INTERVENTO AL CONVEGNO
“SINISTRA E SOCIALISMO EUROPEO: RICOMINCIAMO DA CAPO?”
Genova, sala Sivori, 30 giugno 2012
Esiste un modo non meramente celebrativo di ritrovarsi 120 anni dopo in questa storica sala per ricordare la nascita di un partito che aveva in origine un nome che non fu quello di socialista che ne ha caratterizzato la storia?
A ben vedere - chiederei qui conforto ai tanti compagni storici in grado di correggermi e darmi lezioni anche su molto altro - nella moltitudine di nomi assunti nel “secolo breve” il partito di quanti si richiamavano a vario titolo al socialismo ha avuto forse per più tempo un nome diverso.
Usciti vincitori proprio a partire da quel lontano giorno del 1892 dal confronto con il ribellismo anarchico che aveva caratterizzato la storia del movimento operaio nell’800, i movimenti socialisti si ritrovarono a dividersi tra massimalisti e riformisti e dopo la rivoluzione di febbraio e quella successiva di ottobre, tra socialisti e comunisti, dando vita ad un confronto che nel nominalismo e nella semantica ha avuto spesso uno dei suoi fulcri. Come dimenticare che il Comunismo sovietico si impradonì per anni della parola socialismo, portando come conseguenza anche l’impraticabilità attuale di sigle e purtroppo spesso anche della politica socialista nei paesi dell’Est Europeo? O, per fare un esempio ancora molto vicino a noi, il ridicolo alternarsi tra Europa ed Italia e nelle varie versioni del partito erede dell’ex PCI della parola democratica e socialista a seconda dei contesti e degli interlocutori.
L’ultimo esempio non deve farci pensare che la questione sia sempre un gioco privo di ragioni e ragionevolezza ma ci deve forse far meditare sull’eccessivo significato che i militanti socialisti danno in alcuni momenti - di solito coincidenti con una certa caduta del livello del pensiero politico - al simbolismo ed al nominalismo.
Quelli che solo dopo molto tempo abbiamo potuto definire “padri fondatori” del socialismo italiano, gli esponenti delle cellule anarchiche, delle Leghe operaie, della società di mutuo soccorso, si trovarono in questa sala per fondare il Partito dei Lavoratori perché verificarono come vera l’esigenza di dare ai lavoratori italiani una organizzazione in grado di catalizzare un pensiero ed un sentimento, di canalizzare l’energia politica, di proporre strategie e di guidarne la lotta politica.
Essi partivano da una realtà esistente e che aveva già cominciato a manifestarsi, in una parola da una esigenza reale di rappresentanza e protagonismo delle masse popolari, contadine ed operaie, non certo dalla verifica di coerenza tra nome e realtà.
La storia di questa Sala attraversa tre secoli, fino a noi che viviamo nel XXI, anche se troppe volte diamo l’impressione di usare le categorie del Novecento se non quelle dell’Ottocento.
Se non vogliamo limitarci a constatare l’inadeguatezza della proposta politica della sinistra italiana attuale ed il grande (supposto) vuoto lasciato da un partito socialista che avrebbe dovuto esserci ma non c’è, penso faremmo bene proprio a dimenticarci ora e per sempre di cercare di ritessere il filo di una storia di partiti ed organizzazioni che hanno esaurito il proprio compito – alcuni svolgendolo tutto sommato bene, come quelli della Prima Repubblica, altri fallendo su tutta la linea come quelli della Seconda – che sopravvivono solo come simulacri o società di mutuo soccorso per gruppi dirigenti in disarmo e che sono rifiutati a priori, qualsiasi sia la proposta offerta, dai cittadini elettori, che cercano ovunque, astensione compresa, la maniera di comunicare la propria radicale insoddisfazione.
Io sono d’accordo con Felice Besostri quando dice che “la sinistra deve ricostituirsi come area politica” ma anche “rispondere ad un popolo stremato e smarrito”.
Penso infatti che esista, in questi giorni bui di inizio secolo, un popolo, delle nuove “masse popolari” che ancora hanno bisogno di avere un punto di riferimento, un pensiero che si proponga come guida e che possa canalizzare idee ed energie.
C’è bisogno di una capacità di ascoltare, interpretare e proporre soluzioni alla richiesta di una nuova politica per indicare una via di uscita dalla crisi ed una prospettiva per milioni di cittadini.
Questa strada non deve essere inventata oggi, ci sono realizzazioni e non sogni politici nel nostro recente passato: è il caso dei sindaci “arancioni”, espressione di questo nuovo modo di fare politica a sinistra.
Marco Doria a Genova - come prima di lui Giuliano Pisapia a Milano o Massimo Zedda a Cagliari - ha anteposto al calcolo dei “rapporti di debolezza” fra le varie oligarchie interne ed esterne al PD ed ai micropartiti la definizione di un chiaro profilo politico segnato dalla propria storia personale, di outsider politico non partitico, prima ancora che da una proposta programmatica. “Non dobbiamo inventare nulla, dobbiamo leggere ciò che è già scritto” è stata la vera bussola politica delle campagne elettorali vincenti degli outsider di sinistra da un anno a questa parte: hanno capito che un “popolo della sinistra”, un partito-movimento che discute e sceglie la politica attraverso le vie che trova a disposizione, dal voto alle primarie alla partecipazione a iniziative di scopo o tematiche, esiste già, sta imparando a riconoscersi ed a trovarsi senza farsi condizionare dalle strutture dei partiti, dalle tattiche incomprensibili e perfino dallo strapotere economico assicurato dalle leggi sul finanziamento pubblico ai partiti e dalla legge elettorale che sostituisce la nomina all’elezione.
Posso dire qualcosa in più, ovviamente sull’esperienza di Milano. Pisapia ha rivendicato fin dal primo momento una continuità con la storia della sinistra milanese e quindi con il socialismo municipale, sia attraverso atti simbolici come la partecipazione all’annuale raduno socialista di Volpedo sia soprattutto attraverso atti politici, quali il recupero delle buone pratiche di confronto con la società milanese nelle sue diverse articolazioni associative e, soprattutto, ritrovando lungo vecchi sentieri abbandonati da anni una classe dirigente politica e cittadine che era stata dimenticata. La grande abilità di Pisapia è stata quella di impedire che questa fosse un’operazione nostalgia o di rinverdire vecchi rancori, ma fosse una riscoperta di un’antica “scuola” che è in grado ancora di produrre risultati apprezzabili sul piano delle idee.
E’ così che Pisapia politico di sinistra non partitico ha suscitato un’alleanza “mitterandiana”, (confermata dallo slogan della campagna “La forza gentile” che richiama la “forza tranquilla” di Seguela per il primo Mitterand) basata su un “gauchismo” creativo e propositivo ed un riformismo meneghino pragmatico ed inclusivo, che prima ha battuto quel che resta del progetto degli eredi della sinistra DC e del PCI, poi ne ha lanciato uno di speranza inclusivo.
Quello che Giuliano ed i suoi collaboratori hanno fatto a Milano è stato recuperare un metodo di analisi e di lavoro, ingaggiare una battaglia politica “interna” attraverso le primarie che ha permesso di recuperare un rapporto straordinario con il proprio “popolo” ed infine confrontarsi con l’avversario politico su un piano di governo della città: esattamente quello che i vecchi partiti della sinistra, con le loro vecchie classi dirigenti impegnate nello studio e nel confronto prima che nell’apparire in televisione hanno fatto per anni, con risultati a volte negativi ma più spesso positivi.
Ma l’arancione di Pisapia colora una precisa scelta politica, quella di un rinnovato municipalismo che aveva come riferimento le esperienze dei sindaci socialisti e riformisti di Milano la cui essenza era, come diceva il sindaco Caldara, nel riconoscimento che il Comune, nel rapporto con lo Stato, fosse come la cellula nel corpo umano e che la forza della cellula derivava prevalentemente dalla sua capacità autonoma di fornire servizi pubblici. In questo l’assonanza con le tesi di don Sturzo e del federalismo cattolico liberale sono molto strette: un altro segnale politico di “ritorno”, pensando all’apporto significativo dato al cambiamento a Milano dal cardinale Tettamanzi ovvero allo straordinario “scambio” dialettico tra il sindaco Pisapia e papa Benedetto XVI a Milano in occasione dell’incontro mondiale delle famiglie.
Oggi le mutate condizioni socio-economiche richiedono forti innovazioni nel rapporto cittadini/amministrazioni pubbliche.
A Milano abbiamo incominciato a individuarle e soprattutto a praticarle, contribuendo a definire un nuovo modo di organizzare la democrazia e la partecipazione, avendo però ben chiaro l’obiettivo di ridare al Comune quel ruolo originario espropriato prima dal fascismo e poi, nella seconda metà del secolo scorso, dal crescente centralismo fiscale. Un obiettivo che non può essere conseguito solo localmente ma ha bisogno di una nuova politica nazionale.
Il movimento arancione, la “buona politica” che tutti assieme, travolgendo inutili steccati partitici, abbiamo contribuito a mettere in motto deve misurarsi con una realtà difficile e complessa come l’amministrazione di Milano, con un orizzonte proiettato sul ciclo di un quinquennio che non può essere condizionato dall’esasperazione quotidiana della verifica del livello del consenso; al tempo stesso però l’esperienza milanese è già un importante riferimento, direi quasi un indispensabile punto di ancoraggio e di speranza per l’intero Paese, quasi senza distinzione di campo politico. I tempi della politica “nazionale” non sono quelli dell’amministrazione, i rischi di una deriva del nostro Paese ai margini dell’Europa sono reali.
Non vi propongo di colorare tutti le nostre bandiere di arancione né di dare come qualcuno pensa, un nuovo nome alla “ditta” chiamandola magari “Lista Civica”.
Ma voglio farvi notare più semplicemente che l’area politica della sinistra nelle città ha trovato questa sua autorappresentazione anche simbolicamente innovativa.
Non ha molta importanza se questa simbologia riuscirà o meno ad andare oltre i confini delle aree urbane del Nord nelle quali si è sviluppata, quello che veramente conta è se la lezione, il metodo di ascolto, verifica, partecipazione e proposta, che viene dal movimento arancione riuscirà ad essere il lievito di una nuova politica di una sinistra italiana che ha un popolo ma non un suo “governo”.
Arance come falci, martelli e libri possono essere elementi di un quadro di natura morta che trova il suo giusto albergo in un museo oppure la bandiera di una politica, di un movimento, di una nuova storia che noi, nel nostro cuore, chiameremo sempre “socialismo”.
Franco D’Alfonso
Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
sabato 30 giugno 2012
Nichi Vendola: Intervento a Genova
Messaggio per il 120˚ anniversario della fondazione del Partito dei lavoratori
Carissimi compagni e carissime compagne,
l'occasione che viene proposta dal gruppo di Volpedo e dai circoli socialisti che hanno organizzato questa giornata di studi, è quantomai preziosa. Difficilmente, senza il vostro impegno, a partire da quello instancabile di Felice Besostri che mi ha così cortesemente invitato, avremmo potuto avere una sede collettiva di discussione su una data tanto gravida di conseguenze come quella della fondazione del 120˚ anniversario della fondazione del Partito dei lavoratori, che poi diede origine al Psi. Una discussione che, vista la qualificazione delle presenze sia nazionali che internazionali, ragiona in maniera non scontata sull'evoluzione di un pensiero e di una pratica politica ancora valida per i giorni nostri, non lasciando a sterili commemorazioni il compito di “imbalsamare” la storia, rendendola infeconda.
La riflessione sulle comuni origini della sinistra europea, sulle sue divisioni, debbono farci prendere parte nella elaborazione di un pensiero politico all'altezza delle sfide proposte dall'attuale fase politica e sociale nel nostro paese ed in Europa.
Siamo all'indomani di un vertice europeo che veniva atteso con speranze eccessive e che, sul piano delle risposte da dare a questa crisi, non costituisce la necessaria discontinuità rispetto alla disastrosa situazione economica e politica attuale. Ritengo insensate le politiche che hanno puntato sull'imposizione di un rigore di bilancio che ha generato l'austerity, con un aumento della pressione fiscale e un taglio consistente della spesa sociale. Per questo mi sto impegnando, tanto in Italia quanto in Europa, per far sentire la voce di quei cittadini che sono stritolati dai meccanismi creati al solo scopo di garantire le attuali rendite di posizione dei mercati finanziari. L'Europa è in crisi innanzitutto poiché non ha affrontato la crisi attuale dal punto di vista di chi stava subendo gli effetti della crisi stessa, ma adottando le priorità di chi quella crisi l'aveva generata. Penso che la crisi dell'Europa, del suo progetto originario e delle speranze che aveva acceso in tanti cittadini europei, va a braccetto con quella della sinistra.
Ci sono tre domande alle quali, ritengo, dobbiamo saper rispondere collettivamente.
“La casa brucia” si ripete da molti mesi e così appare una crisi finanziaria ed economica nel nostro paese. Noi, che siamo stati educati a fronteggiare le fiamme per salvare chi abita dentro la casa, pensiamo davvero che per spegnere l'incendio si debba seppellire di sabbia ogni cosa? Siamo sicuri che per spegnere l'incendio, attraverso l'austerity, in realtà non stiamo soffocando l'intero sistema paese, portando le politiche deflattive ad avere degli effetti recessivi se non depressivi? Penso che risalire alle origini di questa crisi, che è una crisi generata non da una “finanza impazzita”, ma da una finanza utilizzata per generare il massimo grado di disuguaglianza sociale, sia fondamentale per fare le scelte necessarie. Se la casa brucia, non si può avere il solo debito sovrano, che va ridotto, come variabile indipendente. Va piuttosto rilanciata l'economia e l'occupazione, ambientalmente sostenibile, per far crescere la ricchezza prodotta. Ma vanno anche prese misure immediate per tagliare le unghie alla speculazione finanziaria.
La seconda domanda riguarda la questione che è alla base dei sistemi di convivenza umana: chi decide? Qual è il ruolo della democrazia nel fronteggiare la crisi? Alcuni segnali, dalla cancellazione del referendum che avrebbe voluto fare Papandreu all'imposizione di un governo tecnico in Italia, fanno sempre più pensare che la gestione della crisi sia tendenzialmente a democratica. Basti pensare alla silenziosa modifica dell'articolo 81 della nostra Costituzione, introducendo il pareggio di bilancio, che determinerà le scelte fondamentali di politica economica del nostro paese. Siamo in un regime di cessione di sovranità “inconsapevole”, ovvero non controllabile dai cittadini. Penso che l'unica strada per non alimentare le pulsioni nazionaliste ed antieuropeiste, che pure stanno crescendo, sia quello di rilanciare il processo di costruzione degli Stati Uniti d'Europa. Si tratta di un impegno che non può essere preso genericamente, ma esso deve essere preceduto dalle scelte che, fin dalla prossima tornata delle elezioni europee, possano far eleggere direttamente il Presidente della Commissione ed che possano introdurre strumenti adeguati per dare un governo politico europeo che sappia guidare le politiche fiscali ed economiche per armonizzarle, a partire dal ruolo nuovo che dovrà assumere la Bce. Si tratterebbe di una cessione di sovranità “consapevole”, affidata al consenso ed alla partecipazione dei cittadini.
La terza domanda mette in campo noi. Quale sinistra di fronte alla crisi? È evidente che il cimento dei padri fondatori di 120 anni fa rende tutti noi nani sulle spalle di giganti. Eppure, il nostro posto nella storia non dovrà essere quello di chi abbia abbandonato ogni ambizione di cambiamento reale dell'esistente. La sinistra in Europa, in primo luogo, deve essere pienamente libera dai condizionamenti, dalle divisioni, dai nazionalismi e dagli egoismi. Siamo di fronte alla nostra sfida più impegnativa e per affrontarla abbiamo bisogno dell'impegno di ciascuno a lavorare insieme, non a misurare il proprio grado di consenso per tutelare solo se stessi.
Il campo socialista europeo è per noi il principale riferimento sulla scena politica continentale.Vogliamo contribuire ad un dibattito che ha il compito di mettere radicalmente in discussione ciò che è stato il quindicennio disastroso della terza via blairista. Ipnotizzate dall'ambizione di governo le classi dirigenti che hanno diretto la maggior parte dei governi negli anni '90 hanno aperto la strada alla riscossa delle destre e alla disastrosa crisi attuale. Va riscoperte l'orgoglio di dirsi socialista, ambientalista, libertario e non liberista. Va fatto con una passione civile e politica che non sopporta il piccolo cabotaggio e che mette al centro la dimensione europea, sempre più necessaria. Se un tempo era il movimento operaio ad essere internazionale ed il capitale ad essere nazionale (o peggio patriottico), oggi sono le forze che rappresentano il lavoro (tanto partitiche che sindacali) che sono strette nella ridotta nazionale, mentre il capitale è globalizzato. Solo la sinistra, per la sua storia e per la fedeltà ai propri principi, dunque, può far rinascere una dimensione europeista e di sinistra.
Sta a noi raccogliere la sfida!
Evviva il socialismo! Evviva la libertà!
Genova, 30 giugno 2012
Nichi Vendola
Carissimi compagni e carissime compagne,
l'occasione che viene proposta dal gruppo di Volpedo e dai circoli socialisti che hanno organizzato questa giornata di studi, è quantomai preziosa. Difficilmente, senza il vostro impegno, a partire da quello instancabile di Felice Besostri che mi ha così cortesemente invitato, avremmo potuto avere una sede collettiva di discussione su una data tanto gravida di conseguenze come quella della fondazione del 120˚ anniversario della fondazione del Partito dei lavoratori, che poi diede origine al Psi. Una discussione che, vista la qualificazione delle presenze sia nazionali che internazionali, ragiona in maniera non scontata sull'evoluzione di un pensiero e di una pratica politica ancora valida per i giorni nostri, non lasciando a sterili commemorazioni il compito di “imbalsamare” la storia, rendendola infeconda.
La riflessione sulle comuni origini della sinistra europea, sulle sue divisioni, debbono farci prendere parte nella elaborazione di un pensiero politico all'altezza delle sfide proposte dall'attuale fase politica e sociale nel nostro paese ed in Europa.
Siamo all'indomani di un vertice europeo che veniva atteso con speranze eccessive e che, sul piano delle risposte da dare a questa crisi, non costituisce la necessaria discontinuità rispetto alla disastrosa situazione economica e politica attuale. Ritengo insensate le politiche che hanno puntato sull'imposizione di un rigore di bilancio che ha generato l'austerity, con un aumento della pressione fiscale e un taglio consistente della spesa sociale. Per questo mi sto impegnando, tanto in Italia quanto in Europa, per far sentire la voce di quei cittadini che sono stritolati dai meccanismi creati al solo scopo di garantire le attuali rendite di posizione dei mercati finanziari. L'Europa è in crisi innanzitutto poiché non ha affrontato la crisi attuale dal punto di vista di chi stava subendo gli effetti della crisi stessa, ma adottando le priorità di chi quella crisi l'aveva generata. Penso che la crisi dell'Europa, del suo progetto originario e delle speranze che aveva acceso in tanti cittadini europei, va a braccetto con quella della sinistra.
Ci sono tre domande alle quali, ritengo, dobbiamo saper rispondere collettivamente.
“La casa brucia” si ripete da molti mesi e così appare una crisi finanziaria ed economica nel nostro paese. Noi, che siamo stati educati a fronteggiare le fiamme per salvare chi abita dentro la casa, pensiamo davvero che per spegnere l'incendio si debba seppellire di sabbia ogni cosa? Siamo sicuri che per spegnere l'incendio, attraverso l'austerity, in realtà non stiamo soffocando l'intero sistema paese, portando le politiche deflattive ad avere degli effetti recessivi se non depressivi? Penso che risalire alle origini di questa crisi, che è una crisi generata non da una “finanza impazzita”, ma da una finanza utilizzata per generare il massimo grado di disuguaglianza sociale, sia fondamentale per fare le scelte necessarie. Se la casa brucia, non si può avere il solo debito sovrano, che va ridotto, come variabile indipendente. Va piuttosto rilanciata l'economia e l'occupazione, ambientalmente sostenibile, per far crescere la ricchezza prodotta. Ma vanno anche prese misure immediate per tagliare le unghie alla speculazione finanziaria.
La seconda domanda riguarda la questione che è alla base dei sistemi di convivenza umana: chi decide? Qual è il ruolo della democrazia nel fronteggiare la crisi? Alcuni segnali, dalla cancellazione del referendum che avrebbe voluto fare Papandreu all'imposizione di un governo tecnico in Italia, fanno sempre più pensare che la gestione della crisi sia tendenzialmente a democratica. Basti pensare alla silenziosa modifica dell'articolo 81 della nostra Costituzione, introducendo il pareggio di bilancio, che determinerà le scelte fondamentali di politica economica del nostro paese. Siamo in un regime di cessione di sovranità “inconsapevole”, ovvero non controllabile dai cittadini. Penso che l'unica strada per non alimentare le pulsioni nazionaliste ed antieuropeiste, che pure stanno crescendo, sia quello di rilanciare il processo di costruzione degli Stati Uniti d'Europa. Si tratta di un impegno che non può essere preso genericamente, ma esso deve essere preceduto dalle scelte che, fin dalla prossima tornata delle elezioni europee, possano far eleggere direttamente il Presidente della Commissione ed che possano introdurre strumenti adeguati per dare un governo politico europeo che sappia guidare le politiche fiscali ed economiche per armonizzarle, a partire dal ruolo nuovo che dovrà assumere la Bce. Si tratterebbe di una cessione di sovranità “consapevole”, affidata al consenso ed alla partecipazione dei cittadini.
La terza domanda mette in campo noi. Quale sinistra di fronte alla crisi? È evidente che il cimento dei padri fondatori di 120 anni fa rende tutti noi nani sulle spalle di giganti. Eppure, il nostro posto nella storia non dovrà essere quello di chi abbia abbandonato ogni ambizione di cambiamento reale dell'esistente. La sinistra in Europa, in primo luogo, deve essere pienamente libera dai condizionamenti, dalle divisioni, dai nazionalismi e dagli egoismi. Siamo di fronte alla nostra sfida più impegnativa e per affrontarla abbiamo bisogno dell'impegno di ciascuno a lavorare insieme, non a misurare il proprio grado di consenso per tutelare solo se stessi.
Il campo socialista europeo è per noi il principale riferimento sulla scena politica continentale.Vogliamo contribuire ad un dibattito che ha il compito di mettere radicalmente in discussione ciò che è stato il quindicennio disastroso della terza via blairista. Ipnotizzate dall'ambizione di governo le classi dirigenti che hanno diretto la maggior parte dei governi negli anni '90 hanno aperto la strada alla riscossa delle destre e alla disastrosa crisi attuale. Va riscoperte l'orgoglio di dirsi socialista, ambientalista, libertario e non liberista. Va fatto con una passione civile e politica che non sopporta il piccolo cabotaggio e che mette al centro la dimensione europea, sempre più necessaria. Se un tempo era il movimento operaio ad essere internazionale ed il capitale ad essere nazionale (o peggio patriottico), oggi sono le forze che rappresentano il lavoro (tanto partitiche che sindacali) che sono strette nella ridotta nazionale, mentre il capitale è globalizzato. Solo la sinistra, per la sua storia e per la fedeltà ai propri principi, dunque, può far rinascere una dimensione europeista e di sinistra.
Sta a noi raccogliere la sfida!
Evviva il socialismo! Evviva la libertà!
Genova, 30 giugno 2012
Nichi Vendola
venerdì 29 giugno 2012
Oliviero Diliberto: Messaggio ai compagni socialisti riuniti a genova
L'anniversario della nascita del Partito dei lavoratori italiani, in seguito Psi, cade in un momento difficile e particolare per il nostro Paese, per l'Europa e per la sinistra.
Esattamente come negli anni '30 la crisi del capitalismo iniziata nel 2007-2008 negli Stati Uniti si è presto riversata sull'Europa sotto forma di crisi del debito sovrano, attraverso una gigantesca trasformazione di debito privato in debito pubblico. In altre parole, a 20 anni dal 1991, da quella che Fukuyama ha chiamato la 'fine della storia', quando ci furono decantate le virtù salvifiche del libero mercato, siamo di fronte non ad una crisi passeggera, ma siamo di fronte ad una vera e propria crisi di sistema.
Proprio in questa fase si disvelano gli equivoci e gli errori compiuti nella costruzione dell'Europa unita. La dimensione economica e monetaria ha preso il sopravvento, anzi ha di fatto sostituito la dimensione politica, debole e non autorevole. Il manifesto di Ventotene è rimasto un sogno, ed è stata costruita l'Europa delle banche e della finanza e non certo l'Europa dei popoli. L'equivoco è rimasto tale finché l'Europa ha avuto il volto di Jacques Delors e Romano Prodi, ma quest'architettura ha dimostrato il suo carattere fallimentare con il sopravvento delle destre europee, in particolare attraverso l'asse Merkel-Sarkozy.
I punti centrali per la sinistra oggi sono due: primo, 'Osare democrazia', cioè costruire un sistema politico continentale pienamente democratico, in cui tornino a contare le ragioni dei popoli. E' a rischio oggi la stessa rappresentanza democratica che abbiamo conosciuto nel '900: esattamente come lo stato sociale, che ne è stata conseguenza, espressione e principale conquista. Secondo, ricostruire un pensiero forte, che torni a misurarsi con la critica all'economia politica, e si cimenti con l'individuazione di strade diverse, eque e praticabili, per uscire da questa crisi. Le misure cosiddette di 'austerità' non sono solo profondamente inique, ma fallimentari. Ad esempio, da quando il 'governo dei professori' si è insediato, non c'è un solo indicatore economico che segni la ripresa. A dirlo non sono solo la sinistra e i comunisti, ma voci autorevolissime come quelle di Stiglitz e Krugman. Nel socialismo europeo si tornano a scorgere voci critiche sugli ultimi 20 anni, sull'accettazione acritica dello status quo. La sfida è costruire spazi di dialogo tra questa nuova consapevolezza e la sinistra che sta crescendo in tutta Europa, a partire da Francia e Grecia. Il tema del lavoro, della sua rappresentanza politica, della difesa del welfare, della costruzione della società della conoscenza in Italia e in Europa sono i temi su cui mi auguro possiamo confrontarci a breve. In fondo proprio con questo spirito 120 anni fa a Genova nasceva il Partito dei lavoratori italiani. Vi auguro il miglior successo per la vostra importante iniziativa
Oliviero Diliberto Segretario del PdCI
Esattamente come negli anni '30 la crisi del capitalismo iniziata nel 2007-2008 negli Stati Uniti si è presto riversata sull'Europa sotto forma di crisi del debito sovrano, attraverso una gigantesca trasformazione di debito privato in debito pubblico. In altre parole, a 20 anni dal 1991, da quella che Fukuyama ha chiamato la 'fine della storia', quando ci furono decantate le virtù salvifiche del libero mercato, siamo di fronte non ad una crisi passeggera, ma siamo di fronte ad una vera e propria crisi di sistema.
Proprio in questa fase si disvelano gli equivoci e gli errori compiuti nella costruzione dell'Europa unita. La dimensione economica e monetaria ha preso il sopravvento, anzi ha di fatto sostituito la dimensione politica, debole e non autorevole. Il manifesto di Ventotene è rimasto un sogno, ed è stata costruita l'Europa delle banche e della finanza e non certo l'Europa dei popoli. L'equivoco è rimasto tale finché l'Europa ha avuto il volto di Jacques Delors e Romano Prodi, ma quest'architettura ha dimostrato il suo carattere fallimentare con il sopravvento delle destre europee, in particolare attraverso l'asse Merkel-Sarkozy.
I punti centrali per la sinistra oggi sono due: primo, 'Osare democrazia', cioè costruire un sistema politico continentale pienamente democratico, in cui tornino a contare le ragioni dei popoli. E' a rischio oggi la stessa rappresentanza democratica che abbiamo conosciuto nel '900: esattamente come lo stato sociale, che ne è stata conseguenza, espressione e principale conquista. Secondo, ricostruire un pensiero forte, che torni a misurarsi con la critica all'economia politica, e si cimenti con l'individuazione di strade diverse, eque e praticabili, per uscire da questa crisi. Le misure cosiddette di 'austerità' non sono solo profondamente inique, ma fallimentari. Ad esempio, da quando il 'governo dei professori' si è insediato, non c'è un solo indicatore economico che segni la ripresa. A dirlo non sono solo la sinistra e i comunisti, ma voci autorevolissime come quelle di Stiglitz e Krugman. Nel socialismo europeo si tornano a scorgere voci critiche sugli ultimi 20 anni, sull'accettazione acritica dello status quo. La sfida è costruire spazi di dialogo tra questa nuova consapevolezza e la sinistra che sta crescendo in tutta Europa, a partire da Francia e Grecia. Il tema del lavoro, della sua rappresentanza politica, della difesa del welfare, della costruzione della società della conoscenza in Italia e in Europa sono i temi su cui mi auguro possiamo confrontarci a breve. In fondo proprio con questo spirito 120 anni fa a Genova nasceva il Partito dei lavoratori italiani. Vi auguro il miglior successo per la vostra importante iniziativa
Oliviero Diliberto Segretario del PdCI
Alfonso Gianni: Messaggio ai compagni socialisti
Carissime compagne e carissimi compagni,
la ricorrenza della nascita del Partito Socialista Italiano riguarda da vicino tutte e tutti coloro che oggi sono impegnati nella difficile opera della ricostruzione di una moderna sinistra nel nostro paese e in Europa.
Nel lontano 1892 il Partito Socialista nacque sulla spinta di una capacità di autorganizzazione del mondo del lavoro. Le leghe, le cooperative, lo sviluppo delle lotte, la partecipazione concreta e ideale a un tempo a un movimento di lotta e di emancipazione che da subito fu europeo e internazionale sono state le basi da cui nacque il Psi. In quel modo il Partito Socialista divenne la naturale guida politica di un movimento operaio che prendeva coscienza di sé. La classe in sé diventava classe per sé.
Il secolo abbondante che ci separa da allora dimostra, se ce ne fosse bisogno, che il progresso è solo un’illusione, quando non una velina ideologica per magnificare le sorti delle classi dirigenti. Infatti dopo decenni e decenni di grandi lotte, di conquiste, di vittorie, ma anche di dure sconfitte e disillusioni, ci troviamo al punto che non esiste nel nostro paese nessuna forza politica che sia in grado, per volontà e capacità, di rappresentare il lavoro.
Certamente quest’ultimo non è quello di allora. Il lavoro umano si è complessificato. E’ perfino difficile tracciare certi confini un tempo netti, come quelli tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, tra lavoro creativo e lavoro esecutivo, tra lavoro professionalizzato e lavoro povero, tra lavoro autonomo e lavoro dipendente, tra lavoro stabile e lavoro precario. Le classi dirigenti hanno fatto di tutto non solo per dividere il mondo del lavoro, per sminuzzarlo sia politicamente, sia sindacalmente, sia giuridicamente, ma anche per contrapporne una parte all’altra.
Tuttavia non rinascerà una sinistra in questo nostro paese se non partendo dalla capacità di rappresentare politicamente le istanze del mondo del lavoro in tutte le sue variegate forme. Per questo la ricostruzione della sinistra va di pari passo con la capacità di affinare la critica del capitalismo e di prospettare il suo superamento e con la presenza attiva nei movimenti reali che vogliono un’alternativa di società.
Come vedete non ho messo aggettivi al termine sinistra. Non ne ha bisogno. Le divisioni del passato, quelle tra comunisti e socialisti, fra riformisti e rivoluzionari, fra partitisti e movimentisti non possono essere forse dimenticate né abiurate, ma vanno con decisione superate, perché oggi non hanno senso alcuno.
Ha senso invece riprendere i grandi temi della trasformazione sociale in un mondo globalizzato, come garantire la pace e allo stesso tempo la possibilità di cambiare la società, come coniugare la ricerca di eguaglianza con le tante diversità esistenti, come tradurre in termini non appiattiti il principio dell’equità, come esaltare e realizzare la giustizia sociale e allo stesso tempo la libertà delle persone, la libertà positiva, quella che non solo le difende dalla oppressione ma permette la piena realizzazione di sé stessi.
Per questo, guardando al duro presente e al futuro, ha senso riflettere sulle proprie radici, così come voi state facendo in questo momento.
Alfonso Gianni
la ricorrenza della nascita del Partito Socialista Italiano riguarda da vicino tutte e tutti coloro che oggi sono impegnati nella difficile opera della ricostruzione di una moderna sinistra nel nostro paese e in Europa.
Nel lontano 1892 il Partito Socialista nacque sulla spinta di una capacità di autorganizzazione del mondo del lavoro. Le leghe, le cooperative, lo sviluppo delle lotte, la partecipazione concreta e ideale a un tempo a un movimento di lotta e di emancipazione che da subito fu europeo e internazionale sono state le basi da cui nacque il Psi. In quel modo il Partito Socialista divenne la naturale guida politica di un movimento operaio che prendeva coscienza di sé. La classe in sé diventava classe per sé.
Il secolo abbondante che ci separa da allora dimostra, se ce ne fosse bisogno, che il progresso è solo un’illusione, quando non una velina ideologica per magnificare le sorti delle classi dirigenti. Infatti dopo decenni e decenni di grandi lotte, di conquiste, di vittorie, ma anche di dure sconfitte e disillusioni, ci troviamo al punto che non esiste nel nostro paese nessuna forza politica che sia in grado, per volontà e capacità, di rappresentare il lavoro.
Certamente quest’ultimo non è quello di allora. Il lavoro umano si è complessificato. E’ perfino difficile tracciare certi confini un tempo netti, come quelli tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, tra lavoro creativo e lavoro esecutivo, tra lavoro professionalizzato e lavoro povero, tra lavoro autonomo e lavoro dipendente, tra lavoro stabile e lavoro precario. Le classi dirigenti hanno fatto di tutto non solo per dividere il mondo del lavoro, per sminuzzarlo sia politicamente, sia sindacalmente, sia giuridicamente, ma anche per contrapporne una parte all’altra.
Tuttavia non rinascerà una sinistra in questo nostro paese se non partendo dalla capacità di rappresentare politicamente le istanze del mondo del lavoro in tutte le sue variegate forme. Per questo la ricostruzione della sinistra va di pari passo con la capacità di affinare la critica del capitalismo e di prospettare il suo superamento e con la presenza attiva nei movimenti reali che vogliono un’alternativa di società.
Come vedete non ho messo aggettivi al termine sinistra. Non ne ha bisogno. Le divisioni del passato, quelle tra comunisti e socialisti, fra riformisti e rivoluzionari, fra partitisti e movimentisti non possono essere forse dimenticate né abiurate, ma vanno con decisione superate, perché oggi non hanno senso alcuno.
Ha senso invece riprendere i grandi temi della trasformazione sociale in un mondo globalizzato, come garantire la pace e allo stesso tempo la possibilità di cambiare la società, come coniugare la ricerca di eguaglianza con le tante diversità esistenti, come tradurre in termini non appiattiti il principio dell’equità, come esaltare e realizzare la giustizia sociale e allo stesso tempo la libertà delle persone, la libertà positiva, quella che non solo le difende dalla oppressione ma permette la piena realizzazione di sé stessi.
Per questo, guardando al duro presente e al futuro, ha senso riflettere sulle proprie radici, così come voi state facendo in questo momento.
Alfonso Gianni
Alberto Benzoni: Venti anni perduti
VENTI ANNI PERDUTI
Di Alberto Benzoni
Qualche anno fa, alla vigilia delle elezioni del 2008, venne chiesto a Veltroni (o a chi per lui) perché mai i socialisti- dopo, tutto rappresentanti in Italia del partito socialista europeo- fossero stati discriminati da un Pd che pure aveva fatto un’eccezione alla sua pretesa di autosufficienza alleandosi con Di Pietro. Una curiosità del tutto informale che fu soddisfatta altrettanto informalmente: “perché sono irrilevanti”, questa la risposta.
Irrilevanti, anzi oggettivamente irrilevanti, eravamo dunque allora; e agli occhi di osservatori attenti. Ma irrilevanti siamo stati anche prima e dopo, lungo tutto il ventennio della seconda repubblica. Ma per colpa di chi o di che cosa? E’ curioso che, almeno tra di noi, nessuno si sia posto veramente questo problema: tutti a chiedersi, tra falsi rimorsi e veri rimpianti, perché eravamo crollati; nessuno che si chiedesse perché non eravamo risorti.
Pure, fare i conti con il passato è essenziale per costruire un qualche futuro. E il vostro appuntamento di Genova è l’occasione ideale per questo esercizio politico-intellettuale.
Penso, per quanto mi riguarda, che il “male oscuro”di cui soffriamo, quello che non ci fa uscire dal tunnel in cui ci troviamo, risieda fuori di noi: che abbia a che fare, insomma, non solo con l’eredità craxiana o con gli errori o le piccole viltà di piccole classi dirigenti, quanto, e soprattutto, con la vera e propria catastrofe politico-intellettuale che ha colpito il nostro paese- e con esso la “cosa socialista”- dagli anni novanta in poi.
Certo, la crisi del socialismo o, più esattamente, del modello socialdemocratico, è stata un fenomeno generale ed epocale, in tutto il mondo sviluppato. E si può certamente sostenere, come mi pare voi sosteniate, che questa crisi abbia colpito anche la “coscienza di sé”del movimento socialista: in un processo di revisionismo, riguardo ai mezzi, che rischia di trasformarsi progressivamente in rinuncia a perseguire i fini.
Ora, ecco il punto decisivo, l’Italia è stata, forse o senza forse, il luogo in cui questo processo vizioso è giunto ai suoi limiti estremi. Così si è cominciato con il constatare che lo Stato non disponeva più delle risorse per sostenere un “welfare universale”; per chiudere, modello diciannovesimo secolo, con l’assistenza ai bisognosi pagata dai ceti a reddito fisso. Ancora, si è percepita la difficoltà di garantire una politica di piena occupazione; per chiudere con l’invito alla guerra dei non garantiti contro i garantiti. E, infine, si sono denunciati gli scarsi risultati delle politiche meridionaliste; per chiudere con la liquidazione della questione meridionale e degli stessi meridionali in termini che non sarebbero dispiaciuti a Cesare Lombroso.
Insomma, mentre in altri paesi europei, l’aggiornamento, giusto o sbagliato che fosse, ha lasciato intatti protagonisti, strumenti, istituzioni e finalità della socialdemocrazia reale, in Italia questi sono stati oggetto di una condanna preventiva e senza appello che ha cancellato il Nome perché ha travolto la Cosa. Con il risultato di registrare, lungo l’arco di questi ultimi decenni, un deterioramento, anch’esso senza corrispettivi in altri paesi in Europa delle condizioni di vita e degli spazi di democrazia per la generalità degli italiani.
Oggi, regnano, insieme, il malcontento per lo stato di cose esistente e la più grande confusione sulle responsabilità e i rimedi. E ciò favorisce l’azione di coloro che hanno costruito a loro immagine e somiglianza il disastro della seconda repubblica e che oggi premono per la distruzione completa del sistema politico, sociale e istituzionale su cui è stata fondata la Repubblica.
Ma è proprio nei momenti di crisi che si impara a fare i conti con il passato e a costruire, su nuove basi, “sensi comuni”e cioè nuove coscienze collettive. Nel caso nostro, il compito non è quello di propagandare un Nome, un Partito, una Sigla, un Riferimento internazionale; ma di riaffermare, concretamente, nell’azione politica, sociale e culturale, l’attualità della Cosa.
Sapete, come e meglio di qualsiasi altro, che l’emergere di nuovi orizzonti e di nuove mentalità è uno dei fenomeni più eccitanti ma anche misteriosi della storia. Un percorso da costruire senza che nessuno sia titolare di mappe particolari, di materiali e di conoscenze particolari, e che è dunque il frutto di mille circostanze e di mille iniziative particolari. Occorrono però, questo sì, persone e gruppi intenzionati, costi quello che costi, a intraprendere il viaggio, a cercare, senza pregiudiziali sorta, chi è disposto a intraprendere lo stesso cammino e a individuare la strada da percorrere
Non si intraprende impunemente la celebrazione del nostro passato se non si è convinti del nostro futuro.
Mi congratulo dunque per questa vostra speranza e vi faccio i miei migliori auguri. Potete accettarli di buon grado. Tanto più che vengono da una persona “diversamente giovane”; una fascia di età forse indifferente al futuro ma drammaticamente attaccata a ciò che lascia dietro di sé.
Di Alberto Benzoni
Qualche anno fa, alla vigilia delle elezioni del 2008, venne chiesto a Veltroni (o a chi per lui) perché mai i socialisti- dopo, tutto rappresentanti in Italia del partito socialista europeo- fossero stati discriminati da un Pd che pure aveva fatto un’eccezione alla sua pretesa di autosufficienza alleandosi con Di Pietro. Una curiosità del tutto informale che fu soddisfatta altrettanto informalmente: “perché sono irrilevanti”, questa la risposta.
Irrilevanti, anzi oggettivamente irrilevanti, eravamo dunque allora; e agli occhi di osservatori attenti. Ma irrilevanti siamo stati anche prima e dopo, lungo tutto il ventennio della seconda repubblica. Ma per colpa di chi o di che cosa? E’ curioso che, almeno tra di noi, nessuno si sia posto veramente questo problema: tutti a chiedersi, tra falsi rimorsi e veri rimpianti, perché eravamo crollati; nessuno che si chiedesse perché non eravamo risorti.
Pure, fare i conti con il passato è essenziale per costruire un qualche futuro. E il vostro appuntamento di Genova è l’occasione ideale per questo esercizio politico-intellettuale.
Penso, per quanto mi riguarda, che il “male oscuro”di cui soffriamo, quello che non ci fa uscire dal tunnel in cui ci troviamo, risieda fuori di noi: che abbia a che fare, insomma, non solo con l’eredità craxiana o con gli errori o le piccole viltà di piccole classi dirigenti, quanto, e soprattutto, con la vera e propria catastrofe politico-intellettuale che ha colpito il nostro paese- e con esso la “cosa socialista”- dagli anni novanta in poi.
Certo, la crisi del socialismo o, più esattamente, del modello socialdemocratico, è stata un fenomeno generale ed epocale, in tutto il mondo sviluppato. E si può certamente sostenere, come mi pare voi sosteniate, che questa crisi abbia colpito anche la “coscienza di sé”del movimento socialista: in un processo di revisionismo, riguardo ai mezzi, che rischia di trasformarsi progressivamente in rinuncia a perseguire i fini.
Ora, ecco il punto decisivo, l’Italia è stata, forse o senza forse, il luogo in cui questo processo vizioso è giunto ai suoi limiti estremi. Così si è cominciato con il constatare che lo Stato non disponeva più delle risorse per sostenere un “welfare universale”; per chiudere, modello diciannovesimo secolo, con l’assistenza ai bisognosi pagata dai ceti a reddito fisso. Ancora, si è percepita la difficoltà di garantire una politica di piena occupazione; per chiudere con l’invito alla guerra dei non garantiti contro i garantiti. E, infine, si sono denunciati gli scarsi risultati delle politiche meridionaliste; per chiudere con la liquidazione della questione meridionale e degli stessi meridionali in termini che non sarebbero dispiaciuti a Cesare Lombroso.
Insomma, mentre in altri paesi europei, l’aggiornamento, giusto o sbagliato che fosse, ha lasciato intatti protagonisti, strumenti, istituzioni e finalità della socialdemocrazia reale, in Italia questi sono stati oggetto di una condanna preventiva e senza appello che ha cancellato il Nome perché ha travolto la Cosa. Con il risultato di registrare, lungo l’arco di questi ultimi decenni, un deterioramento, anch’esso senza corrispettivi in altri paesi in Europa delle condizioni di vita e degli spazi di democrazia per la generalità degli italiani.
Oggi, regnano, insieme, il malcontento per lo stato di cose esistente e la più grande confusione sulle responsabilità e i rimedi. E ciò favorisce l’azione di coloro che hanno costruito a loro immagine e somiglianza il disastro della seconda repubblica e che oggi premono per la distruzione completa del sistema politico, sociale e istituzionale su cui è stata fondata la Repubblica.
Ma è proprio nei momenti di crisi che si impara a fare i conti con il passato e a costruire, su nuove basi, “sensi comuni”e cioè nuove coscienze collettive. Nel caso nostro, il compito non è quello di propagandare un Nome, un Partito, una Sigla, un Riferimento internazionale; ma di riaffermare, concretamente, nell’azione politica, sociale e culturale, l’attualità della Cosa.
Sapete, come e meglio di qualsiasi altro, che l’emergere di nuovi orizzonti e di nuove mentalità è uno dei fenomeni più eccitanti ma anche misteriosi della storia. Un percorso da costruire senza che nessuno sia titolare di mappe particolari, di materiali e di conoscenze particolari, e che è dunque il frutto di mille circostanze e di mille iniziative particolari. Occorrono però, questo sì, persone e gruppi intenzionati, costi quello che costi, a intraprendere il viaggio, a cercare, senza pregiudiziali sorta, chi è disposto a intraprendere lo stesso cammino e a individuare la strada da percorrere
Non si intraprende impunemente la celebrazione del nostro passato se non si è convinti del nostro futuro.
Mi congratulo dunque per questa vostra speranza e vi faccio i miei migliori auguri. Potete accettarli di buon grado. Tanto più che vengono da una persona “diversamente giovane”; una fascia di età forse indifferente al futuro ma drammaticamente attaccata a ciò che lascia dietro di sé.
Francesco Bochicchio: Le società di rating e la finanza internazionale
LE SOCIETA’ DI “RATING”
E LA FINANZA INTERNAZIONALE: DOV’E’ L’ABUSO
di FRANCESCO BOCHICCHIO
La Procura di Trani ha prospettato l’ipotesi di aggiotaggio per le società di “rating” che hanno portato, con le loro valutazioni negative, l’Italia (e stesso discorso vale per Grecia e Portogallo) sull’orlo del “default”. Il Tribunale non ha seguito, allo stato attuale,la Procura, ma la semplice prospettazione del reato è bastata a Alessandro De Nicola, autorevolissimo esponente liberale, ora financo commentatore di Repubblica, nell’ambito della tendenza,in contro-tendenza (e si chiede scusa per il bisticcio di parole)rispetto all’Europa, che vede la sinistra diventare sempre più liberale, per lamentarsi di certe iniziative giudiziarie antagoniste rispetto al mercato, idonee a gettare l’Italia nel ridicolo. Ma le cose stanno veramente così? Gli operatori economici nello svolgimento dei loro compiti istituzionali devono essere per antonomasia al di fuori dell’intervento penale, salvo specifico abuso? De Nicola è persona competente ed autorevole e intellettualmente raffinata: è consapevole dei limiti della regolamentazione delle società di “rating”, dei loro conflitti di interessi e dei loro abusi, quindi non solo della necessità di una congrua regolamentazione ma anche di sanzioni adeguate e rigorose, ma senza creare commistioni tra diritto penale e attività economica con sovrapposizione della valutazione del giudice a quella economica e con invasione da parte del primo nella sfera dell’operatore, il che sarebbe inevitabile quando si ricorre non a reati “ad hoc” ma a fattispecie penalistiche generali previste per tutt’altra ipotesi, quale, come nel caso dell’aggiotaggio, la tutela delle corrette negoziazioni di mercato. De Nicola trascura un punto fondamentale: le agenzie di “rating” sono in odore di conflitto di interessi con le “merchant bank” internazionali , queste scatenate nella conclusione, nei mercati di investimento finanziario, dei contratti derivati , che sono la categoria più rischiosa di investimenti finanziari. Gli strumenti derivati hanno ad oggetto beni od entità finanziarie o reali esterne al contratto e sono eseguiti con il pagamento del differenziale della quotazione alla data di esecuzione: possono essere di copertura o speculativi a seconda che i beni di cui al contratto siano o no nel patrimonio dell’investitore; nel caso di investimenti speculativi, il rischio di perdita può essere anche superiore e di molto, per l’effetto leva, al patrimonio conferito dal cliente all’intermediario. La speculazione è ritenuta meritevole di tutela dall’ordinamento in quanto può essere di sostegno ai mercati: appena entrata in vigore la prima normativa italiana organica di regolamentazione dei mercati finanziari e delle attività economiche ivi svolte (l. n. 1/91), alcune sentenze di merito milanesi negarono protezione alla pretesa dell’intermediario di ottenere l’esecuzione della prestazione del cliente in perdita per i derivati speculativi, alla luce del ricorso da parte del cliente stesso all’eccezione di gioco e scommessa: il problema fu subito chiarito a livello normativo, evidenziando l’impossibilità di utilizzare tale eccezione contro l’intermediario finanziario, che infatti svolge un’attività per antonomasia protetta. Ciò detto in astratto, le carte sono state scombinate in quattro e quattr’otto: il ricorso ai derivati speculativi è diventato abnorme, preponderante nell’ambito delle attività finanziarie “tout court”, le quali sono a loro volta preponderanti rispetto alle attività reali. Così operando, le banche d’affari internazionali hanno trascinato l’intero occidente nella crisi del 2008, la più devastante di tutte, nonostante le apparenze anche di quella del ’29 del secolo scorso, costringendo l’erario americano a correre in loro soccorso, con un esborso straordinario: dopo sono riuscite, con la loro forza, a bloccare ogni tentativo di riforma, per riprendere imperterrite nella loro azione in grado di portare la finanza speculativa a fagocitare l’economia mondiale. Ma non solo, adesso hanno impiegato la finanza speculativa, anche per tramare contro gli Stati sovrani deboli: hanno stipulato in massa e in quantità abnormi “credit defaul swap”, “cds”, strumenti derivati di credito, che la migliore dottrina (Emilio Girino) ritiene non rientrare nella categoria dei derivanti, in quanto mancanti del differenziale, ma adesso per legge qualificati come derivati (in Italia dal 2007). I cds sono contratti con cui un soggetto vende ad un altro la garanzia del credito: hanno natura assicurativa, ma il diritto assicurativo prevede che non ci si possa assicurare per un valore superiore al proprio rischio (di qui il divieto di assicurarsi sulla vita di altro non consenziente, come immortalato dai “noir” americani); pertanto, la copertura poteva essere acquistata solo da chi deteneva il credito in portafoglio; facendo rientrare i “cds” nei derivati, si consente l’acquisto della protezione a chi non ha il titolo in portafoglio scommettendo e speculando contro il debitore, con effetti abnormi nel caso di debito pubblico. Le società di “rating” che danno voti pessimi in pagella agli Stati deboli oggetto della speculazione delle banche d’affari con cui sono oggettivamente collegate (le banche d’affari insolventi nel 2008 godevano, al momento del tracollo, del miglior “rating” possibile), effettuano, male, la loro attività di valutazione economica o partecipano a un disegno illecito? E più in genere: le banche d’affari che scatenano i mercati contro gli Stati sovrani esercitano sempre un’attività protetta o esorbitano dal loro ambito per esercitare un’attività che è un “quid novi”, un qualcosa di abnorme e spaventoso? Come si può ritenere che si rientri in un ambito di economia ordinaria, in cui l’attività è sottratta al giudice penale? Chi scrive è garantista e quindi fermamente contrario a scorciatoie in materia penale, ma è chiaro che il problema sollevato dal Pretore di Trani merita profonda riflessione
E LA FINANZA INTERNAZIONALE: DOV’E’ L’ABUSO
di FRANCESCO BOCHICCHIO
La Procura di Trani ha prospettato l’ipotesi di aggiotaggio per le società di “rating” che hanno portato, con le loro valutazioni negative, l’Italia (e stesso discorso vale per Grecia e Portogallo) sull’orlo del “default”. Il Tribunale non ha seguito, allo stato attuale,la Procura, ma la semplice prospettazione del reato è bastata a Alessandro De Nicola, autorevolissimo esponente liberale, ora financo commentatore di Repubblica, nell’ambito della tendenza,in contro-tendenza (e si chiede scusa per il bisticcio di parole)rispetto all’Europa, che vede la sinistra diventare sempre più liberale, per lamentarsi di certe iniziative giudiziarie antagoniste rispetto al mercato, idonee a gettare l’Italia nel ridicolo. Ma le cose stanno veramente così? Gli operatori economici nello svolgimento dei loro compiti istituzionali devono essere per antonomasia al di fuori dell’intervento penale, salvo specifico abuso? De Nicola è persona competente ed autorevole e intellettualmente raffinata: è consapevole dei limiti della regolamentazione delle società di “rating”, dei loro conflitti di interessi e dei loro abusi, quindi non solo della necessità di una congrua regolamentazione ma anche di sanzioni adeguate e rigorose, ma senza creare commistioni tra diritto penale e attività economica con sovrapposizione della valutazione del giudice a quella economica e con invasione da parte del primo nella sfera dell’operatore, il che sarebbe inevitabile quando si ricorre non a reati “ad hoc” ma a fattispecie penalistiche generali previste per tutt’altra ipotesi, quale, come nel caso dell’aggiotaggio, la tutela delle corrette negoziazioni di mercato. De Nicola trascura un punto fondamentale: le agenzie di “rating” sono in odore di conflitto di interessi con le “merchant bank” internazionali , queste scatenate nella conclusione, nei mercati di investimento finanziario, dei contratti derivati , che sono la categoria più rischiosa di investimenti finanziari. Gli strumenti derivati hanno ad oggetto beni od entità finanziarie o reali esterne al contratto e sono eseguiti con il pagamento del differenziale della quotazione alla data di esecuzione: possono essere di copertura o speculativi a seconda che i beni di cui al contratto siano o no nel patrimonio dell’investitore; nel caso di investimenti speculativi, il rischio di perdita può essere anche superiore e di molto, per l’effetto leva, al patrimonio conferito dal cliente all’intermediario. La speculazione è ritenuta meritevole di tutela dall’ordinamento in quanto può essere di sostegno ai mercati: appena entrata in vigore la prima normativa italiana organica di regolamentazione dei mercati finanziari e delle attività economiche ivi svolte (l. n. 1/91), alcune sentenze di merito milanesi negarono protezione alla pretesa dell’intermediario di ottenere l’esecuzione della prestazione del cliente in perdita per i derivati speculativi, alla luce del ricorso da parte del cliente stesso all’eccezione di gioco e scommessa: il problema fu subito chiarito a livello normativo, evidenziando l’impossibilità di utilizzare tale eccezione contro l’intermediario finanziario, che infatti svolge un’attività per antonomasia protetta. Ciò detto in astratto, le carte sono state scombinate in quattro e quattr’otto: il ricorso ai derivati speculativi è diventato abnorme, preponderante nell’ambito delle attività finanziarie “tout court”, le quali sono a loro volta preponderanti rispetto alle attività reali. Così operando, le banche d’affari internazionali hanno trascinato l’intero occidente nella crisi del 2008, la più devastante di tutte, nonostante le apparenze anche di quella del ’29 del secolo scorso, costringendo l’erario americano a correre in loro soccorso, con un esborso straordinario: dopo sono riuscite, con la loro forza, a bloccare ogni tentativo di riforma, per riprendere imperterrite nella loro azione in grado di portare la finanza speculativa a fagocitare l’economia mondiale. Ma non solo, adesso hanno impiegato la finanza speculativa, anche per tramare contro gli Stati sovrani deboli: hanno stipulato in massa e in quantità abnormi “credit defaul swap”, “cds”, strumenti derivati di credito, che la migliore dottrina (Emilio Girino) ritiene non rientrare nella categoria dei derivanti, in quanto mancanti del differenziale, ma adesso per legge qualificati come derivati (in Italia dal 2007). I cds sono contratti con cui un soggetto vende ad un altro la garanzia del credito: hanno natura assicurativa, ma il diritto assicurativo prevede che non ci si possa assicurare per un valore superiore al proprio rischio (di qui il divieto di assicurarsi sulla vita di altro non consenziente, come immortalato dai “noir” americani); pertanto, la copertura poteva essere acquistata solo da chi deteneva il credito in portafoglio; facendo rientrare i “cds” nei derivati, si consente l’acquisto della protezione a chi non ha il titolo in portafoglio scommettendo e speculando contro il debitore, con effetti abnormi nel caso di debito pubblico. Le società di “rating” che danno voti pessimi in pagella agli Stati deboli oggetto della speculazione delle banche d’affari con cui sono oggettivamente collegate (le banche d’affari insolventi nel 2008 godevano, al momento del tracollo, del miglior “rating” possibile), effettuano, male, la loro attività di valutazione economica o partecipano a un disegno illecito? E più in genere: le banche d’affari che scatenano i mercati contro gli Stati sovrani esercitano sempre un’attività protetta o esorbitano dal loro ambito per esercitare un’attività che è un “quid novi”, un qualcosa di abnorme e spaventoso? Come si può ritenere che si rientri in un ambito di economia ordinaria, in cui l’attività è sottratta al giudice penale? Chi scrive è garantista e quindi fermamente contrario a scorciatoie in materia penale, ma è chiaro che il problema sollevato dal Pretore di Trani merita profonda riflessione
giovedì 28 giugno 2012
mercoledì 27 giugno 2012
Enrique Baron Crespo: Europa en el mundo del G-20
Europa en el mundo del G 20
Biblioteca Palafoxiana
Colegio de Puebla
20 de junio 2012
Enrique Barón Crespo
Agradecer esta invitación tripartita de la Secretaria General Iberoamericana (SEGIB), el Gobierno del Estado de Puebla y el Colegio de Puebla, eficazmente organizada por D. Miguel Hakim Simón para dictar esta conferencia sobre “Europa en el mundo del G 20” en el solemne marco de la Biblioteca Palafoxiana, Patrimonio de la Humanidad. Obra del obispo Juan Palafox y Mendoza, importante personaje en la Historia de la Nueva España al que incluí en un libro sobre la época entre Europa y América cuya redacción entretenía mis noches de hotel de Eurodiputado. También Palafox recorrió tierras europeas como confesor de Ana de Austria, hermana de Felipe IV y madre de Luis XIV.
No es mi propósito platicar sobre historia, pero convendrán conmigo que estamos en un momento en que se cruzan muchos acontecimientos históricos: el bicentenario de la independencia de México, con tantos otros países en lo que fue la América Española, el primer proceso de emancipación política con valores modernos en la historia a escala de un continente al que he dedicado mi ensayo “Las Américas insurgentes”, con su paralelo acceso de España a la modernidad en la Constitución de Cádiz, vigente en estas tierras en las que participaron algunos de sus próceres, como Jose Miguel Guridi y Alcocer, que estudió en esta casa y fue Presidente tanto de las Cortes de Cádiz como del Congreso Constituyente Mexicano o Lucas Alamán, con similar trayectoria,
Este mes se ha firmado la constitución de la Alianza del Pacífico como organización subregional americana y se acaba de celebrar la Cumbre del G 20 en Los Cabos. Precisamente, esta reunión es la mejor introducción para hablar del momento actual de Europa, de su crisis y de su salida.
Para introducir el tema, me permitirán que comience con un recuerdo-homenaje a un gran mexicano que acaba de dejarnos: Carlos Fuentes. Hace ahora casi 20 años, iniciamos un diálogo con motivo de la publicación de otro ensayo mío “Europa en el alba del milenio” cuyo prologo le solicité. Desde entonces, cuando nos veíamos a ambos lados del charco, Carlos siempre me comentaba o preguntaba sobre la construcción europea. Permítanme resumir las tesis fundamentales de su visión de Europa: retomando un ejemplo de mi libro, comparaba nuestra construcción política con la de una catedral que “puede tardar” y recordaba la pérdida de la unidad romana (hace 2.000 años teníamos una Union Europea política, económica y monetaria, ciudadanía incluida). Afirmaba el surgimiento del derecho internacional, precisamente en relación con América a partir del debate Sepúlveda-Las Casas para, acto seguido, mencionar el proyecto de comunidad hispánica del Conde de Aranda y preguntarse ¿podremos recuperar nuestro tiempo perdido con España mediante Europa y con Europa mediante España?
Su respuesta inmediata era que “la unidad de Europa, por todo ello, tiene una importancia capital para Latinoamérica”, tras vivir juntos el año admirable de 1989, que llevó precisamente al nacimiento de la Unión Europea. En el libro yo contaba precisamente como viví y participé en calidad de Presidente del Parlamento Europeo el paso de la Comunidad a la Unión Europea desde la caída del muro de Berlín hasta el Tratado de Maastricht, concebida como una Unión Política, Económica y Monetaria fundamentada sobre la ciudadanía común y la moneda única. En paralelo, “en América Latina, la celebración de los triunfos de la democracia y prematuramente, de la economía de mercado”, con “el modelo supuestamente universal con que se nos ha encajonado en América latina”. En su argumentación llamaba la atención sobre el modelo europeo como economía social de mercado y su mayor eficacia y sobre el federalismo a partir del debate del Federalista en la creación de los Estados Unidos. Concluía con un mensaje cargado de actualidad: “federalismo europeo y federalismo latinoamericano, acaso, a partir de esta experiencia paralela, logremos reunirnos muy de acuerdo con Einstein, donde las líneas paralelas convergen…” Un colofón oportuno para los teóricos de la globalización actual, “ las hermosas y proféticas palabras del Inca Garcilaso de la Vega:” Mundo solo hay uno”.
Permítanme detenerme en este punto porque si bien es cierto que la década perdida de América Latina no lo fue para la democratización, no es menos cierto que entonces la aplicación de la terapias del consenso de Washington a la crisis económica- los efectos tequila en México, tango en Argentina, los tigres del sudeste asiático – colocaron a su país y a gran parte del mundo en una aguda crisis.
Dos lecciones se pueden extraer de esta experiencia útiles para la situación actual: a pesar de su menor grado de integración, la gestión de la salida de la crisis financiera se hizo con un elevado grado de solidaridad e inteligencia como nos recuerda a los europeos con razón Enrique V. Iglesias que la vivió en directo; la segunda es que la humillación ante las imposiciones de las potencias capitalistas del G 7 generaron una sana reacción que en menos de 20 años ha llevado al G 20 actual. Los países afectados aprendieron la lección, sanearon sus finanzas y acumularon reservas de divisas incluido el € además del $.
El G 20 es un Club que nació precisamente de las reuniones de los ministros de Hacienda y los banqueros centrales para tratar de la deuda. Pues bien, este foro de un grupo de países que concentra 2/3 de la población y el comercio mundial y un 90 % del producto, se ha convertido en menos de 10 años en el gran protagonista de la historia
En el 20 Aniversario de la caída del muro de Berlín, el nuevo multilateralismo no es simplemente una apelación de moda. Basta un simple vistazo a la agenda de la Presidencia Mexicana en la cumbre de Los Cabos para comprenderlo: estabilidad económica y reformas estructurales para el crecimiento y el empleo, mejora de la arquitectura financiera internacional, promover la seguridad alimentaria y frenar la volatilidad de la materias primas, alentar el desarrollo sustentable ( y sostenible) con impulso al crecimiento verde y enfrentar el cambio climático. Una agenda muy europea.
Tras la implosión de la URSS, el triunfo del capitalismo liberal como modelo incuestionable parecía asegurado, con los EE.UU. como potencia unipolar. Era, para algunos, el fin de la historia. Sin embargo, esta se ha acelerado espectacularmente con cambios geopolíticos de envergadura tectónica.
También para los europeos de la actual UE, que a mitad del siglo pasado representábamos el 25 % de la población mundial y ahora somos apenas el 7 %. Ciertamente, seguimos siendo la primera potencia comercial con un 20% del total, mantenemos en una relación equilibrada con el resto del mundo y hemos creado el €, la segunda moneda de reserva en la que se hacen un 40 % de las emisiones de deuda,. Nos consideramos un poder blando, “softpower” más próximo de Venus que del Marte de nuestros pasados imperialismos. Han desaparecido los mercados cautivos por la generalización en el dominio de las tecnologías productivas y de comunicación. El mayor productor de acero actual es indio y el de PCs, chino. La globalización es una realidad para bienes y servicios, que se negocia en el marco de la OMC en la inacabable Ronda de Doha. Es especialmente salvaje en el terreno financiero, como hemos tenido ocasión de sufrirlo en carne propia.
Tras los ataques del 11 S y los que siguieron en Madrid, Londres, Bali… que cambiaron la historia a comienzos de siglo, superado el frenesí pretoriano unilateral de la Aministración Bush Jr., en la que estalló la crisis, la propuesta de Obama de G 2 en Pekín mostró un nuevo estado de cosas: el deudor es el capitalista y el acreedor el comunista. En esta situación la pregunta básica es como se organizará la gobernanza mundial. El nuevo multilateralismo ¿será una Santa Alianza o actuará dentro de la lógica de las Naciones Unidas?
En sí, el G 20 no es un nuevo orden mundial, sino un exclusivo Club creado entre países autoconvocados por autoproclamarse como potencias necesarias para decidir sobre el destino del planeta a partir de su peso político, económico y demográfico. De modo fulgurante, ha desplazado al anterior club del G 7 de las democracias capitalistas desarrolladas occidentales. Su membresía es: en América los EE.UU., Canadá, más tres países iberoamericanos (México, Brasil y Argentina); en Europa (Alemania, Francia, Reino Unido, Italia, la Comisión Europea y el Presidente del Consejo Europeo); en Asia, además de Turquía, Japón, Corea del Sur y Arabia Saudita, retornan al primer plano de la escena India y China; por África se incorporan, Egipto y Sudáfrica ; por Oceanía, Indonesia y Australia. España y Holanda asisten como invitadas. También participan organizaciones como el FMI, el Banco Mundial, el Consejo de Estabilidad Financiera, la OMC y la OIT, relevantes a la hora de definir y gestionar la agenda.
Hoy, algunos de los pacientes de la purga de los 90 están en el G 20, Sin embargo, el G 20 no ha sido muy eficaz a la hora de prever y gestionar la crisis desencadenada en el corazón mismo del mundo capitalista desarrollado, el sistema financiero en EE.UU. Reaccionó en las cumbres de emergencia de Washington, Londres y Pittsburgh, aunque cuando el peligro se aleja, parece relajarse la tensión.
Con todo, el G 20 no es un nuevo orden mundial sino un foro de discusión sin base jurídica constituyente ni medios propios. De hecho, los únicos instrumentos operativos de que dispone son las organizaciones especializadas como el FMI, el Banco Mundial o la OMC por lo que solo podrá afianzar su legitimidad en la medida en que se articule con el sistema de las Naciones Unidas. En sus resoluciones, que tienden a emular las del Consejo Europeo tanto por el número de participantes como por lo abstruso y genérico, lo concreto es asignar tareas a estas organizaciones
La limitación de este enfoque en relación a lo que puede representar la UE como proyecto de gobernanza regional con vocación global proviene de su misma esencia. Se parte de que cada uno de los miembros participa porque tiene su propia casa en orden y negocia con los demás para defender sus intereses, no en función de un interés común. Y como decía Jean Monnet, existe una diferencia abismal entre negociar entre partes y hacer frente a un problema en común.
Pasemos ahora a Europa y su crisis. Para introducir el tema, citaré de nuevo a Jean Monnet, el vendedor de coñac francés que con perseverancia coordinó la logística aliada en las dos guerras mundiales y fue el impulsor decisivo de la Declaración Schuman “Por una Federación Europea” de 1950. «Siempre pensé que Europa se haría entre crisis y que sería la suma de las soluciones que diéramos a estas crisis». Reflexiones utópicas entonces, hoy en día parte de nuestra vida cotidiana.
En cuanto a las crisis, permítanme una breve digresión etimológica “crisis” viene del verbo griego que significa decidir, por eso lo utilizamos para expresar mutaciones importantes en la vida del ser humano (crisis de pubertad, madurez, senectud). El ideograma chino para designar la crisis indica oportunidad en su parte superior y riesgo en la inferior. La cuestión es saber tomar decisiones a tiempo.
El dilema esencial de la Unión Europea hoy consiste en elegir entre romper la Unión monetaria o reforzarla con una mayor unión económica y fiscal. Optar por la segunda solución requiere avanzar en la Unión política, lo cual plantea la salida de la crisis como un desafío democrático. La historia enseña que no hay uniones monetarias duraderas si no se traducen en uniones políticas. También que la democracia, creada en la Atenas de hace dos mil quinientos años, es más actual que nunca, lo cual no conlleva pagar derechos de autor a sus descendientes por usar palabras griegas para debatir nuestra situación: economía, democracia crisis, y… ¡ caos ¡. Si forma parte de su identidad como pueblo el mensaje siempre actual contenido en el Elogio Fúnebre de Pericles a los caídos en la guerra del Peloponeso: “Tenemos un régimen político que no se propone como modelo las leyes de los vecinos, sino que más bien es él modelo para otros. Y su nombre, como las cosas dependen no de una minoría, sino de la mayoría es democracia”. Esta frase abría el texto de la Constitución europea aprobado por la Convención. Otra podría ser el lema del G 20 “ A causa de su grandeza entran en nuestra ciudad toda clase de productos desde toda la tierra, y nos acontece que disfrutamos los bienes que aquí se producen para deleite propio, no menos que los bienes de los demás hombres”. También es actual la descripción que hacían los griegos clásicos del dinero: “tiene corazón de conejo y patas de liebre”.
Resulta un tanto ridículo pretender que una Unión de 27 estados y 500 millones de ciudadanos se vea abocada al desastre por la situación de un país de 11 millones de ciudadanos que supone el 2 % de su producto. Los griegos actuales acaban de ratificar su voluntad de ser miembros de la UE por abrumadora mayoría. El debate está en los esfuerzos que deben hacer para cumplir con sus compromisos. También los demás debemos contribuir, incluidos los Bancos alemanes, franceses u otros que han sacado jugosos y seguros réditos de invertir en su deuda.
Los datos fundamentales de la economía europea sobre endeudamiento y competitividad están entre los mejores del G 20. La prueba es que a pesar de los mercados, algunos Premios Nobel (con Robert Mundell y Thomas Sargent como defensores del Euro) y los medios al borde del ataque de nervios. el euro funciona y sigue sobrevaluado a pesar de su reciente baja. Gestionado, por cierto, por una institución federal, el Banco Central Europeo (BC), a la altura de las circunstancias en medio de tanta turbulencia. El debate entre dos ilustres miembros de su Consejo es ilustrativo de cómo salir de la crisis: el añorado itálico Tomasso Padoa Schioppa defendía la necesidad de la unión política para asegurar la solidez de la moneda única frente a lo cual el riguroso teutón Otmar Issing respondía que de acuerdo, pero que había que tirar para adelante sin ella. Ambos tenían razón.
En el fondo, el debate sobre la Federación europea se inició con la aventura comunitaria y está abierto desde Maastricht con el salto al Euro y la ciudadanía. Poner en común una moneda significa dar un paso cotidiano federativo fundamental concretado en la creación del Banco Central que entonces no se vio acompañado por un paso político paralelo. Ciertamente, el éxito de la Unión monetaria ayudó a comportamientos de cigarra en algunos países mientras los alemanes financiaban la reunificación y reestructuraban su industria como hormigas. El resultado es que son los primeros beneficiarios del mercado interior.
El caso de España es ilustrativo: un país que utilizó bien su plan Marshall europeo y cumplió regularmente con las condiciones del Pacto de Estabilidad hasta la crisis. Al mismo tiempo, aumentó su población de 40 a 47 millones de habitantes en apenas 7 años (2000/7), sobre todo por la inmigración extracomunitaria, construyendo tantas viviendas cada año como Alemania, Francia e Italia juntas por la espectacular bajada del precio del dinero, gracias precisamente a la Unión Monetaria que desplazó ahorro de Alemania a España. Proceso que llevó a un desmesurado endeudamiento privado, fomentado por el sistema financiero y en especial por algunas cajas de ahorro. El problema se planteó con el frenazo que supuso la crisis y la lógica pretensión de los inversores externos de recobrar su dinero.
La burbuja inmobiliaria no ha sido un fenómeno específicamente español. La han vivido en estos años Estados Unidos, Irlanda, Gran Bretaña y Francia. El problema ha sido su dimensión, probablemente solo superada en el G 20 por China con su acelerado y gigantesco proceso de urbanización. El problema de fondo de este tipo de procesos es que “cuando la construcción va, todo va”, como dicen los franceses. Hay actividad, grúas y edificios que surgen del suelo a la vez que se crea en la sociedad un clima de enriquecimiento colectivo con proyectos faraónicos de urbanizaciones y fraccionamientos para los promotores o la ilusión de hacer negocio para los adquirentes con solo contraer una hipoteca. Incluso la atracción de buenos sueldos multiplicó el abandono escolar de jóvenes que ahora vuelven a los estudios.
Por otra parte, la gestión de la crisis europea se ha caracterizado por la sistemática adopción de decisiones tardías en relación con los problemas, generando un continuo agravamiento de la misma. Las cosas iban tan bien que no parecía necesario reforzar la Union Económica y menos aún debatir sobre la Unión Política, actitud de bloqueo compartida por los Estados miembros en el debate constitucional. Hubo oídos sordos a las advertencias de Jacques Delors, arquitecto del proceso, de que había que aplicar y desarrollar las normas establecidas en Maastricht. Cuando llegaron las vacas flacas, la cuestión de cómo repartir las cargas, es decir la solidaridad y la defensa del activo común, se empezaron a acumular los problemas.
La UE funciona sobre la base de unas instituciones que parecían eclipsadas por el método intergubernamental propugnado en la escena de la playa de Deauville en octubre de 2010. Resultó sorprendente la propuesta de la Canciller Merkel de introducir el método de la Unión como alternativo al comunitario, posición más comprensible en el caso del soberanista Presidente Sarkozy. Su esencia era aplicar la terapia de la austeridad para pagar los excesos pasados sobre todo entre los países llamados periféricos. Su razón era la penitencia del riesgo moral para los protestantes o del pecado mortal para los católicos, confesiones que se reparten la población alemana.
En la disyuntiva tratamiento de choque o terapia prolongada, el tratamiento fue optar por la vía ortopédica. Desde el comienzo de la crisis, esta terapia ha sido intensa con participación de las instituciones comunitarias: semestre europeo, con orientaciones presupuestarias comunes para los Estados miembros; pacto “euro plus” para reforzar la coordinación de sus políticas económicas; paquete de 6 leyes para asegurar un mayor nivel de vigilancia y coordinación y medidas de saneamiento de la banca, insuficientes en opinión de Gordon Brown. Sobre todo, la creación del Fondo de Estabilidad Financiera (FESF), utilizado en los rescates de Grecia, Irlanda y Portugal, cuya dotación se ha elevado a un billón de €. El próximo 1 julio entrará en vigor el Mecanismo Europeo de Estabilidad (MES)
Tras muchas vicisitudes, se aprobó en diciembre de 2011 el Pacto fiscal como modificación del Tratado de Lisboa. El llamado Tratado de Estabilidad, coordinación y gobernanza en la Unión Económica y Monetaria fue firmado por 25 de los 27 Estados miembros, nació por tanto con el defecto congénito de no ser un Tratado comunitario al no hacerlo Gran Bretaña y la República Checa. En esencia, refuerza y actualiza reglas existentes desde Maastricht. Tiene el valor de suponer un propósito de la enmienda de los dos países que más contribuyeron a hacer saltar el anterior Tratado de estabilidad, Alemania y Francia.
La negociación del Pacto fiscal consistió en esencia en tratar de hacer compatible un Tratado intergubernamental con el marco comunitario existente. Situación parecida a la del viajero que se encuentra con que el enchufe de su computadora no es compatible en otro país. La negociación entre Gobiernos, Comisión y un activo Parlamento Europeo consiguió introducir criterios de crecimiento: reforzamiento del Eurogrupo e integración del pacto fiscal en el marco comunitario en el plazo de cinco años,
Con todo, la modificación más importante, sin duda, es fijar su entrada en vigor el próximo 1 de enero si 12 Estados de la zona euro lo han ratificado. Esto significa el fin de la unanimidad, es decir del veto que ha convertido la ratificación de los Tratados en rehén al albur de lo que decida el más reticente o remolón.
De hecho, equivale al paso que se dio en la ratificación de la Constitución de Estados Unidos, planteando su entrada en vigor si dos tercios de los Estados la ratificaban, proporción similar. La batalla la ganó el Federalista, la magnifica serie de artículos de Publius en el Estado de Nueva York. Su autor principal fue Alexander Hamilton. Después, como primer Secretario del Tesoro con Washington puso en pie el sistema fiscal, asumió las deudas de guerra de las 13 colonias, creó y emitió bonos federales con interés más bajo, fundó el primer Banco federal y la Ceca para acuñar moneda y definió el dólar en 1792 sobre la base del “spanish milled dollar”, el peso español y más tarde mexicano que tuvieron curso legal en EE.UU. hasta 1857. Existió, pues, una Unión monetaria EE.UU- México aunque la evolución de las respectivas deudas fue muy diferente: en el caso mexicano la deuda perpetua condicionó hasta 1880 al país, hasta el punto de que su pago fue motivo de la invasión por potencias europeas -Gran Bretaña, Francia y España- en una desgraciada aventura que había de rematar Napoleón III con el Imperio de Maximiliano.
Sin negar que la ortopedia más la cirugía podrían ser útiles a largo plazo, el problema actual que nos sitúa al borde del abismo es más bien el infarto circulatorio, que debe ser atacado prioritariamente para que el organismo sobreviva. Si las decisiones del Consejo Europeo duran sólo hasta la apertura al día siguiente de los mercados de capitales, es que el tratamiento no es lo suficientemente enérgico. Permítanme decirlo con la autorizada opinión de un paisano suyo, D. Guillermo Ortiz que gestionó la crisis mexicana de 1994/96. “En una crisis financiera, el objetivo central es evitar que un problema de percepción se convierta en un problema de liquidez y este, a su vez, en un problema de solvencia. La respuesta: “diseñar un programa que esté excedido tanto en las medidas de ajuste como en el financiamiento disponible” (Alejar el espectro de la intervención, El País, 8/6/12). Es mejor pasarse que quedarse corto.
El problema principal de la gestión de la crisis europea es precisamente el rezago y la timidez en tomar medidas. No basta con criticar la perversidad de las agencias de calificación, aves carroñeras que se alimentan de sus clientes, o quejarse de los mercados. Sobre todo, cuando los datos fundamentales de la economía europea son mejores en conjunto que los de nuestros socios y competidores.
El problema no es de solvencia, es de liquidez. La decisión del Consejo de que el Banco Central preste a los bancos a tres años para tratar de ayudar al sistema circulatorio es buena. Pero si ese dinero se pone a renta fija, los bancos no se prestan entre ellos y no circula el crédito, sangre de la economía, no hay recuperación posible.
Tenemos una Unión monetaria federal, necesitamos con urgencia una Unión bancaria y un salto federal en la Unión Política. En la Federación a medio hacer en Europa, hay voces como el Ministro Schaüble que proponen el salto federal. Parece haber convencido a la Canciller Merkel. El Consejo de Sabios alemán, citando a Hamilton, ha propuesto la mutualización de la deuda por encima del 60% en un fondo de amortización con condiciones. La Comisión está trabajando en la propuesta de eurobonos, así como el Parlamento Europeo. Algunos proponemos desde hace tiempo este instrumento como forma de cooperación reforzada y arma solidaria. Su creación permitiría que el pacto fiscal sea de verdad compacto, con un Tesoro europeo y tipos de interés razonables.
Estos temas no se resuelven solo a nivel europeo. Las grandes decisiones como la solidaridad, el freno a la deuda o el impuesto sobre transacciones financieras necesitan la ratificación de los Parlamentos nacionales. No son decisiones que puedan ni deban ser tomadas sin más por funcionarios, analistas o mercados de la noche a la mañana. Un elemento clave de la democracia es que no se pueden imponer gravámenes sin que los representantes elegidos del pueblo los aprueben. En la historia, la defensa de este principio, consagrado en la Atenas de Pericles, ha estado en el origen de grandes revoluciones. En la Europa actual tal regla de oro se debe aplicar también.
Tras las elecciones presidenciales francesas de mayo de este año, el diunvirato Merkel-Sarkozy pertenece a la Historia y ahora el debate impulsado por el Presidente Hollande es austeridad más crecimiento.
Es de esperar que el próximo Consejo Europeo los días 28 y 29 de junio adopte medidas decisivas para sacar a Europa del atolladero. Una parte significativa de sus mismos ha participado en la cumbre del G 20 de Los Cabos y ha podido comprobar cómo la situación europea está en el centro de la atención.
Los Presidentes del Consejo Van Rompuy y de la Comisión Barroso, representaron a la UE y fijaron la posición europea en Carta del 25 de mayo pasado en relación con el orden del día propuesto por la Presidencia Mexicana, haciendo hincapié en la necesidad de hacer oír un mensaje firme y creíble sobre el crecimiento”, y “ un mayor compromiso y acción concretada por parte de todos los miembros del G 20”.
Además de la sintonía con la Presidencia Mexicana, especialmente por su protagonismo en un tema tan sensible para Europa como el cambio climático, cabe destacar como puntos fuertes: Una respuesta global a la deuda soberana, la salvaguardia de la estabilidad financiera con la voluntad de que Grecia permanezca en la zona euro, respetando sus compromisos , una política de crecimiento con fomento de inversiones en el mercado único con refuerzo del Banco Europeo de Inversiones (BEI) y los bonos de proyectos ( variante de los eurobonos), la lucha contra el desempleo juvenil, el mensaje a Estados Unidos y Japón para que apliquen planes a medio plazo de consolidación presupuestaria y la preocupación por el acantilado presupuestario norteamericano, (para que no se convierta en despeñadero), y a China para que establezca redes de seguridad social, reformas y liberalización del remimbi, el importante papel del comercio el fortalecimiento del FMI y el avance en la reforma de la regulación del sector financiero, así como garantizar la seguridad alimentaria en el mundo.
Las conclusiones más relevantes de la cumbre de la cumbre son su apuesta por el crecimiento y el apoyo al libre comercio, que son afirmaciones de principios compartidos por todos y que para no quedarse en meras proclamas deben verse contrastadas por la práctica. En efecto, los firmantes de esta declaración son responsables de un 80% de medidas proteccionistas, la Ronda de Doha sigue pendiente de cerrarse y la cumbre de Rio +2 no se anuncia con buenas perspectivas. Más concretos y precisos son tanto el aumento de recursos del FMI en 450 mil millones de $ como el llamamiento a la Unión Europea para que supere su crisis, con especial énfasis en el caso de España.
Permítanme, para concluir volver a la profética definición del Inca Garcilaso de la Vega tras vivir en los dos hemisferios: “Mundo solo hay uno”. Ahora está más de moda “la aldea global” de Mc Luhan. Lo que estamos haciendo los europeos con la construcción de la Unión “no es ni más (ni menos) que un estadio intermedio hacia un gobierno mundial” como afirmó Monnet. ¿Es aventurado preguntarse si plataformas como el G 20 son nuevos escalones en este noble camino?
Biblioteca Palafoxiana
Colegio de Puebla
20 de junio 2012
Enrique Barón Crespo
Agradecer esta invitación tripartita de la Secretaria General Iberoamericana (SEGIB), el Gobierno del Estado de Puebla y el Colegio de Puebla, eficazmente organizada por D. Miguel Hakim Simón para dictar esta conferencia sobre “Europa en el mundo del G 20” en el solemne marco de la Biblioteca Palafoxiana, Patrimonio de la Humanidad. Obra del obispo Juan Palafox y Mendoza, importante personaje en la Historia de la Nueva España al que incluí en un libro sobre la época entre Europa y América cuya redacción entretenía mis noches de hotel de Eurodiputado. También Palafox recorrió tierras europeas como confesor de Ana de Austria, hermana de Felipe IV y madre de Luis XIV.
No es mi propósito platicar sobre historia, pero convendrán conmigo que estamos en un momento en que se cruzan muchos acontecimientos históricos: el bicentenario de la independencia de México, con tantos otros países en lo que fue la América Española, el primer proceso de emancipación política con valores modernos en la historia a escala de un continente al que he dedicado mi ensayo “Las Américas insurgentes”, con su paralelo acceso de España a la modernidad en la Constitución de Cádiz, vigente en estas tierras en las que participaron algunos de sus próceres, como Jose Miguel Guridi y Alcocer, que estudió en esta casa y fue Presidente tanto de las Cortes de Cádiz como del Congreso Constituyente Mexicano o Lucas Alamán, con similar trayectoria,
Este mes se ha firmado la constitución de la Alianza del Pacífico como organización subregional americana y se acaba de celebrar la Cumbre del G 20 en Los Cabos. Precisamente, esta reunión es la mejor introducción para hablar del momento actual de Europa, de su crisis y de su salida.
Para introducir el tema, me permitirán que comience con un recuerdo-homenaje a un gran mexicano que acaba de dejarnos: Carlos Fuentes. Hace ahora casi 20 años, iniciamos un diálogo con motivo de la publicación de otro ensayo mío “Europa en el alba del milenio” cuyo prologo le solicité. Desde entonces, cuando nos veíamos a ambos lados del charco, Carlos siempre me comentaba o preguntaba sobre la construcción europea. Permítanme resumir las tesis fundamentales de su visión de Europa: retomando un ejemplo de mi libro, comparaba nuestra construcción política con la de una catedral que “puede tardar” y recordaba la pérdida de la unidad romana (hace 2.000 años teníamos una Union Europea política, económica y monetaria, ciudadanía incluida). Afirmaba el surgimiento del derecho internacional, precisamente en relación con América a partir del debate Sepúlveda-Las Casas para, acto seguido, mencionar el proyecto de comunidad hispánica del Conde de Aranda y preguntarse ¿podremos recuperar nuestro tiempo perdido con España mediante Europa y con Europa mediante España?
Su respuesta inmediata era que “la unidad de Europa, por todo ello, tiene una importancia capital para Latinoamérica”, tras vivir juntos el año admirable de 1989, que llevó precisamente al nacimiento de la Unión Europea. En el libro yo contaba precisamente como viví y participé en calidad de Presidente del Parlamento Europeo el paso de la Comunidad a la Unión Europea desde la caída del muro de Berlín hasta el Tratado de Maastricht, concebida como una Unión Política, Económica y Monetaria fundamentada sobre la ciudadanía común y la moneda única. En paralelo, “en América Latina, la celebración de los triunfos de la democracia y prematuramente, de la economía de mercado”, con “el modelo supuestamente universal con que se nos ha encajonado en América latina”. En su argumentación llamaba la atención sobre el modelo europeo como economía social de mercado y su mayor eficacia y sobre el federalismo a partir del debate del Federalista en la creación de los Estados Unidos. Concluía con un mensaje cargado de actualidad: “federalismo europeo y federalismo latinoamericano, acaso, a partir de esta experiencia paralela, logremos reunirnos muy de acuerdo con Einstein, donde las líneas paralelas convergen…” Un colofón oportuno para los teóricos de la globalización actual, “ las hermosas y proféticas palabras del Inca Garcilaso de la Vega:” Mundo solo hay uno”.
Permítanme detenerme en este punto porque si bien es cierto que la década perdida de América Latina no lo fue para la democratización, no es menos cierto que entonces la aplicación de la terapias del consenso de Washington a la crisis económica- los efectos tequila en México, tango en Argentina, los tigres del sudeste asiático – colocaron a su país y a gran parte del mundo en una aguda crisis.
Dos lecciones se pueden extraer de esta experiencia útiles para la situación actual: a pesar de su menor grado de integración, la gestión de la salida de la crisis financiera se hizo con un elevado grado de solidaridad e inteligencia como nos recuerda a los europeos con razón Enrique V. Iglesias que la vivió en directo; la segunda es que la humillación ante las imposiciones de las potencias capitalistas del G 7 generaron una sana reacción que en menos de 20 años ha llevado al G 20 actual. Los países afectados aprendieron la lección, sanearon sus finanzas y acumularon reservas de divisas incluido el € además del $.
El G 20 es un Club que nació precisamente de las reuniones de los ministros de Hacienda y los banqueros centrales para tratar de la deuda. Pues bien, este foro de un grupo de países que concentra 2/3 de la población y el comercio mundial y un 90 % del producto, se ha convertido en menos de 10 años en el gran protagonista de la historia
En el 20 Aniversario de la caída del muro de Berlín, el nuevo multilateralismo no es simplemente una apelación de moda. Basta un simple vistazo a la agenda de la Presidencia Mexicana en la cumbre de Los Cabos para comprenderlo: estabilidad económica y reformas estructurales para el crecimiento y el empleo, mejora de la arquitectura financiera internacional, promover la seguridad alimentaria y frenar la volatilidad de la materias primas, alentar el desarrollo sustentable ( y sostenible) con impulso al crecimiento verde y enfrentar el cambio climático. Una agenda muy europea.
Tras la implosión de la URSS, el triunfo del capitalismo liberal como modelo incuestionable parecía asegurado, con los EE.UU. como potencia unipolar. Era, para algunos, el fin de la historia. Sin embargo, esta se ha acelerado espectacularmente con cambios geopolíticos de envergadura tectónica.
También para los europeos de la actual UE, que a mitad del siglo pasado representábamos el 25 % de la población mundial y ahora somos apenas el 7 %. Ciertamente, seguimos siendo la primera potencia comercial con un 20% del total, mantenemos en una relación equilibrada con el resto del mundo y hemos creado el €, la segunda moneda de reserva en la que se hacen un 40 % de las emisiones de deuda,. Nos consideramos un poder blando, “softpower” más próximo de Venus que del Marte de nuestros pasados imperialismos. Han desaparecido los mercados cautivos por la generalización en el dominio de las tecnologías productivas y de comunicación. El mayor productor de acero actual es indio y el de PCs, chino. La globalización es una realidad para bienes y servicios, que se negocia en el marco de la OMC en la inacabable Ronda de Doha. Es especialmente salvaje en el terreno financiero, como hemos tenido ocasión de sufrirlo en carne propia.
Tras los ataques del 11 S y los que siguieron en Madrid, Londres, Bali… que cambiaron la historia a comienzos de siglo, superado el frenesí pretoriano unilateral de la Aministración Bush Jr., en la que estalló la crisis, la propuesta de Obama de G 2 en Pekín mostró un nuevo estado de cosas: el deudor es el capitalista y el acreedor el comunista. En esta situación la pregunta básica es como se organizará la gobernanza mundial. El nuevo multilateralismo ¿será una Santa Alianza o actuará dentro de la lógica de las Naciones Unidas?
En sí, el G 20 no es un nuevo orden mundial, sino un exclusivo Club creado entre países autoconvocados por autoproclamarse como potencias necesarias para decidir sobre el destino del planeta a partir de su peso político, económico y demográfico. De modo fulgurante, ha desplazado al anterior club del G 7 de las democracias capitalistas desarrolladas occidentales. Su membresía es: en América los EE.UU., Canadá, más tres países iberoamericanos (México, Brasil y Argentina); en Europa (Alemania, Francia, Reino Unido, Italia, la Comisión Europea y el Presidente del Consejo Europeo); en Asia, además de Turquía, Japón, Corea del Sur y Arabia Saudita, retornan al primer plano de la escena India y China; por África se incorporan, Egipto y Sudáfrica ; por Oceanía, Indonesia y Australia. España y Holanda asisten como invitadas. También participan organizaciones como el FMI, el Banco Mundial, el Consejo de Estabilidad Financiera, la OMC y la OIT, relevantes a la hora de definir y gestionar la agenda.
Hoy, algunos de los pacientes de la purga de los 90 están en el G 20, Sin embargo, el G 20 no ha sido muy eficaz a la hora de prever y gestionar la crisis desencadenada en el corazón mismo del mundo capitalista desarrollado, el sistema financiero en EE.UU. Reaccionó en las cumbres de emergencia de Washington, Londres y Pittsburgh, aunque cuando el peligro se aleja, parece relajarse la tensión.
Con todo, el G 20 no es un nuevo orden mundial sino un foro de discusión sin base jurídica constituyente ni medios propios. De hecho, los únicos instrumentos operativos de que dispone son las organizaciones especializadas como el FMI, el Banco Mundial o la OMC por lo que solo podrá afianzar su legitimidad en la medida en que se articule con el sistema de las Naciones Unidas. En sus resoluciones, que tienden a emular las del Consejo Europeo tanto por el número de participantes como por lo abstruso y genérico, lo concreto es asignar tareas a estas organizaciones
La limitación de este enfoque en relación a lo que puede representar la UE como proyecto de gobernanza regional con vocación global proviene de su misma esencia. Se parte de que cada uno de los miembros participa porque tiene su propia casa en orden y negocia con los demás para defender sus intereses, no en función de un interés común. Y como decía Jean Monnet, existe una diferencia abismal entre negociar entre partes y hacer frente a un problema en común.
Pasemos ahora a Europa y su crisis. Para introducir el tema, citaré de nuevo a Jean Monnet, el vendedor de coñac francés que con perseverancia coordinó la logística aliada en las dos guerras mundiales y fue el impulsor decisivo de la Declaración Schuman “Por una Federación Europea” de 1950. «Siempre pensé que Europa se haría entre crisis y que sería la suma de las soluciones que diéramos a estas crisis». Reflexiones utópicas entonces, hoy en día parte de nuestra vida cotidiana.
En cuanto a las crisis, permítanme una breve digresión etimológica “crisis” viene del verbo griego que significa decidir, por eso lo utilizamos para expresar mutaciones importantes en la vida del ser humano (crisis de pubertad, madurez, senectud). El ideograma chino para designar la crisis indica oportunidad en su parte superior y riesgo en la inferior. La cuestión es saber tomar decisiones a tiempo.
El dilema esencial de la Unión Europea hoy consiste en elegir entre romper la Unión monetaria o reforzarla con una mayor unión económica y fiscal. Optar por la segunda solución requiere avanzar en la Unión política, lo cual plantea la salida de la crisis como un desafío democrático. La historia enseña que no hay uniones monetarias duraderas si no se traducen en uniones políticas. También que la democracia, creada en la Atenas de hace dos mil quinientos años, es más actual que nunca, lo cual no conlleva pagar derechos de autor a sus descendientes por usar palabras griegas para debatir nuestra situación: economía, democracia crisis, y… ¡ caos ¡. Si forma parte de su identidad como pueblo el mensaje siempre actual contenido en el Elogio Fúnebre de Pericles a los caídos en la guerra del Peloponeso: “Tenemos un régimen político que no se propone como modelo las leyes de los vecinos, sino que más bien es él modelo para otros. Y su nombre, como las cosas dependen no de una minoría, sino de la mayoría es democracia”. Esta frase abría el texto de la Constitución europea aprobado por la Convención. Otra podría ser el lema del G 20 “ A causa de su grandeza entran en nuestra ciudad toda clase de productos desde toda la tierra, y nos acontece que disfrutamos los bienes que aquí se producen para deleite propio, no menos que los bienes de los demás hombres”. También es actual la descripción que hacían los griegos clásicos del dinero: “tiene corazón de conejo y patas de liebre”.
Resulta un tanto ridículo pretender que una Unión de 27 estados y 500 millones de ciudadanos se vea abocada al desastre por la situación de un país de 11 millones de ciudadanos que supone el 2 % de su producto. Los griegos actuales acaban de ratificar su voluntad de ser miembros de la UE por abrumadora mayoría. El debate está en los esfuerzos que deben hacer para cumplir con sus compromisos. También los demás debemos contribuir, incluidos los Bancos alemanes, franceses u otros que han sacado jugosos y seguros réditos de invertir en su deuda.
Los datos fundamentales de la economía europea sobre endeudamiento y competitividad están entre los mejores del G 20. La prueba es que a pesar de los mercados, algunos Premios Nobel (con Robert Mundell y Thomas Sargent como defensores del Euro) y los medios al borde del ataque de nervios. el euro funciona y sigue sobrevaluado a pesar de su reciente baja. Gestionado, por cierto, por una institución federal, el Banco Central Europeo (BC), a la altura de las circunstancias en medio de tanta turbulencia. El debate entre dos ilustres miembros de su Consejo es ilustrativo de cómo salir de la crisis: el añorado itálico Tomasso Padoa Schioppa defendía la necesidad de la unión política para asegurar la solidez de la moneda única frente a lo cual el riguroso teutón Otmar Issing respondía que de acuerdo, pero que había que tirar para adelante sin ella. Ambos tenían razón.
En el fondo, el debate sobre la Federación europea se inició con la aventura comunitaria y está abierto desde Maastricht con el salto al Euro y la ciudadanía. Poner en común una moneda significa dar un paso cotidiano federativo fundamental concretado en la creación del Banco Central que entonces no se vio acompañado por un paso político paralelo. Ciertamente, el éxito de la Unión monetaria ayudó a comportamientos de cigarra en algunos países mientras los alemanes financiaban la reunificación y reestructuraban su industria como hormigas. El resultado es que son los primeros beneficiarios del mercado interior.
El caso de España es ilustrativo: un país que utilizó bien su plan Marshall europeo y cumplió regularmente con las condiciones del Pacto de Estabilidad hasta la crisis. Al mismo tiempo, aumentó su población de 40 a 47 millones de habitantes en apenas 7 años (2000/7), sobre todo por la inmigración extracomunitaria, construyendo tantas viviendas cada año como Alemania, Francia e Italia juntas por la espectacular bajada del precio del dinero, gracias precisamente a la Unión Monetaria que desplazó ahorro de Alemania a España. Proceso que llevó a un desmesurado endeudamiento privado, fomentado por el sistema financiero y en especial por algunas cajas de ahorro. El problema se planteó con el frenazo que supuso la crisis y la lógica pretensión de los inversores externos de recobrar su dinero.
La burbuja inmobiliaria no ha sido un fenómeno específicamente español. La han vivido en estos años Estados Unidos, Irlanda, Gran Bretaña y Francia. El problema ha sido su dimensión, probablemente solo superada en el G 20 por China con su acelerado y gigantesco proceso de urbanización. El problema de fondo de este tipo de procesos es que “cuando la construcción va, todo va”, como dicen los franceses. Hay actividad, grúas y edificios que surgen del suelo a la vez que se crea en la sociedad un clima de enriquecimiento colectivo con proyectos faraónicos de urbanizaciones y fraccionamientos para los promotores o la ilusión de hacer negocio para los adquirentes con solo contraer una hipoteca. Incluso la atracción de buenos sueldos multiplicó el abandono escolar de jóvenes que ahora vuelven a los estudios.
Por otra parte, la gestión de la crisis europea se ha caracterizado por la sistemática adopción de decisiones tardías en relación con los problemas, generando un continuo agravamiento de la misma. Las cosas iban tan bien que no parecía necesario reforzar la Union Económica y menos aún debatir sobre la Unión Política, actitud de bloqueo compartida por los Estados miembros en el debate constitucional. Hubo oídos sordos a las advertencias de Jacques Delors, arquitecto del proceso, de que había que aplicar y desarrollar las normas establecidas en Maastricht. Cuando llegaron las vacas flacas, la cuestión de cómo repartir las cargas, es decir la solidaridad y la defensa del activo común, se empezaron a acumular los problemas.
La UE funciona sobre la base de unas instituciones que parecían eclipsadas por el método intergubernamental propugnado en la escena de la playa de Deauville en octubre de 2010. Resultó sorprendente la propuesta de la Canciller Merkel de introducir el método de la Unión como alternativo al comunitario, posición más comprensible en el caso del soberanista Presidente Sarkozy. Su esencia era aplicar la terapia de la austeridad para pagar los excesos pasados sobre todo entre los países llamados periféricos. Su razón era la penitencia del riesgo moral para los protestantes o del pecado mortal para los católicos, confesiones que se reparten la población alemana.
En la disyuntiva tratamiento de choque o terapia prolongada, el tratamiento fue optar por la vía ortopédica. Desde el comienzo de la crisis, esta terapia ha sido intensa con participación de las instituciones comunitarias: semestre europeo, con orientaciones presupuestarias comunes para los Estados miembros; pacto “euro plus” para reforzar la coordinación de sus políticas económicas; paquete de 6 leyes para asegurar un mayor nivel de vigilancia y coordinación y medidas de saneamiento de la banca, insuficientes en opinión de Gordon Brown. Sobre todo, la creación del Fondo de Estabilidad Financiera (FESF), utilizado en los rescates de Grecia, Irlanda y Portugal, cuya dotación se ha elevado a un billón de €. El próximo 1 julio entrará en vigor el Mecanismo Europeo de Estabilidad (MES)
Tras muchas vicisitudes, se aprobó en diciembre de 2011 el Pacto fiscal como modificación del Tratado de Lisboa. El llamado Tratado de Estabilidad, coordinación y gobernanza en la Unión Económica y Monetaria fue firmado por 25 de los 27 Estados miembros, nació por tanto con el defecto congénito de no ser un Tratado comunitario al no hacerlo Gran Bretaña y la República Checa. En esencia, refuerza y actualiza reglas existentes desde Maastricht. Tiene el valor de suponer un propósito de la enmienda de los dos países que más contribuyeron a hacer saltar el anterior Tratado de estabilidad, Alemania y Francia.
La negociación del Pacto fiscal consistió en esencia en tratar de hacer compatible un Tratado intergubernamental con el marco comunitario existente. Situación parecida a la del viajero que se encuentra con que el enchufe de su computadora no es compatible en otro país. La negociación entre Gobiernos, Comisión y un activo Parlamento Europeo consiguió introducir criterios de crecimiento: reforzamiento del Eurogrupo e integración del pacto fiscal en el marco comunitario en el plazo de cinco años,
Con todo, la modificación más importante, sin duda, es fijar su entrada en vigor el próximo 1 de enero si 12 Estados de la zona euro lo han ratificado. Esto significa el fin de la unanimidad, es decir del veto que ha convertido la ratificación de los Tratados en rehén al albur de lo que decida el más reticente o remolón.
De hecho, equivale al paso que se dio en la ratificación de la Constitución de Estados Unidos, planteando su entrada en vigor si dos tercios de los Estados la ratificaban, proporción similar. La batalla la ganó el Federalista, la magnifica serie de artículos de Publius en el Estado de Nueva York. Su autor principal fue Alexander Hamilton. Después, como primer Secretario del Tesoro con Washington puso en pie el sistema fiscal, asumió las deudas de guerra de las 13 colonias, creó y emitió bonos federales con interés más bajo, fundó el primer Banco federal y la Ceca para acuñar moneda y definió el dólar en 1792 sobre la base del “spanish milled dollar”, el peso español y más tarde mexicano que tuvieron curso legal en EE.UU. hasta 1857. Existió, pues, una Unión monetaria EE.UU- México aunque la evolución de las respectivas deudas fue muy diferente: en el caso mexicano la deuda perpetua condicionó hasta 1880 al país, hasta el punto de que su pago fue motivo de la invasión por potencias europeas -Gran Bretaña, Francia y España- en una desgraciada aventura que había de rematar Napoleón III con el Imperio de Maximiliano.
Sin negar que la ortopedia más la cirugía podrían ser útiles a largo plazo, el problema actual que nos sitúa al borde del abismo es más bien el infarto circulatorio, que debe ser atacado prioritariamente para que el organismo sobreviva. Si las decisiones del Consejo Europeo duran sólo hasta la apertura al día siguiente de los mercados de capitales, es que el tratamiento no es lo suficientemente enérgico. Permítanme decirlo con la autorizada opinión de un paisano suyo, D. Guillermo Ortiz que gestionó la crisis mexicana de 1994/96. “En una crisis financiera, el objetivo central es evitar que un problema de percepción se convierta en un problema de liquidez y este, a su vez, en un problema de solvencia. La respuesta: “diseñar un programa que esté excedido tanto en las medidas de ajuste como en el financiamiento disponible” (Alejar el espectro de la intervención, El País, 8/6/12). Es mejor pasarse que quedarse corto.
El problema principal de la gestión de la crisis europea es precisamente el rezago y la timidez en tomar medidas. No basta con criticar la perversidad de las agencias de calificación, aves carroñeras que se alimentan de sus clientes, o quejarse de los mercados. Sobre todo, cuando los datos fundamentales de la economía europea son mejores en conjunto que los de nuestros socios y competidores.
El problema no es de solvencia, es de liquidez. La decisión del Consejo de que el Banco Central preste a los bancos a tres años para tratar de ayudar al sistema circulatorio es buena. Pero si ese dinero se pone a renta fija, los bancos no se prestan entre ellos y no circula el crédito, sangre de la economía, no hay recuperación posible.
Tenemos una Unión monetaria federal, necesitamos con urgencia una Unión bancaria y un salto federal en la Unión Política. En la Federación a medio hacer en Europa, hay voces como el Ministro Schaüble que proponen el salto federal. Parece haber convencido a la Canciller Merkel. El Consejo de Sabios alemán, citando a Hamilton, ha propuesto la mutualización de la deuda por encima del 60% en un fondo de amortización con condiciones. La Comisión está trabajando en la propuesta de eurobonos, así como el Parlamento Europeo. Algunos proponemos desde hace tiempo este instrumento como forma de cooperación reforzada y arma solidaria. Su creación permitiría que el pacto fiscal sea de verdad compacto, con un Tesoro europeo y tipos de interés razonables.
Estos temas no se resuelven solo a nivel europeo. Las grandes decisiones como la solidaridad, el freno a la deuda o el impuesto sobre transacciones financieras necesitan la ratificación de los Parlamentos nacionales. No son decisiones que puedan ni deban ser tomadas sin más por funcionarios, analistas o mercados de la noche a la mañana. Un elemento clave de la democracia es que no se pueden imponer gravámenes sin que los representantes elegidos del pueblo los aprueben. En la historia, la defensa de este principio, consagrado en la Atenas de Pericles, ha estado en el origen de grandes revoluciones. En la Europa actual tal regla de oro se debe aplicar también.
Tras las elecciones presidenciales francesas de mayo de este año, el diunvirato Merkel-Sarkozy pertenece a la Historia y ahora el debate impulsado por el Presidente Hollande es austeridad más crecimiento.
Es de esperar que el próximo Consejo Europeo los días 28 y 29 de junio adopte medidas decisivas para sacar a Europa del atolladero. Una parte significativa de sus mismos ha participado en la cumbre del G 20 de Los Cabos y ha podido comprobar cómo la situación europea está en el centro de la atención.
Los Presidentes del Consejo Van Rompuy y de la Comisión Barroso, representaron a la UE y fijaron la posición europea en Carta del 25 de mayo pasado en relación con el orden del día propuesto por la Presidencia Mexicana, haciendo hincapié en la necesidad de hacer oír un mensaje firme y creíble sobre el crecimiento”, y “ un mayor compromiso y acción concretada por parte de todos los miembros del G 20”.
Además de la sintonía con la Presidencia Mexicana, especialmente por su protagonismo en un tema tan sensible para Europa como el cambio climático, cabe destacar como puntos fuertes: Una respuesta global a la deuda soberana, la salvaguardia de la estabilidad financiera con la voluntad de que Grecia permanezca en la zona euro, respetando sus compromisos , una política de crecimiento con fomento de inversiones en el mercado único con refuerzo del Banco Europeo de Inversiones (BEI) y los bonos de proyectos ( variante de los eurobonos), la lucha contra el desempleo juvenil, el mensaje a Estados Unidos y Japón para que apliquen planes a medio plazo de consolidación presupuestaria y la preocupación por el acantilado presupuestario norteamericano, (para que no se convierta en despeñadero), y a China para que establezca redes de seguridad social, reformas y liberalización del remimbi, el importante papel del comercio el fortalecimiento del FMI y el avance en la reforma de la regulación del sector financiero, así como garantizar la seguridad alimentaria en el mundo.
Las conclusiones más relevantes de la cumbre de la cumbre son su apuesta por el crecimiento y el apoyo al libre comercio, que son afirmaciones de principios compartidos por todos y que para no quedarse en meras proclamas deben verse contrastadas por la práctica. En efecto, los firmantes de esta declaración son responsables de un 80% de medidas proteccionistas, la Ronda de Doha sigue pendiente de cerrarse y la cumbre de Rio +2 no se anuncia con buenas perspectivas. Más concretos y precisos son tanto el aumento de recursos del FMI en 450 mil millones de $ como el llamamiento a la Unión Europea para que supere su crisis, con especial énfasis en el caso de España.
Permítanme, para concluir volver a la profética definición del Inca Garcilaso de la Vega tras vivir en los dos hemisferios: “Mundo solo hay uno”. Ahora está más de moda “la aldea global” de Mc Luhan. Lo que estamos haciendo los europeos con la construcción de la Unión “no es ni más (ni menos) que un estadio intermedio hacia un gobierno mundial” como afirmó Monnet. ¿Es aventurado preguntarse si plataformas como el G 20 son nuevos escalones en este noble camino?
Stefano Rolando: Pisapia. Argomenti per discutere il bilancio del primo anno
Società Umanitaria, Fondazione G. Brodolini, Circolo De Amicis
Umanitaria, 26 giugno 2012
Pisapia. Argomenti per discutere il bilancio del primo anno
Stefano Rolando
(Istituto di Economia e Marketing, Università IULM Milano)
Relazione introduttiva
Pensavo di aprire con le parole di Shakespeare: “non siamo qui per lodare Cesare”. Per rispondere ad alcuni
gazzettieri che confondono lodatori e interpreti. Poi ovviamente mi sono ricordato che il monologo di
Antonio era sulle ceneri di Cesare. E quindi dirò solo: “non siamo qui per lodare”.
Cerchiamo in realtà di continuare l’approccio della stessa campagna elettorale che è stata sempre valutativa e
consapevole che, nelle discontinuità, si aprono problemi al pari di quelli che si chiudono. Ma, scorgendo
prospettive, si va avanti.
Come va giudicato “un anno” di cambio della guardia in una città?
Parliamo di un anno di discontinuità politica e amministrativa, dopo 17 anni di governo della parte avversa
con evidenti problemi di comprensione della “eredità” e di adeguamento di politiche e di metodo
nell’amministrazione dovendosi al tempo stesso fronteggiare emergenze onorando tutte le scadenze ordinarie
che regolano la relazione tra città e cittadini.
C’è un dossier di 157 pagine – che circola a Palazzo Marino – con forse duemila provvedimenti che
accontenta l’approccio ad una valutazione quantitativa.
E ci sono i bilanci giornalistici che segnalano – rispetto all’annunciato – le cose fatte e le cose non fatte.
Penso che ogni ambito di analisi (partiti, movimenti, organizzazioni sociali e della partecipazione, circoli di
cultura politica e civile, ambiti di studio e ricerca) abbia propri parametri per compiere una valutazione
qualitativa.
Questa che segue è necessariamente una sintesi. Evita di citare (facendo poi inevitabili omissioni) e anche di
dettagliare. Ma tenta una gabbia di criteri per provare a discutere. Qui e altrove.
Per quanto riguarda gli spunti introduttivi ad una discussione promossa da soggetti molto radicati nella
cultura del riformismo milanese (mi riferisco all’iniziativa di oggi all’Umanitaria, promossa dalla stessa
Società Umanitaria insieme alla Fondazione Brodolini e al Circolo De Amicis) credo che il “senso di
marcia” da cogliere è attorno all’evidenza di tracce della strada difficile e minoritaria che appunto riguarda
la tradizione del metodo riformista, cioè di una politica che sa stare lontana dal rischio del massimalismo e
sa riconoscere e superare le ovvietà del santificare l’esistente, cioè sa smontare le politiche conservatrici.
Prima di proporre criteri e qualche cenno di analisi, proviamo a rispondere a una domanda:
cosa – tra gli argomenti del successo elettorale – è restato, cioè si e evidenziato, come strumento anche di un
possibile successo gestionale?
Quattro cose sembra siano condivisibili:
· alcuni fattori di metodo che riguardano la partecipazione, l’ascolto, il patto di governance tra
partiti e società e sulle pari opportunità;
· l’indice di consenso, che ha confermato l’adesione largamente maggioritaria al profilo di un
sindaco accettato anche come patrimonio simbolico;
· il miglioramento – prezioso per la città – delle relazioni inter-istituzionali, che è la conferma
del profilo del “sindaco dialogante”;
· la conferma del convincimento di alcuni soggetti collocati nel sistema delle rappresentanze e dei
soggetti produttivi della città di sostenere politiche pubbliche che necessitano di intese (come
l’accordo sui “derivati finanziari” ha permesso di constatare).
Partiamo anche dalla gerarchia dei risultati che il sindaco ha presentato – in forma non troppo meditata,
cioè in risposta ad una domanda in diretta tv – il giorno stesso del compimento del primo anno (nell’ordine
dei fattori evidenziati):
1. Il rilievo di provvedimenti per la “qualità sostenibile”.
2. L’accordo sui “derivati” che ha permesso di chiudere contenziosi con soggetti importanti del sistema
finanziario internazionale con intese con benefici per la città nel tempo (440 milioni recuperati di
cui 40 nel 2012).
2
3. Una rilevante soluzione per i “senza tetto”.
4. Superate le emergenze come quella delle intense nevicate.
5. Nuova attenzione alla “società dei cittadini” e soprattutto ai meno abbienti.
6. Attenzione reale ai problemi delle periferie.
7. Avere risanato il bilancio del Comune.
8. In concreto, avere affrontato un deficit ereditato di 580 milioni (cioè deficit strutturale da almeno 5
anni che già nel 2010 era arrivato ad essere pari a oltre il 10 % delle spese correnti).
9. Avere rispettato il patto di stabilità (che ha permesso un impatto positivo sull’economia del
territorio in particolare per il rispetto dei tempi di pagamento dei fornitori).
10. Avere posto la vicenda Expo con una linea di negoziato e di metodo che, pur essendoci ancora
irrisolti, ha portato maggiore chiarezza sui ruoli.
Vi è chi leggerà punti sostanziali, chi non troverà punti attesi. L’elenco ci è però utile come compendio per
misurare gli spunti che seguono.
Le questioni che possono riguardare un bilancio qualitativo potrebbero essere così poste:
· in cosa si sono date risposte alle maggiori criticità della politica italiana (intese come: più
democrazia; più accoglimento dei bisogni secondo interessi generali; più riduzione
dell’affarismo nella vita pubblica) ?
· come si può dire che le linee adottate facilitino tempi e misure per accelerare i tempi della
ripresa e della ripartenza “da Milano” (più qualità dei servizi; più capacità di attrazione; più
condizioni di rinnovamento della classe dirigente)?
Proviamo ad accennare alcune risposte e poi concluderemo su questioni (e quindi anche su interrogativi)
che riguardano la prospettiva.
Risposte alle gravi criticità della politica italiana
Più democrazia?
· Va portata in emersione la discussione sull’ascolto e lo sviluppo di pratiche co-decisionali.La
tendenza francamente appare. Ma il bilancio qualitativo non può essere a spanne. Ora qualche
bilancio di questo processo va fatto da chi sa valutare queste cose.
· La partita dei referendum ambientali è uno spunto concreto. Richiedeva un programma di
attuazione. Sull’Area C vi è stata determinazione, rilevante per avere indotto in materia di
provvedimenti sulla sostenibilità pratiche di nuovo patto per cambiamenti culturali degli utenti.
Sul risanamento della Darsena si dice che siano pronti i bandi di gara. E’ già una mezza
attuazione.
· Il PGT in totale riesame rientra sul bilancio sia delle misure tecniche che delle politiche
partecipative. Il saldo “meno cemento più verde” è accettato nella metabolizzazione del
provvedimento, che fa segnare anche un +25% di edilizia sociale.
· Aperta alla discussione anche la domanda sull’evoluzione della relazione con partiti e
movimenti, cioè sul “modello” di efficacia di una cultura politica rinnovata nel territorio. Non
basta ricordare il tema, andrebbero fatte ricognizione critiche serie, su cui temiamo una
condizione stagnante.
Più garantita la gerarchia di accoglimento dei bisogni secondo interessi generali ?
· La “gerarchia” non va colta per impressioni emotive. Va letta intanto attorno alle regole di
formazione del bilancio (il Comune è dieci volte meno della Regione e due volte più della
Provincia) e cioè sulla condizione di generare le risorse per affrontare quei bisogni.
· La “gerarchia” va assicurata infatti da una efficace recupero di risorse attorno a quattro leve che
vanno realisticamente rese compatibili alla riduzione di trasferimenti (che è avvenuta): sulle
tasse si è dovuto premere, sembra in linea con l’insieme degli enti locali anzi con qualche
differenza in meglio; sul patrimonio si è data un’impostazione che ha rettificato una linea
puramente di vendita con indirizzi che puntano ora anche alla riqualificazione di rendimento;
sulla spending review si vanno compiendo riflessioni responsabili per evitare paralisi da tagli
ma sapendo che è una leva limitata; sulla ridefinizione di partite si è detto del positivo accordo
sui “derivati”.
3
· A valle di questa analisi va compiuta una sintesi di provvedimenti annunciati, realizzati, in
itinere, che toccano diritti e interessi dei cittadini e, in sostanza, la prospettiva della vivibilità
della città. Il “bilancio giornalistico” ha considerato che il processo in itinere sia positivo. Vi è
evidente attesa per la materia dei diritti civili (unioni di fatto / città multietnica /pari opportunità
/libertà religiosa) laddove i conflitti potenziali sono di natura sociale e politica complesse e la
soluzione richiede composizioni comprensibili per tutti.
E’ ragionevole dire che l’affarismo nella gestione delle risorse pubbliche sia sotto controllo?
· E’importante – in una tendenziale risposta affermativa - leggere l’istituzione di strumenti per la
prevenzione e il controllo (Comitato antimafia e Protocollo Legalità/ Altri provvedimenti)
· Sarebbe importante disporre di un serio tavolo statistico (bilancio forze dell’ordine/ sistema
giudiziario/ fiscale/ sistema di impresa) per incrociare tutti gli elementi di valutazione e cogliere
quindi il quadro della legalità come indice di un processo sociale in movimento.
Risposte alle dinamiche della ripresa
E’ in atto un quadro di misure che assicurano più qualità nei servizi?
· Bisogna distinguere provvedimenti di manutenzione e provvedimenti di innovazione.
· Su questo il dibattito stesso attivato permette di avanzare punti di richiesta all’analisi.
· Nevralgica è l’analisi delle aziende energetiche, di trasporto e ecosistemiche.
· Importantissimi i servizi sociali, la sicurezza, l’assistenza.
· Manca tuttavia un dato di riferimento in grado di comparare gli esiti raggiunti con il passato.
Vi è attenzione alla capacità di attrazione della città?
· Molteplici fattori concorrono a definire una matrice virtuosa per mantenere la soglia nella
capacità attrattiva (turismo /investimenti / lavoro / buone idee). Il primo anno non varca la
soglia delle pre-condizioni.
· La tenuta del profilo di identità della città passa attraverso un presidio forte alle attività
culturali, su cui sono segnalati problemi e una ridotta progettualità.
· L’attrazione degli investimenti passa attraverso un’azione coordinata con i soggetti delle
rappresentanze attorno a cui il primo anno segnala solo dichiarazioni di volontà.
· La valorizzazione del sistema universitario e di ricerca è materia che dipende da competenze
altrove collocate ma su cui la città (l’assessore competente) ha svolto ricognizioni preliminare
ben indirizzate.
· In materia di turismo e branding si è giunti a definire il terreno di intervento e a concepire
strumenti di coordinamento del sistema città.
· In materia di Expo si legge la sintesi di attese, di sforzi di orientamento alla fase due di regolerisorse-
contenuti-alleanze , ancora in un terreno di irrisolti che mantengono inquietudini.
Si vanno formando condizioni per fornire nuova e adeguata classe dirigente all’amministrazione e
anche per indurre classe dirigente nella politica?
· Il tempo di un anno genera un nucleo di classe dirigente forse insufficiente a comprendere –
nella evidente discontinuità – il senso di marcia.
· Se si guardano le emergenze affrontate (Neve / Expo / Deficit / Papa / ora Dalai Lama) vi sono
luci e ombre in cui si apprezzano risultati e si scontano anche risorse inadeguate per acquisire
tutto il quadro di competenze necessarie.
· La leva formativa interna deve così avere una messa a punto strategica a breve.
· Il raccordo con il sistema politico della città darà le sue risposte nel 2013 che è anno elettorale
che farà maturare i profili di responsabilità che hanno vissuto il cambiamento anche come una
opportunità formativa.
Il direttore generale del Comune esprime al riguardo due punti di vista:
· che si è messo al centro del primo anno la reingegnerizzazione dei processi amministrativi; cosa
che ha portato ad una abbastanza diffusa consapevolezza che serve più innovazione e meno
tagli;
4
· che il bene da difendere quando si hanno poche risorse è soprattutto l'equità e che su questo
punto vanno ritarati i piani strategici delle politiche pubbliche.
Dunque più esiti sul terreno dei principi (democrazia, bisogni, legalità) che sul terreno della
rigenerazione di politiche attrattive.
La conclusione di questa analisi conduce quindi sul terreno della prospettiva.
Ovvero quella in cui la città è intesa come un soggetto politico collettivo che guarda a sé e, al tempo
stesso, ai sistemi di riferimento, nel divenire.
Milano per Milano.
Il primo tema consiste nel domandarci quando si metterà mano a un piano (non un compendio dirigistico,
ma una visione di tendenze) di evoluzione del profilo delle cinque città che già in campagna elettorale
hanno dimostrato la loro diversa e in parte conflittuale natura:
- La Città creativa (non solo moda&design ma anche modernizzazione della città
industriale e dell’artigianato)
- La Città della salute
- La Città della conoscenza
- La Città glocale
- La Città verde
Vi sono spezzoni di innovazioni, di piani, di spunti (nel campo ambientale paiono più organici) che debbono
evolvere, esprimersi e incrociarsi.
Un piano che si collochi nel tempo ancora non disegnato. Il dopo-Expo, verso il 2020.
Finora è anche poca ridisegnata Milano come città europea, con evidente rilancio relazionale con le città
che pensano di più al loro futuro in modo nevralgico per l’integrazione europea.
E’ stato tuttavia sensato spostare i tempi di questa analisi strategica a valle di un primo presidio serio alle
condizioni di bilancio e ai requisiti di un primo piano triennale che producendo pareggio potrebbe anche
determinare meno tasse e più investimenti.
Milano per la Lombardia
Il rapporto città-territorio nel caso di Milano è parte di alcune soluzioni strutturali a questioni irrisolte e a
piani per ora non ridisegnabili.
· La storia delle relazioni tra Città e Regione va riletta alla luce di particolarità e complessità.
· Il modello Milano non è certo che abbia automatiche applicazioni.
· La crisi in corso del quadro politico regionale rende serio e altamente complesso il problema
dei contenuti e della prospettiva di una classe dirigente adeguata
· Milano-Lombardia rappresenta una condizione diversa da quella Roma-Lazio (rapporti tra
soggetti forti e deboli)
Milano per l’Italia
La domanda qui è se vi è un contributo diretto o indiretto alla prefigurazione della “terza repubblica“
dell’esperienza che Milano sviluppa, immaginando che la transizione riguardi:
· la capacità di autoriforma dei partiti;
· la acquisizione di responsabilità politica della società civile;
· il ruolo dei sindaci nel rapporto di consenso tra cittadini e istituzioni.
Un altro dibattito appena dischiuso e, malgrado le urgenze, ancora acerbo; che – proprio sul tema dei
cantieri Milano/Italia – chi parla ha cercato di delineare nel contributo La buonapolitica che sta affrontando
nelle librerie il dibattito del pubblico
Umanitaria, 26 giugno 2012
Pisapia. Argomenti per discutere il bilancio del primo anno
Stefano Rolando
(Istituto di Economia e Marketing, Università IULM Milano)
Relazione introduttiva
Pensavo di aprire con le parole di Shakespeare: “non siamo qui per lodare Cesare”. Per rispondere ad alcuni
gazzettieri che confondono lodatori e interpreti. Poi ovviamente mi sono ricordato che il monologo di
Antonio era sulle ceneri di Cesare. E quindi dirò solo: “non siamo qui per lodare”.
Cerchiamo in realtà di continuare l’approccio della stessa campagna elettorale che è stata sempre valutativa e
consapevole che, nelle discontinuità, si aprono problemi al pari di quelli che si chiudono. Ma, scorgendo
prospettive, si va avanti.
Come va giudicato “un anno” di cambio della guardia in una città?
Parliamo di un anno di discontinuità politica e amministrativa, dopo 17 anni di governo della parte avversa
con evidenti problemi di comprensione della “eredità” e di adeguamento di politiche e di metodo
nell’amministrazione dovendosi al tempo stesso fronteggiare emergenze onorando tutte le scadenze ordinarie
che regolano la relazione tra città e cittadini.
C’è un dossier di 157 pagine – che circola a Palazzo Marino – con forse duemila provvedimenti che
accontenta l’approccio ad una valutazione quantitativa.
E ci sono i bilanci giornalistici che segnalano – rispetto all’annunciato – le cose fatte e le cose non fatte.
Penso che ogni ambito di analisi (partiti, movimenti, organizzazioni sociali e della partecipazione, circoli di
cultura politica e civile, ambiti di studio e ricerca) abbia propri parametri per compiere una valutazione
qualitativa.
Questa che segue è necessariamente una sintesi. Evita di citare (facendo poi inevitabili omissioni) e anche di
dettagliare. Ma tenta una gabbia di criteri per provare a discutere. Qui e altrove.
Per quanto riguarda gli spunti introduttivi ad una discussione promossa da soggetti molto radicati nella
cultura del riformismo milanese (mi riferisco all’iniziativa di oggi all’Umanitaria, promossa dalla stessa
Società Umanitaria insieme alla Fondazione Brodolini e al Circolo De Amicis) credo che il “senso di
marcia” da cogliere è attorno all’evidenza di tracce della strada difficile e minoritaria che appunto riguarda
la tradizione del metodo riformista, cioè di una politica che sa stare lontana dal rischio del massimalismo e
sa riconoscere e superare le ovvietà del santificare l’esistente, cioè sa smontare le politiche conservatrici.
Prima di proporre criteri e qualche cenno di analisi, proviamo a rispondere a una domanda:
cosa – tra gli argomenti del successo elettorale – è restato, cioè si e evidenziato, come strumento anche di un
possibile successo gestionale?
Quattro cose sembra siano condivisibili:
· alcuni fattori di metodo che riguardano la partecipazione, l’ascolto, il patto di governance tra
partiti e società e sulle pari opportunità;
· l’indice di consenso, che ha confermato l’adesione largamente maggioritaria al profilo di un
sindaco accettato anche come patrimonio simbolico;
· il miglioramento – prezioso per la città – delle relazioni inter-istituzionali, che è la conferma
del profilo del “sindaco dialogante”;
· la conferma del convincimento di alcuni soggetti collocati nel sistema delle rappresentanze e dei
soggetti produttivi della città di sostenere politiche pubbliche che necessitano di intese (come
l’accordo sui “derivati finanziari” ha permesso di constatare).
Partiamo anche dalla gerarchia dei risultati che il sindaco ha presentato – in forma non troppo meditata,
cioè in risposta ad una domanda in diretta tv – il giorno stesso del compimento del primo anno (nell’ordine
dei fattori evidenziati):
1. Il rilievo di provvedimenti per la “qualità sostenibile”.
2. L’accordo sui “derivati” che ha permesso di chiudere contenziosi con soggetti importanti del sistema
finanziario internazionale con intese con benefici per la città nel tempo (440 milioni recuperati di
cui 40 nel 2012).
2
3. Una rilevante soluzione per i “senza tetto”.
4. Superate le emergenze come quella delle intense nevicate.
5. Nuova attenzione alla “società dei cittadini” e soprattutto ai meno abbienti.
6. Attenzione reale ai problemi delle periferie.
7. Avere risanato il bilancio del Comune.
8. In concreto, avere affrontato un deficit ereditato di 580 milioni (cioè deficit strutturale da almeno 5
anni che già nel 2010 era arrivato ad essere pari a oltre il 10 % delle spese correnti).
9. Avere rispettato il patto di stabilità (che ha permesso un impatto positivo sull’economia del
territorio in particolare per il rispetto dei tempi di pagamento dei fornitori).
10. Avere posto la vicenda Expo con una linea di negoziato e di metodo che, pur essendoci ancora
irrisolti, ha portato maggiore chiarezza sui ruoli.
Vi è chi leggerà punti sostanziali, chi non troverà punti attesi. L’elenco ci è però utile come compendio per
misurare gli spunti che seguono.
Le questioni che possono riguardare un bilancio qualitativo potrebbero essere così poste:
· in cosa si sono date risposte alle maggiori criticità della politica italiana (intese come: più
democrazia; più accoglimento dei bisogni secondo interessi generali; più riduzione
dell’affarismo nella vita pubblica) ?
· come si può dire che le linee adottate facilitino tempi e misure per accelerare i tempi della
ripresa e della ripartenza “da Milano” (più qualità dei servizi; più capacità di attrazione; più
condizioni di rinnovamento della classe dirigente)?
Proviamo ad accennare alcune risposte e poi concluderemo su questioni (e quindi anche su interrogativi)
che riguardano la prospettiva.
Risposte alle gravi criticità della politica italiana
Più democrazia?
· Va portata in emersione la discussione sull’ascolto e lo sviluppo di pratiche co-decisionali.La
tendenza francamente appare. Ma il bilancio qualitativo non può essere a spanne. Ora qualche
bilancio di questo processo va fatto da chi sa valutare queste cose.
· La partita dei referendum ambientali è uno spunto concreto. Richiedeva un programma di
attuazione. Sull’Area C vi è stata determinazione, rilevante per avere indotto in materia di
provvedimenti sulla sostenibilità pratiche di nuovo patto per cambiamenti culturali degli utenti.
Sul risanamento della Darsena si dice che siano pronti i bandi di gara. E’ già una mezza
attuazione.
· Il PGT in totale riesame rientra sul bilancio sia delle misure tecniche che delle politiche
partecipative. Il saldo “meno cemento più verde” è accettato nella metabolizzazione del
provvedimento, che fa segnare anche un +25% di edilizia sociale.
· Aperta alla discussione anche la domanda sull’evoluzione della relazione con partiti e
movimenti, cioè sul “modello” di efficacia di una cultura politica rinnovata nel territorio. Non
basta ricordare il tema, andrebbero fatte ricognizione critiche serie, su cui temiamo una
condizione stagnante.
Più garantita la gerarchia di accoglimento dei bisogni secondo interessi generali ?
· La “gerarchia” non va colta per impressioni emotive. Va letta intanto attorno alle regole di
formazione del bilancio (il Comune è dieci volte meno della Regione e due volte più della
Provincia) e cioè sulla condizione di generare le risorse per affrontare quei bisogni.
· La “gerarchia” va assicurata infatti da una efficace recupero di risorse attorno a quattro leve che
vanno realisticamente rese compatibili alla riduzione di trasferimenti (che è avvenuta): sulle
tasse si è dovuto premere, sembra in linea con l’insieme degli enti locali anzi con qualche
differenza in meglio; sul patrimonio si è data un’impostazione che ha rettificato una linea
puramente di vendita con indirizzi che puntano ora anche alla riqualificazione di rendimento;
sulla spending review si vanno compiendo riflessioni responsabili per evitare paralisi da tagli
ma sapendo che è una leva limitata; sulla ridefinizione di partite si è detto del positivo accordo
sui “derivati”.
3
· A valle di questa analisi va compiuta una sintesi di provvedimenti annunciati, realizzati, in
itinere, che toccano diritti e interessi dei cittadini e, in sostanza, la prospettiva della vivibilità
della città. Il “bilancio giornalistico” ha considerato che il processo in itinere sia positivo. Vi è
evidente attesa per la materia dei diritti civili (unioni di fatto / città multietnica /pari opportunità
/libertà religiosa) laddove i conflitti potenziali sono di natura sociale e politica complesse e la
soluzione richiede composizioni comprensibili per tutti.
E’ ragionevole dire che l’affarismo nella gestione delle risorse pubbliche sia sotto controllo?
· E’importante – in una tendenziale risposta affermativa - leggere l’istituzione di strumenti per la
prevenzione e il controllo (Comitato antimafia e Protocollo Legalità/ Altri provvedimenti)
· Sarebbe importante disporre di un serio tavolo statistico (bilancio forze dell’ordine/ sistema
giudiziario/ fiscale/ sistema di impresa) per incrociare tutti gli elementi di valutazione e cogliere
quindi il quadro della legalità come indice di un processo sociale in movimento.
Risposte alle dinamiche della ripresa
E’ in atto un quadro di misure che assicurano più qualità nei servizi?
· Bisogna distinguere provvedimenti di manutenzione e provvedimenti di innovazione.
· Su questo il dibattito stesso attivato permette di avanzare punti di richiesta all’analisi.
· Nevralgica è l’analisi delle aziende energetiche, di trasporto e ecosistemiche.
· Importantissimi i servizi sociali, la sicurezza, l’assistenza.
· Manca tuttavia un dato di riferimento in grado di comparare gli esiti raggiunti con il passato.
Vi è attenzione alla capacità di attrazione della città?
· Molteplici fattori concorrono a definire una matrice virtuosa per mantenere la soglia nella
capacità attrattiva (turismo /investimenti / lavoro / buone idee). Il primo anno non varca la
soglia delle pre-condizioni.
· La tenuta del profilo di identità della città passa attraverso un presidio forte alle attività
culturali, su cui sono segnalati problemi e una ridotta progettualità.
· L’attrazione degli investimenti passa attraverso un’azione coordinata con i soggetti delle
rappresentanze attorno a cui il primo anno segnala solo dichiarazioni di volontà.
· La valorizzazione del sistema universitario e di ricerca è materia che dipende da competenze
altrove collocate ma su cui la città (l’assessore competente) ha svolto ricognizioni preliminare
ben indirizzate.
· In materia di turismo e branding si è giunti a definire il terreno di intervento e a concepire
strumenti di coordinamento del sistema città.
· In materia di Expo si legge la sintesi di attese, di sforzi di orientamento alla fase due di regolerisorse-
contenuti-alleanze , ancora in un terreno di irrisolti che mantengono inquietudini.
Si vanno formando condizioni per fornire nuova e adeguata classe dirigente all’amministrazione e
anche per indurre classe dirigente nella politica?
· Il tempo di un anno genera un nucleo di classe dirigente forse insufficiente a comprendere –
nella evidente discontinuità – il senso di marcia.
· Se si guardano le emergenze affrontate (Neve / Expo / Deficit / Papa / ora Dalai Lama) vi sono
luci e ombre in cui si apprezzano risultati e si scontano anche risorse inadeguate per acquisire
tutto il quadro di competenze necessarie.
· La leva formativa interna deve così avere una messa a punto strategica a breve.
· Il raccordo con il sistema politico della città darà le sue risposte nel 2013 che è anno elettorale
che farà maturare i profili di responsabilità che hanno vissuto il cambiamento anche come una
opportunità formativa.
Il direttore generale del Comune esprime al riguardo due punti di vista:
· che si è messo al centro del primo anno la reingegnerizzazione dei processi amministrativi; cosa
che ha portato ad una abbastanza diffusa consapevolezza che serve più innovazione e meno
tagli;
4
· che il bene da difendere quando si hanno poche risorse è soprattutto l'equità e che su questo
punto vanno ritarati i piani strategici delle politiche pubbliche.
Dunque più esiti sul terreno dei principi (democrazia, bisogni, legalità) che sul terreno della
rigenerazione di politiche attrattive.
La conclusione di questa analisi conduce quindi sul terreno della prospettiva.
Ovvero quella in cui la città è intesa come un soggetto politico collettivo che guarda a sé e, al tempo
stesso, ai sistemi di riferimento, nel divenire.
Milano per Milano.
Il primo tema consiste nel domandarci quando si metterà mano a un piano (non un compendio dirigistico,
ma una visione di tendenze) di evoluzione del profilo delle cinque città che già in campagna elettorale
hanno dimostrato la loro diversa e in parte conflittuale natura:
- La Città creativa (non solo moda&design ma anche modernizzazione della città
industriale e dell’artigianato)
- La Città della salute
- La Città della conoscenza
- La Città glocale
- La Città verde
Vi sono spezzoni di innovazioni, di piani, di spunti (nel campo ambientale paiono più organici) che debbono
evolvere, esprimersi e incrociarsi.
Un piano che si collochi nel tempo ancora non disegnato. Il dopo-Expo, verso il 2020.
Finora è anche poca ridisegnata Milano come città europea, con evidente rilancio relazionale con le città
che pensano di più al loro futuro in modo nevralgico per l’integrazione europea.
E’ stato tuttavia sensato spostare i tempi di questa analisi strategica a valle di un primo presidio serio alle
condizioni di bilancio e ai requisiti di un primo piano triennale che producendo pareggio potrebbe anche
determinare meno tasse e più investimenti.
Milano per la Lombardia
Il rapporto città-territorio nel caso di Milano è parte di alcune soluzioni strutturali a questioni irrisolte e a
piani per ora non ridisegnabili.
· La storia delle relazioni tra Città e Regione va riletta alla luce di particolarità e complessità.
· Il modello Milano non è certo che abbia automatiche applicazioni.
· La crisi in corso del quadro politico regionale rende serio e altamente complesso il problema
dei contenuti e della prospettiva di una classe dirigente adeguata
· Milano-Lombardia rappresenta una condizione diversa da quella Roma-Lazio (rapporti tra
soggetti forti e deboli)
Milano per l’Italia
La domanda qui è se vi è un contributo diretto o indiretto alla prefigurazione della “terza repubblica“
dell’esperienza che Milano sviluppa, immaginando che la transizione riguardi:
· la capacità di autoriforma dei partiti;
· la acquisizione di responsabilità politica della società civile;
· il ruolo dei sindaci nel rapporto di consenso tra cittadini e istituzioni.
Un altro dibattito appena dischiuso e, malgrado le urgenze, ancora acerbo; che – proprio sul tema dei
cantieri Milano/Italia – chi parla ha cercato di delineare nel contributo La buonapolitica che sta affrontando
nelle librerie il dibattito del pubblico
felice besostri: riformisti moderati progressisti
scampoli e spigolature aspettando genova per noi
Un alleanza tra progressisti e moderati? Il manifesto è già stato scritto da uno scrittore ceco Jaroslav Hašek, conosciuto universalmente per le avventure del Buon Soldato Sc'vèik . E' stato recentemente tradotto in Italiano il suo “Manifesto del Partito per un progresso moderato nei limiti della legge.” Altra piccola chicca i partiti che nel nome hanno la Parola Riforma o Progresso generalmente sono conservatori: nel migliore dei casi liberali, nel peggiore populisti di destra, come il partito del progresso danese o quello norvegese. Moderati non siamo, Riformisti e Progressisti, allora? No grazie
Un alleanza tra progressisti e moderati? Il manifesto è già stato scritto da uno scrittore ceco Jaroslav Hašek, conosciuto universalmente per le avventure del Buon Soldato Sc'vèik . E' stato recentemente tradotto in Italiano il suo “Manifesto del Partito per un progresso moderato nei limiti della legge.” Altra piccola chicca i partiti che nel nome hanno la Parola Riforma o Progresso generalmente sono conservatori: nel migliore dei casi liberali, nel peggiore populisti di destra, come il partito del progresso danese o quello norvegese. Moderati non siamo, Riformisti e Progressisti, allora? No grazie
martedì 26 giugno 2012
Peppe Giudice: Messaggio per l'incontro di Genova
Messaggio al convegno di Genova del 30-06-12
Carissimi compagni, la grande distanza e la impossibilità di muovermi dalla remota mia terra lucana, mi impediscono di essere fisicamente presente con voi. Ma con la mia mente ed il mio cuore starò nella sala Sivori dove nel 1892 nacque il socialismo italiano e con esso la sinistra. Perché non esiste una sinistra senza aggettivi. E’ il socialismo che da senso e significato ad una parola che altrimenti indicherebbe solo un luogo geometrico.
Sono tempi difficili e duri. Viviamo una crisi strutturale profonda del modello capitalistico che ha dominato per gli ultimi 25 anni. Un modello che ha prodotto gravissime diseguaglianze e squilibri economico- sociali, la minaccia concreta di una crisi profonda della democrazia, regressione civile e culturale. Più che mai è attuale la parola socialismo e la alternativa che Rosa Luxemburg indicava in “socialismo o barbarie”.
La storia è implacabile e ci ha detto che un socialismo separato dalla democrazia e dalla libertà è destinato ad un tragico fallimento (comunque evidente già prima dell’89). Il socialismo democratico è l’unica sinistra possibile che può dare speranza alle istanze di riscatto ed emancipazione delle classi lavoratrici e dell’enorme numero di poveri che le contraddizioni del capitalismo provocano. Il socialismo democratico è stata la più grande forza di progresso e di giustizia sociale dell’età contemporanea. Sotto la sua spinta si è creato in Europa il modello sociale più avanzato e rimasto ineguagliato. Ma saremmo degli ingenui se non vedessimo, accanto ai suoi grandissimi meriti, i limiti, le contraddizioni, le viltà politiche e gli stessi tradimenti degli ideali socialisti che pezzi significativi del socialismo europeo hanno consumato. Non da ultima, la subalternità mostrata verso il pensiero unico neoliberale, la deriva moderata e l’abbandono di un serio progetto di trasformazione sociale, che ha caratterizzato alcune esperienze socialdemocratiche dell’ultimo quindicennio, fino alla condivisione di logiche imperiali e guerrafondaie (è il concreto esempio di Blair). Ora sia pur con fatica il socialismo europeo sta venendo fuori da quelle derive. Merito soprattutto dei compagni socialisti francesi che si sono sempre opposti alle derive neoliberali e che oggi sono stati premiati con la grande doppia vittoria nel paese transalpino. Ma, in un mondo caratterizzato da forti ed irreversibili interdipendenze, i compagni francesi non possono fare molto, se la loro linea non diventerà patrimonio comune di tutto il socialismo continentale. Per cui tutti noi dovremmo compiere adeguati sforzi affinchè questa sinistra possibile ridiventi tutta intera coerente con i valori ed i principi del socialismo democratico. A noi socialisti italiani Riccardo Lombardi e Rodolfo Morandi ci hanno insegnato che i partiti non sono che strumenti, sia pur essenziali, per realizzare un progetto politico. Paradossalmente affermo che se il PSE non si dimostrasse in grado di esserne all’altezza ne dovremmo costruire un altro. Ma sempre un partito finalizzato a costruire il nuovo socialismo democratico nel XXI Secolo, e non un astratto, astorico ed impalpabile neocomunismo trascendentale (il termine è di Giorgio Ruffolo).
Ho detto paradossalmente, perché credo che il PSE di oggi, pur con i suoi limiti ed i suoi ritardi è l’unico campo dove si può costruire una alternativa in positivo alla grave crisi del capitalismo liberale. Ma per fare questo ci vuole una politica socialista sovranazionale ed un PSE vero partito transnazionale. Un socialismo intrappolato nei confini nazionali è destinato a soccombere. Una sinistra che resti subalterna al pensiero liberista non è socialista. Ma anche una sinistra velleitaria, minoritaria, astrattamente antagonista è la migliore alleata della destra. Pensare come Ferrero o l’ultimo sciagurato Lafontaine che la sinistra si possa rigenerare sulla rovina del PSE è demenza pura. Nessuna Syriza ci salverà. Con costoro è difficile interloquire seriamente. Il nostro sentiero è quello tracciato dal “Manifesto per una Alternativa Socialista Europea” .
Cari compagni, non perdiamoci attorno alla ipotesi di una impossibile rifondazione del PSI. La scomparsa del PSI – sia per proprie colpe, sia per la ignobile demonizzazione del socialismo – ha lasciato un vuoto enorme e terribile a sinistra che nessuno è stato in grado di colmare. Ma non è certo resuscitando (e talvolta malamente) una sigla che potranno rivivere gli ideali socialisti. Così come ci dobbiamo convincere che il Pentapartito è stata la tomba del PSI. E cosa ben diversa dalla stagione riformatrice del primo centrosinistra. Oggi dobbiamo recuperare il patrimonio migliore di quel socialismo riformatore degli anni 60 che vide in Nenni, Lombardi, Santi e Brodolini i suoi punti di riferimento. E’ quella cultura politica di cui una sinistra da rifondare ha bisogno. Una sinistra del lavoro e del socialismo europeo in cui non valgono tanto le provenienze ma gli obbiettivi. Ma tali obbiettivi li potremo raggiungere solo con una forte ricostruzione della cultura politica in cui gli ideali più autentici del socialismo italiano giochino un ruolo centrale. Buon lavoro, compagni cari.
PEPPE GIUDICE
Carissimi compagni, la grande distanza e la impossibilità di muovermi dalla remota mia terra lucana, mi impediscono di essere fisicamente presente con voi. Ma con la mia mente ed il mio cuore starò nella sala Sivori dove nel 1892 nacque il socialismo italiano e con esso la sinistra. Perché non esiste una sinistra senza aggettivi. E’ il socialismo che da senso e significato ad una parola che altrimenti indicherebbe solo un luogo geometrico.
Sono tempi difficili e duri. Viviamo una crisi strutturale profonda del modello capitalistico che ha dominato per gli ultimi 25 anni. Un modello che ha prodotto gravissime diseguaglianze e squilibri economico- sociali, la minaccia concreta di una crisi profonda della democrazia, regressione civile e culturale. Più che mai è attuale la parola socialismo e la alternativa che Rosa Luxemburg indicava in “socialismo o barbarie”.
La storia è implacabile e ci ha detto che un socialismo separato dalla democrazia e dalla libertà è destinato ad un tragico fallimento (comunque evidente già prima dell’89). Il socialismo democratico è l’unica sinistra possibile che può dare speranza alle istanze di riscatto ed emancipazione delle classi lavoratrici e dell’enorme numero di poveri che le contraddizioni del capitalismo provocano. Il socialismo democratico è stata la più grande forza di progresso e di giustizia sociale dell’età contemporanea. Sotto la sua spinta si è creato in Europa il modello sociale più avanzato e rimasto ineguagliato. Ma saremmo degli ingenui se non vedessimo, accanto ai suoi grandissimi meriti, i limiti, le contraddizioni, le viltà politiche e gli stessi tradimenti degli ideali socialisti che pezzi significativi del socialismo europeo hanno consumato. Non da ultima, la subalternità mostrata verso il pensiero unico neoliberale, la deriva moderata e l’abbandono di un serio progetto di trasformazione sociale, che ha caratterizzato alcune esperienze socialdemocratiche dell’ultimo quindicennio, fino alla condivisione di logiche imperiali e guerrafondaie (è il concreto esempio di Blair). Ora sia pur con fatica il socialismo europeo sta venendo fuori da quelle derive. Merito soprattutto dei compagni socialisti francesi che si sono sempre opposti alle derive neoliberali e che oggi sono stati premiati con la grande doppia vittoria nel paese transalpino. Ma, in un mondo caratterizzato da forti ed irreversibili interdipendenze, i compagni francesi non possono fare molto, se la loro linea non diventerà patrimonio comune di tutto il socialismo continentale. Per cui tutti noi dovremmo compiere adeguati sforzi affinchè questa sinistra possibile ridiventi tutta intera coerente con i valori ed i principi del socialismo democratico. A noi socialisti italiani Riccardo Lombardi e Rodolfo Morandi ci hanno insegnato che i partiti non sono che strumenti, sia pur essenziali, per realizzare un progetto politico. Paradossalmente affermo che se il PSE non si dimostrasse in grado di esserne all’altezza ne dovremmo costruire un altro. Ma sempre un partito finalizzato a costruire il nuovo socialismo democratico nel XXI Secolo, e non un astratto, astorico ed impalpabile neocomunismo trascendentale (il termine è di Giorgio Ruffolo).
Ho detto paradossalmente, perché credo che il PSE di oggi, pur con i suoi limiti ed i suoi ritardi è l’unico campo dove si può costruire una alternativa in positivo alla grave crisi del capitalismo liberale. Ma per fare questo ci vuole una politica socialista sovranazionale ed un PSE vero partito transnazionale. Un socialismo intrappolato nei confini nazionali è destinato a soccombere. Una sinistra che resti subalterna al pensiero liberista non è socialista. Ma anche una sinistra velleitaria, minoritaria, astrattamente antagonista è la migliore alleata della destra. Pensare come Ferrero o l’ultimo sciagurato Lafontaine che la sinistra si possa rigenerare sulla rovina del PSE è demenza pura. Nessuna Syriza ci salverà. Con costoro è difficile interloquire seriamente. Il nostro sentiero è quello tracciato dal “Manifesto per una Alternativa Socialista Europea” .
Cari compagni, non perdiamoci attorno alla ipotesi di una impossibile rifondazione del PSI. La scomparsa del PSI – sia per proprie colpe, sia per la ignobile demonizzazione del socialismo – ha lasciato un vuoto enorme e terribile a sinistra che nessuno è stato in grado di colmare. Ma non è certo resuscitando (e talvolta malamente) una sigla che potranno rivivere gli ideali socialisti. Così come ci dobbiamo convincere che il Pentapartito è stata la tomba del PSI. E cosa ben diversa dalla stagione riformatrice del primo centrosinistra. Oggi dobbiamo recuperare il patrimonio migliore di quel socialismo riformatore degli anni 60 che vide in Nenni, Lombardi, Santi e Brodolini i suoi punti di riferimento. E’ quella cultura politica di cui una sinistra da rifondare ha bisogno. Una sinistra del lavoro e del socialismo europeo in cui non valgono tanto le provenienze ma gli obbiettivi. Ma tali obbiettivi li potremo raggiungere solo con una forte ricostruzione della cultura politica in cui gli ideali più autentici del socialismo italiano giochino un ruolo centrale. Buon lavoro, compagni cari.
PEPPE GIUDICE
lunedì 25 giugno 2012
Lanfranco Turci: Messaggio al Gruppo di Volpedo per l'incontro di Genova
MESSAGGIO DI LANFRANCO TURCI AL GRUPPO DI VOLPEDO
Cari compagni se comprendo bene l’intento del vostro convegno del prossimo 30 giugno a Genova, voi proponete di proiettare idealmente il valore simbolico del 1892 in un ripensamento della sinistra italiana di oggi, per l’Italia e per l’Europa. Certamente se pensiamo al valore della costituzione del Partito dei Lavoratori 120 anni fa e alla sua rapida trasformazione nel Partito socialista Italiano, sul modello delle più avanzate e coeve esperienze europee, se pensiamo alla passione costruttiva e alla fiducia che ispirava quei promotori, e guardiamo allo stato della sinistra italiana di oggi, ( nella quale per ragioni obiettive non si può non includere anche il Pd, a costo di dover adottare la espressione non proprio europea di centro-sinistra ) è difficile evitare un sentimento di scoramento. La parola socialismo nel 1892 evocava emancipazione, giustizia, un altro ordine sociale. Oggi insieme alla scomparsa della parola nelle denominazioni del partiti della sinistra,con l’unica ma pressoché irrilevante eccezione del residuo PSI, è scomparso soprattutto il senso del cambiamento radicale che quella parola allora portava con sè. Non è questa la sede per cercarne le ragioni, comprese quelle che hanno nella storia dei partiti socialisti in Italia e in Europa la loro origine e spiegazione. Occorre invece rilevare che proprio nel momento in cui ci sarebbe più bisogno di recuperare il senso forte della parola socialismo, di fronte alla crisi disastrosa del capitalismo liberale globalizzato, si stenta a uscire dalla parzialità di analisi e di proposte politiche e programmatiche che sembrano in molti casi ancora giocate sui margini interni all’assetto dominante. Questo non vale solo per il PD o per il PSI, ma anche per SEL che, pur dichiaratamente più a sinistra degli altri due partiti, fatica ad andare oltre la raccolta delle istanze dei singoli movimenti e ad inquadrarli e selezionarli in una visione coerente di trasformazione. Non credo che alla base di questa situazione si possa ancora invocare la grande divisione fra socialisti e comunisti messa in moto dalla Rivoluzione d’Ottobre. Quella è acqua passata e per quanto ci debba ancora scavare la ricerca storica il suo esito è già stato scritto con la fine del socialismo reale. Certamente non nello stesso modo si può liquidare sul versante italiano il rapporto storico dal secondo dopoguerra all’89 fra comunisti e socialisti. Ma la scelta catastrofica della maggioranza degli eredi del PCI di cercare una via d’uscita dalla sua crisi non nella direzione del socialismo, ma in quella di un indeterminato Partito Democratico- di cui ancora oggi, pur con sforzi apprezzabili di alcune componenti di sinistra, non si riesce a definire identità e missione- ha costituito un grave fattore di indebolimento della sinistra. Indebolimento che ha avuto nella disgregazione e degenerazione dell’ultimo PSI di Craxi l’altra componente decisiva. Qui siamo! E non siamo certo messi bene. Si può ben capire allora perché visto dall’Italia il Socialismo Europeo appaia come l’ancora cui cercare di agganciare le nostre forze di sinistra. Se le barche e i vascelli della sinistra del nostro paese decidessero intanto di entrare in quel porto, per quanto caotico e mal governato, sarebbe per noi un passo importante per riconoscere l’area in cui ci muoviamo e per promuovere sinergie più efficaci di quelle per ora tentate nel Parlamento Europeo o nei vertici a formato variabile dei partiti “progressisti“. Oltretutto la recente vittoria di Hollande ha messo nuovo vento nelle vele del socialismo francese, ha fatto intravvedere la possibilità di una alternativa socialista in Europa, mentre giacciono ancora afflosciate le vele di altri partiti socialisti, da quello greco a quello spagnolo e altri ancora, che non hanno saputo o potuto resistere ai diktat del neoliberismo e dell’Europa tecnocratica. Un’Europa in cui gli unici interessi legittimi paiono essere quelli dei cosiddetti mercati e del mercantilismo tedesco. Non dobbiamo dunque stancarci di proporre al PD e a SEL la adesione al PSE, soprattutto in vista delle elezioni europee del 2014, che finalmente vedranno tutti i partiti socialisti proporre unitariamente il loro candidato alla Presidenza dell’Unione. Dovremmo tuttavia evitare di presentare questa sollecitazione ad entrare nel PSE in modo ingenuo o sentimentale, quasi che l’auspicata adesione costituisse di per sé un fattore catartico e salvifico per la sinistra italiana. Purtroppo, pur in un contesto mediamente migliore di quello italiano, anche il socialismo europeo non brilla per successi, chiarezza di propositi e coesione. Quando il 30 giugno ci riuniremo a Genova per i 120 anni del Partito del lavoratoti sapremo già delle conclusioni dell’atteso vertice europeo di fine mese. Mi auguro di essere smentito dai fatti, ma temo che esso rappresenterà un nuovo passo verso la disgregazione dell’Euro, verso nuovi costi sociali per le masse popolari del nostro continente, senza che, al di là di singole iniziative nazionali e di volonterosi appelli di alcuni parlamentari europei del Gruppo democratico e socialista, si sia tentato davvero di costruire e mediare una comune linea politica in sede di PSE. La ragione sta nel prevalere dei punti di vista nazionali e nella mancanza di una visione comune fra i diversi partiti socialisti circa l’attuale capitalismo finanziario internazionale e su come gli si possa contrapporre un’altra ipotesi di sviluppo socialmente e ecologicamente alternativa. Insomma il socialismo, nell’accezione in cui ne accennavo all’inizio di questa nota, stenta a rifarsi strada anche fra i partiti del “socialismo europeo” divisi al loro interno fra quanti pensano che la svolta social-liberista della terza via sia ancora la linea da seguire e quanti avvertono l’urgenza di un riposizionamento a sinistra, ma non se la sentono di sfidare fino in fondo i meccanismi dei mercati e l’impianto su di essi costruito della Unione Europea. Preoccupati alcuni di perdere i relativi vantaggi nazionali e altri, che invece stanno già pagando alti prezzi, di essere accusati di portare allo sbando i loro paesi sfidando il patto fiscale europeo. Quanti in Italia si ispirano ai valori del socialismo e della sinistra dovrebbero perciò promuovere prioritariamente una campagna contro i valori e i paradigmi che dominano da trent’anni il panorama politico culturale dell’occidente. Tanto per cominciare bisogna lasciarsi alle spalle il culto del mercato, le ossessioni antistataliste, le visioni moralistiche del debito pubblico. Se oggi siamo guidati dal governo Monti è perché la sinistra non ha saputo in questi anni interpretare con una sua autonomia di pensiero la crisi e, una volta venute meno le ragioni dell’antiberlusconismo, si è trovata disarmata di fronte alle soluzioni della BCE presentate come nuova espressione del TINA tatcheriano (There is no alternative). Invece l’alternativa è possibile. Bisogna abbandonare la politica dell’austerità. Già in un documento del 2010 un gruppo autorevole, ma purtroppo inascoltato, di economisti critici suggeriva di puntare non sulla riduzione del debito, ma sulla stabilizzazione del rapporto debito/Pil per mantenere lo spazio di una diversa politica distributiva e di un rilancio degli investimenti pubblici. I capisaldi di una politica alternativa sono ben noti: intervento attivo della Bce sui debiti sovrani e politica monetaria più espansiva, rilancio della domanda europea, a cominciare dalla Germania, Project bond, comuni politiche europee fiscali, di welfare e di standard salariali, politiche industriali nazionali particolarmente mirate all’innovazione, all’ambiente e al territorio . Sono tutti capitoli di una politica che la sinistra dovrebbe proporre con l’ambizione di un’altra Europa e di un’altra Italia. La nostra proposta deve essere quella di un’Europa più integrata, governata su basi democratiche, orientata a un nuovo modello di sviluppo socialmente e ecologicamente sostenibile. Questo è ciò che la sinistra italiana dovrebbe portare come suo contributo al rilancio del socialismo europeo. Dobbiamo comunque essere preparati a tutti gli scenari, compreso quello della rottura dell’euro e della nostra uscita, cui potremmo arrivare non per una scelta nostra, ma per costrizione di fattori esterni. In una ipotesi o nell’altra la sinistra deve riscoprire il coraggio delle idee e il conflitto sociale che può dare la forza e l’anima a queste idee. E’ stato detto nei giorni scorsi, al convegno dell’area dei “giovani turchi” del Pd, che un partito non può esistere senza passione e ira. Condividiamo questa affermazione fatta da uno studioso certo non sospettabile di massimalismo, come Carlo Galli. Oggi in Italia non c’è una concentrazione di soggettività politica abbastanza forte e decisa per sostenere da sola un progetto come quello che abbiamo sopra sintetizzato. La particolare conformazione della sinistra italiana ci fa mancare quelle condizioni che in Francia hanno reso possibile la vittoria di Hollande. Bisogna lavorare dentro e ai fianchi dei partiti esistenti per aiutare ad affermarsi e a collaborare fra di loro le forze più disponibili al cambiamento politico e culturale in cui può identificarsi “il socialismo del futuro”. Bisogna fare emergere queste come idee vincenti alle eventuali primarie del centro-sinistra. Abbiamo auspicato tante volte la costituzione in Italia di un grande soggetto popolare, unitario, di sinistra e socialista. Il lavoro vostro,del Network per il socialismo europeo e delle tante associazioni e circoli della sinistra dispersa può contribuire a questo obiettivo, intanto muovendoci nella realtà data, senza tentazioni di creare nuovi partitini, ma moltiplicando le sedi di riflessione e di elaborazione comune. Lavorando nel modi e nella articolazione delle forme oggi possibile vogliamo tener d’occhio quel ricominciamento che fa da titolo al vostro convegno.
Lanfranco Turci
Cari compagni se comprendo bene l’intento del vostro convegno del prossimo 30 giugno a Genova, voi proponete di proiettare idealmente il valore simbolico del 1892 in un ripensamento della sinistra italiana di oggi, per l’Italia e per l’Europa. Certamente se pensiamo al valore della costituzione del Partito dei Lavoratori 120 anni fa e alla sua rapida trasformazione nel Partito socialista Italiano, sul modello delle più avanzate e coeve esperienze europee, se pensiamo alla passione costruttiva e alla fiducia che ispirava quei promotori, e guardiamo allo stato della sinistra italiana di oggi, ( nella quale per ragioni obiettive non si può non includere anche il Pd, a costo di dover adottare la espressione non proprio europea di centro-sinistra ) è difficile evitare un sentimento di scoramento. La parola socialismo nel 1892 evocava emancipazione, giustizia, un altro ordine sociale. Oggi insieme alla scomparsa della parola nelle denominazioni del partiti della sinistra,con l’unica ma pressoché irrilevante eccezione del residuo PSI, è scomparso soprattutto il senso del cambiamento radicale che quella parola allora portava con sè. Non è questa la sede per cercarne le ragioni, comprese quelle che hanno nella storia dei partiti socialisti in Italia e in Europa la loro origine e spiegazione. Occorre invece rilevare che proprio nel momento in cui ci sarebbe più bisogno di recuperare il senso forte della parola socialismo, di fronte alla crisi disastrosa del capitalismo liberale globalizzato, si stenta a uscire dalla parzialità di analisi e di proposte politiche e programmatiche che sembrano in molti casi ancora giocate sui margini interni all’assetto dominante. Questo non vale solo per il PD o per il PSI, ma anche per SEL che, pur dichiaratamente più a sinistra degli altri due partiti, fatica ad andare oltre la raccolta delle istanze dei singoli movimenti e ad inquadrarli e selezionarli in una visione coerente di trasformazione. Non credo che alla base di questa situazione si possa ancora invocare la grande divisione fra socialisti e comunisti messa in moto dalla Rivoluzione d’Ottobre. Quella è acqua passata e per quanto ci debba ancora scavare la ricerca storica il suo esito è già stato scritto con la fine del socialismo reale. Certamente non nello stesso modo si può liquidare sul versante italiano il rapporto storico dal secondo dopoguerra all’89 fra comunisti e socialisti. Ma la scelta catastrofica della maggioranza degli eredi del PCI di cercare una via d’uscita dalla sua crisi non nella direzione del socialismo, ma in quella di un indeterminato Partito Democratico- di cui ancora oggi, pur con sforzi apprezzabili di alcune componenti di sinistra, non si riesce a definire identità e missione- ha costituito un grave fattore di indebolimento della sinistra. Indebolimento che ha avuto nella disgregazione e degenerazione dell’ultimo PSI di Craxi l’altra componente decisiva. Qui siamo! E non siamo certo messi bene. Si può ben capire allora perché visto dall’Italia il Socialismo Europeo appaia come l’ancora cui cercare di agganciare le nostre forze di sinistra. Se le barche e i vascelli della sinistra del nostro paese decidessero intanto di entrare in quel porto, per quanto caotico e mal governato, sarebbe per noi un passo importante per riconoscere l’area in cui ci muoviamo e per promuovere sinergie più efficaci di quelle per ora tentate nel Parlamento Europeo o nei vertici a formato variabile dei partiti “progressisti“. Oltretutto la recente vittoria di Hollande ha messo nuovo vento nelle vele del socialismo francese, ha fatto intravvedere la possibilità di una alternativa socialista in Europa, mentre giacciono ancora afflosciate le vele di altri partiti socialisti, da quello greco a quello spagnolo e altri ancora, che non hanno saputo o potuto resistere ai diktat del neoliberismo e dell’Europa tecnocratica. Un’Europa in cui gli unici interessi legittimi paiono essere quelli dei cosiddetti mercati e del mercantilismo tedesco. Non dobbiamo dunque stancarci di proporre al PD e a SEL la adesione al PSE, soprattutto in vista delle elezioni europee del 2014, che finalmente vedranno tutti i partiti socialisti proporre unitariamente il loro candidato alla Presidenza dell’Unione. Dovremmo tuttavia evitare di presentare questa sollecitazione ad entrare nel PSE in modo ingenuo o sentimentale, quasi che l’auspicata adesione costituisse di per sé un fattore catartico e salvifico per la sinistra italiana. Purtroppo, pur in un contesto mediamente migliore di quello italiano, anche il socialismo europeo non brilla per successi, chiarezza di propositi e coesione. Quando il 30 giugno ci riuniremo a Genova per i 120 anni del Partito del lavoratoti sapremo già delle conclusioni dell’atteso vertice europeo di fine mese. Mi auguro di essere smentito dai fatti, ma temo che esso rappresenterà un nuovo passo verso la disgregazione dell’Euro, verso nuovi costi sociali per le masse popolari del nostro continente, senza che, al di là di singole iniziative nazionali e di volonterosi appelli di alcuni parlamentari europei del Gruppo democratico e socialista, si sia tentato davvero di costruire e mediare una comune linea politica in sede di PSE. La ragione sta nel prevalere dei punti di vista nazionali e nella mancanza di una visione comune fra i diversi partiti socialisti circa l’attuale capitalismo finanziario internazionale e su come gli si possa contrapporre un’altra ipotesi di sviluppo socialmente e ecologicamente alternativa. Insomma il socialismo, nell’accezione in cui ne accennavo all’inizio di questa nota, stenta a rifarsi strada anche fra i partiti del “socialismo europeo” divisi al loro interno fra quanti pensano che la svolta social-liberista della terza via sia ancora la linea da seguire e quanti avvertono l’urgenza di un riposizionamento a sinistra, ma non se la sentono di sfidare fino in fondo i meccanismi dei mercati e l’impianto su di essi costruito della Unione Europea. Preoccupati alcuni di perdere i relativi vantaggi nazionali e altri, che invece stanno già pagando alti prezzi, di essere accusati di portare allo sbando i loro paesi sfidando il patto fiscale europeo. Quanti in Italia si ispirano ai valori del socialismo e della sinistra dovrebbero perciò promuovere prioritariamente una campagna contro i valori e i paradigmi che dominano da trent’anni il panorama politico culturale dell’occidente. Tanto per cominciare bisogna lasciarsi alle spalle il culto del mercato, le ossessioni antistataliste, le visioni moralistiche del debito pubblico. Se oggi siamo guidati dal governo Monti è perché la sinistra non ha saputo in questi anni interpretare con una sua autonomia di pensiero la crisi e, una volta venute meno le ragioni dell’antiberlusconismo, si è trovata disarmata di fronte alle soluzioni della BCE presentate come nuova espressione del TINA tatcheriano (There is no alternative). Invece l’alternativa è possibile. Bisogna abbandonare la politica dell’austerità. Già in un documento del 2010 un gruppo autorevole, ma purtroppo inascoltato, di economisti critici suggeriva di puntare non sulla riduzione del debito, ma sulla stabilizzazione del rapporto debito/Pil per mantenere lo spazio di una diversa politica distributiva e di un rilancio degli investimenti pubblici. I capisaldi di una politica alternativa sono ben noti: intervento attivo della Bce sui debiti sovrani e politica monetaria più espansiva, rilancio della domanda europea, a cominciare dalla Germania, Project bond, comuni politiche europee fiscali, di welfare e di standard salariali, politiche industriali nazionali particolarmente mirate all’innovazione, all’ambiente e al territorio . Sono tutti capitoli di una politica che la sinistra dovrebbe proporre con l’ambizione di un’altra Europa e di un’altra Italia. La nostra proposta deve essere quella di un’Europa più integrata, governata su basi democratiche, orientata a un nuovo modello di sviluppo socialmente e ecologicamente sostenibile. Questo è ciò che la sinistra italiana dovrebbe portare come suo contributo al rilancio del socialismo europeo. Dobbiamo comunque essere preparati a tutti gli scenari, compreso quello della rottura dell’euro e della nostra uscita, cui potremmo arrivare non per una scelta nostra, ma per costrizione di fattori esterni. In una ipotesi o nell’altra la sinistra deve riscoprire il coraggio delle idee e il conflitto sociale che può dare la forza e l’anima a queste idee. E’ stato detto nei giorni scorsi, al convegno dell’area dei “giovani turchi” del Pd, che un partito non può esistere senza passione e ira. Condividiamo questa affermazione fatta da uno studioso certo non sospettabile di massimalismo, come Carlo Galli. Oggi in Italia non c’è una concentrazione di soggettività politica abbastanza forte e decisa per sostenere da sola un progetto come quello che abbiamo sopra sintetizzato. La particolare conformazione della sinistra italiana ci fa mancare quelle condizioni che in Francia hanno reso possibile la vittoria di Hollande. Bisogna lavorare dentro e ai fianchi dei partiti esistenti per aiutare ad affermarsi e a collaborare fra di loro le forze più disponibili al cambiamento politico e culturale in cui può identificarsi “il socialismo del futuro”. Bisogna fare emergere queste come idee vincenti alle eventuali primarie del centro-sinistra. Abbiamo auspicato tante volte la costituzione in Italia di un grande soggetto popolare, unitario, di sinistra e socialista. Il lavoro vostro,del Network per il socialismo europeo e delle tante associazioni e circoli della sinistra dispersa può contribuire a questo obiettivo, intanto muovendoci nella realtà data, senza tentazioni di creare nuovi partitini, ma moltiplicando le sedi di riflessione e di elaborazione comune. Lavorando nel modi e nella articolazione delle forme oggi possibile vogliamo tener d’occhio quel ricominciamento che fa da titolo al vostro convegno.
Lanfranco Turci
domenica 24 giugno 2012
sabato 23 giugno 2012
Claudio Bellavita: Il voto sul fiscal compact al Bundestag
abbiamo dedicato tante parole alle vicende elettorali della Grecia, ma del
> voto del Bundestag dove la Merkel ha bisogno della collaborazione del SPD
> non si occupa nessuno. Eppure potrebbe essere l'ultima occasione di
> condizionare la linea tedesca e di introdurre elementi di controllo
> democratico nella gestione della crisi europea. Che per, ora come la crisi
> politica di 100 anni fa, sembra affidata a organi "tecnici"; come erano
> tecnici i membri dello Stato Maggiore del Kaiser...
> SPD quindi sta per avere un ruolo condizionante, in cui qualcuno, dai
> giornali, dai dibattiti politici, dal timido PSE dovrebbe saltar fuori con
> l'auspicio che si guardi anche alla crescita e che il controllo delle
> feroci misure di austerità sia affidato anche a organi democratici (per
> esempio una commissione porporzionale di eurodeputati dell'eurozona, che
> peraltro niente vieterebbe ai medesimi eurodeputati dell'eurozona di
> costituirsi da soli, ma forse quando si arriva a Bruxelles si respira
> troppo inquinamento burocratico). Mi sembra invece che a sinistra regni il
> silenzio, e al massimo il "pianto greco".
> Noi in Italia, che a questa vicenda siamo tra i più interessati in Europa,
> poi, siamo bloccati...da Fioroni, che quando si parla di PSE gli viene il
> mal di pancia: è vero che il suo seguito elettorale sembra irrilevante
> come il suo pensiero, ma nel PD un "cofondatore" ha più peso della
> stragrande maggioranza degli iscritti. I sindacati hanno appena ripreso a
> incontrarsi saltuariamente in sede europea e la nostra combattiva sinistra
> alternativa continua a dividersi tra chi spera in Vendola e chi dice che
> non è abbastanza. Inadeguati
>
> voto del Bundestag dove la Merkel ha bisogno della collaborazione del SPD
> non si occupa nessuno. Eppure potrebbe essere l'ultima occasione di
> condizionare la linea tedesca e di introdurre elementi di controllo
> democratico nella gestione della crisi europea. Che per, ora come la crisi
> politica di 100 anni fa, sembra affidata a organi "tecnici"; come erano
> tecnici i membri dello Stato Maggiore del Kaiser...
> SPD quindi sta per avere un ruolo condizionante, in cui qualcuno, dai
> giornali, dai dibattiti politici, dal timido PSE dovrebbe saltar fuori con
> l'auspicio che si guardi anche alla crescita e che il controllo delle
> feroci misure di austerità sia affidato anche a organi democratici (per
> esempio una commissione porporzionale di eurodeputati dell'eurozona, che
> peraltro niente vieterebbe ai medesimi eurodeputati dell'eurozona di
> costituirsi da soli, ma forse quando si arriva a Bruxelles si respira
> troppo inquinamento burocratico). Mi sembra invece che a sinistra regni il
> silenzio, e al massimo il "pianto greco".
> Noi in Italia, che a questa vicenda siamo tra i più interessati in Europa,
> poi, siamo bloccati...da Fioroni, che quando si parla di PSE gli viene il
> mal di pancia: è vero che il suo seguito elettorale sembra irrilevante
> come il suo pensiero, ma nel PD un "cofondatore" ha più peso della
> stragrande maggioranza degli iscritti. I sindacati hanno appena ripreso a
> incontrarsi saltuariamente in sede europea e la nostra combattiva sinistra
> alternativa continua a dividersi tra chi spera in Vendola e chi dice che
> non è abbastanza. Inadeguati
>
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