MESSAGGIO DI LANFRANCO TURCI AL GRUPPO DI VOLPEDO
Cari compagni se comprendo bene l’intento del vostro convegno del prossimo 30 giugno a Genova, voi proponete di proiettare idealmente il valore simbolico del 1892 in un ripensamento della sinistra italiana di oggi, per l’Italia e per l’Europa. Certamente se pensiamo al valore della costituzione del Partito dei Lavoratori 120 anni fa e alla sua rapida trasformazione nel Partito socialista Italiano, sul modello delle più avanzate e coeve esperienze europee, se pensiamo alla passione costruttiva e alla fiducia che ispirava quei promotori, e guardiamo allo stato della sinistra italiana di oggi, ( nella quale per ragioni obiettive non si può non includere anche il Pd, a costo di dover adottare la espressione non proprio europea di centro-sinistra ) è difficile evitare un sentimento di scoramento. La parola socialismo nel 1892 evocava emancipazione, giustizia, un altro ordine sociale. Oggi insieme alla scomparsa della parola nelle denominazioni del partiti della sinistra,con l’unica ma pressoché irrilevante eccezione del residuo PSI, è scomparso soprattutto il senso del cambiamento radicale che quella parola allora portava con sè. Non è questa la sede per cercarne le ragioni, comprese quelle che hanno nella storia dei partiti socialisti in Italia e in Europa la loro origine e spiegazione. Occorre invece rilevare che proprio nel momento in cui ci sarebbe più bisogno di recuperare il senso forte della parola socialismo, di fronte alla crisi disastrosa del capitalismo liberale globalizzato, si stenta a uscire dalla parzialità di analisi e di proposte politiche e programmatiche che sembrano in molti casi ancora giocate sui margini interni all’assetto dominante. Questo non vale solo per il PD o per il PSI, ma anche per SEL che, pur dichiaratamente più a sinistra degli altri due partiti, fatica ad andare oltre la raccolta delle istanze dei singoli movimenti e ad inquadrarli e selezionarli in una visione coerente di trasformazione. Non credo che alla base di questa situazione si possa ancora invocare la grande divisione fra socialisti e comunisti messa in moto dalla Rivoluzione d’Ottobre. Quella è acqua passata e per quanto ci debba ancora scavare la ricerca storica il suo esito è già stato scritto con la fine del socialismo reale. Certamente non nello stesso modo si può liquidare sul versante italiano il rapporto storico dal secondo dopoguerra all’89 fra comunisti e socialisti. Ma la scelta catastrofica della maggioranza degli eredi del PCI di cercare una via d’uscita dalla sua crisi non nella direzione del socialismo, ma in quella di un indeterminato Partito Democratico- di cui ancora oggi, pur con sforzi apprezzabili di alcune componenti di sinistra, non si riesce a definire identità e missione- ha costituito un grave fattore di indebolimento della sinistra. Indebolimento che ha avuto nella disgregazione e degenerazione dell’ultimo PSI di Craxi l’altra componente decisiva. Qui siamo! E non siamo certo messi bene. Si può ben capire allora perché visto dall’Italia il Socialismo Europeo appaia come l’ancora cui cercare di agganciare le nostre forze di sinistra. Se le barche e i vascelli della sinistra del nostro paese decidessero intanto di entrare in quel porto, per quanto caotico e mal governato, sarebbe per noi un passo importante per riconoscere l’area in cui ci muoviamo e per promuovere sinergie più efficaci di quelle per ora tentate nel Parlamento Europeo o nei vertici a formato variabile dei partiti “progressisti“. Oltretutto la recente vittoria di Hollande ha messo nuovo vento nelle vele del socialismo francese, ha fatto intravvedere la possibilità di una alternativa socialista in Europa, mentre giacciono ancora afflosciate le vele di altri partiti socialisti, da quello greco a quello spagnolo e altri ancora, che non hanno saputo o potuto resistere ai diktat del neoliberismo e dell’Europa tecnocratica. Un’Europa in cui gli unici interessi legittimi paiono essere quelli dei cosiddetti mercati e del mercantilismo tedesco. Non dobbiamo dunque stancarci di proporre al PD e a SEL la adesione al PSE, soprattutto in vista delle elezioni europee del 2014, che finalmente vedranno tutti i partiti socialisti proporre unitariamente il loro candidato alla Presidenza dell’Unione. Dovremmo tuttavia evitare di presentare questa sollecitazione ad entrare nel PSE in modo ingenuo o sentimentale, quasi che l’auspicata adesione costituisse di per sé un fattore catartico e salvifico per la sinistra italiana. Purtroppo, pur in un contesto mediamente migliore di quello italiano, anche il socialismo europeo non brilla per successi, chiarezza di propositi e coesione. Quando il 30 giugno ci riuniremo a Genova per i 120 anni del Partito del lavoratoti sapremo già delle conclusioni dell’atteso vertice europeo di fine mese. Mi auguro di essere smentito dai fatti, ma temo che esso rappresenterà un nuovo passo verso la disgregazione dell’Euro, verso nuovi costi sociali per le masse popolari del nostro continente, senza che, al di là di singole iniziative nazionali e di volonterosi appelli di alcuni parlamentari europei del Gruppo democratico e socialista, si sia tentato davvero di costruire e mediare una comune linea politica in sede di PSE. La ragione sta nel prevalere dei punti di vista nazionali e nella mancanza di una visione comune fra i diversi partiti socialisti circa l’attuale capitalismo finanziario internazionale e su come gli si possa contrapporre un’altra ipotesi di sviluppo socialmente e ecologicamente alternativa. Insomma il socialismo, nell’accezione in cui ne accennavo all’inizio di questa nota, stenta a rifarsi strada anche fra i partiti del “socialismo europeo” divisi al loro interno fra quanti pensano che la svolta social-liberista della terza via sia ancora la linea da seguire e quanti avvertono l’urgenza di un riposizionamento a sinistra, ma non se la sentono di sfidare fino in fondo i meccanismi dei mercati e l’impianto su di essi costruito della Unione Europea. Preoccupati alcuni di perdere i relativi vantaggi nazionali e altri, che invece stanno già pagando alti prezzi, di essere accusati di portare allo sbando i loro paesi sfidando il patto fiscale europeo. Quanti in Italia si ispirano ai valori del socialismo e della sinistra dovrebbero perciò promuovere prioritariamente una campagna contro i valori e i paradigmi che dominano da trent’anni il panorama politico culturale dell’occidente. Tanto per cominciare bisogna lasciarsi alle spalle il culto del mercato, le ossessioni antistataliste, le visioni moralistiche del debito pubblico. Se oggi siamo guidati dal governo Monti è perché la sinistra non ha saputo in questi anni interpretare con una sua autonomia di pensiero la crisi e, una volta venute meno le ragioni dell’antiberlusconismo, si è trovata disarmata di fronte alle soluzioni della BCE presentate come nuova espressione del TINA tatcheriano (There is no alternative). Invece l’alternativa è possibile. Bisogna abbandonare la politica dell’austerità. Già in un documento del 2010 un gruppo autorevole, ma purtroppo inascoltato, di economisti critici suggeriva di puntare non sulla riduzione del debito, ma sulla stabilizzazione del rapporto debito/Pil per mantenere lo spazio di una diversa politica distributiva e di un rilancio degli investimenti pubblici. I capisaldi di una politica alternativa sono ben noti: intervento attivo della Bce sui debiti sovrani e politica monetaria più espansiva, rilancio della domanda europea, a cominciare dalla Germania, Project bond, comuni politiche europee fiscali, di welfare e di standard salariali, politiche industriali nazionali particolarmente mirate all’innovazione, all’ambiente e al territorio . Sono tutti capitoli di una politica che la sinistra dovrebbe proporre con l’ambizione di un’altra Europa e di un’altra Italia. La nostra proposta deve essere quella di un’Europa più integrata, governata su basi democratiche, orientata a un nuovo modello di sviluppo socialmente e ecologicamente sostenibile. Questo è ciò che la sinistra italiana dovrebbe portare come suo contributo al rilancio del socialismo europeo. Dobbiamo comunque essere preparati a tutti gli scenari, compreso quello della rottura dell’euro e della nostra uscita, cui potremmo arrivare non per una scelta nostra, ma per costrizione di fattori esterni. In una ipotesi o nell’altra la sinistra deve riscoprire il coraggio delle idee e il conflitto sociale che può dare la forza e l’anima a queste idee. E’ stato detto nei giorni scorsi, al convegno dell’area dei “giovani turchi” del Pd, che un partito non può esistere senza passione e ira. Condividiamo questa affermazione fatta da uno studioso certo non sospettabile di massimalismo, come Carlo Galli. Oggi in Italia non c’è una concentrazione di soggettività politica abbastanza forte e decisa per sostenere da sola un progetto come quello che abbiamo sopra sintetizzato. La particolare conformazione della sinistra italiana ci fa mancare quelle condizioni che in Francia hanno reso possibile la vittoria di Hollande. Bisogna lavorare dentro e ai fianchi dei partiti esistenti per aiutare ad affermarsi e a collaborare fra di loro le forze più disponibili al cambiamento politico e culturale in cui può identificarsi “il socialismo del futuro”. Bisogna fare emergere queste come idee vincenti alle eventuali primarie del centro-sinistra. Abbiamo auspicato tante volte la costituzione in Italia di un grande soggetto popolare, unitario, di sinistra e socialista. Il lavoro vostro,del Network per il socialismo europeo e delle tante associazioni e circoli della sinistra dispersa può contribuire a questo obiettivo, intanto muovendoci nella realtà data, senza tentazioni di creare nuovi partitini, ma moltiplicando le sedi di riflessione e di elaborazione comune. Lavorando nel modi e nella articolazione delle forme oggi possibile vogliamo tener d’occhio quel ricominciamento che fa da titolo al vostro convegno.
Lanfranco Turci
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