sabato 11 maggio 2013

Franco Cassano: Lo schema che imprigiona la sinistra

l'Unità, 8 maggio 2013 Lo schema che imprigiona la sinistra di Franco Cassano Sicuramente la mutilazione della «vittoria» del 25 febbraio è la madre di quelle successive e di quelle, ancora più dolorose, che potrebbero seguire. Credo che per evitare questa spirale sia necessario spostare il piano della riflessione sul voto. Collocandola all'interno di un arco temporale più lungo e sottraendosi alla tentazione di una spiegazione iper-politicista. A dilettarsi in questo gioco, infatti, c'è già un'enorme armata di specialisti, dai politici ai giornalisti, tutti appassionati di tattica e strategia, tutti seguaci di Sun Tzu o Machiavelli. Accade così che troppo spesso gli insuccessi elettorali vengano imputati a limiti e difetti delle strategie adottate, aprendo ciclicamente, all'indomani delle sconfitte, l'antico gioco crudele delle rese dei conti e dei capri espiatori. Non intendiamo certo negare che la dimensione soggettiva e le scelte fatte abbiano avuto un ruolo rilevante nel determinare i rapporti di forza tra gli schieramenti, ma pensiamo anche che troppo facilmente nella costruzione del ragionamento sia stato rimosso un dato che, come accadeva per la lettera rubata di Poe, abbiamo di fronte agli occhi, ma ci rifiutiamo di vedere. L'unico pregio del recente risultato elettorale è proprio quello di aver reso ancor più evidente questo dato e impossibile la sua rimozione: da tempo il centrosinistra possiede un bacino elettorale ristretto e non espansivo, e il voto di febbraio dimostra che neanche i fenomeni di radicalizzazione prodotti dalla crisi riescono a modificare tale situazione a suo favore. Non si tratta certo di una novità: anche se sistematicamente ignorato, questo convitato di pietra esiste da molti anni, e tutte le ricerche sul comportamento elettorale degli italiani hanno ripetutamente segnalato che la base sociale della coalizione di centrosinistra è caratterizzata dalla sovra-rappresentazione di tre aree sociali: quella del lavoro dipendente prevalentemente pubblico, e sempre più quella dei pensionati (ben il 37 per cento il 25 febbraio!) e quella delle figure dotate di un alto livello di istruzione. Si tratta di una base sociale fortemente legata al sistema del welfare, la cui composizione è in buona misura il riflesso dell'espansione della sfera dei diritti che si produsse negli anni settanta. In altre parole il centrosinistra rappresenta oggi quella vasta area sociale del lavoro dipendente, che riuscì in quegli anni a costruire un complesso di garanzie capace di sottrarla all'incertezza e alle intemperie del mercato. Se ci si sofferma su questa composizione dell'elettorato del centrosinistra non si può non cogliere lo scarto esistente tra l'immagine che esso ha di sé e la sua condizione reale. In contraddizione con la narrazione che gli è cara, esso si trova, specialmente nel settore pubblico, in una condizione molto diversa da quella ritratta nel «Quarto stato» del famoso quadro di Pellizza da Volpedo. Certo, attraverso le sue lotte esso ha realizzato conquiste cruciali per la civiltà di un popolo, ma non riesce neanche ad avvertire come esse, in una situazione drammatica come quella che attraversa il Paese, possano apparire ad altri come un privilegio, una sottrazione corporativa all'incertezza generale. La maggior parte di coloro che non vengono raccolti da questa rete giocano infatti un'altra partita e finiscono per approdare altrove. La figura dominante nell'area sociale esterna al centrosinistra è infatti quella del lavoratore autonomo, che va dal padrone in senso classico al professionista, all'artigiano, al commerciante: è il mondo delle partite Iva e del capitalismo personale, un mondo spesso vitale, ma sistematicamente allergico alle regole. La linea di demarcazione tra lavoro dipendente e lavoro autonomo lascia quindi fuori del centrosinistra la grande maggioranza di questo popolo, che in Italia è particolarmente esteso. Non solo: anche l'area del lavoro dipendente privato, molto più esposta di quello pubblico alle vicende del mercato, sembra esodare almeno in parte dal bacino elettorale del centrosinistra e assestarsi in quello del centrodestra. Tutti sappiamo che in alcune aree del nord è esistita a lungo una sorta di doppia militanza, iscrizione alla Cgil, voto alla Lega, e che da tempo la classe operaia ha smesso di votare prevalentemente a sinistra. All'interno dei due schieramenti lo Stato si configura in modo diametralmente opposto: se dal lato del centrosinistra esso appare come lo strumento per la difesa dei diritti e della legalità e per la maturazione civile del Paese, dal lato del centrodestra esso appare invece come un'entità nemica che, aumentando la pressione fiscale e i controlli, viola la libertà della proprietà e dell'impresa. Questa allergia unifica figure molto diverse, dai comitati di affari e le fameliche cordate che si assiepano intorno agli appalti pubblici alle imprese esposte sul mercato internazionale, al piccolo esercizio commerciale, assillato dalla precarietà e dalla concorrenza «sleale» degli ipermercati. Questo popolo si protegge con strategie ben diverse da quelle codificate nel popolo di centrosinistra, e sogna una mobilità sociale che, non essendo più garantita dal tradizionale canale dell'istruzione, sembra potersi incarnare molto di più nel successo dei divi dello sport e dello spettacolo. L'antistatalismo di questo popolo viene da lontano, ma Berlusconi ha saputo utilizzarlo a lungo come collante egemonico, occultando il proprio personale conflitto di interessi nel quadro di un neoliberismo all'italiana, preoccupato molto più di privatizzare e condonare che di mettere in grado di competere. La Seconda Repubblica è fondata su questo bipolarismo prima sociale che politico, sull'opposizione tra questi due popoli e sulla ridefinizione della destra e della sinistra che si produce intorno a questo passaggio. Si afferma così una composizione sociale dello scontro che non consente mai al centrosinistra di conquistare una maggioranza stabile per governare: esso rappresenta sicuramente la parte più «civile» e presentabile del Paese, ma ne costituisce una minoranza. È da questo scarto e da questa impotenza che è nata quella polemica morale sulle tare civili del carattere degli italiani che ha caratterizzato la lotta politica in modo sempre più acuto nell'ultimo decennio e che ha fatto divenire un bestseller il Discorso di Leopardi di quasi due secoli fa. Ma anche quando il cappio egemonico di Berlusconi si allenta ed egli appare corrispondere sempre più all'immagine morettiana del «caimano», la maggioranza degli italiani non si fida dei suoi avversari politici. E anche quando la crisi strozza il Paese, radicalizzando aree estese di entrambi i blocchi sociali, dai giovani disoccupati o precari, estranei per sempre al sistema delle garanzie, alle piccole imprese decimate dalla contrazione dei mercati e del credito, questo inasprimento non incontra il centrosinistra, ma la protesta avventurista ed ambigua del grillismo (il 37% degli studenti e il 39% dei lavoratori autonomi). Il corollario politico che si può ricavare dall'analisi proposta è molto semplice: è necessario disincagliare lo scontro politico tra destra e sinistra da una configurazione che è stata costantemente sfavorevole alla sinistra. In questo gioco si corre il rischio di perdere sempre e di frenare lo sviluppo stesso del Paese. Ma questo passaggio sarà possibile solo a due condizioni: da un lato il centrodestra dovrà mettersi alle spalle la leadership pesantemente personalistica che lo ha dominato in questo ventennio, il vero ostacolo ad ogni stabile collaborazione istituzionale, dall'altro il centrosinistra dovrà prendere atto della limitatezza difensiva della propria base elettorale, spingerla a mettersi in gioco e ripensare seriamente a quali sono le condizioni necessarie per costruire un sistema di protezione sociale capace di coprire tutti in modo più equo. Due missioni che allo stato delle cose sembrano impossibili. Riducendo la nostra idea ad una formula necessariamente sommaria potremmo esprimerla così: è necessario riconnettere quanto prima e con grande decisione cultura e produzione, ricerca scientifica e presenza nello scenario globale, riconoscendo che un sistema di protezione sociale non può conservarsi se un Paese sta declinando. La contrapposizione che ha segnato la vita della Seconda Repubblica ha impedito che impresa e cultura interagissero in modo fecondo: da un lato un'impresa a basso contenuto tecnologico, incapace, tranne alcune eccezioni, di inserirsi con successo nel regno delle lavorazioni di punta, dall'altro una cultura diffidente e capace di vedere nella produzione solo il pericolo della devastazione, come se per sperimentare nuove forme di compatibilità sociali ed ambientali non fosse necessaria più ricerca. Questa polarizzazione tra il mondo della produzione e quello del sapere è stata sia la conseguenza, che la causa della progressiva perifericizzazione del nostro Paese, di quello che non è azzardato chiamare declino. Solo partendo dal superamento di questa polarizzazione è possibile rilanciare un'idea ambiziosa dell'Italia, sparigliare il gioco perverso in cui essa sembra avvitata, facendone una protagonista dello scenario politico europeo, un soggetto vitale del mondo globale. Ma per far questo il Paese ha bisogno di innescare circoli virtuosi e non contrapposizioni che balcanizzano le risorse. Questo scarto in avanti non verrà certo dalle dinamiche spontanee dei mercati, ma solo se la politica saprà pensarlo come una priorità assoluta. Non si tratterà di schierarsi pro o contro il mercato, ma di indicare come stare nel mercato, di produrre quelle decisioni forti che sono necessarie per contrastare la perifericizzazione del Paese. Solo allora ci saremo affacciati nella Terza Repubblica.

Nessun commento: