione che un ammortizzatore sociale (indennità di disoccupazione, cassa integrazione, ecc.) è uno strumento contro la disoccupazione involontaria, esso resta inevitabilmente collegato al lavoro e alla sua funzione sociale che fonda la nostra Reppubblica, pertanto possiamo valutare due percorsi: 1) Creare un ammortizzatore sociale universale che attinga di più alla fiscalità generale dello Stato, riducendo quindi i contributi sociali a carico delle imprese, in modo da ridurre il costo del lavoro e far ripartire le assunzioni. 2) Lasciare in vita i tradizionali ammortizzatori sociali e affiancarli con una forma reddituale universale come il reddito di cittadinanza, erogato a tutti dallo Stato, che prescinde dalla verifica dei mezzi individuali al fine di concedere maggior potere di scelta agli individui, tollerando qualche forma parassitaria. Delle due ipotesi ci appare più ragionevole,meno insidiosa e culturalmente più accettabile la prima, anche perché a ben guardare, in entrambi i casi è sempre la fiscalità generale dello Stato a dover intervenire, esercitando quella funzione di redistribuzione della ricchezza che le è propria e che in Italia e scarsamente attuata. Si badi che attualmente sono ancora i piccoli imprenditori (2083 c.c.) i più numerosi e nonostante tutto i più bisognosi di manodopera nel nostro paese. Gli artigiani, specie nel settore edile, a causa dell’alto costo contributivo rinunciano ad assumere oppure subappaltano ad altri lavoratori autonomi. Si crea una situazione di appalto non genuino, di concorrenza sleale verso le imprese che debbono invece pagarsi il proprio corredo di uomini e mezzi e l’elusione di molte tutele verso autonomi che in realtà sono subordinati dell’appaltatore. Abbiamo capito da tempo che il reperimento delle risorse in Italia è più un fatto di volontà politica che non di bilancio, in ogni caso per aumentare la spesa pubblica in favore di una riduzione del costo del lavoro, da tempo abbiamo già indicato la via dell’imposta patrimoniale ordinaria ad aliquota moderata, corroborati anche da autorevoli esponenti della dottrina tributaria come il Professor Gianni Marongiu, padre dello Statuto dei diritti del Contribuente. Si tratta di una imposta non ideologica, perché non colpisce solo i grossi patrimoni, ma tutti i patrimoni in modo progressivo ed equo, selezionando i beni per qualità e quantità, come del resto predicato dall’art. 53 della Costituzione. Come sempre non una idea nuova, ma la ripresa di una logica intuizione che fu già di Cesare Cosciani in sede di riforma dell’ordinamento tributario. In conclusione il fisco ha il compito precipuo di reperire le risorse per tutelare i cittadini, altrimenti vien meno la sua funzione. Riassumendo, vogliamo ribadire l’urgenza da parte dei partiti di Sinistra di ricostruire la civiltà del lavoro attraverso un contributo culturale e scientifico, di combattere le politiche neoliberiste che in ossequio a certe frange delle istituzioni europee e degli imprenditori cercano di demolire lo stato sociale e di mercificare i lavoratori, di garantire quella sicurezza sociale e quell’affrancamento dal bisogno che rendono le persone libere di muoversi nel mercato del lavoro e felici di immaginare il futuro nel nostro Paese. Il socialismo non è incompatibile col mercato, ma ne è il garante. Savona, 11 Gennaio 2014 Circolo Giustizia & Libertà Cristoforo Astengo

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