Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
domenica 29 dicembre 2013
Renzo Penna: La mancanza di lavoro favorisce la destra
LA MANCANZA DI LAVORO FAVORISCE LA DESTRA
di Renzo PENNA
Disoccupazione, in particolare per i più giovani, aumento della diseguaglianza sociale e crescita della povertà sono gli ingredienti esplosivi che stanno alimentando in Europa la crescita dei movimenti di destra e che fanno ipotizzare, nelle elezioni europee di maggio, la conquista del 30% dei seggi del parlamento da parte dei partiti anti europei portatori di una retorica populista e xenofoba. Se questa analisi, che Nadia Urbinati sostiene e teorizza, si rivelerà giusta esistono tutti i presupposti perché il contributo italiano a tale risultato non risulti affatto marginale.
Infatti, secondo l’Istat, il numero complessivo dei disoccupati a fine anno in Italia è prossimo ai 3 milioni e 200 mila (12,5%), mentre per la fascia di età compresa fra i 18 e i 29 anni il tasso di disoccupazione giovanile si attesta al 28% e conta più di un terzo del totale. A questi, e rappresenta il dato più allarmante, si devono aggiungere oltre un milione e 900 mila di scoraggiati, persone che non cercano un lavoro perché sono certe di non trovarlo. Tra i 15 e i 24 anni il tasso di inoccupazione dei più giovani raggiunge addirittura un record, con il 41,2%, in parte dovuto alla rinuncia delle aziende nello stabilizzare i contratti a termine e per il fatto che non stanno realizzando nuove assunzioni.
Per quanto riguarda la diseguaglianza, che secondo il presidente Barack Obama rappresenta “la sfida che definisce la nostra epoca” , nel nostro Paese la crisi non ha affatto reso i ricchi meno ricchi. Anzi i poveri, a cominciare dalle classi medie in declino, sono diventati più poveri. Soprattutto al Sud, dove erano già più poveri. Secondo uno studio pubblicato dalla Banca d’Italia il 10 per cento più ricco, circa 4 milioni di persone, se nel 1983 assorbiva il 26 per cento del reddito nazionale oggi si attesta attorno al 34 per cento. In meno di 25 anni la porzione di reddito per questo 10 per cento è cresciuta di quasi un terzo. Se l’ultima Italia egualitaria risale ai primi anni ’80, il processo di ascesa dei ceti medi che contribuiva a ridurre le diseguaglianze si è bruscamente interrotto nel 2007 con l’inizio della crisi.
E nella crisi, secondo l’indagine “Reddito e condizioni di vita” curata dall’Istat, è a rischio di povertà o esclusione sociale il 29,9% delle persone residenti in Italia. Un numero che supera di ben 5,1 punti percentuali la media europea. Peggio di noi nella Ue stanno solo Bulgaria (49,3%), Romania (41,7%), Lettonia (36,6%), Grecia (34,6), Lituania (32,5%), Ungheria (32,4) e Croazia (32,3). Con, per quanto ci riguarda, una significativa differenza tra il Nord, il Centro e, soprattutto, il Sud dove è a rischio di povertà quasi la metà dei residenti (48%).
Nel Nord il quarto più povero della popolazione dispone del 5,7 per cento del reddito complessivo, una quota che nel Mezzogiorno crolla al 3,7 per cento. Molti di questi italiani “nuovi poveri” - che l’Istat etichetta come “severamente deprivati” - non vivono sotto i ponti e non chiedono l’elemosina. Spesso hanno una casa e anche un lavoro, ma non possono permettersi neppure una vacanza di una settimana (50,8%) o non possono riscaldare la propria casa (21,2%), permettersi un pasto proteico ogni due giorni (16,8%), oppure sono in arretrato con il pagamento dell’affitto, del mutuo o delle bollette (13,6%).
Dopo il drammatico esito della seconda guerra mondiale le nuove democrazie europee si sono date come compito quello di sconfiggere la povertà eliminando la disoccupazione e riducendo le diseguaglianze attraverso la costruzione di tutele sociali, tendenzialmente, universali. Trovando un compromesso tra libertà, lavoro e diritti e un valido riferimento economico e culturale nelle politiche keynesiane le quali avevano aiutato a superare la crisi del 1929 che, non dimentichiamo, lasciò in eredità un disoccupazione terribile, molta miseria e favorì i nazionalismi e le dittature.
Su quest’ultimo aspetto la politologa che insegna alla Columbia University ritiene che il rapporto tra disoccupazione-reazione autoritaria e occupazione-democrazia, ancorché molto schematico, bene rappresenti la storia politica europea del secolo scorso e possa influenzare anche quello attuale. Ma l’Europa che si prepara alle elezioni per il suo Parlamento interpreta ancora quell’indirizzo ed è animata dallo stesso spirito o - dietro la retorica dell’Europa sociale da tutti ripetuta a parole ma nella sostanza abbandonata insieme alla volontà di unificare l’Unione - si è nei fatti convertita alle politiche neoliberiste che in questi lunghi anni di crisi hanno parlato solo di sacrifici, di riduzione del debito e di rigore a senso unico, puntando a ridimensionare i diritti dei lavoratori e le politiche sociali, aumentando le tasse e riducendo l’occupazione?
Se si considera che a partire dagli anni ottanta abbiamo assistito ad una drastica svalorizzazione del lavoro, della produzione e della ricerca in favore di una sempre più spinta finanziarizzazione dell’economia e che ciò ha determinato una colossale redistribuzione della ricchezza a beneficio dei profitti e delle rendite finanziarie, la risposta non può che essere affermativa. E la mancanza di lavoro, la crescita delle diseguaglianze e l’impoverimento dei ceti medi, alimentando le incertezze e i timori sul futuro, finiscono per favorire, da un lato le chiusure egoistiche in chi non è toccato dalla crisi e dall’altro l’insofferenza verso i più poveri e gli immigrati.
In questo contesto è la tenuta democratica a vacillare, specie in un Paese come il nostro che deve fare i conti con vent’anni di oscurantismo berlusconiano nei quali abbiamo assistito all’esaltazione dell’io, allo svilimento del rispetto delle regole - ad iniziare dalla Costituzione Repubblicana - all’imbastardimento della parola “libertà”, alla diffusione a piene mani dei veleni dell’antietica e dell’anti cultura. Anni perduti nei quali l’Italia è immiserita e arretrata. E parte delle proteste cui abbiamo assistito nei giorni scorsi, se rappresentano un sintomo e sono conseguenza della crisi, per forme, contenuti e modalità suscitano più di un’apprensione.
Da questo clima traggono alimento e forza i programmi della destra europea che ha i più robusti e organizzati rappresentanti nel Freedom Party olandese e nel Fronte Nazionale francese di Marine Le Pen, i quali, in vista delle elezioni, hanno siglato un’alleanza che ha trovato l’immediata adesione in Italia della Lega Nord e dei partiti e movimenti populisti e xenofobi di Austria, Danimarca e Svezia. Retorica protezionista e nazionalista, contro il “mostro” della burocrazia europea e la moneta unica dell’Unione e, soprattutto, tolleranza zero verso gli immigrati; questo il collante ideologico della destra che riceve nuova attenzione da chi vede peggiorare la propria condizione economica e sociale o non trova risposta alle sue aspirazioni per la mancanza di una adeguata offerta di lavoro e di occupazione. Per fronteggiare e opporsi a questa pericolosa involuzione democratica occorrerebbe uno scatto da parte della sinistra, delle forze progressiste e socialiste in Italia come in Europa.
Capaci di prendere finalmente le distanze dalle disastrose politiche liberiste, dal potere esorbitante delle banche centrali e, rafforzando politicamente l’Unione dell’Europa, segnare un cambiamento netto in direzione della giustizia sociale, della riduzione delle diseguaglianze, di uno sviluppo rispettoso dell’ambiente e di una nuova centralità da riassegnare al lavoro e ai diritti, riscoprendo il valore democratico della “buona” e “piena” occupazione.
Alessandria, 28 dicembre 2013
Luciano Belli Paci: Decretazione d'urgenza
Trovo che l'intervento di Napolitano sia stato ineccepibile, ma due volte sorprendente.
In primo luogo sorprendente perché ha indebolito la sua amatissima creatura, il governo Letta.
In secondo luogo sorprendente perché viene da chiedersi se re Giorgio non sia per caso rimasto a lungo ibernato come Il Dormiglione di Woody Allen, visto che si sveglia solo ora di fronte alla eterogeneità di un decreto, e solo - pare - per quella sopravvenuta durante il procedimento di conversione. Forse dormiva il presidente quando i "suoi" governi Monti e Letta gli facevano autorizzare prima e promulgare poi mostruosi omnibus come il "Salva Italia", il "Cresci Italia" o il "Decreto del Fare" ? Non si accorgeva che si trattava di caravanserragli pittoreschi privi di qualsiasi coerenza ? E non si accorgeva che una grandissima parte delle norme contenute negli interminabili articolati erano del tutto prive dei requisiti costituzionali di necessità ed urgenza ? Da anni assistiamo all'usurpazione della funzione legislativa da parte di governi che vanno avanti a colpi di decreti e voti di fiducia. E lo fanno talora per pura arroganza: esemplare il caso del governo Monti, che nei primi mesi godeva di una tale (immeritata !) autorevolezza che anche se avesse proposto la fucilazione di tutti i primogeniti maschi avrebbe ottenuto in tre giorni l'approvazione del parlamento. Eppure niente, decreti e fiducie. Cosi', tanto per far capire chi era il padrone.
Speriamo che il presidente non si riaddormenti dopo i botti di capodanno.
Luciano Belli Paci
sabato 28 dicembre 2013
Luigi Fasce: Banca d'Italia ente pubblico o privato?
Compagne e compagni,
collegato al debito pubblico c'è la questione Banca d'Italia
un po' di storia per agevolare chi non ha tempo di leggere libri
<"Se gli Americani consentiranno mai a banche private di emettere il
proprio denaro, prima con l'inflazione e poi con la deflazione, le
banche e le grandi imprese che ne cresceranno attorno, priveranno la
gente delle loro proprietà finché i loro figli si sveglieranno senza
tetto nel continente conquistato dai loro padri. Il potere di
emissione va tolto via dalle banche e restituito al popolo, al quale
esso appartiene propriamente." (1776 Thomas Jefferson).
Monito talmente ovvio che nessun componente della costituente per
scongiurare questa malaugurata evenienza si è ricordato di inserire
in Costituzione uno specifico articolo per sancire che la Banca
d'Italia è proprietà dello Stato Italiano e il potere di stampare
moneta doveva essere di esclusiva pertinenza dello Stato per il
tramite la zecca della Banca d'Italia, Ente Pubblico.
Invece nel 1981 con governo Spadolini (28.06.1981 - 23.08.1982),
senza che PCI all'opposizione e con il PSI se ne rendessero conto,
in Italia la potente lobby di banche e finanza, per via indiretta,
ha inferto la prima letale ferita al governo statale dell'economia.
Ecco l'illuminante spiegazione di Francesco Gesualdi di come si è
compiuto il misfatto.
(26)
Chiarisco che cedere il potere di stampare moneta alla BCE andrebbe
benissimo a patto che la BCE fosse in mano pubblica ovvero del
Governo dell'Ue e non l'inverso subendo le decisioni della BCE in
campo monetario e finanziario. Di fatto politiche collimanti con il
pensiero neoliberista.
L'inconcepibile nel 1948 si è concretizzato con Giuliano Amato nel
1990 con la legge bancaria e leggi successive sulla completa
privatizzazione del credito, manovra sottile necessaria per
trasformare giuridicamente le banche di diritto pubblico
partecipanti del consiglio della Banca d'Italia in banche private.
Con la costituzione della Banca d'Italia Public company e completa
autonomia dai governi della Banca Banca Centrale Europea si chiude il
cerchio ...>
Allego posizione di SEL in Parlamento.
Articolo di Castellano ... amico di Napolitano che dopo essersi preso
pagliuzze d'oro cascate dal tavolo dell'IRI diventanto padrone
dell'ESAOTE ora è nominato consigliere superiore della Banca
d'Italia.
Vedete un po' se riuscite a vedere il filo neoliberista che li
unisce.
Buona lettura e buona presa di coscienza a tutti.
Luigi Fasce
www.circolocalogerocapitini.it--
Luigi Fasce
luigi@fasce.it
PERCHE’ LA SINISTRA: DOPO IL PESANTE INTERVENTO DEL PRESIDENTE NAPOLITANO: LA DEGENERAZIONE DEL PROCESSO LEGISLATIVO NON E’ QUESTIONE DI REGOLE PARLAMENTARI, MA DI QUALITA’DELLA CLASSE POLITICA E ANCHE DI SISTEMA ELETTORALE di Franco Astengo
venerdì 27 dicembre 2013
Luigi Fasce: Le catene del debito
Compagne e compagni della lista,
ne sento tante ma fortunatamente scopro libri che centrano la
questione di fondo. Questione che oltre a essere capita leggendo ma
che bisogna diventi contributo al programma di Schultz per le
elezioni europee.
Buona lettura ... e poi ne parliamo.
Luigi Fasce--
Luigi Fasce
luigi@fasce.it
giovedì 26 dicembre 2013
Franco Astengo: La Repubblica e la scelta del sistema elettorale proporzionale
La Repubblica e la scelta del sistema elettorale proporzionale di FRANCO ASTENGO
Dal blog: http://sinistrainparlamento.blogspot.it
LA CORTE COSTITUZIONALE HA RECENTEMENTE DICHIARATO ILLEGITTIME PARTI FONDAMENTALI DELLA LEGGE ELETTORALE IN VIGORE IN ITALIA FIN DAL 2005 E CON LA QUALE SI SONO ELETTI BEN TRE PARLAMENTI (2006,2008,2013). UN FATTO DI GRAVITA’ INAUDITA, PRESSOCHE’ INEDITO NELLA DEMOCRAZIE OCCIDENTALI. SENZA ATTENDERE LA PUBBLICAZIONE DELLE MOTIVAZIONI SI E’ APERTO, FRA LE FORZE POLITICHE, UN CONFUSO DIBATTITO SULLE NECESSARIE MODIFICHE DA APPORTARE ALLA LEGGE: ANCORA UNA VOLTA IL DIBATTITO APPARE IMPRONTATO, INVECE CHE AD UNA RICERCA DI TIPO “SISTEMICO”, VERSO UNA SCELTA RIGUARDANTE LE CONVENIENZE DI SOPRAVVIVENZA IMMEDIATA DI FORZE POLITICHE MAI COSI’ STORICAMENTE IN DIFFICOLTA’ RISPETTO AD UN MINIMO DI RAPPORTO SOCIALE POSITIVO.
UN DIBATTITO CHE, PER DI PIU’ ED ANZI SOPRATTUTTO APPARE CONFUSO E DEL TUTTO ALIENO DA QUELLI CHE SAREBBERO NECESSARI PRESUPPOSTI STORICO – TEORICI, A DIMOSTRAZIONE, SE MAI CE NE FOSSE ANCORA BISOGNO DELL’INCULTURA POLITICO – ISTITUZIONALE DRAMMATICAMENTE PRESENTE NELLA VITA POLITICA ITALIANA.
SULLA BASE DI QUESTE CONSIDERAZIONI E NELL’INTENTO DI FORNIRE UN CONTRIBUTO DI MERITO SI TROVERANNO DI SEGUITO ALCUNI SPUNTI DI RIFLESSIONE ATTORNO AD UN ELEMENTO CHE PUO’ ANCORA OGGI CONSIDERATO DI FONDAMENTALE IMPORTANZA: COME CIOE’, NELLA FASE DI RIPRESA DELLA VITA POLITICA SUBITO DOPO LA LIBERAZIONE FINO AI LAVORI DELL’ASSEMBLEA COSTITUENTE, SI PERVENNE ALLA SCELTA DEL SISTEMA ELETTORALE PROPORZIONALE.
COSI’ TANTO PER RIFRESCARE LA MEMORIA, FAVORIRE LA COMPARAZIONE STORICA E, FORSE, INDICARE UNA STRADA.
La Repubblica e la scelta del sistema elettorale proporzionale
Tra il 25 luglio 1943, giorno della caduta del fascismo, e il 2 giugno 1946, giorno dell'elezione dell'Assemblea Costituente e del referendum istituzionale, si sviluppò un intenso dibattito sui temi istituzionali ed elettorali: furono approvati nel giugno del 1944 e nel marzo 1946 due “costituzioni provvisorie” (così furono denominati i Decreti luogotenenziali n.151 del 1944, e n.98 del 1946), co l'ultima delle quali si stabiliva l'elezione di un’Assemblea Costituente per la redazione di una nuova Costituzione dello Stato unitario, unitamente all'indizione di un referendum popolare per la scelta istituzionale, tra Monarchia e Repubblica, da svolgersi in contemporanea con l'elezione -appunto – dell'Assemblea Costituente.
Fu approvata anche l'estensione del voto alle donne: un provvedimento di cui si discuteva fin dall'Ottocento.
Finalmente anche l'Italia si allineava alle democrazie più moderne, estendendo il suffragio fino all'universalità.
In questa fase cominciò anche la discussione tra le forze politiche il dibattito intorno al sistema elettorale, con il quale si sarebbe dovuta eleggere l'Assemblea chiamata a redigere il nuovo testo della Costituzione.
Il dibattito ripropose l'antico confronto tra proporzionalisti e maggioritari e, se i reduci del vecchio liberalismo pre – fascista come Vittorio Emanuele Orlando o Benedetto Croce, si pronunciarono a favore del maggioritario, imputando al proporzionale il crollo dello stato liberale con la conseguente deriva fascista, la maggioranza delle forze politiche si assestò sulla scelta del proporzionale, riconoscendo a questo sistema, nella sua variabile del quoziente (fu adottato il sistema “Imperiali corretto”), la capacità di tradurre meglio all'interno dell'Assemblea la composizione politica presente all'interno della società, corrispondendo appieno alla logica dei grandi partiti a integrazione di massa, quali erano in quel momento la DC, il PSIUP e il PCI.
All'Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946 toccò, secondo quanto sancito dal Decreto Luogotenenziale del marzo 1946, di elaborare il testo della nuova legge elettorale per le future legislature repubblicane.
Si ripresentarono così al dibattito i due tradizionali orientamenti: quello favorevole al sistema proporzionale e quello favorevole al sistema maggioritario.
Le diverse istanze trovarono alla fine un punto di convergenza in un testo che conservava, per la Camera dei Deputati, il sistema proporzionale su circoscrizioni plurinominali concepite come sezioni di un Collegio Unico Nazionale; per il Senato invece si prevedeva un sistema misto: maggioritario per cui collegi dove un candidato avesse superato il 65% dei voti validi e proporzionale su collegi regionali, laddove questa maggioranza (che, in effetti, si verificò in ben poche occasioni) non fosse stata raggiunta da alcuno.
Fu questo il sistema attraverso il quale fu eletto il primo Parlamento repubblicano con le elezioni del 18 aprile 1948.
Entriamo, allora, nel merito del dibattito attraverso cui si arrivò a queste scelte, appena sintetizzate poco sopra.
L'11 giugno 1944 si formò il primo governo Bonomi, espressione diretta del riconoscimento del CLN (cioè dei partiti) quale fonte primaria del potere politico.
A questo punto il confronto sulla riorganizzazione dello Stato si fece più serrato e tema prevalente diventò ancora una volta quello della rappresentanza politica.
La prima “costituzione provvisoria”, adottata già dal Governo di Salerno, abrogò il disposto del terzo comma del regio decreto legge 2 agosto 1943, n.705 con cui si stabiliva che entro quattro mesi dalla cessazione dello stato di guerra, si sarebbe eletta una nuova Camera dei Deputati.
Questo provvedimento fu sostituito dalla norma che formalizzava l'impegno, a liberazione avvenuta, di demandare la scelta istituzionale al popolo italiano attraverso l'elezione a suffragio universale di una Assemblea Costituente, che avrebbe dovuto avere anche il compito di “deliberare la nuova Costituzione dello Stato”.
Diventava, dunque, più che mai necessario incominciare a ripensare in termini di suffragio e di sistema elettorale.
Si riaprì, a questo punto, quel dibattito che aveva attraversato tutti gli anni'20 della storia politica italiana.
Di nuovo gli stessi schieramenti, di nuovo la stessa contrapposizione: da una parte i vecchi liberali, sopravvissuti al fascismo, Orlando, Croce, Nitti, uniti dalla comune lettura per la quale il proporzionale è la “causa di tutte le sciagure italiane, almeno nel campo politico”; dall'altra, morto Turati, rimane Sturzo il vecchio paladino della proporzionale.
Posizioni vecchie in un quadro nuovo, che posero l'interrogativo inquietante: il continuismo era una scelta di capo o risultava connaturato al riprodursi di una classe dirigente che intendeva riconfermare le proprie radici?
Il fascismo, con la sua rivoluzione, aveva almeno mantenuto fede a quell'impegno di ricambio della classe dirigente che aveva proclamato all'indomani del suo trionfo?
Sulle scelte che furono compiute in quel periodo pesò il retaggio di una tradizione politica che non si era interrotta e che non aveva mai risolto la questione del rapporto tra stato e società.
Porre, allora, il problema elettorale significava dunque, in quello scorcio nel quale qualcuno sperava nella “nuova era”, mettere in discussione tutto l'impianto del sistema politico, non solo occuparsi semplicemente della formazione della rappresentanza nazionale.
Questo fu l'interrogativo, e i partiti arrivarono a quell'appuntamento senza aver sviluppato una chiara analisi dello stato di cose in atto.
La Democrazia Cristiana non aveva voce univoca: nel “Programma di Milano, si affermava che la Camera dei Deputati doveva essere eletta “a suffragio universale con sistema proporzionale”, mentre nelle “Idee Ricostruttive”, redatte da De Gasperi nel 1943, non si faceva neppure riferimento al sistema di scrutinio, limitandosi a ribadire il principio del suffragio universale; posizione analoga a quella che si ritrovava nel “Programma della Democrazia Cristiana”, dato alle stampe nel gennaio del 1944.
I socialisti intervennero nell'agosto del 1945 sul tema elettorale, rilanciando l'idea del premio di maggioranza, riconfermando cioè, nella sostanza le posizioni tenute da Matteotti nel 1925.
Per i comunisti, invece, si dovette aspettare il deliberato assunto dal Consiglio Nazionale dell'Aprile 1945 , laddove si fece riferimento al sistema elettorale, indicando un favore di massima per il proporzionale.
Repubblicani e azionisti presero una posizione chiara soltanto in tempi successivi, al formarsi della commissione ministeriale chiamata a preparare il sistema elettorale per la Costituente, ed espresso in modo netto la preferenza per il proporzionale.
Con l'assunzione della Presidenza del Consiglio da parte di Parri, nel giugno del 1945, il problema elettorale ricevette indirettamente una accelerazione.
Fu con il governo Parri, infatti, che furono costituite e rese operative tutte quelle strutture attraverso le quali fu possibile elaborare la legge elettorale per la Costituente.
Nel Luglio del 1945 fu costituito il Ministero per la Costituente, affidato a Pietro Nenni, con l'esplicito compito di preparare la strada alla formazione di quell'Assemblea che, al di là del dibattito intorno alle altre funzioni a cui avrebbe dovuto adempiere, avrebbe dovuto senz'altro anche porre le basi del nuovo patto istituzionale.
Il 31 Agosto 1945, con decreto, fu nominata la “Commissione per la elaborazione del progetto di legge elettorale politica per la Costituente”.
Il provvedimento nacque in un contesto dove stava diventando sempre più evidente che, al di là della formale unità d'azione che caratterizzava l'attività del CLN, rimaneva sullo sfondo una forte contrapposizione proprio intorno alla questione elettorale.
I punti dello scontro erano, sostanzialmente due: la funzione delle assemblee elette e l'essenza del rapporto rappresentativo.
I termini del problema s’inscrivevano in un trend di lungo periodo.
Da un lato s’intendeva riaffermare, anche dopo l'esperienza del fascismo, che compito dell'assemblea dei deputati fosse, prima di ogni altro, l'espressione del governo, in ossequio pieno alla tradizione liberale.
Dall'altro canto si puntò, invece, sulla necessità di rendere esplicita la composizione delle alleanze tra le forze politiche senza costringerle a patti fuori -natura.
Una lettura realistica della ripresa politica italiana escludeva, infatti, in quel momento che sulla scena si potessero presentare meno di sei gruppi strutturati.
Per quando riguardava, invece, il rapporto relativo alla rappresentanza politica, il punto dirimente stava nella contrapposizione della rappresentanza per persone o per partiti.
Nella prima ipotesi si sostanziava tutta la tradizione ottocentesca, legando nel momento elettorale al deputato al collegio e durante la legislatura il deputato alla nazione; nella seconda istanza, quella che collegava la rappresentanza ai partiti, andava considerata la valenza istituzionale di intermediazione politica assunta dal partito in quella che era stata la sua evoluzione novecentesca (giunta, in quel momento, quasi metà del secolo quasi a completa maturazione), riconsiderandola dopo l'esperienza ormai chiusa dei totalitarismi europei.
Il tentativo di chi puntò a far emergere l'idea della rappresentanza attraverso i partiti era quella di definire, sul piano teorico, una indicazione per la quale il momento elettorale avrebbe dovuto servire per determinare a quale partito, ottenuta la maggioranza, toccasse il compito di tradurre nello Stato la propria Weltanschauung (secondo l'elaborazione portata avanti da Costantino Mortati fin dal 1941).
Appariva evidente come dall'antipartitismo del pensiero politico liberale cresciuto alla scuola di Mosca, ci si volse verso una concezione della politica in cui il partito, smessi i panni della setta, rappresentasse il canale dell'organizzazione politica, attorno alla quale doveva ruotare la vita dello Stato: Weimar, il simbolo del Parteinstaat, distrutto dal totalitarismo nazista, che diventò patrimonio della scienza costituzionale che vedeva nel modello di “stato dei partiti” il futuro della politica (ancora Costantino Mortati: “La Costituzione di Weimar”, Sansoni, Firenze 1946).
La Commissione ministeriale per la legge elettorale iniziò i lavori il 1 Settembre 1945.
Fin dalla prima riunione Nenni, che la presiedeva, cercò di trovare una mediazione nel contrasto tra uninominalisti e proporzionalisti, stabilendo il principio dell'eccezionalità che rappresentava la formazione di una Assemblea Costituente.
Era implicito nel discorso di Nenni l'idea maturata nell'antifascismo italiano che riteneva come la Costituente non rappresentasse l'unico soggetto detentore della sovranità.
La fase costituente rappresentava, per contro, la traduzione nel diritto di quanto era avvenuto nella fase finale del conflitto e durante la lotta di Resistenza, nel corso di un periodo nel quale era emersa la necessità di imprimere nel dettato costituzionale quello stesso spirito di mutua convergenza e di reciproco controllo che aveva animato, e stava ancora animando, l'attività ciellenistica.
In questo senso la formazione dell'Assemblea che avrebbe dovuto preparare la Costituzione andava deideologizzata al massimo, per poter far filtrare “tutte le correnti di opinione”.
E' il caso di ricordare, ancora, come in precedenza all'apertura della discussione vera e propria sulla legge elettorale, la Commissione risolse alcune questioni, apparentemente minori: quella dell'eleggibilità, dove si affermò l'estensione dell'elettorato passivo anche alle donne; l'età, dove fu bocciato una proposta di Terracini di estensione del diritto di voto ai diciottenni, il tema del voto obbligatorio che fu respinto con 5 voti , contro 2 e 2 astenuti.
Alla fine, affrontato il nodo del sistema elettorale, prevalse l'idea della proporzionale, anche se erano diverse le anime che concordarono su questa scelta.
Diversità che riemersero allorquando si trattò di individuare, successivamente, il concreto metodo di traduzione dei voti in seggi.
Ritornarono, infatti, in quella fase i tentativi di bilanciare il rapporto persone/gruppi, dimostrando come, in quel momento, il processo di identificazione per partiti non fosse ancora percepito in quella dimensione che poi caratterizzerà la politica di massa negli anni a venire.
L'impossibilità di trovare nuove ipotesi percorribili portò, infine, la commissione a individuare, tra l'insoddisfazione generale, nel dettato normativo del 1919 il testo di riferimento per l'elaborazione della legge elettorale.
Il successivo passaggio alla Consulta, che nominò anch'essa una commissione ad hoc, i cui lavori iniziarono il 9 Gennaio 1946, ripropose, in modo ancor più radicale, lo scontro tra i partiti circa la declinazione “tecnica” dei due punti riguardanti il disegno delle circoscrizioni e l'espressione dei voti di preferenza.
Risorsero, dunque, anche se prontamente stornati, i tentativi di posticipare l'approvazione delle legge elettorale, nell'attesa che fossero definiti i reali compiti dell'Assemblea Costituente che si sarebbe andata a eleggere.
Su questo punto, però, anche la nuova commissione decise di tirare diritto: il sistema proporzionale come scelta di campo per la definizione della legge elettorale non poteva più essere rigettato.
Tuttavia il fatto che questa volta la scelta non ottenesse l'unanimità dei consensi, bensì la sola maggioranza, indicava come fosse ormai finito il tempo dell'unità del CLN, quale garanzia del prevalere dell'interesse generale su quello particolare.
L'impianto del nuovo disegno di legge previde, dunque, il sistema del quoziente, la divisione del territorio nazionale in circoscrizioni che tendenzialmente non ricalcavano più i confini della regioni, bensì quelli delle province con una attribuzione di seggi che andava da un minimo di 7 deputati a un massimo di 36 (il collegio cui era assegnato il numero minore di seggi era quello di Potenza e Matera, appunto 7, quello cui ne furono assegnati di più fu quello di Milano e Pavia con 36. La Valle d'Aosta ebbe, invece, un solo deputato), la riduzione del quorum d'efficienza a un decimo dei voti di lista.
Il Ministero De Gasperi spostò ulteriormente verso destra l'asse della legge, orientando alcune modifiche verso i desideri di quella parte politica: fu abolito il quorum d'efficienza, togliendo così ogni elemento di presunta rigidità alle liste di partito; si rettificò ulteriormente il quoziente elettorale, aumentando di un'altra unità il divisore nei collegi che avrebbero dovuto esprimere più di 20 deputati, si stabilì, infine, che la lista del Collegio Unico Nazionale, attraverso cui sarebbero stati recuperati i resti non utilizzati, poteva essere formata soltanto da candidati già comparsi nelle liste circoscrizionali.
Con queste ultime revisioni la legge elettorale fu definitivamente approvata, attraverso l'emanazione del Decreto Luogotenenziale n.74 del 10 Marzo 1946 e si andò, così, al voto del 2 Giugno: contemporaneamente per il referendum istituzionale e l'Assemblea Costituente, mentre tra il Marzo e l'Aprile di quell'anno si era votato per un certo numero di Amministrazioni Locali.
La campagna elettorale per le elezioni della Assemblea Costituente fu, in realtà, compromessa da quella ritenuta prioritaria per il referendum sulla scelta istituzionale.
I congressi dei partiti fornirono una chiara indicazione dell'orientamento che si era profilato, fra le diverse forze politiche.
La linea favorevole alla Repubblica era, del resto, scontata tra comunisti, socialisti, azionisti.
Tra i democristiani il problema si presentò in forma più complessa.
Nel corso del congresso DC (Roma, 24-27 Aprile 1946) emerse una chiara indicazione filo – repubblicana, ma questa fu accantonata con la votazione di una mozione che, esaltando la volontà di coscienza del singolo cittadino rispetto al problema istituzionale, non impegnò di fatto il partito a dare una precisa indicazione di scelta ai propri iscritti.
Tra i liberali fu messa in minoranza la mozione presentata dalla segreteria, caldamente sostenuta da Benedetto Croce, orientata verso un agnosticismo dichiarato e prevalse, invece, un orientamento favorevole alla monarchia, pur lasciando libertà di dissenso.
Al primo congresso dell'Uomo Qualunque, partito funzionale alla collocazione politica del non sopito afascismo di una parte rilevante dell'elettorato, non si prese posizione sul tema istituzionale, preferendo discutere intorno ad una non ben definita pace sociale.
Intanto le elezioni amministrative che si erano svolte tra il Marzo e l'Aprile 1946 fornirono un primo elemento per verificare l'andamento della situazione politica.
Su 5.722 comuni, 2.354 furono conquistati dalla DC, 2.289 videro, invece, prevalere lo schieramento socialcomunista.
A livello geografico la sinistra controllava l'Italia settentrionale e centrale, mentre i partiti di centro potevano contare su una notevole maggioranza nell'Italia meridionale e nelle Isole.
La presenza delle “due Italie” fu confermata dai risultati del 2 Giugno, sia andando ad analizzare i dati del referendum istituzionale, sia prendendo in esame la geografica politica dei voti espressi per l'elezione della Assemblea Costituente.
Una linea di confine che univa le estreme pendici della Toscana, dell'Umbria e delle Marche divideva l'Italia repubblicana da quella monarchica.
La stessa linea di confine che separava l'Italia della sinistra da quella del centro -destra.
L'Assemblea Costituente si trovò di fronte al tema, già affrontato in via preparatoria dalla “Commissione Ministeriale per gli studi attinenti alla riorganizzazione dello Stato” (la cosiddetta “commissione Forti”) di ricostruire la griglia di riferimento relativa alla rappresentanza nazionale, all'interno del dettato costituzionale.
La seconda sottocommissione dell'Assemblea divenne, così, il laboratorio politico all'interno del quale nacque concretamente la nuova forma stato repubblicana.
Il principio del bicameralismo (Camera dei Deputati e Senato della Repubblica), caldeggiato soprattutto dalle destre e dalla Democrazia Cristiana, non incontrò particolari ostacoli neppure a sinistra dove, con la presentazione di un ordine del giorno da parte del socialista Lami Starnuti, si accettò formalmente l'impianto bicamerale, a condizione che la seconda Camera non fosse costituita in modo tale da alterare sostanzialmente la filosofia politica del Paese, quale fosse stata rispecchiata dalla composizione della prima camera.
Il secondo problema posto in discussione fu quello relativo ai sistemi elettorali per le due Camere.
Immediatamente si evidenziò la tendenza della maggioranza a non attribuire alla carta costituzionale una valenza prescrittiva in merito alle tecniche di traduzione dei voti in seggi: nonostante un quadro del dibattito sostanzialmente favorevole alla scelta del sistema proporzionale ci si orientò, alla fine, sia per la Camera, sia per il Senato (per l'elezione del quale s’indica il collegio uninominale) il rimando alla legge ordinaria, ribadendo nel testo della Costituzione il semplice vincolo di un sistema elettorale a suffragio universale e diretto, per entrambi i rami del Parlamento.
Un primo progetto di legge elettorale fu preparato dal Governo e presentato dal Ministro dell'Interno, Scelba, all'Assemblea Costituente il 10 Maggio 1947.
Il modello di legge proposto dal governo partiva, sostanzialmente, dal DLL n.74 del 1946, che aveva regolato le elezioni per l'Assemblea Costituente.
In realtà il Governo, pur mantenendo la griglia già sperimentata, tentò di introdurre qualche significativa modifica: l'aumento del numero delle preferenze, il ridimensionamento dei collegi, l'abolizione del collegio unico nazionale e il trasferimento dei resti sui collegi regionali, al cui riparto peraltro avrebbero potuto partecipare soltanto le liste che avesse conquistato almeno un quoziente all'interno della Regione.
Inoltre si proponeva di introdurre l'obbligatorietà del voto, accompagnata da precise sanzioni.
Il profilarsi di uno scontro con i partiti minori indusse il governo al ritiro del progetto e alla presentazione di un altro disegno di legge che ricalcava, in modo più radicale, la legge elettorale per la Costituente.
Il garantismo ministeriale per la sopravvivenza dei partiti intermedi fu indubbiamente, in quella fase, sollecitato dalla crisi di governo che andava profilandosi all'orizzonte, poiché in quel momento, in seguito alla rottura del tripartito con PCI e PSI, la strategia centrista della DC era chiamata a fare i conti con la vitale presenza di piccole formazioni politiche alla sua destra e alla sua sinistra.
Il problema del collegio unico nazionale e del riparto dei resti fu risolto, nell'ultima versione della legge, stabilendo il recupero dei resti, conteggiati nazionalmente, a livello di circoscrizione aumentando di tre unità il divisore per abbassare il quoziente elettorale, e aumentare così la distribuzione dei seggi all'interno delle circoscrizioni stesse.
Il testo definitivo della legge elettorale per la Camera fu approvato il 21 Dicembre 1947, con 275 voti a favore e 82 contrari. Essa divenne la legge n.6 del 20 Gennaio 1948, successivamente unificata con le altre normative per l'elezione della Camera dei Deputati nel T.U. 5 febbraio 1948, n.26.
Il criterio di formazione del Senato apparve, fin dai dibattiti preparatori, molto più complesso.
Se non c'erano dubbi circa la natura politica della rappresentanza della Camera dei Deputati, rispetto alla seconda Camera i partiti avevano ipotesi per certi versi contrastanti.
Doveva essere fatti interagire diversi termini del problema riguardante la rappresentanza della seconda Camera: le professioni/interessi, gli organi locali, l'elettorato. Ma una formula che attribuisse un ruolo attivo a tutte e tre le categorie apparve di difficile costruzione.
Il tentativo di Lussu di far passare, nel disorientamento generale, l'affermazione di principio: “La seconda Camera è la Camera delle Regioni”, fu abilmente aggirato dal democristiano Tosato che corresse il tiro facendo approvare la formula (oggi tornata di grande attualità) secondo la quale la “seconda Camera è eletta su base regionale”.
Questo significava che, dalle originarie istanze autonomistiche, poteva rimanere in gioco anche solo il collegio elettorale allargato, concepito come mero contenitore territoriale di voti.
L'adunanza plenaria dell'Assemblea Costituente affrontò il problema della Seconda Camera nell'autunno del 1947 e la vexata quaestio dell'elezione fu risolta da un ordine del giorno che vide la convergenza Nitti – Togliatti: “ L'assemblea costituente afferma che il Senato sarà eletto con suffragio universale e diretto e con il sistema del collegio uninominale”.
L'ordine del giorno, posto in votazione il 7 Ottobre 1947, passò con 190 voti contro 181.
La legge elettorale per il Senato fu predisposta dal Ministero e presentata in Assemblea da Scelba l'11 Dicembre 1947, in un disegno di legge che cercava di recepire l'istanza base emersa dai dibattiti precedenti, sia in merito al collegio uninominale, sia in merito alla base territoriale/regionale.
La tecnica di traduzione dei voti in seggi, tuttavia, predisponeva un meccanismo di elezione che si allontanava sia dal maggioritario secco che da quello a due turni, ricorrendo a una soluzione intermedia che richiamava in vita indirettamente il sistema proporzionale: i candidati si sarebbero presentati singolarmente sui collegi uninominali e sarebbe risultati eletti solo nel caso del raggiungimento di una percentuale pari al 50% più uno dei voti validi; i seggi non assegnati con questo metodo sarebbero stati attribuiti su base regionale ai gruppi di senatori che avessero dichiarato precedentemente un collegamento, avvalendosi di un eguale simbolo di riconoscimento, in forza del sistema del quoziente corretto e dei più alti resti, con le stesse modalità della Camera dei Deputati.
Il meccanismo, dopo un forte dibattito, fu modificato da un ordine del giorno Dossetti, che elevava la percentuale necessaria per l'elezione diretta nel collegio uninominale al 65% de voti espressi, mentre i seggi non attribuiti in prima istanza sarebbero stati assegnati su un collegio unico regionale recuperando, evidentemente, il sistema proporzionale.
Su questa proposta, che riproponeva nella sostanza il sistema elettorale a loro più congeniale, convennero i comunisti riequilibrando così totalmente l'orientamento dell'Assemblea in favore della consolidata posizione che la forma partito stava ottenendo nell'impianto istituzionale della Repubblica.
Il testo per l'elezione del Senato, divenne legge il 6 Febbraio 1948, con il numero 29.
La convergenza PCI-DC, in quel momento era già lettera morta fin dal maggio 1947, quando la fine del governo tripartito DC-PCI-PSI( quest'ultimo tornato alla antica denominazione dopo la scissione del PSLI, guidato da Saragat su posizioni socialdemocratiche, avvenuta nel corso del congresso di Roma, Palazzo Barberini, svoltosi nel Gennaio 1947), sanzionò l'avvio del centrismo degasperiano.
La crisi della democrazia italiana si aprì, dunque, ancor prima che la Repubblica muovesse i suoi primi passi e lo dimostrò proprio l'andamento delle elezioni per la I legislatura, tenutesi il 18 Aprile del 1948.
L'entrata in vigore della carta costituzionale, avvenuto proprio il 1 Gennaio 1948, segnò l'uscita dal provvisorio ma non chiuse le ostilità; il passaggio della politica mondiale dall'eurocentrismo al bipolarismo finì con il trasferire all'interno dei paesi del vecchio continenti quell'idea che Churchill per primo manifestò fin dal 1946: una cortina di ferro era calata sui paesi controllati dall'URSS.
Nonostante ciò le sinistre premevano su tutti i fronti interni d'Europa.
La Gran Bretagna fu la prima nazione in cui si svolsero le elezioni politiche: gli inglesi furono chiamati alle urne il 5 Luglio 1945 e posti davanti alla scelta tra i conservatori che intendevano andare avanti seguendo lo schema che aveva portato alla vittoria bellica ed i laburisti che proponevano una svolta politica per il futuro.
Vinsero proprio i laburisti, con il 48% dei voti e 393 deputati, con i conservatori al 39,6% e 213 seggi.
I francesi, invece, votarono tre volte tra il 1945 ed il 1946 evidenziarono un paese chiaramente spostato a sinistra (il 2 Giugno 1946, proprio in concomitanza con le prime elezioni generali in Italia, i comunisti raccolsero il 25,95%, i socialisti il 21,1%, i cattolici del MRP il 28,2%, i radicali l'11,6% e la destra si vide ridotta al 12,8%); in Germania le elezioni si svolsero tra il 1946 ed il 1947 nelle quattro zone controllate dagli Alleati, indicando una prevalenza socialdemocratica a Berlino e nelle zone statunitense ed inglese, una prevalenza dei cristiano – democratici e dei cristiano – sociali nella zona francese (dove, peraltro, vi era stata fin dall'Ottocento una prevalenza dello Zentrum) ed una scontata prevalenza del partito socialista unificato, la SED, nella zona di appartenenza sovietica.
In Italia la radicalizzazione della lotta fu, d'altra parte, ancora più accentuata in quanto su di essa non giocò solo il fattore politico, ma anche – e fortemente – quello religioso.
La politica di apertura di Togliatti verso le masse cattoliche, esplicitata attraverso la posizione assunta dal PCI di fronte all'articolo 7 della Costituzione con il quale si riconosceva il Concordato tra lo Stato Italiano e il Vaticano stipulato l'11 Febbraio 1929 tra Mussolini ed il Cardinal Gasparri, non servì, almeno per il momento, a pacificare gli animi.
Stati Uniti e Vaticano da un lato, l'Unione Sovietica dall'altro rappresentarono così le spinte “esterne” verso una lettura di tipo manicheo della futura politica dello Stato.
I comizi in vista del 18 Aprile 1948 si aprirono così da un lato tra i timori generalizzati che la volontà popolare potesse non essere rispettata e dall'altro ad affrontare potenziali piani eversivi, che dall'esterno avrebbero potuto fornire soluzioni eterodirette alla vicenda politica italiana.
Alle elezioni l'affluenza alle urne risultò altissima (92,9%), così come altissimo fu il numero dei voti validi (il 97,8% dei suffragi espressi).
Le liste che si presentarono alla competizione elettorale furono 114; di queste solo 10 riuscirono, alla fine, ad ottenere una rappresentanza parlamentare.
L'indice di dispersione dei voti in relazione alle liste che non ottennero seggi fu sostanzialmente basso, par cioè all'1,3%.
Dal punto di vista del funzionamento delle formule elettorali, c'è ancora da ricordare come per il Senato il quorum del 65% necessario per l'elezione diretta fu raggiunto, in queste prime elezioni in soli 15 collegi, concentrati in 5 Regioni: Lombardia, Bergamo (DC 70%), Clusone (DC 76,7%), Treviglio (DC 68,4%); Trentino – Alto Adige, Bressanone (PPST-SVP 79,8%), Mezzolombardo (DC 80,7%), Pergine (DC 71,7%), Trento (DC 69,1%); Veneto , Bassano del Grappa (DC 77,2%), Cittadella (DC 73,4%), Schio (DC 71,1%), Treviso (DC 66,3%), Verona Collina (DC 69,9%), Vittorio Veneto – Montebelluna (DC 67,5%); Abruzzo, Lanciano – Vasto (DC 68,6%); Sicilia, Acireale (DC 66,1%).
Le elezioni indicarono, comunque, un unico indiscusso vincitore: la Democrazia Cristiana.
Forte di questo consenso generalizzato la DC si presentò all'apertura della I legislatura, con la maggioranza assoluta alla Camera dei Deputati e quella relativa al Senato ( va ricordato come il “plenum” del Senato fosse completato da personalità perseguitate dal Fascismo o dichiarate decadute da parlamentare nell'occasione delle leggi cosiddette “fascistissime”: questi “senatori di diritto” risultarono prevalentemente collocati a sinistra).
Il meccanismo proporzionale che informava l'impianto delle leggi elettorali per le due Camere, pur non esercitando un'azione coercitiva sul voto e pur trovandosi a funzionare all'interno di un sistema politico tradizionalmente debole, non impedì però all'elettorato di schierarsi.
Con il 18 Aprile 1948 si chiuse, così, definitivamente un'epoca.
martedì 24 dicembre 2013
domenica 22 dicembre 2013
Vittorio Melandri: INTELLETTUALE “À LA PAGE” SI SPECCHIA SENZA RICONOSCERSI
INTELLETTUALE “À LA PAGE” SI SPECCHIA SENZA RICONOSCERSI
Gaetano Salvenimi, Carlo e Aldo Rosselli, Emilio Lussu, Silvio Trentin, Ernesto Rossi, Norberto Bobbio, Riccardo Lombardi, Guido Calogero, Tristano Codignola, Vittorio Foa, Tommaso Fiore, Luigi Salvatorelli e Adolfo Omodeo, Adolfo Tino …. solo per citarne alcuni in ordine del tutto casuale……
Ma chi erano costoro………
Lui, come ogni domenica ……alzò un dito…. pronunciò dei nomi….
“Giustizia e Libertà, Partito d'Azione, Piero Godetti, fratelli Rosselli”
…. e si levò alto un nitrito….
La Malfa… La Malfa Ugo…..
Eco capace di risvegliare il ragionier Fantozzi e sentirgli chiedere…. chi mi ha chiamato????
Sul fatto che “un dittatore sia una sciagura, ed un vero leader sia una fortuna”, una volta approfondito il significato del termine leader, si può anche convenire, ma che solo perché, ancorché defunto, lo consideri suo amico, il “leader” Eugenio Scalfari impersoni nel leader Ugo La Malfa tutti insieme “gli ideali di Giustizia e Libertà, del Partito d'Azione, di Piero Gobetti e dei fratelli Rosselli”, fa insorgere perlomeno qualche interrogativo.
Ricordando poi che solo una settimana addietro, il leader suddetto ha bacchettato sulle dita “la figlia di Altiero Spinelli”, come persona che ignora la storia d’Italia, più che qualche interrogativo sulla storia, fa sorgere qualche interrogativo sulla fortuna di avere come leader, persona affetta da egolatria acuta.
Ahhh e poi c’erano anche i socialisti, quelli di Bettino Craxi, “fantasmatica copia di Benito” che non a caso per darsi un tono si era preso una “t” in più nel nome, e del buon Pietro Nenni, quello che trovò la stanza (del potere) ma con i bottoni tutti staccati. (Avesse chiesto a E.S. forse ne avrebbe trovato qualcuno ancora attaccato)
Ma sempre secondo il “vate” fondatore de la Repubblica, gli intellettuali “à la page” sono ovviamente tutti gli altri, di cui lui si degna a volte anche di essere amico.
vittorio melandri
P.S.
Colgo l’occasione, da ateo-agnostico, di formulare a tutti i COMPAGNI auguri di un felice Natale, ovvero di quella festa del solstizio d’inverno, che dobbiamo alla Chiesa Cattolica Romana se tanta fortuna gode fra i mercanti, sia quelli ancora nel Tempio sia quelli scacciati dal Tempio, ma anche fra noi “consumatori”, siamo noi prodighi siamo noi avari, siamo noi dolci siamo noi ‘amari’.
venerdì 20 dicembre 2013
Aldo Penna: Matteo, il re senza scettro
Le vicende che si dipaneranno dopo l'ascesa di Renzi alla segreteria del Pd, dimostreranno quale dei due Cesari (lui o Letta) tiene in mano lo scettro e quale due re è mostrato alle folle plaudenti per rassicurarle che tutto cambierà.
Dopo gli osanna delle primarie, stravinte dal sindaco di Firenze, e i proclami stupefacenti se misurati con i comportamenti precedenti del Pd, la realtà comincia ad affiorare.
Renzi è il volto del rinnovamento dei democratici, quello che gli elettori vorrebbero da questo partito: è contro il finanziamento pubblico, contro gli altissimi stipendi dei superburocrati, dei giudici dell'alta Corte, delle gerarchie militari. Sostiene che le opere pubbliche vanno a rilento per colpa dei lacci burocratici e di famelici apparati, considera la mancanza di lavoro un'emergenza, ma le sue parole non contano nulla.
Il comportamento del Pd e della maggioranza di governo nella vicenda dei tagli ai trasferimenti per le amministrazioni locali che boicottano la diffusione delle slot machine, la dice lunga su cosa lo attende.
Il potere ha un'anima propria, e nonostante il "santino" che esibisce sul petto, spesso la vende al diavolo e si comporta alla maniera di sempre.
Che i parlamentari del Pd siano sensibili a tutto tranne che alle direttive di partito, lo dimostra la storia recente.
L'agguato a Prodi da parte dell'oramai famoso battaglione dei 101, prova che i segretari pro tempore del partito o si allineano o vengono resi Re travicelli.
Quale potere ha Renzi per ricondurre all'ordine le sue truppe in Parlamento? Quali parole userà per costringere il governo a cambiare passo se i parlamentari sono sensibili a sirene diverse da quella per cui si sono spellati le mani appena una settimana fa?
Minaccerà di non ricandidarli? Le elezioni non sono dietro l'angolo e le primarie di collegio spostano i baricentri decisionali dal centro che "nomina" alla periferia che "dispone".
Gli rimane il paese, milioni di elettori che hanno creduto a quello che dice e rischiano di trovarsi di fronte parole perdute nel vento e i duri, odiosi, riprovevoli fatti di sempre.
Aldo Penna
giovedì 19 dicembre 2013
Pia Locatelli: "Ora in Cile riforme possibili"
Pia Locatelli: “Ora in Cile riforme possibili”
In Cile due donne candidate a guidare il Paese e per la seconda volta una presidente, mentre in Italia i vertici della politica sono ancora un appannaggio tutto maschile. Sono più avanti di noi in tema di parità e diritti?
Non direi. Il fatto che per la seconda volta ci sia una donna alla presidenza e che questa donna sia una socialista è senza dubbio un bellissimo segnale, così come lo è il fatto che la sinistra per vincere nuovamente abbia avuto bisogno di una donna, ma nel campo dei diritti e della parità di genere il Cile non è un Paese avanzatissimo. La stessa Bachelet, nel corso del suo precedente mandato, non ha firmato la convenzione del Cedaw (Il protocollo per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne), e nel nuovo parlamento la percentuale femminile non supera il 15,8% alla Camera e il 18% al Senato. Il fatto che vi siano state due donne al ballottaggio non è un segno di avanzamento: la destra ha candidato la Matthei, sperando proprio di annullare il vantaggio di Michelle in quanto donna. Ma la Bachelet non è stata eletta perché donna, ma perché è brava.
Il forte astensionismo e il voto di protesta gettano ombre sulla vittoria socialista e sono molti quelli che rimproverano la presidente di non aver fatto nel precedente mandato le riforme promesse.
Molte cose non si sono potute fare a causa dei vincoli della Costituzione che prevede un quorum qualificato per poter attuare alcune riforme come quella per l’aborto terapeutico, per l’istituzione del matrimonio egualitario o per il primato dell’istruzione pubblica, che è stato il cavallo di battaglia della Bachelet in questa campagna elettorale. Per questo in molti hanno chiesto nella scheda una nuova Costituzione e non a caso la riforma della Carta rientra tra le prime cose annunciate da Michelle dopo la sua elezione. Adesso che la destra, come è avvenuto nelle precedenti legislature, non ha più i numeri per bloccare le riforme sono convinta che i risultati ci saranno.
La Bachelet ha promesso di fare 50 riforme in 100 giorni, obiettivo non semplice tanto più che molte di queste presuppongono un aumento delle tasse. Lei stessa ha detto che non sarà facile…
Sì lo ha detto, ma anche aggiunto: “Ma quando mai è stato facile cambiare il mondo”. In Cile esiste ancora un gap spropositato tra ricchi e poveri e per ridurlo è necessario un aumento della pressione fiscale sui ceti più ricchi e sulle società. L’aumento delle tasse servirà anche a riformare le strutture politiche ed economiche risalenti alla dittatura del generale Pinochet e ad offrire un’istruzione universitaria gratuita. Attualmente, infatti, gli studenti universitari cileni pagano tasse universitarie tra le più alte al mondo. Per portare avanti queste riforme la Bachelet potrà contare anche sull’appoggio dei tantissimi giovani che l’hanno votata e su quello di una terza donna, la portavoce del movimento studentesco sceso in piazza contro il governo di Piñera, Camila Vallejo, candidata con il Partito comunista che ha avuto un seggio in Parlamento.
Tu sei stata in Cile più volte e hai conosciuto personalmente la Bachelet, un giudizio politico e umano.
Le due cose inevitabilmente si intrecciano. Ricordo l’emozione che ho provato il giorno della sua prima elezione: Lagos, il presente uscente, aveva scelto una donna a sostituirlo, aveva vinto la democrazia, aveva vinto una socialista, aveva vinto una donna. Quello che colpisce maggiormente di Michelle è la coerenza. Lei veramente dice quel che pensa e fa quel che dice. È una donna simpatica e diretta, ma non è una sprovveduta. Sa misurare le sue forze e sa quando bisogna rinunciare a una battaglia perché non si è in grado di vincerla. Sicuramente merita la stima di cui gode, ma soprattutto è una garanzia per le minoranze, perché non vieterà mai a chi non è d’accordo con le sue politiche di manifestare per esprimere opinioni diverse.
Il processo di pacificazione in Cile si può dire definitivamente compiuto?
Direi di sì. Dal plebiscito dell’88, quando i cittadini ebbero il coraggio di dire no a Pinochet, il cammino democratico è stato costante e va dato atto al governo socialista di Lagos di aver portato avanti questa delicatissima fase di transizione senza traumi facendo in modo che la cittadinanza tornasse ad avere fiducia nelle sue istituzioni, mettendo da parte l’odio, la vendetta e la violenza. In questo processo è stato molto importante affrontare il problema delle violazioni dei diritti umani accadute durante la dittatura. Il Paese non avrebbe capito se non si fosse chiarito quello che era successo nel passato. È stata fatta giustizia, per quanto si potesse fare, ma non c’è stata vendetta. / http://www.avantionline.it/
Sullo stesso argomento leggi anche:
Il Cile archivia la destra di Piñera,
di Sara Pasquot > va al blog dell’Avanti!
mercoledì 18 dicembre 2013
Pierpaolo Pecchiari: Considerazioni sul congresso milanese di Sel
Per quel che possono valere, queste le mie considerazioni dopo il congresso milanese di SEL.
Considerazioni estremamente critiche, perchè quello che ho visto è il profilo di un partito minoritario, incapace di dare significato concreto all'espressione "autonomia politica" e di interrogarsi su alcuni nodi essenziali - non dico di scioglierli, sarebbe davvero troppo...
Uno strumento spuntato.
Peccato, però.
Pierpaolo Pecchiari
Purtroppo il contingentamento dei tempi per gli interventi non mi ha consentito di sviluppare, se non in maniera frammentaria, le analisi che volevo condividere con voi Domenica mattina.
Rimedio intervenendo per iscritto, anche perché ho affermato che a mio avviso questo è stato un pessimo congresso, e credo di dover motivare queste affermazioni.
Dopo due giorni di dibattito, la mia impressione è che nessuno dei nodi che dovevamo sciogliere sia neppure stato affrontato.
Il dibattito congressuale doveva chiarire alcuni punti precisi:
il rapporto con il Partito Democratico, soprattutto dopo la travolgente vittoria di Renzi nella battaglia per la conquista della segreteria di quella formazione
il senso e le ricadute politiche dell'adesione di SEL al Partito dei Socialisti Europei
il modo in cui ci stiamo preparando ad affrontare le elezioni europee del Maggio 2014, e le probabili elezioni politiche del 2015
Curioso che questi punti siano al centro del dibattito tra i dirigenti nazionali (vedi "Sinistra sotto l’effetto Renzi", Preziosi, il Manifesto), mentre a Milano, a quanto pare, abbiamo preferito parlare d'altro.
Autonomia politica e rapporto con il partito Democratico
Il primo tema da affrontare riguarda l'autonomia politica del partito e il rapporto con il Partito Democratico.
Le affermazioni, ripetute da molti, circa l'indiscussa autonomia politica del partito possono confortare solo i più sprovveduti.
L'autonomia politica non si ottiene per chissà quale automatismo attraverso il combinato disposto tra la presenza di un simbolo sulle schede elettorali l'esistenza in vita di una propria organizzazione e la capacità di produrre analisi, proposte e programmi originali.
L'autonomia politica si conquista e si difende quando si dimostrano volontà e tenacia nel combattere due battaglie. In primo luogo la battaglia delle idee, sul terreno dello scontro politico-culturale. In secondo luogo la battaglia politica quotidiana, quella per definire l'agenda del dibattito pubblico, oppure, in subordine, per affermare le proprie posizioni riguardo ai temi che esso, di volta in volta, propone.
Sul terreno dello scontro politico-culturale mi pare SEL non sia neppure mai entrata. Il tentativo di arrivare a una comprensione profonda di cosa siano oggi struttura e sovrastruttura non è stato mai avviato, forse nell'illusione di poter supplire all'assenza di un'analisi della fase con prediche moralisteggianti unite all'elencazione di dati statistici ed economici descrittivi la situazione economica e sociale, spesso con l'immancabile condimento di citazioni a volte dotte, a volte "pop".
Non sono chiaramente individuabili le classi, i ceti e gli interessi il partito cui dovrebbe dare rappresentanza, né quale idea noi si abbia circa la crisi della politica e il ruolo dello Stato.
Non basta dirsi che questo è, purtroppo, il punto debole di tutte le formazioni politiche italiane, di sinistra o di destra che siano, perché - limitandoci a guardare in casa nostra - la conseguenza è che la nostra piattaforma risulta essere una curiosa mescolanza tra una serie di accorati "cahiers de doléances" e di proposte di interventi più o meno specifici, in genere più tratteggiati che dettagliati.
Per tutte queste ragioni appare poco comprensibile come il partito possa ampliare i suoi consensi al di fuori del ristrettissimo perimetro dei cosiddetti "ceti medi riflessivi".
Il partito appare ancora più debole sul versante specificamente politico.
E' chiaro a tutti che le differenze tra SEL e il PD sono rilevanti. E lo sono soprattutto dopo l'avvento del "renzismo".
La piattaforma politica del PD di Renzi non ha più alcun legame con quelle dei partiti della sinistra di governo in Europa; al massimo potrebbe essere definita "confusamente liberaldemocratica".
Ma paradossalmente, malgrado l'esistenza di ottime "basi di differenziazione" rispetto al PD, SEL pare incapace di trarne frutto.
La polemica con il Partito Democratico, da cui pure ci si vorrebbe autonomi e non subalterni, è portata - peraltro con poca convinzione - sul terreno di questioni tutto sommato marginali e contingenti: il suo appoggio al governo delle "larghe intese", e alcune discutibilissime posizioni dei suoi gruppi parlamentari su temi specifici.
SEL pare incapace o non interessata ad utilizzare l'imponente arsenale, di cui pure disporrebbe, per accendere uno scontro politico e culturale su più fronti con il Partito Democratico.
Un vero peccato, perché il governo delle "larghe intese" è destinato prima o poi a finire, mentre la presa del PD su un elettorato che, per una certa parte, sarebbe ancora recuperabile a sinistra è destinata a rimanere fortissima, se non contrastata adeguatamente.
Un esempio per tutti: la polemica contro le scellerate e confuse proposte di Renzi in tema di riforma del welfare, condotta da "Sbilanciamoci" (vedi "Welfare, il vecchio Renzi che avanza"), per ora non ha trovato eco nè sponda nel partito. Che, invece, pare avere accolto l'avvento del Matteo nazionale con favore, come si dovrebbe dedurre dalle affermazioni di Vendola su Renzi "ciclone innovatore che spazza via la vecchia nomenklatura" e l'esortazione a "farsi speranza per tutti". Credo che affermazioni di questo tipo siano quanto di peggio si possa immaginare se si vuol mettere in risalto il ruolo autonomo, non subalterno e originale che SEL potrebbe giocare in una coalizione con il PD, soprattutto con il PD renziano.
Più che un'apertura al dialogo con l'unico alleato elettorale possibile, queste dichiarazioni paiono una resa senza condizioni.
Sostenere di poter spostare a sinistra l'asse dell'azione di governo di una futura coalizione SEL-PD, quando però non si fa nulla di serio per riequilibrare i rapporti di forza elettorali e, prima ancora, politici, all'interno del centrosinistra, sfruttando le evidenti contraddizioni e ambiguità della piattaforma politica del PD, appare un evidente controsenso.
Non c'è da stupirsi se il nostro elettorato potenziale, costretto a verificare quotidianamente la scarsa propensione di SEL ad "affondare il colpo", deduca che SEL sia poco credibile; la conseguenza è lo scarsissimo appeal del partito ogniqualvolta se ne verificano i consensi nell'urna elettorale.
E' indubbio che lo spostamento a destra dell'asse politico del PD renziano apra ampi spazi a sinistra, ma questi spazi devono essere occupati velocemente e presidiati con ferrea determinazione. E oggi SEL non sta facendo niente di tutto questo.
L'adesione al PSE: un gesto senza apparenti conseguenze politiche
Indecifrabile, poi, il significato dell'adesione al PSE. L'affermazione secondo cui questa adesione "non è ideologica" non ha alcun senso politico. Del tutto incomprensibili, poi, i richiami ad una "convenzione dei progressisti europei", che derubricherei alla voce "intrattenimento leggero" se non mi fosse ben chiaro che questo è l'ennesimo maldestro tentativo per blandire quanti si oppongono all'adesione di SEL al PSE.
Di certo nessuno che sia in possesso delle sue capacità mentali può essere seriamente convinto che SEL, un partito minore di un Paese in declino e senza grande peso internazionale, possa avere un ruolo di catalizzatore in un processo di riaggregazione su basi nuove e diverse della sinistra europea - di cui peraltro nessuno, all'interno della famiglia socialista europea, sente l'esigenza o vede la necessità.
Collocarsi in una famiglia politica europea non è come scegliere la squadra del cuore, o l'automobile che si intende acquistare, o dove andare in vacanza. Scegliere una collocazione sulla scena politica internazionale ha un significato solo. O almeno, dovrebbe averlo. Significa adottare una ben precisa piattaforma politica - proprio quello che, invece, i documenti congressuali sembrano voler escludere. Tema che, però, non abbiamo discusso a fondo.
E adottare la piattaforma politica del PSE dovrebbe avere una conseguenza logica ben precisa e immediata: portarci in rotta di collisione con il Partito Democratico. Perché questo, sia storicamente che, a maggior ragione oggi, con la segreteria Renzi, rappresenta posizioni antitetiche o eccentriche rispetto a quelle di qualunque partito socialista, socialdemocratico o laburista d'Europa.
Purtroppo SEL sta perfezionando l'adesione al PSE con lo spirito di chi, così facendo, pensa al più di "potersi confrontare in Europa" e di ricevere definitivamente la patente di partito della "sinistra di governo", come se tutto ciò contasse qualcosa per i nostri (pochi) elettori.
Allo stato attuale, questa adesione - se mai verrà perfezionata, cosa che oggi pare probabile, ma non si sa mai... - non ha nessun significato e non avrà nessuna conseguenza dal punto di vista politico.
E per quanto mi riguarda giudico in modo estremamente negativo il fatto che il nostro dibattito congressuale abbia trattato la questione in termini superficiali.
L'isolamento del partito, le possibili risposte organizzative, le prossime tornate elettorali
Il mio sconcerto è massimo quando si va ad affrontare il tema della preparazione alle elezioni europee, cui arriveremo entro sei mesi, e alle elezioni politiche che, probabilmente, si terranno nel 2015.
Al congresso milanese hanno partecipato, in rappresentanza delle "forze sociali e politiche milanesi", le delegazioni della CGIL, dei Comitati per Milano e di Rifondazione Comunista. Il disinteresse del Partito Democratico è stato reso evidente dalla assenza di una qualsiasi delegazione - assenza giustificabile, ma non so quanto credibilmente giustificata, dalle celebrazioni per l'Avvento renziano che si sono tenute, proprio in questi giorni, a Milano.
La "sinistra ampia e diffusa" di cui di tanto in tanto si è vagheggiato in passato pare esistere solo nelle evocazioni di alcuni. Di certo quella milanese, se esiste, durante questo week-end aveva altro di meglio da fare, o forse non ritiene che il nostro partito sia una sponda affidabile e significativa.
La mia conclusione è che queste due giornate congressuali abbiamo dato la conferma dell'isolamento già registrato a Roma, in Piazza Santi Apostoli; e immediatamente dopo, a Milano, a quella ben più sconcertante iniziativa all'Auditorium di Radio Popolare.
Una forza politica che si ponga il problema di uscire da una condizione di minorità avrebbe dovuto analizzare le ragioni del suo oggettivo isolamento, nella politica e nella società. Nulla di tutto questo è avvenuto. L'isolamento è stato esorcizzato con i richiami alla prossima maggiore "apertura" del partito, ma ignorare i problemi non è certo il modo migliore per risolverli.
La presentazione di due ordini del giorno che ponevano questioni relative all'organizzazione del partito è stata accolta con tiepido interesse, se non addirittura con stupore. Il partito, almeno quello milanese, non sembra pronto a discutere di certi temi, e avrebbe preferito rinviare ogni discussione a una futura "conferenza nazionale d'organizzazione". Un modo elegante per fare quello che di solito fanno gli struzzi: mettere la testa sotto la sabbia di fronte a un pericolo imminente.
Come dicevo, lascia sconcertati il fatto che il tema organizzativo, che non è banale, e ha invece molto a che fare con il futuro di questo partito, sia stato quasi del tutto assente dal dibattito congressuale, e sia stato liquidato nel tradizionale, ma certo non esauriente né esaustivo alternarsi di un intervento di 5 minuti a presentazione di un OdG e di due interventi di 1 minuto a favore e contro.
Per quanto riguarda più specificamente le due tornate elettorali prossime venture, non vedo molte ragioni di ottimismo.
Dopo le affermazioni di Gennaro Migliore, che solo qualche settimana fa immaginava possibile realizzare, in occasione delle elezioni europee un'operazione "Europa Bene Comune", fotocopia della sventurata "Italia bene Comune", trovo oggi assai poco rassicuranti le rassicurazioni di Fabio Mussi, che credo intendesse rispondere a una mia domanda diretta quando ha dato per certo il fatto che le liste che SEL presenterà con il proprio simbolo includeranno "candidati esterni provenienti dalla società civile".
Purtroppo la risposta di Fabio Mussi mi fa pensare che le elezioni europee e l'adesione al PSE non saranno l'occasione per verificare la possibilità di un ampliamento del perimetro in cui SEL si muove. Al momento nessuna operazione politica particolarmente significativa pare essere stata messa in cantiere. Né verso la società civile, quella che potrebbe cercare una sponda in un partito della sinistra di governo. Né verso quel variegato insieme di soggetti politici o economico-sociali che pure potrebbero riconoscersi in una piattaforma politica simile a quella del PSE.
Ovviamente tutte le considerazioni fatte sopra su autonomia politica e rapporti con il Partito Democratico rendono assai confuso e per nulla promettente il quadro per le probabili politiche del 2015.
Un discorso a parte merita il fatto che non si sia discusso della posizione del partito in tema di legge elettorale, un argomento che, invece, torna periodicamente e prepotentemente al centro del dibattito pubblico.
L'unica cosa che mi pare di aver capito è che almeno due iscritti al nostro partito siano a favore del ritorno al "Mattarellum". Il nostro capogruppo alla Camera, Gennaro Migliore, lo ha detto chiaramente. Le elucubrazioni del nostro Presidente Nazionale Nichi Vendola, per contro, necessitano di un maggior sforzo di comprensione, perché i suoi favori andrebbero a sistemi che "favoriscano le coalizioni in uno schema bipolare, non bipartitico". Vendola pare invece ostile ad un ritorno al proporzionale, visto, chissà perché, come una condanna eterna alle "larghe coalizioni" - uno scenario che, però, dovrebbe porre più problemi al PD che non a noi.
In che modo la necessità di accordi di coalizione o di patti di desistenza - che un maggioritario basato su collegi uninominali renderebbe necessari - possa conciliarsi con il mantenimento di una residua autonomia politica mi è del tutto oscuro.
Mi fermo qui, perché il tema, ignorato dal dibattito congressuale, meriterebbe ben altri approfondimenti. Osservo solo che è curioso che in una fase come questa, e su una questione di tale peso, sia impossibile decifrare la linea del partito, nazionale o milanese, e ci siano ignote le opinioni dei nostri delegati ai congressi regionale e nazionale e, in generale, del gruppo dirigente milanese.
In compenso, però, dopo la due giorni congressuale ci è ben chiaro quali siano le posizioni di molte compagne e compagni relativamente a temi quali la vivisezione e la legalizzazione della prostituzione...
Conclusioni
Non occorre il genio della lampada per azzardare previsioni. Senza un deciso cambio di passo, di cui però al momento non si vedono né le condizioni, né gli attori protagonisti, questo partito si presenterà alle elezioni europee isolato, e assai poco credibile nelle sue affermazioni di autonomia e non subalternità rispetto al PD.
E' dubbio che, come in occasione di alcune recenti tornare amministrative, il numero degli astenuti e delle schede bianche e nulle sarà elevato. Il tema dell'Europa è tema rovente, le elezioni sono regolate da una legge elettorale proporzionale, ed è quindi prevedibile che la campagna elettorale sarà condotta con toni accesi e fortemente polarizzanti.
In questo caso, è molto probabile che il partito ottenga un risultato pessimo, il che a sua volta abbatterà la sua residua credibilità in vista delle elezioni politiche del 2015.
Questa la mia posizione, per quello che può interessare.
Nei prossimi mesi valuterò con grande attenzione la capacità del partito milanese e, soprattutto, nazionale nel dare risposte di senso compiuto sui temi che ho sollevato. E valuterò il senso che può avere il condurre una battaglia politica all'interno del partito, su una posizione che affermi con forza la nostra autonomia politica nel quadro di un rapporto di durissima competizione con il Partito Democratico, con cui sono possibili solo alleanze elettorali ma che strategicamente è altro da noi, operando nel suo stesso spazio elettorale, anche sfruttando al meglio l'adesione alla famiglia socialista europea.
Tuttavia svuotare l'oceano con un secchio bucato non è tra i miei passatempi preferiti: se questa linea rendesse conto di una posizione assolutamente isolata e personale me ne farò una ragione, e ne trarrò le dovute conseguenze.
Livio Ghersi: Se la riforma elettorale muove dalla legge Mattarella
Se la riforma elettorale muove dalla legge Mattarella.
Ci sono due possibili modi di impostare la riforma della legge elettorale per il rinnovo della Camera dei deputati. Il primo, tecnicamente più facile, è quello di partire dalla legge elettorale vigente (legge 21 dicembre 2005, n. 270), così come emendata dalla recente sentenza della Corte Costituzionale.
Il secondo modo è quello di disporre l'abrogazione della predetta legge n. 270/2005 e di assumere come base la precedente legge 4 agosto 1993, n. 277 (più nota quando associata al nome dell'ex Ministro Sergio Mattarella), introducendo in questa gli opportuni correttivi.
Per quanto mi riguarda, non disdegno la prima via, dal momento che non ho alcun pregiudizio ideologico nei confronti del sistema proporzionale. So, inoltre, che sono note e sperimentate soluzioni efficaci per contrastare il fenomeno della frammentazione della rappresentanza. Si tratta di manovrare con equilibrio due varianti: la dimensione delle circoscrizioni e l'introduzione di soglie di sbarramento. Per quanto riguarda la fissazione di soglie, queste, per risultare efficaci e per essere coerenti con il principio costituzionale secondo cui tutti i voti hanno lo stesso peso (sono uguali), devono rispondere ad un requisito: vanno applicate nello stesso modo a tutti i soggetti che partecipano alla campagna elettorale, senza distinguere fra liste coalizzate e liste che si presentano da sole. Se le circoscrizioni sono ampie, ossia tali da includere alte cifre di popolazione residente e quindi con molti seggi da ripartire, le soglie di sbarramento, invece di essere riferite al totale dei voti validi espressi in ambito nazionale, possono essere introdotte nella stessa dimensione circoscrizionale, in modo da dare comunque rappresentanza a forze politiche che hanno un consistente radicamento territoriale e non sono uniformemente presenti nel territorio nazionale. Ragionando in linea generale e tenuto conto dell'esperienza storica, si può concludere che il sistema proporzionale, in situazioni di difficoltà politica e di forti tensioni, è quello che finisce per garantire tutte le forze politiche. Le quali, non fidandosi l'una delle soluzioni proposte dall'altra, con una legge proporzionale possono almeno fare affidamento su una corrispondenza fedele tra voti ottenuti e rappresentanza parlamentare. Corrispondenza che viene smarrita quanto più si corregge la proporzionalità con meccanismi maggioritari. Il problema della prima via è appunto quello che si possa cadere nelle mani di apprendisti stregoni, i quali, con il pretesto di assicurare la governabilità, potrebbero disegnare un altro mostriciattolo giuridico e politico, tale da essere parente stretto del modello Calderoli.
La migliore legge elettorale è la più semplice, quella il cui funzionamento può essere compreso da tutti i cittadini.
Mi sembra interessante, quindi, riflettere seriamente sul secondo percorso possibile.
Come è noto, la legge Mattarella prevedeva che 475 deputati, ossia il 75 % dei deputati nella attuale composizione della Camera, venissero eletti in altrettanti collegi uninominali con sistema maggioritario. Ciò significa che in ogni collegio risulta eletto il candidato che ha riportato il maggior numero di voti. Gli anglosassoni definiscono questo criterio: il primo prende tutto (First past the post).
Commentatori frettolosi sostengono che, anche con questo sistema, le tre forze politiche che sono risultate di peso elettorale quasi equivalente nelle elezioni del 24 e 25 febbraio 2013, ossia coalizione di Centrosinistra, coalizione di Centrodestra, Movimento Cinque Stelle, si dividerebbero in tre fette pure i collegi uninominali.
Questo è un errore grossolano. Infatti, se uno dei tre competitori fosse capace di raccogliere più voti rispetto a ciascuno degli altri due e questa prevalenza si manifestasse uniforme nel territorio nazionale, potrebbe conquistare quasi tutti i 475 collegi. Gli altri due competitori si ritroverebbero con il classico pugno di mosche in mano, anche quando il vincitore li sopravanzasse di poche centinaia di voti in ogni singolo collegio. Basta un solo voto in più: il primo prende tutto, come prima si scriveva. Tutto dipende dalla distribuzione territoriale del consenso, oltre che dalla quantità di consenso.
Se si ritorna all'impianto della legge Mattarella, l'unica cosa sicura è che sarebbero ripristinati i 475 collegi uninominali già sperimentati nelle elezioni del 1994, del 1996 e del 2001. Ogni modifica del numero dei collegi comporterebbe la necessità di una nuova delimitazione territoriale ed i tempi si allungherebbero considerevolmente. Senza complicarsi inutilmente la vita, basta scrivere che resta invariata la delimitazione territoriale dei collegi istituiti in attuazione della legge n. 277/1993.
La legge Mattarella prevedeva un unico turno di votazioni. Si potrebbe innovare disponendo che le elezioni si svolgano in due turni. Questa soluzione presenterebbe dei vantaggi in linea teorica, sui quali non ritorniamo perché altre volte ce ne siamo occupati. Ci sono, tuttavia, due ostacoli. Il primo è l'ostilità da parte di quelle forze politiche che ritengono che un secondo turno elettorale le danneggerebbe: il secondo turno conviene soltanto alle forze politiche potenzialmente capaci di attrarre elettori che al primo turno hanno votato per candidati espressi da piccoli partiti, o si sono astenuti. Il secondo ostacolo, ancora più serio, è la disaffezione popolare nei confronti del voto. E' già un problema convincere le persone ad andare a votare una volta; un secondo turno ravvicinato farebbe crescere l'astensionismo. Come comprova l'esperienza del voto nelle elezioni amministrative. Di conseguenza, quanti teorizzano che il turno di ballottaggio darebbe piena legittimazione ai vincitori delle elezioni, non considerano che raccogliere la maggioranza assoluta di un trenta per cento degli aventi diritto al voto non dà poi una legittimazione democratica così forte. Non va dimenticato, infine, il profilo economico della questione: prevedere due turni significa, in pratica, raddoppiare i costi delle elezioni.
La parte più discutibile e discussa della legge Mattarella riguarda l'attribuzione dei rimanenti seggi. Questi oggi non sono più 155, ma centoquarantatre, perché dodici seggi vanno attribuiti nella circoscrizione Estero, secondo quanto disposto dall'articolo 56, secondo comma, della Costituzione.
Le forze politiche stanno valutando se utilizzare questa quota di 143 seggi per introdurre un premio di governabilità. La cautela è d'obbligo, perché si tratterebbe di introdurre un premio in seggi in un impianto normativo che già prevede il sistema maggioritario secco per l'attribuzione di 475 seggi nei collegi uninominali.
Per quanto mi riguarda, subordinerei la possibilità di attribuire il premio alla coalizione più votata al sussistere di due condizioni (entrambe necessarie). L'Ufficio centrale nazionale dovrebbe verificare se la lista, o coalizione di liste, più votata:
— a) abbia ottenuto una cifra elettorale nazionale non inferiore al trentacinque per cento del totale dei voti validi espressi nel voto per le liste circoscrizionali, esclusa la circoscrizione Estero;
— b) possa contare su almeno duecentoventotto deputati direttamente eletti nei collegi uninominali istituiti nel territorio nazionale, contraddistinti dal medesimo contrassegno collegato (Nota: 228 deputati sono il 48 % del totale dei deputati eletti nei collegi uninominali; come già detto, ciò non significa che si richieda il 48 per cento di consenso medio sul piano nazionale, perché, per la logica del sistema maggioritario, per raccogliere questo risultato è sufficiente una buona distribuzione territoriale del voto).
Le due condizioni sub a) e sub b) si spiegano perché, nell'impianto della legge Mattarella, ogni elettore dispone di due voti, da esprimere su distinte schede. Un voto per la scelta di un candidato, fra quelli il cui cognome e nome sono riportati a caratteri di stampa nella scheda di votazione per il collegio uninominale; l'altro voto per la scelta di una lista, fra quelle concorrenti nella circoscrizione. La legge Mattarella non prevedeva la possibilità di esprimere preferenze nel voto alle liste circoscrizionali. La mia opinione è di mantenere la stessa regola: ciò non contrasterebbe con la recente sentenza della Corte Costituzionale perché in questo caso il radicamento territoriale della rappresentanza sarebbe già ampiamente garantito dall'elezione di 475 deputati in altrettanti collegi uninominali. Prevedere il voto di preferenza in circoscrizioni ampie significherebbe contraddire l'esigenza di contenere le spese per la campagna elettorale, esigenza che si lega strettamente con quella di moralizzare la vita pubblica.
Quanti seggi destinare alle liste che fanno parte della coalizione più votata? A mio avviso, non più di 93 seggi, ossia il 65 % dei 143 seggi disponibili. Per garantire in modo efficace la rappresentanza delle minoranze, i rimanenti cinquanta seggi dovrebbero comunque essere ripartiti fra le liste circoscrizionali diverse da quelle facenti parte della coalizione risultata più votata. Inoltre, affinché anche forze politiche di consistenza media possano ottenere rappresentanza, sarebbe consigliabile utilizzare circoscrizioni di ampie dimensioni.
Immaginiamo che il territorio nazionale venga diviso nelle seguenti tre circoscrizioni elettorali:
— la prima, denominata Italia Settentrionale, comprenderebbe il territorio delle Regioni Liguria, Piemonte, Valle d'Aosta, Trentino - Alto Adige, Lombardia, Veneto e Friuli - Venezia Giulia;
— la seconda, denominata Italia Centrale, comprenderebbe il territorio delle Regioni Emilia - Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo e Molise;
— la terza, denominata Italia Meridionale e Insulare, comprenderebbe il territorio delle Regioni Sardegna, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia.
Il numero dei seggi spettanti alle singole circoscrizioni verrebbe determinato dividendo il numero degli abitanti della Repubblica, quale risulta dall'ultimo censimento generale della popolazione, per 143 e distribuendo i seggi in proporzione alla popolazione di ogni circoscrizione, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti (si applica il criterio enunciato all'articolo 56, ultimo comma, della Costituzione).
Visto il Decreto del Presidente della Repubblica 6 novembre 2012, recante "Determinazione della popolazione legale della Repubblica in base al 15° censimento generale della popolazione e delle abitazioni del 9 ottobre 2011" (pubblicato nel Supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 294 del 18 dicembre 2012, Serie Generale), il numero complessivo degli abitanti della Repubblica risulta determinato in 59.433.744 abitanti. Di conseguenza, la divisione per 143 dà un quoziente di 415.620.
Alla Circoscrizione Italia Settentrionale, con una popolazione di 22.871.237 abitanti, spetterebbero 55 seggi (tutti con quoziente pieno).
Alla Circoscrizione Italia Centrale, con una popolazione di 17.563.779 abitanti, spetterebbero 42 seggi (tutti con quoziente pieno).
Alla Circoscrizione Italia Meridionale e Insulare, con una popolazione di 18.998.728 abitanti, spetterebbero 46 seggi (dei quali 45 con quoziente pieno ed uno per il maggior resto, quantificato in 295.828).
In ciascuna circoscrizione non sarebbero ammesse all'assegnazione dei seggi le liste la cui cifra elettorale circoscrizionale fosse inferiore al quattro per cento del totale dei voti validi espressi nella circoscrizione medesima (Nota: l'articolo 83 del Testo unico delle leggi per l'elezione della Camera dei deputati, come modificato dall'articolo 5 della legge n. 277/1993, prevedeva invece una soglia di sbarramento nazionale: aver «conseguito sul piano nazionale almeno il quattro per cento dei voti validi espressi»). Tale regola si applicherebbe in modo uguale nei confronti di tutte le liste, incluse quelle facenti parte della coalizione risultata più votata.
Saltando tutti i passaggi intermedi ed arrivando al dunque, i 93 seggi attribuiti con sistema maggioritario alla coalizione più votata sarebbero assegnati nel modo seguente: trentasei nella circoscrizione Italia Settentrionale, ventisette nella circoscrizione Italia Centrale, trenta nella circoscrizione Italia Meridionale e Insulare.
I 50 seggi da attribuire con metodo proporzionale alle altre liste sarebbero distribuiti nel modo seguente: diciannove nella Circoscrizione Italia Settentrionale, quindici nella Circoscrizione Italia Centrale, sedici nella Circoscrizione Italia Meridionale e Insulare.
Gli Uffici centrali circoscrizionali della circoscrizione Italia, Settentrionale, della circoscrizione Italia Centrale, della circoscrizione Italia Meridionale e Insulare sarebbero, rispettivamente, costituiti presso la Corte d'appello di Milano, presso la Corte d'appello di Roma, presso la Corte d'appello di Napoli. Si potrebbero applicare, in quanto compatibili, le norme procedurali vigenti per l'elezione dei rappresentanti dell'Italia nel Parlamento europeo (in quel caso le circoscrizioni sono cinque).
Spero di aver contribuito a chiarire gli esatti termini delle questioni di cui si sta discutendo, affinché almeno i miei pochi lettori abbiano maggiore consapevolezza.
Palermo, 18 dicembre 2013
Livio Ghersi
martedì 17 dicembre 2013
lunedì 16 dicembre 2013
Stabilità finanziaria e ripresa economica: una compatibilità difficile, ma non impossibile | EyesReg - Giornale di Scienze Regionali - Giornale on-line dell'AISRe
Mauro Sentimenti: Il corpo elettorale non è un bancomat (e il conflitto non è un pranzo di gala)
Il corpo elettorale non è un bancomat (e il conflitto non è un pranzo di gala)
Dopo la dichiarazione di incostituzionalità della legge Calderoli e l'elezione di Renzi
E’ accaduto quel che molti non immaginavano : la Consulta ha affondato la Legge Calderoli (premio di maggioranza senza soglia, liste “bloccate”) e , soprattutto, l’idea che le leggi elettorali non fossero costituzionalmente “giustiziabili” (perché ritenute indipendenti dalla legge fondamentale). Aveva quindi ragione Carlo Lavagna, il giurista che già nel 1952 sosteneva che il rispetto della Costituzione impone al legislatore il vincolo dell’uguaglianza del voto sia in entrata (il valore del voto è uguale per tutti) che in “uscita” (la trasformazione dei voti in seggi deve avvenire senza “stravolgere” il principio tot voti/tot seggi) e che nel rapporto rappresentatività/governabilità, la seconda dovrebbe essere costituzionalmente subordinata alla prima. Il bipolarismo deve in sintesi trovare un punto di equilibrio con la rappresentanza. La legge bocciata (Camera ipergovernata e Senato tendenzialmente in-governabile) e’ stata un buon esempio di eterogenesi dei fini di partiti senza radici: si è finiti nelle sabbie mobili di un sistema autoreferenziale, del quale la legge elettorale dichiarata incostituzionale era in perfetta simbiosi (per 8 anni si è gridato in modo farisaico all'innocente “porco”, mentre il sistema politico nel suo insieme di fatto lo utilizzava senza pudore ). In assenza di reale rappresentatività non si è pensato a come recuperarla ma a farne definitivamente a meno. Da qui , assieme al perdurare dell'egemonia delle culture neoliberiste, una serie di conseguenze a catena: la rielezione di Napolitano, il governo PD-PDL , la liquefazione delle alleanze pre-elettorali (SeL da una parte, PD dall'altra), Parlamento e governo Letta privi di sufficiente autorevolezza e credibilità nel paese. Situazione nella quale le politiche di governo alimentano senza sosta il populismo (ormai conclamato) di Grillo, che mostra patetici ma pericolosi tratti autoritari, il ribellismo dei “forconi” (dove sono presenti sofferenza e disperazione sociale, frutto delle diseguaglianze cresciute dal 2008) spazio del quale tenta di impadronirsi l'estrema destra, la solitudine della Fiom e dei suoi sacrosanti obiettivi, la deindustrializzazione galoppante. In questo contesto il congresso del PD ha certificato la fine, ufficiale, della parabola postcomunista e dei suoi gruppi dirigenti. La fine reale era già avvenuta diversi anni prima con la perdita di ogni funzione effettiva nell'ambito del conflitto che opponeva/oppone il lavoro, in tutte le sue forme - e la società che tende all'uguaglianza che lo stesso lavoro alimenta, nella sua versione socialista organizzata - agli interessi economici dominanti. Come altro si può descrivere un ceto dirigente che negli ultimi 20 anni non ha contrastato, e viceversa ha oggettivamente favorito con la sua subalternità culturale, il trasferimento di ricchezza , dal patrimonio pubblico -sociale alle privatizzazioni, di 15 punti di Pil da salari e pensioni a rendita (e in misura minore a profitti?). Quel che è accaduto non è quindi frutto della stolida supponenza, di quello stesso ceto dirigente, di poter contare sulla “lealta” indistruttibile di una base cresciuta nel PCI; è frutto dell'assenza di una funzione reale svolta in quel conflitto (esattamente l'opposto di quel che dice la retorica discorsiva sulla quale è cresciuto l'albero del PD). Cuperlo (che aveva sostanzialmente condiviso quella visione del mondo subalterna), ha messo la faccia, elegante e pulita, ma nulla di più poteva ormai fare. Renzi , nuovo segretario del PD a furor di popolo, è tale perché collettore , a torto o ragione, della profonda frustrazione collettiva nata dall'aver perso, la base sociale del centro sinistra, tutti i conflitti più importanti. Se la frustrazione produrrà nelle mani del nuovo ceto dirigente qualcosa di più di una cosmesi resta da vedere. Ma è su questo crinale che esso dovrà essere valutato. Due essendo le sole domande utili: chi pagherà per fare cosa? Diminuiranno o no le diseguaglianze? Attendiamo risposta. Dalla quale dipenderà ogni discorso su SeL.
Mauro Sentimenti (Ragioni del socialismo - Modena)
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