giovedì 26 dicembre 2013

Franco Astengo: La Repubblica e la scelta del sistema elettorale proporzionale

La Repubblica e la scelta del sistema elettorale proporzionale di FRANCO ASTENGO Dal blog: http://sinistrainparlamento.blogspot.it LA CORTE COSTITUZIONALE HA RECENTEMENTE DICHIARATO ILLEGITTIME PARTI FONDAMENTALI DELLA LEGGE ELETTORALE IN VIGORE IN ITALIA FIN DAL 2005 E CON LA QUALE SI SONO ELETTI BEN TRE PARLAMENTI (2006,2008,2013). UN FATTO DI GRAVITA’ INAUDITA, PRESSOCHE’ INEDITO NELLA DEMOCRAZIE OCCIDENTALI. SENZA ATTENDERE LA PUBBLICAZIONE DELLE MOTIVAZIONI SI E’ APERTO, FRA LE FORZE POLITICHE, UN CONFUSO DIBATTITO SULLE NECESSARIE MODIFICHE DA APPORTARE ALLA LEGGE: ANCORA UNA VOLTA IL DIBATTITO APPARE IMPRONTATO, INVECE CHE AD UNA RICERCA DI TIPO “SISTEMICO”, VERSO UNA SCELTA RIGUARDANTE LE CONVENIENZE DI SOPRAVVIVENZA IMMEDIATA DI FORZE POLITICHE MAI COSI’ STORICAMENTE IN DIFFICOLTA’ RISPETTO AD UN MINIMO DI RAPPORTO SOCIALE POSITIVO. UN DIBATTITO CHE, PER DI PIU’ ED ANZI SOPRATTUTTO APPARE CONFUSO E DEL TUTTO ALIENO DA QUELLI CHE SAREBBERO NECESSARI PRESUPPOSTI STORICO – TEORICI, A DIMOSTRAZIONE, SE MAI CE NE FOSSE ANCORA BISOGNO DELL’INCULTURA POLITICO – ISTITUZIONALE DRAMMATICAMENTE PRESENTE NELLA VITA POLITICA ITALIANA. SULLA BASE DI QUESTE CONSIDERAZIONI E NELL’INTENTO DI FORNIRE UN CONTRIBUTO DI MERITO SI TROVERANNO DI SEGUITO ALCUNI SPUNTI DI RIFLESSIONE ATTORNO AD UN ELEMENTO CHE PUO’ ANCORA OGGI CONSIDERATO DI FONDAMENTALE IMPORTANZA: COME CIOE’, NELLA FASE DI RIPRESA DELLA VITA POLITICA SUBITO DOPO LA LIBERAZIONE FINO AI LAVORI DELL’ASSEMBLEA COSTITUENTE, SI PERVENNE ALLA SCELTA DEL SISTEMA ELETTORALE PROPORZIONALE. COSI’ TANTO PER RIFRESCARE LA MEMORIA, FAVORIRE LA COMPARAZIONE STORICA E, FORSE, INDICARE UNA STRADA. La Repubblica e la scelta del sistema elettorale proporzionale Tra il 25 luglio 1943, giorno della caduta del fascismo, e il 2 giugno 1946, giorno dell'elezione dell'Assemblea Costituente e del referendum istituzionale, si sviluppò un intenso dibattito sui temi istituzionali ed elettorali: furono approvati nel giugno del 1944 e nel marzo 1946 due “costituzioni provvisorie” (così furono denominati i Decreti luogotenenziali n.151 del 1944, e n.98 del 1946), co l'ultima delle quali si stabiliva l'elezione di un’Assemblea Costituente per la redazione di una nuova Costituzione dello Stato unitario, unitamente all'indizione di un referendum popolare per la scelta istituzionale, tra Monarchia e Repubblica, da svolgersi in contemporanea con l'elezione -appunto – dell'Assemblea Costituente. Fu approvata anche l'estensione del voto alle donne: un provvedimento di cui si discuteva fin dall'Ottocento. Finalmente anche l'Italia si allineava alle democrazie più moderne, estendendo il suffragio fino all'universalità. In questa fase cominciò anche la discussione tra le forze politiche il dibattito intorno al sistema elettorale, con il quale si sarebbe dovuta eleggere l'Assemblea chiamata a redigere il nuovo testo della Costituzione. Il dibattito ripropose l'antico confronto tra proporzionalisti e maggioritari e, se i reduci del vecchio liberalismo pre – fascista come Vittorio Emanuele Orlando o Benedetto Croce, si pronunciarono a favore del maggioritario, imputando al proporzionale il crollo dello stato liberale con la conseguente deriva fascista, la maggioranza delle forze politiche si assestò sulla scelta del proporzionale, riconoscendo a questo sistema, nella sua variabile del quoziente (fu adottato il sistema “Imperiali corretto”), la capacità di tradurre meglio all'interno dell'Assemblea la composizione politica presente all'interno della società, corrispondendo appieno alla logica dei grandi partiti a integrazione di massa, quali erano in quel momento la DC, il PSIUP e il PCI. All'Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946 toccò, secondo quanto sancito dal Decreto Luogotenenziale del marzo 1946, di elaborare il testo della nuova legge elettorale per le future legislature repubblicane. Si ripresentarono così al dibattito i due tradizionali orientamenti: quello favorevole al sistema proporzionale e quello favorevole al sistema maggioritario. Le diverse istanze trovarono alla fine un punto di convergenza in un testo che conservava, per la Camera dei Deputati, il sistema proporzionale su circoscrizioni plurinominali concepite come sezioni di un Collegio Unico Nazionale; per il Senato invece si prevedeva un sistema misto: maggioritario per cui collegi dove un candidato avesse superato il 65% dei voti validi e proporzionale su collegi regionali, laddove questa maggioranza (che, in effetti, si verificò in ben poche occasioni) non fosse stata raggiunta da alcuno. Fu questo il sistema attraverso il quale fu eletto il primo Parlamento repubblicano con le elezioni del 18 aprile 1948. Entriamo, allora, nel merito del dibattito attraverso cui si arrivò a queste scelte, appena sintetizzate poco sopra. L'11 giugno 1944 si formò il primo governo Bonomi, espressione diretta del riconoscimento del CLN (cioè dei partiti) quale fonte primaria del potere politico. A questo punto il confronto sulla riorganizzazione dello Stato si fece più serrato e tema prevalente diventò ancora una volta quello della rappresentanza politica. La prima “costituzione provvisoria”, adottata già dal Governo di Salerno, abrogò il disposto del terzo comma del regio decreto legge 2 agosto 1943, n.705 con cui si stabiliva che entro quattro mesi dalla cessazione dello stato di guerra, si sarebbe eletta una nuova Camera dei Deputati. Questo provvedimento fu sostituito dalla norma che formalizzava l'impegno, a liberazione avvenuta, di demandare la scelta istituzionale al popolo italiano attraverso l'elezione a suffragio universale di una Assemblea Costituente, che avrebbe dovuto avere anche il compito di “deliberare la nuova Costituzione dello Stato”. Diventava, dunque, più che mai necessario incominciare a ripensare in termini di suffragio e di sistema elettorale. Si riaprì, a questo punto, quel dibattito che aveva attraversato tutti gli anni'20 della storia politica italiana. Di nuovo gli stessi schieramenti, di nuovo la stessa contrapposizione: da una parte i vecchi liberali, sopravvissuti al fascismo, Orlando, Croce, Nitti, uniti dalla comune lettura per la quale il proporzionale è la “causa di tutte le sciagure italiane, almeno nel campo politico”; dall'altra, morto Turati, rimane Sturzo il vecchio paladino della proporzionale. Posizioni vecchie in un quadro nuovo, che posero l'interrogativo inquietante: il continuismo era una scelta di capo o risultava connaturato al riprodursi di una classe dirigente che intendeva riconfermare le proprie radici? Il fascismo, con la sua rivoluzione, aveva almeno mantenuto fede a quell'impegno di ricambio della classe dirigente che aveva proclamato all'indomani del suo trionfo? Sulle scelte che furono compiute in quel periodo pesò il retaggio di una tradizione politica che non si era interrotta e che non aveva mai risolto la questione del rapporto tra stato e società. Porre, allora, il problema elettorale significava dunque, in quello scorcio nel quale qualcuno sperava nella “nuova era”, mettere in discussione tutto l'impianto del sistema politico, non solo occuparsi semplicemente della formazione della rappresentanza nazionale. Questo fu l'interrogativo, e i partiti arrivarono a quell'appuntamento senza aver sviluppato una chiara analisi dello stato di cose in atto. La Democrazia Cristiana non aveva voce univoca: nel “Programma di Milano, si affermava che la Camera dei Deputati doveva essere eletta “a suffragio universale con sistema proporzionale”, mentre nelle “Idee Ricostruttive”, redatte da De Gasperi nel 1943, non si faceva neppure riferimento al sistema di scrutinio, limitandosi a ribadire il principio del suffragio universale; posizione analoga a quella che si ritrovava nel “Programma della Democrazia Cristiana”, dato alle stampe nel gennaio del 1944. I socialisti intervennero nell'agosto del 1945 sul tema elettorale, rilanciando l'idea del premio di maggioranza, riconfermando cioè, nella sostanza le posizioni tenute da Matteotti nel 1925. Per i comunisti, invece, si dovette aspettare il deliberato assunto dal Consiglio Nazionale dell'Aprile 1945 , laddove si fece riferimento al sistema elettorale, indicando un favore di massima per il proporzionale. Repubblicani e azionisti presero una posizione chiara soltanto in tempi successivi, al formarsi della commissione ministeriale chiamata a preparare il sistema elettorale per la Costituente, ed espresso in modo netto la preferenza per il proporzionale. Con l'assunzione della Presidenza del Consiglio da parte di Parri, nel giugno del 1945, il problema elettorale ricevette indirettamente una accelerazione. Fu con il governo Parri, infatti, che furono costituite e rese operative tutte quelle strutture attraverso le quali fu possibile elaborare la legge elettorale per la Costituente. Nel Luglio del 1945 fu costituito il Ministero per la Costituente, affidato a Pietro Nenni, con l'esplicito compito di preparare la strada alla formazione di quell'Assemblea che, al di là del dibattito intorno alle altre funzioni a cui avrebbe dovuto adempiere, avrebbe dovuto senz'altro anche porre le basi del nuovo patto istituzionale. Il 31 Agosto 1945, con decreto, fu nominata la “Commissione per la elaborazione del progetto di legge elettorale politica per la Costituente”. Il provvedimento nacque in un contesto dove stava diventando sempre più evidente che, al di là della formale unità d'azione che caratterizzava l'attività del CLN, rimaneva sullo sfondo una forte contrapposizione proprio intorno alla questione elettorale. I punti dello scontro erano, sostanzialmente due: la funzione delle assemblee elette e l'essenza del rapporto rappresentativo. I termini del problema s’inscrivevano in un trend di lungo periodo. Da un lato s’intendeva riaffermare, anche dopo l'esperienza del fascismo, che compito dell'assemblea dei deputati fosse, prima di ogni altro, l'espressione del governo, in ossequio pieno alla tradizione liberale. Dall'altro canto si puntò, invece, sulla necessità di rendere esplicita la composizione delle alleanze tra le forze politiche senza costringerle a patti fuori -natura. Una lettura realistica della ripresa politica italiana escludeva, infatti, in quel momento che sulla scena si potessero presentare meno di sei gruppi strutturati. Per quando riguardava, invece, il rapporto relativo alla rappresentanza politica, il punto dirimente stava nella contrapposizione della rappresentanza per persone o per partiti. Nella prima ipotesi si sostanziava tutta la tradizione ottocentesca, legando nel momento elettorale al deputato al collegio e durante la legislatura il deputato alla nazione; nella seconda istanza, quella che collegava la rappresentanza ai partiti, andava considerata la valenza istituzionale di intermediazione politica assunta dal partito in quella che era stata la sua evoluzione novecentesca (giunta, in quel momento, quasi metà del secolo quasi a completa maturazione), riconsiderandola dopo l'esperienza ormai chiusa dei totalitarismi europei. Il tentativo di chi puntò a far emergere l'idea della rappresentanza attraverso i partiti era quella di definire, sul piano teorico, una indicazione per la quale il momento elettorale avrebbe dovuto servire per determinare a quale partito, ottenuta la maggioranza, toccasse il compito di tradurre nello Stato la propria Weltanschauung (secondo l'elaborazione portata avanti da Costantino Mortati fin dal 1941). Appariva evidente come dall'antipartitismo del pensiero politico liberale cresciuto alla scuola di Mosca, ci si volse verso una concezione della politica in cui il partito, smessi i panni della setta, rappresentasse il canale dell'organizzazione politica, attorno alla quale doveva ruotare la vita dello Stato: Weimar, il simbolo del Parteinstaat, distrutto dal totalitarismo nazista, che diventò patrimonio della scienza costituzionale che vedeva nel modello di “stato dei partiti” il futuro della politica (ancora Costantino Mortati: “La Costituzione di Weimar”, Sansoni, Firenze 1946). La Commissione ministeriale per la legge elettorale iniziò i lavori il 1 Settembre 1945. Fin dalla prima riunione Nenni, che la presiedeva, cercò di trovare una mediazione nel contrasto tra uninominalisti e proporzionalisti, stabilendo il principio dell'eccezionalità che rappresentava la formazione di una Assemblea Costituente. Era implicito nel discorso di Nenni l'idea maturata nell'antifascismo italiano che riteneva come la Costituente non rappresentasse l'unico soggetto detentore della sovranità. La fase costituente rappresentava, per contro, la traduzione nel diritto di quanto era avvenuto nella fase finale del conflitto e durante la lotta di Resistenza, nel corso di un periodo nel quale era emersa la necessità di imprimere nel dettato costituzionale quello stesso spirito di mutua convergenza e di reciproco controllo che aveva animato, e stava ancora animando, l'attività ciellenistica. In questo senso la formazione dell'Assemblea che avrebbe dovuto preparare la Costituzione andava deideologizzata al massimo, per poter far filtrare “tutte le correnti di opinione”. E' il caso di ricordare, ancora, come in precedenza all'apertura della discussione vera e propria sulla legge elettorale, la Commissione risolse alcune questioni, apparentemente minori: quella dell'eleggibilità, dove si affermò l'estensione dell'elettorato passivo anche alle donne; l'età, dove fu bocciato una proposta di Terracini di estensione del diritto di voto ai diciottenni, il tema del voto obbligatorio che fu respinto con 5 voti , contro 2 e 2 astenuti. Alla fine, affrontato il nodo del sistema elettorale, prevalse l'idea della proporzionale, anche se erano diverse le anime che concordarono su questa scelta. Diversità che riemersero allorquando si trattò di individuare, successivamente, il concreto metodo di traduzione dei voti in seggi. Ritornarono, infatti, in quella fase i tentativi di bilanciare il rapporto persone/gruppi, dimostrando come, in quel momento, il processo di identificazione per partiti non fosse ancora percepito in quella dimensione che poi caratterizzerà la politica di massa negli anni a venire. L'impossibilità di trovare nuove ipotesi percorribili portò, infine, la commissione a individuare, tra l'insoddisfazione generale, nel dettato normativo del 1919 il testo di riferimento per l'elaborazione della legge elettorale. Il successivo passaggio alla Consulta, che nominò anch'essa una commissione ad hoc, i cui lavori iniziarono il 9 Gennaio 1946, ripropose, in modo ancor più radicale, lo scontro tra i partiti circa la declinazione “tecnica” dei due punti riguardanti il disegno delle circoscrizioni e l'espressione dei voti di preferenza. Risorsero, dunque, anche se prontamente stornati, i tentativi di posticipare l'approvazione delle legge elettorale, nell'attesa che fossero definiti i reali compiti dell'Assemblea Costituente che si sarebbe andata a eleggere. Su questo punto, però, anche la nuova commissione decise di tirare diritto: il sistema proporzionale come scelta di campo per la definizione della legge elettorale non poteva più essere rigettato. Tuttavia il fatto che questa volta la scelta non ottenesse l'unanimità dei consensi, bensì la sola maggioranza, indicava come fosse ormai finito il tempo dell'unità del CLN, quale garanzia del prevalere dell'interesse generale su quello particolare. L'impianto del nuovo disegno di legge previde, dunque, il sistema del quoziente, la divisione del territorio nazionale in circoscrizioni che tendenzialmente non ricalcavano più i confini della regioni, bensì quelli delle province con una attribuzione di seggi che andava da un minimo di 7 deputati a un massimo di 36 (il collegio cui era assegnato il numero minore di seggi era quello di Potenza e Matera, appunto 7, quello cui ne furono assegnati di più fu quello di Milano e Pavia con 36. La Valle d'Aosta ebbe, invece, un solo deputato), la riduzione del quorum d'efficienza a un decimo dei voti di lista. Il Ministero De Gasperi spostò ulteriormente verso destra l'asse della legge, orientando alcune modifiche verso i desideri di quella parte politica: fu abolito il quorum d'efficienza, togliendo così ogni elemento di presunta rigidità alle liste di partito; si rettificò ulteriormente il quoziente elettorale, aumentando di un'altra unità il divisore nei collegi che avrebbero dovuto esprimere più di 20 deputati, si stabilì, infine, che la lista del Collegio Unico Nazionale, attraverso cui sarebbero stati recuperati i resti non utilizzati, poteva essere formata soltanto da candidati già comparsi nelle liste circoscrizionali. Con queste ultime revisioni la legge elettorale fu definitivamente approvata, attraverso l'emanazione del Decreto Luogotenenziale n.74 del 10 Marzo 1946 e si andò, così, al voto del 2 Giugno: contemporaneamente per il referendum istituzionale e l'Assemblea Costituente, mentre tra il Marzo e l'Aprile di quell'anno si era votato per un certo numero di Amministrazioni Locali. La campagna elettorale per le elezioni della Assemblea Costituente fu, in realtà, compromessa da quella ritenuta prioritaria per il referendum sulla scelta istituzionale. I congressi dei partiti fornirono una chiara indicazione dell'orientamento che si era profilato, fra le diverse forze politiche. La linea favorevole alla Repubblica era, del resto, scontata tra comunisti, socialisti, azionisti. Tra i democristiani il problema si presentò in forma più complessa. Nel corso del congresso DC (Roma, 24-27 Aprile 1946) emerse una chiara indicazione filo – repubblicana, ma questa fu accantonata con la votazione di una mozione che, esaltando la volontà di coscienza del singolo cittadino rispetto al problema istituzionale, non impegnò di fatto il partito a dare una precisa indicazione di scelta ai propri iscritti. Tra i liberali fu messa in minoranza la mozione presentata dalla segreteria, caldamente sostenuta da Benedetto Croce, orientata verso un agnosticismo dichiarato e prevalse, invece, un orientamento favorevole alla monarchia, pur lasciando libertà di dissenso. Al primo congresso dell'Uomo Qualunque, partito funzionale alla collocazione politica del non sopito afascismo di una parte rilevante dell'elettorato, non si prese posizione sul tema istituzionale, preferendo discutere intorno ad una non ben definita pace sociale. Intanto le elezioni amministrative che si erano svolte tra il Marzo e l'Aprile 1946 fornirono un primo elemento per verificare l'andamento della situazione politica. Su 5.722 comuni, 2.354 furono conquistati dalla DC, 2.289 videro, invece, prevalere lo schieramento socialcomunista. A livello geografico la sinistra controllava l'Italia settentrionale e centrale, mentre i partiti di centro potevano contare su una notevole maggioranza nell'Italia meridionale e nelle Isole. La presenza delle “due Italie” fu confermata dai risultati del 2 Giugno, sia andando ad analizzare i dati del referendum istituzionale, sia prendendo in esame la geografica politica dei voti espressi per l'elezione della Assemblea Costituente. Una linea di confine che univa le estreme pendici della Toscana, dell'Umbria e delle Marche divideva l'Italia repubblicana da quella monarchica. La stessa linea di confine che separava l'Italia della sinistra da quella del centro -destra. L'Assemblea Costituente si trovò di fronte al tema, già affrontato in via preparatoria dalla “Commissione Ministeriale per gli studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato” (la cosiddetta “commissione Forti”) di ricostruire la griglia di riferimento relativa alla rappresentanza nazionale, all'interno del dettato costituzionale. La seconda sottocommissione dell'Assemblea divenne, così, il laboratorio politico all'interno del quale nacque concretamente la nuova forma stato repubblicana. Il principio del bicameralismo (Camera dei Deputati e Senato della Repubblica), caldeggiato soprattutto dalle destre e dalla Democrazia Cristiana, non incontrò particolari ostacoli neppure a sinistra dove, con la presentazione di un ordine del giorno da parte del socialista Lami Starnuti, si accettò formalmente l'impianto bicamerale, a condizione che la seconda Camera non fosse costituita in modo tale da alterare sostanzialmente la filosofia politica del Paese, quale fosse stata rispecchiata dalla composizione della prima camera. Il secondo problema posto in discussione fu quello relativo ai sistemi elettorali per le due Camere. Immediatamente si evidenziò la tendenza della maggioranza a non attribuire alla carta costituzionale una valenza prescrittiva in merito alle tecniche di traduzione dei voti in seggi: nonostante un quadro del dibattito sostanzialmente favorevole alla scelta del sistema proporzionale ci si orientò, alla fine, sia per la Camera, sia per il Senato (per l'elezione del quale s’indica il collegio uninominale) il rimando alla legge ordinaria, ribadendo nel testo della Costituzione il semplice vincolo di un sistema elettorale a suffragio universale e diretto, per entrambi i rami del Parlamento. Un primo progetto di legge elettorale fu preparato dal Governo e presentato dal Ministro dell'Interno, Scelba, all'Assemblea Costituente il 10 Maggio 1947. Il modello di legge proposto dal governo partiva, sostanzialmente, dal DLL n.74 del 1946, che aveva regolato le elezioni per l'Assemblea Costituente. In realtà il Governo, pur mantenendo la griglia già sperimentata, tentò di introdurre qualche significativa modifica: l'aumento del numero delle preferenze, il ridimensionamento dei collegi, l'abolizione del collegio unico nazionale e il trasferimento dei resti sui collegi regionali, al cui riparto peraltro avrebbero potuto partecipare soltanto le liste che avesse conquistato almeno un quoziente all'interno della Regione. Inoltre si proponeva di introdurre l'obbligatorietà del voto, accompagnata da precise sanzioni. Il profilarsi di uno scontro con i partiti minori indusse il governo al ritiro del progetto e alla presentazione di un altro disegno di legge che ricalcava, in modo più radicale, la legge elettorale per la Costituente. Il garantismo ministeriale per la sopravvivenza dei partiti intermedi fu indubbiamente, in quella fase, sollecitato dalla crisi di governo che andava profilandosi all'orizzonte, poiché in quel momento, in seguito alla rottura del tripartito con PCI e PSI, la strategia centrista della DC era chiamata a fare i conti con la vitale presenza di piccole formazioni politiche alla sua destra e alla sua sinistra. Il problema del collegio unico nazionale e del riparto dei resti fu risolto, nell'ultima versione della legge, stabilendo il recupero dei resti, conteggiati nazionalmente, a livello di circoscrizione aumentando di tre unità il divisore per abbassare il quoziente elettorale, e aumentare così la distribuzione dei seggi all'interno delle circoscrizioni stesse. Il testo definitivo della legge elettorale per la Camera fu approvato il 21 Dicembre 1947, con 275 voti a favore e 82 contrari. Essa divenne la legge n.6 del 20 Gennaio 1948, successivamente unificata con le altre normative per l'elezione della Camera dei Deputati nel T.U. 5 febbraio 1948, n.26. Il criterio di formazione del Senato apparve, fin dai dibattiti preparatori, molto più complesso. Se non c'erano dubbi circa la natura politica della rappresentanza della Camera dei Deputati, rispetto alla seconda Camera i partiti avevano ipotesi per certi versi contrastanti. Doveva essere fatti interagire diversi termini del problema riguardante la rappresentanza della seconda Camera: le professioni/interessi, gli organi locali, l'elettorato. Ma una formula che attribuisse un ruolo attivo a tutte e tre le categorie apparve di difficile costruzione. Il tentativo di Lussu di far passare, nel disorientamento generale, l'affermazione di principio: “La seconda Camera è la Camera delle Regioni”, fu abilmente aggirato dal democristiano Tosato che corresse il tiro facendo approvare la formula (oggi tornata di grande attualità) secondo la quale la “seconda Camera è eletta su base regionale”. Questo significava che, dalle originarie istanze autonomistiche, poteva rimanere in gioco anche solo il collegio elettorale allargato, concepito come mero contenitore territoriale di voti. L'adunanza plenaria dell'Assemblea Costituente affrontò il problema della Seconda Camera nell'autunno del 1947 e la vexata quaestio dell'elezione fu risolta da un ordine del giorno che vide la convergenza Nitti – Togliatti: “ L'assemblea costituente afferma che il Senato sarà eletto con suffragio universale e diretto e con il sistema del collegio uninominale”. L'ordine del giorno, posto in votazione il 7 Ottobre 1947, passò con 190 voti contro 181. La legge elettorale per il Senato fu predisposta dal Ministero e presentata in Assemblea da Scelba l'11 Dicembre 1947, in un disegno di legge che cercava di recepire l'istanza base emersa dai dibattiti precedenti, sia in merito al collegio uninominale, sia in merito alla base territoriale/regionale. La tecnica di traduzione dei voti in seggi, tuttavia, predisponeva un meccanismo di elezione che si allontanava sia dal maggioritario secco che da quello a due turni, ricorrendo a una soluzione intermedia che richiamava in vita indirettamente il sistema proporzionale: i candidati si sarebbero presentati singolarmente sui collegi uninominali e sarebbe risultati eletti solo nel caso del raggiungimento di una percentuale pari al 50% più uno dei voti validi; i seggi non assegnati con questo metodo sarebbero stati attribuiti su base regionale ai gruppi di senatori che avessero dichiarato precedentemente un collegamento, avvalendosi di un eguale simbolo di riconoscimento, in forza del sistema del quoziente corretto e dei più alti resti, con le stesse modalità della Camera dei Deputati. Il meccanismo, dopo un forte dibattito, fu modificato da un ordine del giorno Dossetti, che elevava la percentuale necessaria per l'elezione diretta nel collegio uninominale al 65% de voti espressi, mentre i seggi non attribuiti in prima istanza sarebbero stati assegnati su un collegio unico regionale recuperando, evidentemente, il sistema proporzionale. Su questa proposta, che riproponeva nella sostanza il sistema elettorale a loro più congeniale, convennero i comunisti riequilibrando così totalmente l'orientamento dell'Assemblea in favore della consolidata posizione che la forma partito stava ottenendo nell'impianto istituzionale della Repubblica. Il testo per l'elezione del Senato, divenne legge il 6 Febbraio 1948, con il numero 29. La convergenza PCI-DC, in quel momento era già lettera morta fin dal maggio 1947, quando la fine del governo tripartito DC-PCI-PSI( quest'ultimo tornato alla antica denominazione dopo la scissione del PSLI, guidato da Saragat su posizioni socialdemocratiche, avvenuta nel corso del congresso di Roma, Palazzo Barberini, svoltosi nel Gennaio 1947), sanzionò l'avvio del centrismo degasperiano. La crisi della democrazia italiana si aprì, dunque, ancor prima che la Repubblica muovesse i suoi primi passi e lo dimostrò proprio l'andamento delle elezioni per la I legislatura, tenutesi il 18 Aprile del 1948. L'entrata in vigore della carta costituzionale, avvenuto proprio il 1 Gennaio 1948, segnò l'uscita dal provvisorio ma non chiuse le ostilità; il passaggio della politica mondiale dall'eurocentrismo al bipolarismo finì con il trasferire all'interno dei paesi del vecchio continenti quell'idea che Churchill per primo manifestò fin dal 1946: una cortina di ferro era calata sui paesi controllati dall'URSS. Nonostante ciò le sinistre premevano su tutti i fronti interni d'Europa. La Gran Bretagna fu la prima nazione in cui si svolsero le elezioni politiche: gli inglesi furono chiamati alle urne il 5 Luglio 1945 e posti davanti alla scelta tra i conservatori che intendevano andare avanti seguendo lo schema che aveva portato alla vittoria bellica ed i laburisti che proponevano una svolta politica per il futuro. Vinsero proprio i laburisti, con il 48% dei voti e 393 deputati, con i conservatori al 39,6% e 213 seggi. I francesi, invece, votarono tre volte tra il 1945 ed il 1946 evidenziarono un paese chiaramente spostato a sinistra (il 2 Giugno 1946, proprio in concomitanza con le prime elezioni generali in Italia, i comunisti raccolsero il 25,95%, i socialisti il 21,1%, i cattolici del MRP il 28,2%, i radicali l'11,6% e la destra si vide ridotta al 12,8%); in Germania le elezioni si svolsero tra il 1946 ed il 1947 nelle quattro zone controllate dagli Alleati, indicando una prevalenza socialdemocratica a Berlino e nelle zone statunitense ed inglese, una prevalenza dei cristiano – democratici e dei cristiano – sociali nella zona francese (dove, peraltro, vi era stata fin dall'Ottocento una prevalenza dello Zentrum) ed una scontata prevalenza del partito socialista unificato, la SED, nella zona di appartenenza sovietica. In Italia la radicalizzazione della lotta fu, d'altra parte, ancora più accentuata in quanto su di essa non giocò solo il fattore politico, ma anche – e fortemente – quello religioso. La politica di apertura di Togliatti verso le masse cattoliche, esplicitata attraverso la posizione assunta dal PCI di fronte all'articolo 7 della Costituzione con il quale si riconosceva il Concordato tra lo Stato Italiano e il Vaticano stipulato l'11 Febbraio 1929 tra Mussolini ed il Cardinal Gasparri, non servì, almeno per il momento, a pacificare gli animi. Stati Uniti e Vaticano da un lato, l'Unione Sovietica dall'altro rappresentarono così le spinte “esterne” verso una lettura di tipo manicheo della futura politica dello Stato. I comizi in vista del 18 Aprile 1948 si aprirono così da un lato tra i timori generalizzati che la volontà popolare potesse non essere rispettata e dall'altro ad affrontare potenziali piani eversivi, che dall'esterno avrebbero potuto fornire soluzioni eterodirette alla vicenda politica italiana. Alle elezioni l'affluenza alle urne risultò altissima (92,9%), così come altissimo fu il numero dei voti validi (il 97,8% dei suffragi espressi). Le liste che si presentarono alla competizione elettorale furono 114; di queste solo 10 riuscirono, alla fine, ad ottenere una rappresentanza parlamentare. L'indice di dispersione dei voti in relazione alle liste che non ottennero seggi fu sostanzialmente basso, par cioè all'1,3%. Dal punto di vista del funzionamento delle formule elettorali, c'è ancora da ricordare come per il Senato il quorum del 65% necessario per l'elezione diretta fu raggiunto, in queste prime elezioni in soli 15 collegi, concentrati in 5 Regioni: Lombardia, Bergamo (DC 70%), Clusone (DC 76,7%), Treviglio (DC 68,4%); Trentino – Alto Adige, Bressanone (PPST-SVP 79,8%), Mezzolombardo (DC 80,7%), Pergine (DC 71,7%), Trento (DC 69,1%); Veneto , Bassano del Grappa (DC 77,2%), Cittadella (DC 73,4%), Schio (DC 71,1%), Treviso (DC 66,3%), Verona Collina (DC 69,9%), Vittorio Veneto – Montebelluna (DC 67,5%); Abruzzo, Lanciano – Vasto (DC 68,6%); Sicilia, Acireale (DC 66,1%). Le elezioni indicarono, comunque, un unico indiscusso vincitore: la Democrazia Cristiana. Forte di questo consenso generalizzato la DC si presentò all'apertura della I legislatura, con la maggioranza assoluta alla Camera dei Deputati e quella relativa al Senato ( va ricordato come il “plenum” del Senato fosse completato da personalità perseguitate dal Fascismo o dichiarate decadute da parlamentare nell'occasione delle leggi cosiddette “fascistissime”: questi “senatori di diritto” risultarono prevalentemente collocati a sinistra). Il meccanismo proporzionale che informava l'impianto delle leggi elettorali per le due Camere, pur non esercitando un'azione coercitiva sul voto e pur trovandosi a funzionare all'interno di un sistema politico tradizionalmente debole, non impedì però all'elettorato di schierarsi. Con il 18 Aprile 1948 si chiuse, così, definitivamente un'epoca.

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