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giovedì 5 dicembre 2013
Livio Ghersi: Quando la Corte costituzionale fa il proprio dovere
Quando la Corte Costituzionale fa il proprio dovere.
Ho sorriso anch'io vedendo Maurizio Crozza che, il 3 dicembre scorso a Ballarò, sosteneva di meritare il "nobel dei cretini" per aver sperato che la Corte Costituzionale dichiarasse l'illegittimità costituzionale della legge elettorale vigente (legge 21 dicembre 2005, n. 270). Era, ovviamente, un sorriso amaro.
Il giorno dopo la Corte Costituzionale ha raccolto la sfida di Crozza: non ha preso tempo, non ha rinviato la propria pronuncia a data da destinarsi, non se ne è lavata le mani (avrebbe potuto dichiarare inammissibile il ricorso), ma è intervenuta sulla sciagurata legge elettorale dichiarando quello che tanti italiani speravano dichiarasse.
Provo una certa emozione perché è dal 2006 che scrivo articoli per cercare di dimostrare con argomenti non soltanto politici, ma anche tecnico-giuridici, che il Legislatore del 2005 aveva approvato una legge elettorale profondamente illiberale e tale da mortificare il Parlamento.
Il Parlamento è cosa diversa dal Governo; ha importanti attribuzioni e compiti, stabiliti dalla Costituzione. Anzi, nel nostro ordinamento costituzionale, il Parlamento ha compiti così importanti che il modello di Forma di governo prende appunto il nome di "Forma di governo parlamentare": il Governo non può operare se non ha la fiducia delle due Camere.
Viceversa, nel tempo, è prevalsa una logica — che a me sembra di ispirazione sostanzialmente autoritaria — secondo cui l'unico organo costituzionale davvero importante è il Governo. Il parlamentarismo classico, secondo questa logica, era viziato da troppa libertà, da troppa democrazia, di conseguenza era un fattore di ingovernabilità. Bisognava, quindi, attivare meccanismi giuridici che garantissero al Governo una maggioranza parlamentare certa e possibilmente duratura. Così il Parlamento ideale diventava completamente sotto-ordinato rispetto al Governo: la maggioranza parlamentare non aveva altra funzione che quella di votare prontamente e disciplinatamente i provvedimenti del Governo.
Da vecchio liberale sostengo invece che se i parlamentari non possono essere altro che degli "yes-men", allora tanto vale abolire il Parlamento: altro che dimezzamento del numero dei deputati!
Un'Assemblea rappresentativa, dal mio punto di vista, sarà tanto più forte ed autorevole quanto più i suoi membri trarranno la loro legittimazione dal Corpo elettorale, godendo di un consenso liberamente manifestato dagli elettori in ogni particolare contesto geografico. Poi, ovviamente, la funzione della politica non si risolve nella mera rappresentanza; occorre trovare una sintesi che, di volta in volta, mediando fra gli interessi in contrasto, si traduca in provvedimenti utili per il Paese nel suo insieme. Proprio da questo punto di vista sappiamo distinguere tra i politici: ci sono i cialtroni e ci sono quelli che hanno l'abito mentale degli uomini di Stato; ci sono i demagoghi irresponsabili e ci sono quelli che si preoccupano delle compatibilità economiche e della necessaria copertura finanziaria delle spese.
Gli autoritari odiano la complessità; per loro i nodi gordiani si tagliano con un colpo di spada. Decidere e decidere subito, è la loro ossessione. La saggezza e la prudenza inducono, invece, a riflettere attentamente sui provvedimenti che si adottano, cercando di prevederne i possibili effetti sul piano generale e le loro ricadute nelle diverse aree socio-economiche del Paese. Questo è appunto il compito di un'Assemblea rappresentativa nazionale: valutare, soppesare, impedire al Governo di fare errori gravi.
La Corte Costituzionale ci dice oggi che è in contrasto con la Costituzione prevedere, nella legge elettorale, la possibilità di sovrastimare oltre una certa misura la rappresentanza in seggi che spetta alla lista più votata. La Corte Costituzionale ci dice ancora che non è possibile che tutti i parlamentari siano eletti in liste bloccate, perché gli elettori, in ciascuna zona geografica, devono poter scegliere i rappresentanti che più stimano e di cui più si fidano.
Non può essere la segreteria di un partito, da Roma, a stabilire chi sarà eletto in Lombardia, chi in Sicilia, chi nel Friuli-Venezia Giulia, chi in Basilicata.
Se l'intervento della Corte Costituzionale tende a ripristinare princìpi sacrosanti, perché tanta ostilità e tante critiche?
Sono critici i difensori ideologici dei sistemi elettorali maggioritari, i quali poi, spesso, coincidono con i difensori della Forma di governo presidenziale, o semi-presidenziale. Nel tempo abbiamo imparato a conoscere i campioni di quest'impostazione: da Mario Segni a Giovanni Guzzetta, da Stefano Ceccanti a Roberto D'Alimonte.
Per tutti costoro una legge elettorale proporzionale è qualcosa di simile al male assoluto.
Ricordo a me stesso che in un momento drammatico, quando l'Italia era un campo di macerie e si trattava di ricostruire in senso letterale il Paese, la Consulta Nazionale, della quale fecero parte le più belle intelligenze espresse da tutti i partiti antifascisti, decise che la legge elettorale per eleggere l'Assemblea Costituente sarebbe stata proporzionale, sulla base di liste concorrenti nelle diverse circoscrizioni geografiche. Anzi ultra-proporzionale, infatti la legge elettorale per la Costituente prevedeva che i resti (cioè i voti non utilizzati nelle circoscrizioni perché insufficienti ad eleggere deputati) sarebbero confluiti nel Collegio unico nazionale e lì assegnati proporzionalmente fra le liste per attribuire i seggi che restavano da assegnare.
A proposito di proporzionale, ci sono alcuni imbrogli da smascherare.
In primo luogo non c'è un'unica legge elettorale proporzionale, ma ci sono tante possibili varianti che determinano esiti molto differenti fra loro nella quantificazione dei seggi.
Vale una regola: quanto più ampie sono le dimensioni del collegio utilizzato per il riparto dei seggi, tanto più aumenta il numero delle liste che ottengono rappresentanza.
Attualmente sono previste, per le elezioni della Camera dei Deputati, ventisei circoscrizioni, più la Valle d'Aosta. Se si aumentasse (senza esagerare) il numero delle circoscrizioni fino ad arrivare a trentadue / trentacinque, già gli esiti del riparto dei seggi sarebbero ben differenti.
La proporzionalità (ossia, la corrispondenza fra voti ottenuti e seggi attribuiti) può essere modificata anche attraverso la previsione di soglie di sbarramento: queste operano nel senso di escludere dall'attribuzione dei seggi le liste che non ottengono una quantità minima di consenso, predeterminata dalla legge. La logica è quella di evitare l'eccessiva frammentazione della rappresentanza fra troppe liste (obiettivo che, senza ricorre a soglie di sbarramento, si potrebbe ottenere con circoscrizioni piccole). Al momento la quantità minima di consenso è stabilita con riferimento al totale nazionale dei voti validi, secondo l'esempio della legge elettorale per l'elezione del Bundestag in Germania. Tuttavia, se invece di prevedere uno sbarramento nazionale si stabilisse uno sbarramento a livello di singola circoscrizione, ancora una volta gli esiti sarebbero molto differenti. Quest'ultima misura avvantaggerebbe i partiti che hanno un radicamento territoriale in alcune aree geografiche e non, uniformemente, nel territorio nazionale. Ciò eviterebbe il ricorso forzoso ad apparentamenti innaturali per superare comunque la soglia di sbarramento.
Taccio poi, perché questione troppo tecnica, dei diversi sistemi matematici che si possono applicare per il riparto dei seggi, da quello classico del quoziente, al metodo d'Hondt, eccetera.
Dunque, posto che non c'è una sola legge proporzionale, ma si possono mettere in campo infinite varianti, dice un'autentica sciocchezza chi sostiene che con la proporzionale si tornerebbe alla prima Repubblica. Senza dimenticare che dal 1948 al 1992 si sono succeduti molti esecutivi, ma soltanto quattro sono state le formule politiche sperimentate, ciascuna con un proprio preciso indirizzo: il centrismo, il centro-sinistra, la solidarietà nazionale, il pentapartito.
Infatti, in politica si tende ad allearsi con le forze affini e ciò avviene normalmente in un libero Parlamento. Il fenomeno del trasformismo e dei cosiddetti ribaltoni è stato molto più ricorrente dopo il 1992, quando si pensava che per migliorare la politica bastasse imporre un bipolarismo forzoso.
Con buona pace degli autoritari di ogni colore, non è possibile "giuridicizzare" la politica oltre un certo limite. Non si tratta di escogitare regole che "costringano" i politici ad essere virtuosi.
Altra chiacchiera da sfatare: il maggioritario rappresenterebbe il nuovo. Prima della "prima Repubblica", lo Stato unitario italiano ha avuto una sua storia che, pure, dovrebbe essere nota.
Ricordo a me stesso che, dal 1861 in poi, in Italia, per la Camera dei Deputati, si è quasi sempre votato in collegi uninominali. Gaetano Salvemini condusse una lunga battaglia nell'opinione pubblica perché si passasse al voto di lista in circoscrizioni. Secondo Salvemini, i collegi uninominali erano il sistema ideale per Giovanni Giolitti, quello su cui l'uomo di governo piemontese aveva costruito la propria egemonia politica. Coloro che, non accontentandosi di parlare di "rivoluzione liberale", volessero prendersi il disturbo di leggere il saggio di Piero Gobetti, scoprirebbero che Gobetti faceva della proporzionale una propria bandiera. Si arrivò così, quando Presidente del Consiglio era Francesco Saverio Nitti, ad approvare la legge elettorale proporzionale (legge 15 agosto 1919, n. 1401). Il fascismo, che odiava la proporzionale, impose la legge elettorale maggioritaria, la legge Acerbo, con la quale si votò nelle elezioni del 1924. Il resto della storia dovrebbe essere noto.
Taccio poi dei commenti allarmistici che hanno seguìto la sentenza della Corte Costituzionale: la Corte, quasi fosse un comitato rivoluzionario, avrebbe adottato una decisione che comporta la decadenza del Parlamento attuale e di tutti gli altri Organi costituzionali, incluso il Presidente della Repubblica. Cialtroni non sono soltanto alcuni politici, ma anche certi commentatori troppo faziosi e partigiani. Leggo il primo comma dell'articolo 136 della Costituzione: «Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione». Si discute del futuro, non del passato.
Una pagina nuova si apre; in cui, auspicabilmente, si passerà da una legge elettorale vergogna ad una più dignitosa. Non occorrono particolari doti di fantasia e di creatività, ma unicamente senso di responsabilità e buona volontà.
Palermo, 5 dicembre 2013
Livio Ghersi
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