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sabato 22 febbraio 2014
Franco Astengo: Novant'anni dalle elezioni del 1924
NOVANT’ANNI DALLE ELEZIONI DEL 1924: DALLA CRITICA AL PROPORZIONALE, ALLA LEGGE ACERBO, ALLA LEGALIZZAZIONE DEL FASCISMO AL POTERE di Franco Astengo
Novant’anni fa, nel 1924, le elezioni legislative svoltesi sulla base della cosiddetta “Legge Acerbo” (proporzionale con premio di maggioranza) portarono alla legalizzazione del fascismo al potere, legittimando la Marcia su Roma svoltasi due anni prima.
In questa occasione non si ricostruirà la vicenda dell’ascesa del fascismo al potere in Italia, la storia delle sopraffazioni, degli incendi alle sedi politiche e sindacali, dell’assoldamento delle squadracce da parte degli agrari e degli industriali, la debolezza colpevole della monarchia, gli errori delle sinistre.
Ci si limiterà ad analizzare il percorso istituzionale attraverso il quale, appunto, il fascismo ha sempre potuto affermare di essere stato consolidato al potere da un risultato elettorale: quanto libero e democratico sappiamo tutti com’è andata in effetti.
Adesso però è il caso di vedere come si sviluppò, in quell’epoca, il dibattito politico – istituzionale.
Le elezioni legislative del 1919 e del 1921 si erano svolte con un sistema proporzionale che aveva dato luogo a una rappresentanza parlamentare di tipo multipartitico.
Subito dopo le elezioni del 1919 si ritornò a parlare di modica della legge elettorale, anche se le prime proposte di variazione riguardarono soltanto elementi di natura tecnica.
Il primo intervento di rilievo fu, da un certo punto di vista paradossalmente, formulato dai socialisti, attraverso un articolo di Giacomo Matteotti, apparso sulla “Critica Sociale” nel 1920, nel quale riteneva il ”proporzionale integrale” inadatto per determinare i livelli di rappresentanza negli Enti Locali.
La motivazione addotta andava contro la logica con cui i riformisti si erano battuti per l'introduzione del sistema proporzionale per le elezioni politiche.
Matteotti, infatti, sollevò il problema per quei casi in cui nel Comune o nella Provincia, vi fossero più partiti dalla forza equivalente e non in grado di formare un’alleanza di governo: appariva così necessario introdurre un meccanismo di sovrappresentazione della maggioranza relativa.
Il risultato poteva essere ottenuto, sempre secondo Matteotti, attraverso l'attribuzione alla maggioranza dei 2/3 dei seggi, al di fuori da qualsiasi tipo di calcolo di tipo proporzionale.
I socialisti apparvero così muoversi sul delicato terreno del sistema elettorale, secondo una pericolosa logica di “compartimenti stagni”.
Ancora una volta i termini del rapporto sistema politico – sistema rappresentativo, che sembrava fossero stati lucidamente delineati nel corso del dibattito parlamentare del '19, tornarono a confondersi con la presunzione (del resto perpetuatasi nel tempo) che i partiti potessero nascere forti, in presenza dell'applicazione di un sistema elettorale piuttosto che di un altro.
Invece, pensare che un partito diventasse forte per l'innaturale lievitazione prodotta da un sistema elettorale e che questa lievitazione rafforzasse il sistema politico significava, invece, avallare l'insediamento di sistemi che non potevano altro che avviarsi sulla strada dell'autoritarismo.
In questo quadro, il fascismo, arrivato in modo più o meno legale, al potere pose all'ordine del giorno la riforma della legge elettorale.
Dopo neppure un mese dall'assunzione al Governo, nel corso della seduta del Consiglio dei Ministri dell'11 novembre 1922, Mussolini presentò un ordine del giorno sulla riforma elettorale, in cui si affermava, da un lato, l'impossibilità di un ritorno all'uninominale, dall'altro la necessità di rivedere il sistema rigidamente proporzionale in vigore, affinché fosse garantita, assieme alla rappresentanza di tutti i partiti, anche la “formazione di un governo di maggioranza parlamentare”.
Il 29 Novembre, nel corso di un incontro tra Mussolini, il Presidente della Camera De Nicola e il presidente della Commissione Interni Casertano, si delineò un nuovo sistema elettorale i cui fondamentali elementi erano costituiti da un premio di maggioranza dei 2/3, da assegnarsi alla lista che avesse raggiunto il maggior numero dei voti e il resto 1/3 dei seggi, divisi proporzionalmente fra tutte le liste in competizione; e una suddivisione di carattere prevalentemente “regionale” delle circoscrizioni.
Su queste basi si aprì un intenso dibattito tra le forze politiche, all'interno del quale però la vera questione da affrontare risedeva nell'individuare la finalità perseguita dal progetto di riforma elettorale.
Il rafforzamento dell'esecutivo, a scapito della frammentazione parlamentare, costituì indubbiamente la cartina di tornasole per verificare la realizzazione di un coagulo tra il fascismo e l'antipartitismo liberale, vecchia maniera.
Dietro a questo disegno si poteva già intravvedere lo statalismo che poi avrebbe caratterizzato il fascismo: s’intrecciavano, a questo punto, diversi problemi che andavano dall'unificazione dei fascismi, all'emarginazione delle altre forze politiche, nessuna esclusa.
Il Gran Consiglio del Fascismo, all'inizio dell'Aprile 1923, fu in grado di approvare un ordine del giorno, redatto da un’apposita Commissione, attraverso il quale si motivava la necessità di passare a un sistema dicotomico che applicava il maggioritario plurinominale secco per il partito di maggioranza relativa e il proporzionale per i partiti minori, perseguendo così il fine esplicito di veder totalmente eletta tutta la lista che avesse ottenuto il maggior numero di voti.
La redazione del progetto definitivo fu affidata da Mussolini a Giacomo Acerbo, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, che lo presentò all'inizio del Giugno 1923.
Adempiuta la formalità dell'approvazione da parte del Consiglio dei Ministri, il 9 giugno 1923, fu presentato alla Camera il progetto di riforma elettorale.
Furono due i punti attorno ai quali si sollevò più intensamente la discussione, in quanto segnavano una rottura netta con il principio rappresentativo che aveva retto l'Italia liberale:
1) Il passaggio al maggioritario “secco” per definire la lista di maggioranza, legalizzando così il dominio di una minoranza potenzialmente isolata, senza ricorso a coalizioni con forze politiche vicine Il diverso criterio di formazione della cifra elettorale e conseguentemente di selezione della rappresentanza tra maggioranza e minoranza.
Per il computo dei voti del partito di maggioranza si sarebbe fatto ricorso, infatti, al “Collegio Unico Nazionale”.
Per i partiti di minoranza si sarebbero mantenuti, invece, i collegi territoriali, a impianto regionale o interprovinciale.
La scelta anomala del Collegio Unico Nazionale, se aveva una giustificazione interna al Fascismo, nel volere cioè legittimare il condizionamento del Fascismo centrale sui fascismi locali nella scelta della rappresentanza, funzionò anche come calmiere nella definizione del quorum.
Tuttavia l'istituzione del Collegio Unico Nazionale non aveva precedenti e questo fatto portò al profilarsi di notevoli perplessità: ma il Fascismo non poteva transigere, la centralizzazione del Partito e la sua identificazione con lo Stato rappresentavano un passaggio obbligato per accelerare il cambiamento.
Per contro le minoranze sarebbero arrivate a Montecitorio polverizzate e rese incapaci da questa frammentazione di contrastare il partito dominante, attraverso una seria e costruttiva opposizione.
Appariva, insomma, più che evidente che ciò che era stato posto in discussione, attraverso la legge elettorale, risultava essere in definitiva l'indiretta formalizzazione della concessione dei pieni poteri sine die al fascismo.
In una Camera che sembrava presa d'assedio, il 10 luglio 1923, previo assenso del Presidente del Consiglio, prese avvio la discussione generale.
Il dibattito si misurò sul punto di fondo della legge: si trattava di motivare la necessità di passare da una Monarchia Costituzionale parlamentare che aveva avuto al centro, fino a quel momento, la Camera elettiva quale organo di direzione politica del sistema, a una forma rivisitata di Monarchia Costituzionale “pura” in cui il partito di governo sarebbe uscito non solo definito dal risultato elettorale, ma precostituendo già i parametri di maggioranza e stabilendo a priori l'estensione del proprio consenso.
Il problema dello sviluppo del dibattito parlamentare era quello di come supportare, da un punto di vista teorico, questo impianto in presenza di una classe politica liberale, che avrebbe dovuto far da argine ai tentativi di manipolazione autoritaria del sistema.
Il 15 luglio 1923 si passò alla discussione generale e all'esame dei singoli articoli: il vero nodo gordiano da sciogliere si rivelò posto attorno, da un lato, al premio di maggioranza e dall'altro al livello di consenso da raggiungere per farlo scattare.
Popolari e repubblicani presentarono emendamenti, tesi a quantificare con un certo equilibrio il rapporto tra premio di maggioranza e quorum da raggiungere: 2/5 dei voti e 3/5 dei seggi fu la proposta presentata da Gronchi e Chiesa, appoggiata anche da Amendola.
La presidenza del Consiglio, per bocca di Acerbo, si dichiarò disposta a discutere il quorum, ma rifiutò qualsiasi patteggiamento sul livello del premio che doveva restare fissato ai 2/3 dei seggi.
La proposta dei repubblicani fu bocciata con 178 voti contro 157.
L'usurpazione fascista del potere passò, così, alla Camera con soli 21 voti di scarto (la votazione sull'intero articolato diede, poi, 235 voti a favore contro 139).
Il passaggio al Senato avvenne, in una sola giornata, il 14 novembre 1923: parteciparono al voto 206 senatori, 165 a favore, 41 contrari.
Alla legge Acerbo, definita da Filippo Turati “la marcia su Roma in Parlamento” si deve la costruzione della prima deputazione nazionale a maggioranza fascista.
Il successo fascista, in queste circostanze, appariva scontato e le elezioni politiche del 6 aprile 1924 diedero al Governo la facile vittoria del suo listone di 356 membri comprendente due terzi di fascisti e un terzo di personalità di altra provenienza politica, ormai conquistate al regime.
La ripartizione proporzionale dei seggi residui alla Camera dei Deputati tra le liste di opposizione sconfitte vide i popolari scendere a 39 seggi dei 108 del 1921, i socialisti a 46 da 123, e soltanto i comunisti salire da 15 a 19.
Il perdurare dell'illegalità e delle violenze, l'abbattersi di una rigida censura sulla stampa di opposizione e indipendente, le intimidazioni e le minacce a danno degli antifascisti rivelarono abbastanza chiaramente che il Governo non si sarebbe accontentato della vittoria elettorale e che non avrebbe mai più acconsentito al mantenimento nel Paese e in Parlamento di una qualsiasi dialettica politica.
Infatti l'uccisione di Giacomo Matteotti da parte degli squadristi fascisti dopo la veemente denuncia fatta in Parlamento dal deputato di Rovigo del clima d’intimidazione e di violenza che aveva caratterizzato lo svolgimento delle elezioni, l'abbandono delle Camere da parte di numerosi deputati dell'opposizione (il cosiddetto “Aventino”) nella speranza di sollevare quella “questione morale” che avrebbe dovuto decidere il Re a rompere con il Governo, restaurando un clima di normalità democratica nel Paese, l'incertezza politica che segnò profondamente quella fase, costituirono l'epilogo del dramma.
A questo epilogo seguì, con il fallimento dell'Aventino, l'inerzia del Re e la decisione di Mussolini di assumersi tutta la responsabilità politica e morale dell'assassinio Matteotti sopprimendo le ultime guarentigie liberali, la caduta del sipario sul sistema instaurato nel 1848, con lo Statuto Albertino.
La legge Acerbo, di là dal suo carattere eccessivamente maggioritario e, quindi, vessatorio per le minoranze nella ripartizione dei seggi di deputato, non aveva significato da sola la rottura del sistema e la fine della legalità statutaria.
Infatti, il carattere rappresentativo del regime, anche se forzato dalla legge elettorale iniqua per le opposizioni, non era ancora contestato, né, peraltro, la legalità statutaria poteva dirsi infranta per l'abbandono della proporzionale, dato che la costituzione vigente non prevedeva (come adesso) un determinato sistema elettorale per la formazione della Camera dei Deputati, ma lasciava alla legge la regolamentazione e la determinazione della delicata materia.
Se sul piano politico, perciò, appare piuttosto evidente come il regime parlamentare fosse già entrato in crisi al momento dell'intervento nella prima guerra mondiale, avesse chiuso i battenti con le dimissioni di Facta e la successiva formazione del Ministero Mussolini dopo la marcia su Roma, , su quello più squisitamente costituzionale il discorso diventa più sfumato non essendovi la possibilità di determinare con eguale precisione il verificarsi di un fatto che abbia segnato il trapasso in un certo momento da quel regime alla dittatura autoritaria.
La tesi fascista di una continuità nell'ordinamento statuale, infranta dalla marcia su Roma instauratrice di una nuova legalità, o quella opposta, di parte antifascista, del colpo di stato ai danni del sistema costituzionale vigente compiuto, appunto, in quel momento, pur cogliendo qualche elemento della realtà politica destinata a incidere sulla struttura statuale di lì a breve, non sembrano esatte in quanto l'alterazione del sistema si compì solo successivamente.
E', infatti, soltanto dopo la svolta determinata dal discorso di Mussolini del 3 Gennaio 1925 che si può intravedere l'alterazione del sistema, in senso autoritario e dittatoriale.
Ma questa svolta non si realizzò solo per la fine di molte guarentigie liberali e per il persistente allontanamento dei deputati aventiniani dai lavori parlamentari.
Anzi ,questi fatti potevano trovare ancora una qualche giustificazione, sia pure molto forzata, da parte degli apologeti del nuovo ordine, capaci di spiegare come il restringimento dei diritti di libertà potesse ricollegarsi alla prassi in materia seguita dai governi liberali per motivi di emergenza, quali la situazione dell'ordine pubblico o lo stato di guerra, e come l'assenza di qualche deputato dell'opposizione non impedisse il regolare svolgimento dei lavori della Camera, essendovi sempre un numero sufficiente di presenza a garanzia della loro legalità.
Invece le leggi costituzionalmente rilevanti poste in essere nello stesso periodo erano destinate ad apparire nella forma e nella sostanza come le basi fondamentali di un nuovo sistema, come le cornici, nella quali doveva svolgersi la vita dello Stato, divenuto così autoritario e dittatoriale.
Nonostante il risultato raggiunto, la legge Acerbo restò in vigore per le sole elezioni del 1924; già nel 1925, conclusa la crisi seguita al delitto Matteotti cui abbiamo già accennato poco sopra, il fascismo cambiò la legge elettorale, attraverso l'introduzione (inedita per l'Italia) del sistema maggioritario secco “all'inglese”, demandando così ai Fasci territoriali la formazione della Camera.
Questa legge, comunque, non fu mai utilizzata.
Infatti il processo di centralizzazione che il fascismo registrò al suo interno, a partire dalla modifica dello Statuto del Partito, approvata nel 1926, e l'avvio del progetto di riforma dello Stato voluto dal governo portarono nel 1928 a un nuovo cambiamento della legge elettorale, che si realizzò attraverso la legge del 17 maggio 1928 che introdusse il plebiscito.
In base a questa legge, il Gran Consiglio del Fascismo, che all'uopo era stato istituzionalizzatosi (diventando quindi, a tutti gli effetti, gli organi dello Stato) aveva il compito di redigere, tenendo conto dei suggerimenti proposti dalle Corporazioni, una lista di 400 nomi che doveva essere approvata o rigettata in blocco dal corpo elettorale.
Gli italiani di sesso maschile furono chiamati due volte al voto per il plebiscito: nella prima occasione, il 24 Marzo 1929, la percentuale dei votanti fu pari all'89,6% (un percentuale non altissima, date le condizioni di agibilità democratica pressoché inesistenti). Su 8.663.412 votanti, i sì furono 8.519.559, i no 135.761 (quasi tutti concentrati nel triangolo industriale del Nord- Ovest, più quelli raccolti attorno a fabbriche di grande dimensione in Veneto, Emilia e Toscana), con 8.092 schede nulle o contestate.
Ancora diversi i risultati del secondo plebiscito, tenutosi nel 1934, con 10.060.426 votanti e solo 15.215 contrari (0,15%) e lo 0,01% di voti nulli.
Tuttavia la commissione parlamentare, che aveva studiato la riforma del 1928, aveva colpito nel segno affermando che la legge elettorale in discussione in quel momento non doveva altro che rappresentare il ponte verso la vera forma -stato del fascismo: quella corporativa.
L'istituzione delle corporazioni nel 1934 aprì, infatti, la strada a un'ulteriore revisione della rappresentanza, ma il problema non era più incentrato, sul terreno teorico/concettuale, attorno al significato da attribuire al termine, bensì sul come impostare le basi tecniche per impiantare la nuova “Camera corporativa”.
Nel frattempo in Germania il nazismo era già arrivato al potere, anch’esso attraverso elezioni più o meno “libere”.
Le nere nubi della tragedia si addensavano sui cieli d’Europa e del mondo.
Ci sono occasioni in cui si scrive per non dimenticare, ma altre perché si pensa che la storia debba evitare di ripetersi: forse questa è una di quelle occasioni, almeno per quel che riguarda i rischi veri e seri di involuzione autoritaria che ci pare di scorgere pericolosamente all’orizzonte.
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