sabato 30 giugno 2012

Franco D'Alfonso: Intervento a Genova

INTERVENTO AL CONVEGNO
“SINISTRA E SOCIALISMO EUROPEO: RICOMINCIAMO DA CAPO?”
Genova, sala Sivori, 30 giugno 2012

Esiste un modo non meramente celebrativo di ritrovarsi 120 anni dopo in questa storica sala per ricordare la nascita di un partito che aveva in origine un nome che non fu quello di socialista che ne ha caratterizzato la storia?
A ben vedere - chiederei qui conforto ai tanti compagni storici in grado di correggermi e darmi lezioni anche su molto altro - nella moltitudine di nomi assunti nel “secolo breve” il partito di quanti si richiamavano a vario titolo al socialismo ha avuto forse per più tempo un nome diverso.
Usciti vincitori proprio a partire da quel lontano giorno del 1892 dal confronto con il ribellismo anarchico che aveva caratterizzato la storia del movimento operaio nell’800, i movimenti socialisti si ritrovarono a dividersi tra massimalisti e riformisti e dopo la rivoluzione di febbraio e quella successiva di ottobre, tra socialisti e comunisti, dando vita ad un confronto che nel nominalismo e nella semantica ha avuto spesso uno dei suoi fulcri. Come dimenticare che il Comunismo sovietico si impradonì per anni della parola socialismo, portando come conseguenza anche l’impraticabilità attuale di sigle e purtroppo spesso anche della politica socialista nei paesi dell’Est Europeo? O, per fare un esempio ancora molto vicino a noi, il ridicolo alternarsi tra Europa ed Italia e nelle varie versioni del partito erede dell’ex PCI della parola democratica e socialista a seconda dei contesti e degli interlocutori.
L’ultimo esempio non deve farci pensare che la questione sia sempre un gioco privo di ragioni e ragionevolezza ma ci deve forse far meditare sull’eccessivo significato che i militanti socialisti danno in alcuni momenti - di solito coincidenti con una certa caduta del livello del pensiero politico - al simbolismo ed al nominalismo.
Quelli che solo dopo molto tempo abbiamo potuto definire “padri fondatori” del socialismo italiano, gli esponenti delle cellule anarchiche, delle Leghe operaie, della società di mutuo soccorso, si trovarono in questa sala per fondare il Partito dei Lavoratori perché verificarono come vera l’esigenza di dare ai lavoratori italiani una organizzazione in grado di catalizzare un pensiero ed un sentimento, di canalizzare l’energia politica, di proporre strategie e di guidarne la lotta politica.
Essi partivano da una realtà esistente e che aveva già cominciato a manifestarsi, in una parola da una esigenza reale di rappresentanza e protagonismo delle masse popolari, contadine ed operaie, non certo dalla verifica di coerenza tra nome e realtà.
La storia di questa Sala attraversa tre secoli, fino a noi che viviamo nel XXI, anche se troppe volte diamo l’impressione di usare le categorie del Novecento se non quelle dell’Ottocento.
Se non vogliamo limitarci a constatare l’inadeguatezza della proposta politica della sinistra italiana attuale ed il grande (supposto) vuoto lasciato da un partito socialista che avrebbe dovuto esserci ma non c’è, penso faremmo bene proprio a dimenticarci ora e per sempre di cercare di ritessere il filo di una storia di partiti ed organizzazioni che hanno esaurito il proprio compito – alcuni svolgendolo tutto sommato bene, come quelli della Prima Repubblica, altri fallendo su tutta la linea come quelli della Seconda – che sopravvivono solo come simulacri o società di mutuo soccorso per gruppi dirigenti in disarmo e che sono rifiutati a priori, qualsiasi sia la proposta offerta, dai cittadini elettori, che cercano ovunque, astensione compresa, la maniera di comunicare la propria radicale insoddisfazione.
Io sono d’accordo con Felice Besostri quando dice che “la sinistra deve ricostituirsi come area politica” ma anche “rispondere ad un popolo stremato e smarrito”.
Penso infatti che esista, in questi giorni bui di inizio secolo, un popolo, delle nuove “masse popolari” che ancora hanno bisogno di avere un punto di riferimento, un pensiero che si proponga come guida e che possa canalizzare idee ed energie.
C’è bisogno di una capacità di ascoltare, interpretare e proporre soluzioni alla richiesta di una nuova politica per indicare una via di uscita dalla crisi ed una prospettiva per milioni di cittadini.
Questa strada non deve essere inventata oggi, ci sono realizzazioni e non sogni politici nel nostro recente passato: è il caso dei sindaci “arancioni”, espressione di questo nuovo modo di fare politica a sinistra.
Marco Doria a Genova - come prima di lui Giuliano Pisapia a Milano o Massimo Zedda a Cagliari - ha anteposto al calcolo dei “rapporti di debolezza” fra le varie oligarchie interne ed esterne al PD ed ai micropartiti la definizione di un chiaro profilo politico segnato dalla propria storia personale, di outsider politico non partitico, prima ancora che da una proposta programmatica. “Non dobbiamo inventare nulla, dobbiamo leggere ciò che è già scritto” è stata la vera bussola politica delle campagne elettorali vincenti degli outsider di sinistra da un anno a questa parte: hanno capito che un “popolo della sinistra”, un partito-movimento che discute e sceglie la politica attraverso le vie che trova a disposizione, dal voto alle primarie alla partecipazione a iniziative di scopo o tematiche, esiste già, sta imparando a riconoscersi ed a trovarsi senza farsi condizionare dalle strutture dei partiti, dalle tattiche incomprensibili e perfino dallo strapotere economico assicurato dalle leggi sul finanziamento pubblico ai partiti e dalla legge elettorale che sostituisce la nomina all’elezione.
Posso dire qualcosa in più, ovviamente sull’esperienza di Milano. Pisapia ha rivendicato fin dal primo momento una continuità con la storia della sinistra milanese e quindi con il socialismo municipale, sia attraverso atti simbolici come la partecipazione all’annuale raduno socialista di Volpedo sia soprattutto attraverso atti politici, quali il recupero delle buone pratiche di confronto con la società milanese nelle sue diverse articolazioni associative e, soprattutto, ritrovando lungo vecchi sentieri abbandonati da anni una classe dirigente politica e cittadine che era stata dimenticata. La grande abilità di Pisapia è stata quella di impedire che questa fosse un’operazione nostalgia o di rinverdire vecchi rancori, ma fosse una riscoperta di un’antica “scuola” che è in grado ancora di produrre risultati apprezzabili sul piano delle idee.
E’ così che Pisapia politico di sinistra non partitico ha suscitato un’alleanza “mitterandiana”, (confermata dallo slogan della campagna “La forza gentile” che richiama la “forza tranquilla” di Seguela per il primo Mitterand) basata su un “gauchismo” creativo e propositivo ed un riformismo meneghino pragmatico ed inclusivo, che prima ha battuto quel che resta del progetto degli eredi della sinistra DC e del PCI, poi ne ha lanciato uno di speranza inclusivo.
Quello che Giuliano ed i suoi collaboratori hanno fatto a Milano è stato recuperare un metodo di analisi e di lavoro, ingaggiare una battaglia politica “interna” attraverso le primarie che ha permesso di recuperare un rapporto straordinario con il proprio “popolo” ed infine confrontarsi con l’avversario politico su un piano di governo della città: esattamente quello che i vecchi partiti della sinistra, con le loro vecchie classi dirigenti impegnate nello studio e nel confronto prima che nell’apparire in televisione hanno fatto per anni, con risultati a volte negativi ma più spesso positivi.
Ma l’arancione di Pisapia colora una precisa scelta politica, quella di un rinnovato municipalismo che aveva come riferimento le esperienze dei sindaci socialisti e riformisti di Milano la cui essenza era, come diceva il sindaco Caldara, nel riconoscimento che il Comune, nel rapporto con lo Stato, fosse come la cellula nel corpo umano e che la forza della cellula derivava prevalentemente dalla sua capacità autonoma di fornire servizi pubblici. In questo l’assonanza con le tesi di don Sturzo e del federalismo cattolico liberale sono molto strette: un altro segnale politico di “ritorno”, pensando all’apporto significativo dato al cambiamento a Milano dal cardinale Tettamanzi ovvero allo straordinario “scambio” dialettico tra il sindaco Pisapia e papa Benedetto XVI a Milano in occasione dell’incontro mondiale delle famiglie.
Oggi le mutate condizioni socio-economiche richiedono forti innovazioni nel rapporto cittadini/amministrazioni pubbliche.
A Milano abbiamo incominciato a individuarle e soprattutto a praticarle, contribuendo a definire un nuovo modo di organizzare la democrazia e la partecipazione, avendo però ben chiaro l’obiettivo di ridare al Comune quel ruolo originario espropriato prima dal fascismo e poi, nella seconda metà del secolo scorso, dal crescente centralismo fiscale. Un obiettivo che non può essere conseguito solo localmente ma ha bisogno di una nuova politica nazionale.
Il movimento arancione, la “buona politica” che tutti assieme, travolgendo inutili steccati partitici, abbiamo contribuito a mettere in motto deve misurarsi con una realtà difficile e complessa come l’amministrazione di Milano, con un orizzonte proiettato sul ciclo di un quinquennio che non può essere condizionato dall’esasperazione quotidiana della verifica del livello del consenso; al tempo stesso però l’esperienza milanese è già un importante riferimento, direi quasi un indispensabile punto di ancoraggio e di speranza per l’intero Paese, quasi senza distinzione di campo politico. I tempi della politica “nazionale” non sono quelli dell’amministrazione, i rischi di una deriva del nostro Paese ai margini dell’Europa sono reali.
Non vi propongo di colorare tutti le nostre bandiere di arancione né di dare come qualcuno pensa, un nuovo nome alla “ditta” chiamandola magari “Lista Civica”.
Ma voglio farvi notare più semplicemente che l’area politica della sinistra nelle città ha trovato questa sua autorappresentazione anche simbolicamente innovativa.
Non ha molta importanza se questa simbologia riuscirà o meno ad andare oltre i confini delle aree urbane del Nord nelle quali si è sviluppata, quello che veramente conta è se la lezione, il metodo di ascolto, verifica, partecipazione e proposta, che viene dal movimento arancione riuscirà ad essere il lievito di una nuova politica di una sinistra italiana che ha un popolo ma non un suo “governo”.
Arance come falci, martelli e libri possono essere elementi di un quadro di natura morta che trova il suo giusto albergo in un museo oppure la bandiera di una politica, di un movimento, di una nuova storia che noi, nel nostro cuore, chiameremo sempre “socialismo”.

Franco D’Alfonso

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