Perché a me non piace Berlinguer.
.pubblicata da Giuseppe Giudice il giorno martedì 30 novembre 2010 alle ore 20.08.Perché a me non piace Berlinguer.
Non c’è alcun dubbio che Enrico Berlinguer sia stata una figura di primissimo piano non solo del PCI ma dell’intera sinistra italiana. E che sia a tutt’oggi una personalità da rispettare per il suo rigore morale, per la sua coerenza e la sua dedizione convinta alla causa della sinistra italiana.
Ma non sono assolutamente d’accordo sulla liturgia agiografica che si fa intorno alla sua personalità (anche in settori di SeL) quasi come se fosse il Padre Pio della sinistra. A parte il fatto che per me non esiste l’agiografia politica, neanche nei confronti di coloro che mi sono particolarmente cari come Lombardi, Rosselli, Allende, Olof Palme: sono personalità che possono costituire un esempio ma non da idolatrare (neanche loro lo avrebbero voluto).
E soprattutto non tollero (so che molti compagni iscritti a SeL non saranno d’accordo con quanto dico) che sia “politicamente scorretto” criticare politicamente Berlinguer ed il berlinguerismo. A parte il fatto che io non tollero il “politicamente corretto” (che è una forma implicita di censura).
E vengo al dunque, schematizzando certo. La mia vuole essere una provocazione non una analisi storico-politica articolata (mi manca la competenza e lo spazio).
Se il PCI ha avuto una sua forte peculiarità rispetto agli stessi altri partiti comunisti occidentali (vedi il PC francese) non è stato certo merito di Berlinguer (né tantomeno di Togliatti). Il merito va ascritto piuttosto a coloro che furono spregiativamente chiamati “miglioristi” (negli anni 80) e rappresentano l’evoluzione e la sintesi delle idee di Di Vittorio e di Amendola: Napolitano, Chiaromonte, Macaluso, Lama…parlo del “miglioristi storici” perché alcuni loro eredi (MOrando Ranieri) sono passati al social-liberismo.
Loro diedero il maggior impulso affinchè il PCI indirizzasse la propria evoluzione in direzione del socialismo democratico anche tramite l’attivazione di rapporti internazionali con le più importanti socialdemocrazie europee…il presidente Napolitano fu per molto tempo il ministro degli Esteri del PCI.
Tutti i partiti comunisti occidentali nel dopoguerra furono costretti a seguire una prassi socialdemocratica ed a vivere uno sdoppiamento tra la rivendicazione identitaria e la proposta politica. Il PCI non faceva certo eccezione, anzi Togliatti ha fatto della doppiezza il pilastro dell’essere PCI.
Ma negli anni 70 tale doppiezza mostrava tutta la sua debolezza e la sua contraddittorietà. Una ridefinizione identitaria del PCI era necessaria (soprattutto dopo che la invasione della Cecoslovacchia aveva dimostrato la piena irreformabilità del modello sovietico). Ora questa ridefinizione poteva avvenire tramite una esplicita rottura con la tradizione comunista internazionale (e con la integrazione del PCI nel socialismo democratico). O poteva avvenire con il portare la “doppiezza” ad un livello più alto che è quello che fece Berlinguer con i concetti di “Terza via” ed “eurocomunismo” . Secondo lo storico Silvio Pons (direttore dell’Istituto Gramsci) in Berlinguer è ferma la convinzione della possibilità di riformare democraticamente il comunismo. Ma al tempo stesso Berlinguer non si rende conto (sempre secondo Pons) che una riforma radicale e coerente (qualora fosse realmente realizzabile) sfocia nel socialismo democratico.
Infatti egli ha nei confronti della socialdemocrazia una atteggiamento pregiudiziale che poco ha a che vedere sia con la cultura politica reale del socialismo democratico.
“Noi non mettiamo sullo stesso piano, dal punto di vista storico, l’esperienza della Rivoluzione d’Ottobre e dell’Unione Sovietica e l’esperienza della socialdemocrazia”. La prima è “il più grande evento storico di questo secolo ed ha il valore di una rottura storica”; la seconda “ha operato sulla base del sistema capitalistico e del suo sistema di valori; deve dunque restare ben ferma la consapevolezza che – storicamente – ciò che ha contraddistinto la socialdemocrazia rispetto ai movimenti comunisti e rivoluzionari, è che essa persegue non una vera politica trasformatrice e rinnovatrice, ma una politica riformistica, rivolta ad attenuare le più stridenti contraddizioni del capitalismo, ma sempre all’interno del sistema capitalistico”.
Questo estratto di un discorso di Berlinguer nel 1978 dimostra il suo sostanziale conformismo ideologico ed intellettuale rispetto alla socialdemocrazia ed il suo atteggiamento contraddittorio rispetto all’URSS. Fra l’altro in un momento in cui molti partiti socialisti e socialdemocratici avevano un programma riformatore più a sinistra del PCI.
L’incapacità di Berlinguer di andare oltre la contrapposizione capitalismo-socialismo come contrapposizioni di sistemi chiusi e definiti al proprio interno è evidente. Ed è un riflesso dei paradigmi della guerra fredda.
Ho pubblicato poco fa il programma di Bad Godesberg della SPD del 1959 che nei suoi principi essenziali resta un punto di riferimento per la gran parte del socialismo europeo (il manifesto del 2008 del partito socialista francese vi si ispira in larga misura).
Ora se c’è un elemento di rottura ed innovazione in quel programma “fondamentale” è proprio il rifiuto di concepire il socialismo in termini di sistema chiuso e compiuto, ma come un processo aperto e continuo.
“Qui siamo in presenza di un riformismo che
supera la contrapposizione di sistemi, capitalismo e socialismo, e mira
al progresso indefinito di valori socialisti” ed ancora : “I valori fondamentali, e perciò anche i fini che vanno perseguiti e che
condizionano i mezzi, sono «la libertà politica e personale, l'autodeter·
minazione, la sicurezza economica, la giustizia sociale». Il progresso
verso la loro piena affermazione può e deve essere compiuto nel quadro
delle istituzioni democratiche: lo «Stato costituzionale» della Repub·
blica federale tedesca «è il nostro Stato». La libertà è riferita in primo
luogo all'individuo, alla persona; ma ne è condizione essenziale la
piena «liberazione» della «classe operaia»; perciò la SPD considera
fondamentali un rapporto contrattualistico con l'organizzazione sinda·
cale, un controllo efficace sulle «grandi imprese economiche», una
«politica dei redditi e dei patrimoni», la democrazia economia mediano
te la «cogestione>>. Così Antonio Giolitti commentava nel 1984 quel programma socialdemocratico che fu snobbato allora anche da Pietro Nenni.
Fino a quando il socialismo viene concepito come un sistema in contrapposizione ad un altro è inevitabile che ogni tentativo di trasformazione dall’interno del capitalismo venga concepito come un tentativo di integrare la classe operaia in esso e di razionalizzare il sistema. Ma non è così. Anche perché poi le proposte concrete del PCI molto spesso sono state più moderate della odiata socialdemocrazia. Ed anche i partitini neocomunisti di oggi non vanno oltre Bad Godesberg.
La verità è che i partiti socialdemocratici hanno ottenuto molti più risultati per la classe operaia e le masse popolari nei loro paesi di quanto abbia fatto tutta la sinistra italiana PCI e PSI. Del resto Willy Brandt diceva sempre che il socialismo democratico voleva essere una terza via tra capitalismo e comunismo (così come si erano caratterizzati dopo la II Guerra Mondiale)
C’è certo una altra parte di Berlinguer (che è quella più citata oggi): la questione morale.
Non c’è dubbio che nel merito Berlinguer avesse ragione nel denunziare l’occupazione dei partiti di governo di ospedali, enti pubblici. Ma non faceva lo stesso il PCI dove governava? E soprattutto questa pratica degenerativa non era il frutto di quel consociativismo che il compromesso storico elevava a sistema? Per cui sono propenso a credere che l’agitazione della questione morale (fermo restando la piena convinzione personale di Berlinguer) connessa alla diversità fosse un espediente propagandistico per nascondere la crisi identitaria del PCI (così come era un espediente propagandistico la “grande riforma” – vuota – di Craxi). E comunque una certa estremizzazione antipolitica della questione morale ha aperto la strada al giustizialismo.
Ho già detto in un altro scritto che il fallimento della sinistra italiana è frutto del fallimento contestuale dei due progetti – quello di Berlinguer e quello di Craxi. Uno si arrabbiò perché mi ero permesso di accostare il nome di uno destinato alla beatificazione come Berlinguer con un ladro, grassatore, farabutto ed immorale come Craxi. Naturalmente ho interrotto la comunicazione. Chi mi conosce sa che sono un critico severo del craxismo e del postcraxismo. Ma se riduciamo il confronto storico-politico alla battaglia tra Padre Pio e Alì Babà non ne usciamo fuori. Craxi con tutti i suoi errori e le sue colpe è stato una grande personalità politica che va giudicata e criticata politicamente.
Qualcuno potrebbe rimproverarmi di guardare, con questo scritto, troppo al passato. Io cerco piuttosto di rintracciare nel passato la causa di alcune idiosincrasie della sinistra odierna. Ad esempio una certa pervicace ostilità verso il socialismo europeo in alcuni settori. E giacchè parte della nostra battaglia è portare la sinistra da ricostruire in quell’alveo (certo rinnovato) si capisce la insistenza…..
PEPPE GIUDICE
2 commenti:
INECCEPIBILE!!!!
Mi complimento vivamente con il compagno Giudice.
Il giudizio su Berlinguer non è questione che attiene alla storia passata,
ma costituisce l'elemento cardine di quell'insieme di teorie e pratiche
consolatorie che hanno impedito al Pci-Pds-Ds di uscire una volta per tutte
dalla non-identità postcomunista e che, dunque, hanno in definitiva condotto
all'approdo del PD. Ergo l'approdo a quello che non noi veterosocialisti,
ma autorevoli esponenti della segreteria nazionale dello stesso PD, nel
documento dei cosiddetti "giovani turchi" hanno definito con queste testuali
parole:
"partito "completamente nuovo", figlio di niente e di nessuno, contenitore
post-identitario di tutto, supermercato elettorale di un molteplice nulla.
... summa teorica di un'eclettica visione dell'Italia, mutuata da tutte le
narrazioni dominanti nel ristretto circuito delle nostre classi dirigenti"
(cfr. http://santilli.ilcannocchiale.it/post/2535138.html ).
Berlinguer era una persona per bene, ma sbagliò quasi tutto.
Vide lucidamente gli errori e gli orrori dei regimi comunisti, ma scommise
sulla loro riformabilità.
Per non fare i conti fino in fondo con il carattere fallimentare e
totalitario di quei sistemi, rassicurò la sua base con formule edulcorate (i
tratti illiberali, la fine della spinta propulsiva) che allora parvero
coraggiose, mentre obiettivamente erano ingannevoli.
Mantenne l'esperimento eurocomunista entro i limiti dell'ortodossia
ideologica, tenendo fermo l'anatema anti-socialdemocratico.
Così facendo, fu il massimo responsabile della perpetuazione del "fattore
K", che ha bloccato la democrazia italiana, impedendo una fisiologica
alternanza al governo. I vizi della democrazia bloccata, poi, sono stati
aggravati dalla pratica consociativa, incentivata ed esaltata con la
dottrina berlingueriana del compromesso storico.
Il peggior danno ai posteri, però, Berlinguer l'ha prodotto con la teoria
della "diversità" dei comunisti italiani, con la quale negli anni '80 tentò
di surrogare la strategia politica del compromesso, rivelatasi fallimentare
ed impraticabile.
La teoria era falsa. Basta leggere le cronache di tangentopoli (per tutte
si veda il libro di Gerardo D'Ambrosio, "La giustizia ingiusta" , ove sono
indicate le percentuali codificate delle tangenti spettanti al PCI-Pds su
ogni appalto milanese). Ma i danni sono autentici, giacché se le differenze
tra i comunisti e gli altri non sono più politiche, ma genetiche o
antropologiche, allora si creano le premesse per la "cosa", anzi per le
molte "cose" senza più anima politica che - come l'essere creato da
Frankenstein - vagano alla cieca dopo la fine del Pci andando a sbattere di
qua e di là.
Ecco perché ha ragione Giudice: se non si smonta quel santino non si ritrova
la strada perduta.
Luciano Belli Paci
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