Bersani ha ragione quando afferma che Renzi scambia per nuovo il peggio dell’usato degli anni 80.
Nel Psi di fine anni 80 sorse un pensiero di risulta che ebbe in Gianni De Michelis (che comunque aveva uno spessore di gran lunga maggiore di Renzi) il suo massimo esponente. Un pensiero tecno-dannunziano (come lo chiamo io) che esaltava acriticamente la modernizzazione, l’innovazione. Che nello stesso linguaggio operava una torsione economicista della politica ( “L’Azienda Italia”). Che in definitiva, tramite questo procedimento, era incapace di leggere le contraddizioni profonde della modernizzazione capitalistica. Dietro la quale c’era la formazione del capitalismo finanziario quale elemento strutturale e non accessorio del processo di accumulazione del capitale. Con tutti gli squilibri nella distribuzione della ricchezza e del potere che esso ha prodotto.
Lombardi ci insegnava che i socialisti devono sempre collocare l’azione politica dentro una analisi della dinamica economica e sociale in atto. Una corretta capacità di lettura della società e della economia impediscono di rendere obsoleta una certa azione politica. Ma ci ha insegnato al tempo stesso la fedeltà alla missione che i socialisti hanno di costruire una società fondata sulla giustizia sociale, la democrazia economica e l’emancipazione del lavoro. Le due cose devono sempre marciare di pari passo.
La SPD con il troppe volte citato programma di Godesberg compì un grosso sforzo di innovazione culturale (che aveva le sue premesse negli anni 30) ma restando fedele al nucleo forte del progetto socialista. Si trasformò ad esempio in “partito di popolo” da partito di classe mantenendo un rapporto preferenziale con la classe operaia. Brandt diceva “la SPD non ha bisogno di uan corrente operaria, perché il cuore del partito è operaio”
Il socialismo democratico, quindi, rifiuta sia il conservatorismo ideologico dei Sabatini o dei Cremaschi, sia il modernismo di maniera che nasconde la subalternità al capitalismo liberista.
Ma se nel PSI De MIchelis (e Martelli) volevano di fatto fuoriuscire dal socialismo non era questo comunque il pensiero di Craxi. Al quale vanno imputate certo gravi distorsioni nella gestione del partito, ma al quale va riconosciuta una differenza di pensiero che non viene notata quando alla analisi politica si sostituisce l’animosità da tifoso. Ecco un passo di Craxi del 1990 (altre volte l’ho pubblicato):
“Il problema che abbiamo di fronte è quello di evitare lo spreco delle grandi potenzialità oggi esistenti, di spezzare i circuiti involutivi in cui rischiano di paralizzarsi e di esaltarle in una crescita larga ed equilibrata. Quando l’economia, la cultura, le tecnologie ci offrivano molto di meno di quanto oggi è loro possibile, siamo riusciti nei paesi democratici a moltiplicare le opportunità di lavoro, a creare reti di protezione sociale, a far affermare il principio dell’uguaglianza, a migliorare grandemente il tenore di vita. Ma questo mondo nuovo più progredito, più evoluto, più civile, è colmo di contraddizioni. Abbiamo moltiplicato i canali finanziari per produrre ricchezza, ma la ricchezza finanziaria si chiude nei suoi circuiti, riduce la solidità del nostro sviluppo, estrania i Paesi che più ne hanno bisogno. Il progresso scientifico e tecnologico ha portato straordinari benefici alla nostra vita e alla nostra salute, ma ha creato e crea rischi per noi e per le generazioni future. Abbiamo opportunità di produzioni, di consumi e di svago che mai avevamo raggiunto ma queste maggiori possibilità e questa vita più ricca, lorda la terra, l’acqua, l’aria, logora il territorio, degrada il nostro patrimonio culturale.”
” Ma un mercato abbandonato a soli attori economici genera squilibri, poteri prevaricanti ed abusi che impediscono un progresso armonico, danneggiano la collettività e, nel tempo lungo, le stesse attività economiche. Lo Stato deve intervenire sul mercato ma con precise regole: regole che impongano standard professionali e patrimoniali a chi svolge determinate attività, regole limitative delle concentrazioni e a tutela della concorrenza, che assicurino trasparenza ed informazione, che sanzionino diritti e responsabilità, che diano argini alle attività finanziarie e neutralizzino le loro potenzialità speculative e destabilizzanti. Il sistema misto che caratterizza l’economia italiana ha dato risultati positivi e non può essere travolto nel nome di indefinite privatizzazioni agitate talvolta con una demagogia ideologica che nasconde il peggio piuttosto che proposte entro i limiti di una pratica e giustificata concretezza ed utilità. L’impresa pubblica ha ancora molte funzioni da svolgere: c’è ancora il Mezzogiorno, che ha bisogno di infrastrutture, insediamenti produttivi e servizi. Ci sono produzioni e tecnologie verso le quali le partecipazioni statali possono canalizzare le loro risorse finanziarie. C’è il contributo che esse possono dare alla concorrenza e all’efficienza stessa dei mercati. In campo finanziario, l’esplosione delle attività e il moltiplicarsi degli intermediari hanno fatto saltare molte regole del passato, hanno messo a dura prova le capacità degli organi di vigilanza ed hanno occupato un vasto territorio al di fuori di ogni disciplina di trasparenza e di responsabilità. Rimedi urgenti richiede anche il sistema bancario. Di qui la necessità di un impegno legislativo, che è stato sino ad oggi soltanto avviato, per costruire gli argini e le regole di un mercato in crescita.”
Questo serve a capire il caratttere contraddittorio del craxismo anni 80. Ma voglio sottolineare come il modernismo ed il nuovismo di De Michelis siano stati fatti interalmente fattoi propri dall'ulivismo, che nella sua crociata contro CRaxi , aveva finito per raccogliere proprio gli aspetti peggiori del postcraxismo fine anni 80. E che dire del rampantismo del PD? Di cui forse Bersani non ha colpa ma che lo condiziona terribilmente.
Meditate gente...
PEPPE GIUDICE
Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
lunedì 31 ottobre 2011
domenica 30 ottobre 2011
sabato 29 ottobre 2011
venerdì 28 ottobre 2011
giovedì 27 ottobre 2011
mercoledì 26 ottobre 2011
Be bold, Mario, put out that fire - FT.com
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Be bold, Mario, put out that fire
By Martin Wolf
Dear Mario,
Congratulations and commiserations: next week, you will take up one of the most important central banking jobs in the world; but you will also bear a frightful responsibility. The European Central Bank alone has the power to quell the eurozone crisis. You must choose between two paths: the orthodox one leads towards failure; the unorthodox one should lead towards success.
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Insight Berlusconi faces ultimate downgrade
The eurozone confronts a set of complex longer-term challenges. But the members will not get the chance to make needed adjustments and implement required reforms if it does not survive. The immediate requirements include putting Greece on a sustainable path; avoiding a meltdown in public debt markets of several large countries; and preventing a collapse of banks. Of these, it is the last two that matter.
The economist who has best explained the role of the ECB is Paul De Grauwe of Leuven university.* Why, he has asked, do rates of interest on the debt of several big eurozone member countries exceed the UK’s, even though the latter’s fiscal position is far from superior: Spain’s deficits and net public debt are lower than the UK’s; Italy’s debt ratio is higher but its deficit far smaller; and the French deficit is smaller, though its debt is slightly larger (see charts).
It is surely surprising that markets view UK debt less sceptically than those of the others. It is not because Anglophones have devised a cunning plot to destroy the euro; they are not that clever. To put Prof De Grauwe’s alternative explanation starkly, it is the central bank, stupid.
What, after all, determines the price of sovereign debt? Governments offer no collateral, while claims on tax revenue offer illusory security.
Consider the example of Italy: the net public debt is 120 per cent of gross domestic product; average maturity is seven years; and the fiscal deficit is 4 per cent of GDP. So its government needs to raise a fifth of GDP each year. Every creditor knows this. Suppose creditors feared that the government might be unable to borrow such vast sums. Could Italy survive by slashing spending? No. If the country tried to redeem its debt out of revenue, it would need to slash spending by far more than a fifth of GDP, overnight, since the very attempt would tip the country into a depression. No sane creditor imagines that a country could roll over its debt in this situation.
Government debt markets are lifted by their own bootstraps: the willingness to lend depends on the perceived willingness of others to do so, now and in future. Such markets are exposed to self-fulfilling runs and so need a credible buyer of last resort: the central bank. The UK has one. Your members do not. In effect, they borrow in foreign currency.
Of course, members can reduce the risks. They can have lower debts and deficits, though Spain actually began the crisis with less of both than Germany. They can borrow long: in the 19th century, much UK debt was irredeemable. They can promise fiscal austerity, though whether that helps depends on the expected outcome: a promise of endless austerity rarely breeds credibility.
Any effort by the ECB to be the lender of last resort that members need will start a firestorm of protest. People will argue that the central bank may lose money, exacerbate moral hazard and stoke inflation.
To the first of these objections, the right response is: so what? The central bank’s aim is to stabilise economies, not make money. Indeed, it is far more likely to lose money through half-hearted interventions than through forceful interventions that succeed. On the second, a clear understanding of the rules governing fiscal and economic policy is needed. You also need to decide whether a country is credibly solvent. Surely, Italy and Spain are. On the third, no good reason exists to expect an out-of-control inflationary process as a result of central bank monetary operations. The expansion of base money does not lead automatically to an expansion in the overall money supply, as you know well. Indeed, during the current crisis, the monetary base has become disconnected from the money supply in all big economies. That is what a financial crisis means.
Suppose the ECB did succeed in stabilising government bond markets in this way. It would also automatically stabilise the banks, since it is fears of sovereign defaults that are driving worries over banking insolvency. The capital to protect the European banking system from big defaults by important sovereigns simply does not exist. It is particularly ridiculous to suppose that sovereigns can provide effective insurance against their own default. Yet since there is no good reason for a well-managed eurozone to suffer such defaults in the first place, the answer is to stop them – at source.
The qualification is deliberate. A well-managed eurozone is one in which growth is sustained and adjustment promoted. Again, the ECB has the central role to play.
The eurozone as a whole did not suffer huge asset bubbles and consequent financial crises: these were limited to a few peripheral members. No good reason existed for a big recession and subsequent weak growth. Yet the ECB has permitted nominal GDP and the money supply (supposedly, the “second pillar” of its policies) to stagnate. In the second quarter of 2011, nominal eurozone GDP was a mere 1.4 per cent higher than three years before. Broad money grew at a compound annual rate of just over 2 per cent in the three years to the end of August. Again, core inflation – the only relevant target when commodity prices are so erratic – has run at a compound rate of 1.4 per cent a year in the three years to September. To any sensible observer, all this screams that ECB policy has been far too tight. If the eurozone is to enjoy any hope of adjustment with growth this must change, and now.
The eurozone risks a tidal wave of fiscal and banking crises. The European financial stability facility cannot stop this. Only the ECB can. As the sole eurozone-wide institution, it has the responsibility. It also has the power. I am sorry, Mario. But you face a choice between pleasing the monetary hawks and saving the eurozone. Choose the latter. Explain why you are making the choice. And remember: fortune favours the bold.
Yours,
Martin
* Only a more active ECB can solve the euro crisis, Centre for European Policy Studies, August 2011, www.ceps.be/book/only-more-active-ecb-can-solve-euro-crisis
martin.wolf@ft.com
Be bold, Mario, put out that fire
By Martin Wolf
Dear Mario,
Congratulations and commiserations: next week, you will take up one of the most important central banking jobs in the world; but you will also bear a frightful responsibility. The European Central Bank alone has the power to quell the eurozone crisis. You must choose between two paths: the orthodox one leads towards failure; the unorthodox one should lead towards success.
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The eurozone confronts a set of complex longer-term challenges. But the members will not get the chance to make needed adjustments and implement required reforms if it does not survive. The immediate requirements include putting Greece on a sustainable path; avoiding a meltdown in public debt markets of several large countries; and preventing a collapse of banks. Of these, it is the last two that matter.
The economist who has best explained the role of the ECB is Paul De Grauwe of Leuven university.* Why, he has asked, do rates of interest on the debt of several big eurozone member countries exceed the UK’s, even though the latter’s fiscal position is far from superior: Spain’s deficits and net public debt are lower than the UK’s; Italy’s debt ratio is higher but its deficit far smaller; and the French deficit is smaller, though its debt is slightly larger (see charts).
It is surely surprising that markets view UK debt less sceptically than those of the others. It is not because Anglophones have devised a cunning plot to destroy the euro; they are not that clever. To put Prof De Grauwe’s alternative explanation starkly, it is the central bank, stupid.
What, after all, determines the price of sovereign debt? Governments offer no collateral, while claims on tax revenue offer illusory security.
Consider the example of Italy: the net public debt is 120 per cent of gross domestic product; average maturity is seven years; and the fiscal deficit is 4 per cent of GDP. So its government needs to raise a fifth of GDP each year. Every creditor knows this. Suppose creditors feared that the government might be unable to borrow such vast sums. Could Italy survive by slashing spending? No. If the country tried to redeem its debt out of revenue, it would need to slash spending by far more than a fifth of GDP, overnight, since the very attempt would tip the country into a depression. No sane creditor imagines that a country could roll over its debt in this situation.
Government debt markets are lifted by their own bootstraps: the willingness to lend depends on the perceived willingness of others to do so, now and in future. Such markets are exposed to self-fulfilling runs and so need a credible buyer of last resort: the central bank. The UK has one. Your members do not. In effect, they borrow in foreign currency.
Of course, members can reduce the risks. They can have lower debts and deficits, though Spain actually began the crisis with less of both than Germany. They can borrow long: in the 19th century, much UK debt was irredeemable. They can promise fiscal austerity, though whether that helps depends on the expected outcome: a promise of endless austerity rarely breeds credibility.
Any effort by the ECB to be the lender of last resort that members need will start a firestorm of protest. People will argue that the central bank may lose money, exacerbate moral hazard and stoke inflation.
To the first of these objections, the right response is: so what? The central bank’s aim is to stabilise economies, not make money. Indeed, it is far more likely to lose money through half-hearted interventions than through forceful interventions that succeed. On the second, a clear understanding of the rules governing fiscal and economic policy is needed. You also need to decide whether a country is credibly solvent. Surely, Italy and Spain are. On the third, no good reason exists to expect an out-of-control inflationary process as a result of central bank monetary operations. The expansion of base money does not lead automatically to an expansion in the overall money supply, as you know well. Indeed, during the current crisis, the monetary base has become disconnected from the money supply in all big economies. That is what a financial crisis means.
Suppose the ECB did succeed in stabilising government bond markets in this way. It would also automatically stabilise the banks, since it is fears of sovereign defaults that are driving worries over banking insolvency. The capital to protect the European banking system from big defaults by important sovereigns simply does not exist. It is particularly ridiculous to suppose that sovereigns can provide effective insurance against their own default. Yet since there is no good reason for a well-managed eurozone to suffer such defaults in the first place, the answer is to stop them – at source.
The qualification is deliberate. A well-managed eurozone is one in which growth is sustained and adjustment promoted. Again, the ECB has the central role to play.
The eurozone as a whole did not suffer huge asset bubbles and consequent financial crises: these were limited to a few peripheral members. No good reason existed for a big recession and subsequent weak growth. Yet the ECB has permitted nominal GDP and the money supply (supposedly, the “second pillar” of its policies) to stagnate. In the second quarter of 2011, nominal eurozone GDP was a mere 1.4 per cent higher than three years before. Broad money grew at a compound annual rate of just over 2 per cent in the three years to the end of August. Again, core inflation – the only relevant target when commodity prices are so erratic – has run at a compound rate of 1.4 per cent a year in the three years to September. To any sensible observer, all this screams that ECB policy has been far too tight. If the eurozone is to enjoy any hope of adjustment with growth this must change, and now.
The eurozone risks a tidal wave of fiscal and banking crises. The European financial stability facility cannot stop this. Only the ECB can. As the sole eurozone-wide institution, it has the responsibility. It also has the power. I am sorry, Mario. But you face a choice between pleasing the monetary hawks and saving the eurozone. Choose the latter. Explain why you are making the choice. And remember: fortune favours the bold.
Yours,
Martin
* Only a more active ECB can solve the euro crisis, Centre for European Policy Studies, August 2011, www.ceps.be/book/only-more-active-ecb-can-solve-euro-crisis
martin.wolf@ft.com
Luciano Belli Paci: Balle liberiste
Per fortuna ogni tanto qualcuno smaschera le balle spaziali degli ultrà
liberisti.
Anche se l'argomento è tecnico, mi piace segnalarvi la risposta del Prof.
Alpa, presidente del CNF, all'ennesimo sproloquio del presidente della Adam
Smith Society, Alessandro De Nicola.
Giocano a fare i liberal-liberisti anglosassoni, ma non sanno di cosa
parlano !
Ciao.
Luciano Belli Paci
Guido Alpa: Chi compara la professione forense in Italia con quella in
Inghilterra sembra non conoscere le sostanziali diversità
Il presidente del Consiglio nazionale forense replica all'articolo
pubblicato oggi sul Sole 24 Ore a firma di Alessandro De Nicola. "E' dovere
dell'avvocato italiano l'indipendenza e l'autonomia", scrive Alpa.
Per instaurare un dialogo occorre muovere da alcune convenzioni: la
condivisione della stessa lingua, la conoscenza di dati di fatto comuni,
etc. Ora è difficile rispondere all'avvocato Alessandro De Nicola, e a
quanto sostiene sul Sole 24 Ore nell'articolo "Spiragli di luce dai giovani
avvocati riformisti", perché pur parlando la stessa lingua non condividiamo
gli stessi dati di fatto, e quindi le conclusioni a cui i nostri
ragionamenti conducono sono diametralmente opposte.
Vediamo perché. De Nicola muove dal presupposto che sia felice la scelta di
politica legislativa inglese che ha introdotto nuove regole organizzative
della professione forense che consentono agli avvocati di costituire società
di capitali ed eventualmente quotarle in borsa ed addita quel modello a
soluzione proponibile per risolvere i problemi avvertiti dallla categoria in
Italia.
Purtroppo il testo menzionato disciplina l'attività dei solicitors non degli
"avvocati".
In Inghilterra i solicitors si occupano di tuttà l'attivita di consulenza,
degli atti e degli affari che in Italia sono oggetto di riserva per i notai,
come i trasferimenti immobiliari, o di riserva comune a notai e
commercialisti, come il trasferimento delle quote societarie o da alte
categorie come gli agenti immobiliari.
Le due categorie - solicitors e avvocati- non sono comparabili. Vi sono poi
i barrister: l' avvocato De Nicola non ne parla e quindi non dice che per
patrocinare dinanzi ai giudici inglesi il titolo si acquista dopo aver
superato un esame, e questa qualificazione non è ancora sufficiente. Occorre
anche essere assegnatari di una chamber, e le chambers sono un numero
chiuso. E' una sorta di monopolio che la Commissione europea non si è mai
curata di sopprimere, come non ha soppresso il monopolio degli avvocati
francesi o tedeschi, che in poche decine sulla base di un meccanismo di
cooptazione, ricevono l' investitura per assolvere la funzione di difesa
dinanzi alle corti superiori (mentre da noi gli avvocati cassazionisti sono
un esercito di 46000 unità).
Quanto poi alle società di avvocati o con socio di puro capitale, intanto si
ignora che già esiste un tipo sociale a cui proprio gli avvocati potrebbero
ricorrere, ed è la società tra professionisti, a cui peraltro ben pochi
avvocati hanno fatto ricorso perché non è conveniente dal punto di vista
fiscale. Poi. proprio perché gli avvocati italiani non sono solicitors, i
tipi sociali utilizzati per le attività commerciali non possono essere
adeguati alla professione forense. Si dimentica infine che dovere
dell'avvocato (italiano) è l' indipendenza e l'autonomia per assicurare al
cliente non solo una prestazione qualitativamente adeguata ma anche la
garanzia che sia svolta al riparo da ogni conflitto di interesse.
L'oscura origine di capitali, fenomeno conosciuto in Italia e a quanto
sembra non in Inghilterra, l'esercizio abusivo della professione trincerato
dietro lo schermo societario ed altre ragioni militano contro l'adozione di
tipologie societarie diverse dalla Stp (società tra professionisti)
Non è la prima volta che leggiamo a firma dello stesso Autore articoli che
dileggiano gli organi rappresentativi degli avvocati: viva la libertà di
opinione e di stampa si dirà, e cosi dico anch'io, ma scrivere però con
cognizione di causa e senza apriorismi è una regola del vivere civile che
non si deve dimenticare. Tanto più quando si è avvocati.
liberisti.
Anche se l'argomento è tecnico, mi piace segnalarvi la risposta del Prof.
Alpa, presidente del CNF, all'ennesimo sproloquio del presidente della Adam
Smith Society, Alessandro De Nicola.
Giocano a fare i liberal-liberisti anglosassoni, ma non sanno di cosa
parlano !
Ciao.
Luciano Belli Paci
Guido Alpa: Chi compara la professione forense in Italia con quella in
Inghilterra sembra non conoscere le sostanziali diversità
Il presidente del Consiglio nazionale forense replica all'articolo
pubblicato oggi sul Sole 24 Ore a firma di Alessandro De Nicola. "E' dovere
dell'avvocato italiano l'indipendenza e l'autonomia", scrive Alpa.
Per instaurare un dialogo occorre muovere da alcune convenzioni: la
condivisione della stessa lingua, la conoscenza di dati di fatto comuni,
etc. Ora è difficile rispondere all'avvocato Alessandro De Nicola, e a
quanto sostiene sul Sole 24 Ore nell'articolo "Spiragli di luce dai giovani
avvocati riformisti", perché pur parlando la stessa lingua non condividiamo
gli stessi dati di fatto, e quindi le conclusioni a cui i nostri
ragionamenti conducono sono diametralmente opposte.
Vediamo perché. De Nicola muove dal presupposto che sia felice la scelta di
politica legislativa inglese che ha introdotto nuove regole organizzative
della professione forense che consentono agli avvocati di costituire società
di capitali ed eventualmente quotarle in borsa ed addita quel modello a
soluzione proponibile per risolvere i problemi avvertiti dallla categoria in
Italia.
Purtroppo il testo menzionato disciplina l'attività dei solicitors non degli
"avvocati".
In Inghilterra i solicitors si occupano di tuttà l'attivita di consulenza,
degli atti e degli affari che in Italia sono oggetto di riserva per i notai,
come i trasferimenti immobiliari, o di riserva comune a notai e
commercialisti, come il trasferimento delle quote societarie o da alte
categorie come gli agenti immobiliari.
Le due categorie - solicitors e avvocati- non sono comparabili. Vi sono poi
i barrister: l' avvocato De Nicola non ne parla e quindi non dice che per
patrocinare dinanzi ai giudici inglesi il titolo si acquista dopo aver
superato un esame, e questa qualificazione non è ancora sufficiente. Occorre
anche essere assegnatari di una chamber, e le chambers sono un numero
chiuso. E' una sorta di monopolio che la Commissione europea non si è mai
curata di sopprimere, come non ha soppresso il monopolio degli avvocati
francesi o tedeschi, che in poche decine sulla base di un meccanismo di
cooptazione, ricevono l' investitura per assolvere la funzione di difesa
dinanzi alle corti superiori (mentre da noi gli avvocati cassazionisti sono
un esercito di 46000 unità).
Quanto poi alle società di avvocati o con socio di puro capitale, intanto si
ignora che già esiste un tipo sociale a cui proprio gli avvocati potrebbero
ricorrere, ed è la società tra professionisti, a cui peraltro ben pochi
avvocati hanno fatto ricorso perché non è conveniente dal punto di vista
fiscale. Poi. proprio perché gli avvocati italiani non sono solicitors, i
tipi sociali utilizzati per le attività commerciali non possono essere
adeguati alla professione forense. Si dimentica infine che dovere
dell'avvocato (italiano) è l' indipendenza e l'autonomia per assicurare al
cliente non solo una prestazione qualitativamente adeguata ma anche la
garanzia che sia svolta al riparo da ogni conflitto di interesse.
L'oscura origine di capitali, fenomeno conosciuto in Italia e a quanto
sembra non in Inghilterra, l'esercizio abusivo della professione trincerato
dietro lo schermo societario ed altre ragioni militano contro l'adozione di
tipologie societarie diverse dalla Stp (società tra professionisti)
Non è la prima volta che leggiamo a firma dello stesso Autore articoli che
dileggiano gli organi rappresentativi degli avvocati: viva la libertà di
opinione e di stampa si dirà, e cosi dico anch'io, ma scrivere però con
cognizione di causa e senza apriorismi è una regola del vivere civile che
non si deve dimenticare. Tanto più quando si è avvocati.
martedì 25 ottobre 2011
Franco Astengo: La dimensione europea
LA DIMENSIONE EUROPEA
Nell’attesa degli sviluppi, non facilmente prevedibili della situazione italiana, il week-end appena trascorso ha dimostrato, se mai ce ne fosse stato bisogno, del peso determinante della dimensione europea, all’interno delle complesse vicende della crisi finanziaria in atto.
Emerge una tendenza molto forte al “commissariamento” delle politiche pubbliche sovranazionali da parte degli Stati economicamente e politicamente più forti, imponendo il proseguimento della linea monetarista (la linea Maginot a difesa dell’euro: l’ha definita questa mattina Paul Krugman, in un articolo apparso su “Repubblica” che riprenderemo più avanti) su cui è stata fondata questa Europa “delle banche” in luogo dell’Europa politica.
Krugman indica anche una via possibile per uscire da questa stretta, attraverso la Banca centrale che dovrebbe egire come agiscono le Banche nazionali che hanno mantenuto la loro moneta (come il Regno Unito) finanziando il deficit attraverso un sostegno che, sostiene Krugman, potrebbe risolversi nella minaccia dello stampare nuova moneta.
Se la Banca Centrale Europea potesse fornire un simile sostegno ai debiti sovrani europei, la crisi si ridimensionerebbe drasticamente.
Alla domanda: si genererebbe inflazione in questo modo? Krugman risponde, probabilmente no. E aggiunge: probabilmente all’Europa potrebbe giovare una leggera inflazione generale, perché un tasso generale troppo basso condannerebbe i paesi del sud dell’Europa a una deflazione distruttiva, rendendo certo il perpetuarsi di alti tassi di disoccupazione e una catena di default.
L’ostacolo a un’operazione di questo genere deriva dagli statuti con i quali è stati istituita la Banca Centrale che vieterebbero questo tipo di politiche, pensate per evitare un ripetersi degli anni’70: un tipo di politiche perfettamente inutili in questo momento (ce ne stiamo drammaticamente accorgendo!) dato che il vero pericolo è una ripetizione degli anni’30.
Abbiamo riassunto questo discorso perché siamo convinti che il terreno indicato da Krugman sia quello ideale di una possibile “Sinistra Europea” che volesse collocarsi all’altezza della situazione, superando divisioni anacronistiche dal punto di vista ideologico, cercando unitariamente la via di un nuovo, indispensabile, “compromesso sociale”, in modo da fronteggiare la vera e propria “macelleria” che sta presentandosi ai danni del mondo del lavoro, dei giovani, delle donne, dei pensionati, della possibilità per i comuni cittadini di usufruire dei servizi indispensabili, dalla sanità, alla scuola, ai trasporti.
In Italia, di fronte ad una situazione preoccupante soprattutto sotto l’aspetto politico- istituzionale, rimane intatto il tema di una nuova adeguata soggettività della sinistra italiana, in grado di esprimere autonomia nel proprio pensiero politico, ma tale esigenza va trasferita subito in Europa, laddove proprio lo sviluppo di politiche “sovranazionali” rende indispensabile un adeguamento di collocazione geografica, al livello appunto della “dimensione europea”.
Savona, li 25 ottobre 2011 Franco Astengo
Nell’attesa degli sviluppi, non facilmente prevedibili della situazione italiana, il week-end appena trascorso ha dimostrato, se mai ce ne fosse stato bisogno, del peso determinante della dimensione europea, all’interno delle complesse vicende della crisi finanziaria in atto.
Emerge una tendenza molto forte al “commissariamento” delle politiche pubbliche sovranazionali da parte degli Stati economicamente e politicamente più forti, imponendo il proseguimento della linea monetarista (la linea Maginot a difesa dell’euro: l’ha definita questa mattina Paul Krugman, in un articolo apparso su “Repubblica” che riprenderemo più avanti) su cui è stata fondata questa Europa “delle banche” in luogo dell’Europa politica.
Krugman indica anche una via possibile per uscire da questa stretta, attraverso la Banca centrale che dovrebbe egire come agiscono le Banche nazionali che hanno mantenuto la loro moneta (come il Regno Unito) finanziando il deficit attraverso un sostegno che, sostiene Krugman, potrebbe risolversi nella minaccia dello stampare nuova moneta.
Se la Banca Centrale Europea potesse fornire un simile sostegno ai debiti sovrani europei, la crisi si ridimensionerebbe drasticamente.
Alla domanda: si genererebbe inflazione in questo modo? Krugman risponde, probabilmente no. E aggiunge: probabilmente all’Europa potrebbe giovare una leggera inflazione generale, perché un tasso generale troppo basso condannerebbe i paesi del sud dell’Europa a una deflazione distruttiva, rendendo certo il perpetuarsi di alti tassi di disoccupazione e una catena di default.
L’ostacolo a un’operazione di questo genere deriva dagli statuti con i quali è stati istituita la Banca Centrale che vieterebbero questo tipo di politiche, pensate per evitare un ripetersi degli anni’70: un tipo di politiche perfettamente inutili in questo momento (ce ne stiamo drammaticamente accorgendo!) dato che il vero pericolo è una ripetizione degli anni’30.
Abbiamo riassunto questo discorso perché siamo convinti che il terreno indicato da Krugman sia quello ideale di una possibile “Sinistra Europea” che volesse collocarsi all’altezza della situazione, superando divisioni anacronistiche dal punto di vista ideologico, cercando unitariamente la via di un nuovo, indispensabile, “compromesso sociale”, in modo da fronteggiare la vera e propria “macelleria” che sta presentandosi ai danni del mondo del lavoro, dei giovani, delle donne, dei pensionati, della possibilità per i comuni cittadini di usufruire dei servizi indispensabili, dalla sanità, alla scuola, ai trasporti.
In Italia, di fronte ad una situazione preoccupante soprattutto sotto l’aspetto politico- istituzionale, rimane intatto il tema di una nuova adeguata soggettività della sinistra italiana, in grado di esprimere autonomia nel proprio pensiero politico, ma tale esigenza va trasferita subito in Europa, laddove proprio lo sviluppo di politiche “sovranazionali” rende indispensabile un adeguamento di collocazione geografica, al livello appunto della “dimensione europea”.
Savona, li 25 ottobre 2011 Franco Astengo
lunedì 24 ottobre 2011
Tomaso Greco: Renzi, Civati e il futuro che manca
Dopo la due giorni bolognese di Giuseppe Civati e di Debora Serracchiani, nutriate o meno simpatie verso il duo, è necessario porsi qualche domanda sul futuro della sinistra italiana.
Perché se è vero che dall'inizio degli anni '90 a oggi gli interpreti sono stati, sostanzialmente, sempre gli stessi, è possibile che in un futuro prossimo assisteremo a un ricambio generazionale.
Ma che cosa hanno in mente per il futuro del Paese i 30-40enni candidati alla successione?
Anzitutto, e questo è un dato comune tanto a Renzi quanto a Civati, marcare una discontinuità con chi li ha preceduti, proponendosi -ambizione legittima- come innovatori.
Il sindaco di Firenze dicono amministri non male, si presenta bene in pubblico, è televisivo dai tempi della Ruota della Fortuna e, cosa non di poco conto, piace alle donne. A occhio nudo si potrebbe definire un Tony Blair a passeggio per il Giardino di Boboli. E il passato non si contenta di superarlo, lo vuole rottamare. E così la sinistra, superata o rottamata che dir si voglia, troverebbe la sua palingenesi nel matrimonio con le posizioni lib-dem e una certa fiducia nel potere demiurgico dei mercati.
Giuseppe Civati, dopo essere stato sodale del Renzi, ha indicato la via lombarda alla rottamazione e si è incoronato leader nazionale di corrente in quel di Bologna nel weekend appena trascorso.
E Civati è critico nei confronti del partito, ma fino a un certo punto. In realtà si infila a piene mani nella dialettica interna, dove dispensa stilettate e apprezzamenti, cerca alleanze e stringe mani.
Al netto di una spruzzata di information technology (il fisco 2.0, ad esempio), la retorica è quella società civile che vanta un primato morale sul partito, con un'amabile strizzata d'occhio alla piazza degli indignati e un retrogusto giustizialista che non guasta mai.
A chiudere gli occhi sembrava di star ascoltando una prolusione di Leoluca Orlando ai tempi della Rete o l'intervento congressuale dell'area più movimentista del PDS di Occhetto. Vent'anni dopo.
Due leader, Civati e Renzi, che fanno fatica a discostarsi dai due modelli di sinistra in voga negli anni '90. La prima moralisteggiante, la seconda innamorata della terza via (eran del resto i tempi della new economy).
Su una cosa concordano: la potenza innovativa delle primarie, che potrebbero tracciare la strada della sinistra nel 2012. Del resto lo pensavano anche i democratici statunitensi quando adottarono questo sistema avveniristico di consultazione. Correva l'anno 1842.
Perché se è vero che dall'inizio degli anni '90 a oggi gli interpreti sono stati, sostanzialmente, sempre gli stessi, è possibile che in un futuro prossimo assisteremo a un ricambio generazionale.
Ma che cosa hanno in mente per il futuro del Paese i 30-40enni candidati alla successione?
Anzitutto, e questo è un dato comune tanto a Renzi quanto a Civati, marcare una discontinuità con chi li ha preceduti, proponendosi -ambizione legittima- come innovatori.
Il sindaco di Firenze dicono amministri non male, si presenta bene in pubblico, è televisivo dai tempi della Ruota della Fortuna e, cosa non di poco conto, piace alle donne. A occhio nudo si potrebbe definire un Tony Blair a passeggio per il Giardino di Boboli. E il passato non si contenta di superarlo, lo vuole rottamare. E così la sinistra, superata o rottamata che dir si voglia, troverebbe la sua palingenesi nel matrimonio con le posizioni lib-dem e una certa fiducia nel potere demiurgico dei mercati.
Giuseppe Civati, dopo essere stato sodale del Renzi, ha indicato la via lombarda alla rottamazione e si è incoronato leader nazionale di corrente in quel di Bologna nel weekend appena trascorso.
E Civati è critico nei confronti del partito, ma fino a un certo punto. In realtà si infila a piene mani nella dialettica interna, dove dispensa stilettate e apprezzamenti, cerca alleanze e stringe mani.
Al netto di una spruzzata di information technology (il fisco 2.0, ad esempio), la retorica è quella società civile che vanta un primato morale sul partito, con un'amabile strizzata d'occhio alla piazza degli indignati e un retrogusto giustizialista che non guasta mai.
A chiudere gli occhi sembrava di star ascoltando una prolusione di Leoluca Orlando ai tempi della Rete o l'intervento congressuale dell'area più movimentista del PDS di Occhetto. Vent'anni dopo.
Due leader, Civati e Renzi, che fanno fatica a discostarsi dai due modelli di sinistra in voga negli anni '90. La prima moralisteggiante, la seconda innamorata della terza via (eran del resto i tempi della new economy).
Su una cosa concordano: la potenza innovativa delle primarie, che potrebbero tracciare la strada della sinistra nel 2012. Del resto lo pensavano anche i democratici statunitensi quando adottarono questo sistema avveniristico di consultazione. Correva l'anno 1842.
domenica 23 ottobre 2011
Paolo Bagnoli: Il PD si sfarina
Dall'Avvenire dei lavoratori
Il Pd si sfarina
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Proprio nel momento della rivincita il PD pare messo in ginocchio
da giochi interni, sfrenate ambizioni e vuoto di linea politica.
--------------------------------------------------------------------------------
di Paolo Bagnoli
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Quanto sta avvenendo in questi giorni nel partito democratico ci sembra costituire la riprova di ciò che andiamo da tempo sostenendo; vale a dire della sua difficoltà a essere “partito” e, quindi, a comportarsi, al di là delle scelte di merito dovute alla contingenza del momento, come tale.
Il Pd è un “partito” che si va strutturando oramai “a canne d’organo” senza che vi sia nessuno capace di armonizzarne il suono. E’ il risultato di un’operazione che contraddice il farsi stesso di un partito: il darsi, prima di tutto, un’identità ideologica e culturale vera, e non lo stare in piedi solo in funzione nell’avversario.
Noi lo pensiamo da sempre, ma la nudità del re è stata, con sincerità e onestà intellettuale, recentemente urlata dal vicesegretario Enrico Letta il quale, intervenendo all’incontro della corrente veltroniana, ha sostenuto, contraddicendo il segretario di cui è vice, la linea di un governo di larghe intese in quanto la caduta di Silvio Berlusconi rischia da produrre un effetto simile anche nel Pd “se non resta unito e se non interpreta il cambiamento.”
Cosa significhi “interpretare il cambiamento” resta un mistero – almeno per noi – mentre comprendiamo meglio la necessità del “restare uniti”. Questo appello, come ci insegna la storia politica passata, si fa quando uniti non si è più e le ragioni della divaricazione prevalgono oramai su quelle della convergenza.
Il Pd, infatti, sta vivendo un momento drammatico, sgranato com’è da tre iniziative centrifughe: 1) quella dei rottamatori che fanno riferimento all’eurodeputata Debora Serracchiani e al consigliere regionale lombardo Pippo Civati i quali chiedono di lanciare “idee e proposte” insieme a “cambiamento e partecipazione”; 2) quella del presidente della Provincia di Roma e responsabile giustizia Andrea Orlando che vuole rappresentare un’area laburista; 3) quella del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, padre di tutte le rottamazioni che, addirittura, ha promesso un “big bang” per la politica italiana.
Unici tratti comuni di queste tre iniziative centrifughe è la militanza nel medesimo contenitore e il dato generazionale, off limits agli ultra quarantenni, come se il rinnovamento di una classe dirigente fosse un fatto anagrafico e basta.
Se anche i partiti e le loro tendenze interne fossero al vaglio delle tanto, e giustamente, deprecate agenzie di rating probabilmente non basterebbero le tre zeta!
In fondo, se si eccettua l’area Zingaretti-Orlando che affianca Bersani, il quale sembra aver accettato la sfida promettendo un numero impressionante di giovani, per il resto è solo un “vecchio deja vu” che avanza nel vuoto di politica della seconda repubblica, fatto salvo Veltroni che va all’attacco del segretario nel momento di maggiore debolezza di questi anche in relazione alla vicenda Penati.
Il nuovismo, il giovanilismo, l’ardire del giovane che dispregia chi è nato prima, in politica infatti l’abbiamo già visto; è futurismo intellettuale condito da roboanti proclamazioni che non sono “politica”, ma solo dichiarazioni utili a nobilitare la conquista dell’obiettivo di potere, costi quel che costi, senz’altra preoccupazione se non quella di affermarsi.
Tale situazione, per un partito nato con grandi ambizioni, rimaste per altro sulla carta, e incapace di muovere un’opposizione vera alla destra al governo, avviene nel momento in cui veramente nel campo berlusconiano si sono messi in moto movimenti e iniziative che possono finalmente portare alla caduta del governo, per motivi endogeni al campo destra-moderati. Caduta tanto più probabile viste le condizioni in cui versa la Lega e il fatto che, se non abbiamo compreso male, i cosiddetti “responsabili” non disdegnano l’idea di divenire “disponibili”.
Insomma, proprio ora che avrebbe modo di entrare di rincorsa nella crisi – come succede al Palio di Siena ove una contrada entra di rincorsa – il Pd si sfarina su giochi di potere interno, sfrenate ambizioni personali e, soprattutto, sul vuoto reale di linea e iniziativa politica.
Il Pd si sfarina
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Proprio nel momento della rivincita il PD pare messo in ginocchio
da giochi interni, sfrenate ambizioni e vuoto di linea politica.
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di Paolo Bagnoli
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Quanto sta avvenendo in questi giorni nel partito democratico ci sembra costituire la riprova di ciò che andiamo da tempo sostenendo; vale a dire della sua difficoltà a essere “partito” e, quindi, a comportarsi, al di là delle scelte di merito dovute alla contingenza del momento, come tale.
Il Pd è un “partito” che si va strutturando oramai “a canne d’organo” senza che vi sia nessuno capace di armonizzarne il suono. E’ il risultato di un’operazione che contraddice il farsi stesso di un partito: il darsi, prima di tutto, un’identità ideologica e culturale vera, e non lo stare in piedi solo in funzione nell’avversario.
Noi lo pensiamo da sempre, ma la nudità del re è stata, con sincerità e onestà intellettuale, recentemente urlata dal vicesegretario Enrico Letta il quale, intervenendo all’incontro della corrente veltroniana, ha sostenuto, contraddicendo il segretario di cui è vice, la linea di un governo di larghe intese in quanto la caduta di Silvio Berlusconi rischia da produrre un effetto simile anche nel Pd “se non resta unito e se non interpreta il cambiamento.”
Cosa significhi “interpretare il cambiamento” resta un mistero – almeno per noi – mentre comprendiamo meglio la necessità del “restare uniti”. Questo appello, come ci insegna la storia politica passata, si fa quando uniti non si è più e le ragioni della divaricazione prevalgono oramai su quelle della convergenza.
Il Pd, infatti, sta vivendo un momento drammatico, sgranato com’è da tre iniziative centrifughe: 1) quella dei rottamatori che fanno riferimento all’eurodeputata Debora Serracchiani e al consigliere regionale lombardo Pippo Civati i quali chiedono di lanciare “idee e proposte” insieme a “cambiamento e partecipazione”; 2) quella del presidente della Provincia di Roma e responsabile giustizia Andrea Orlando che vuole rappresentare un’area laburista; 3) quella del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, padre di tutte le rottamazioni che, addirittura, ha promesso un “big bang” per la politica italiana.
Unici tratti comuni di queste tre iniziative centrifughe è la militanza nel medesimo contenitore e il dato generazionale, off limits agli ultra quarantenni, come se il rinnovamento di una classe dirigente fosse un fatto anagrafico e basta.
Se anche i partiti e le loro tendenze interne fossero al vaglio delle tanto, e giustamente, deprecate agenzie di rating probabilmente non basterebbero le tre zeta!
In fondo, se si eccettua l’area Zingaretti-Orlando che affianca Bersani, il quale sembra aver accettato la sfida promettendo un numero impressionante di giovani, per il resto è solo un “vecchio deja vu” che avanza nel vuoto di politica della seconda repubblica, fatto salvo Veltroni che va all’attacco del segretario nel momento di maggiore debolezza di questi anche in relazione alla vicenda Penati.
Il nuovismo, il giovanilismo, l’ardire del giovane che dispregia chi è nato prima, in politica infatti l’abbiamo già visto; è futurismo intellettuale condito da roboanti proclamazioni che non sono “politica”, ma solo dichiarazioni utili a nobilitare la conquista dell’obiettivo di potere, costi quel che costi, senz’altra preoccupazione se non quella di affermarsi.
Tale situazione, per un partito nato con grandi ambizioni, rimaste per altro sulla carta, e incapace di muovere un’opposizione vera alla destra al governo, avviene nel momento in cui veramente nel campo berlusconiano si sono messi in moto movimenti e iniziative che possono finalmente portare alla caduta del governo, per motivi endogeni al campo destra-moderati. Caduta tanto più probabile viste le condizioni in cui versa la Lega e il fatto che, se non abbiamo compreso male, i cosiddetti “responsabili” non disdegnano l’idea di divenire “disponibili”.
Insomma, proprio ora che avrebbe modo di entrare di rincorsa nella crisi – come succede al Palio di Siena ove una contrada entra di rincorsa – il Pd si sfarina su giochi di potere interno, sfrenate ambizioni personali e, soprattutto, sul vuoto reale di linea e iniziativa politica.
sabato 22 ottobre 2011
Franco Astengo: Come si è costruito il deficit. Il federalismo con i buchi
COME SI E’ COSTRUITO IL DEFICIT: IL FEDERALISMO CON I BUCHI
La più grande incognita, nel discutere della vicenda del deficit pubblico e dei tentativi che – attraverso i tagli – il Governo cerca di compiere per fronteggiarlo – rimane, per la gran parte dell’opinione pubblica, il “come” questo deficit si sia formato, quali siano in realtà le spese che hanno portato a questa situazione, quali investimenti improduttivi siano stati compiuti: insomma sul deficit servirebbe la verità nel dettaglio, ed anche il movimento sotto quest’aspetto non appare avanzare una richiesta molto precisa, puntando di più a chiedere la rimozione o il parziale arretramento dei tagli imposti in questo o in quell’altro settore.
Cercheremo, attraverso questo intervento, di esporre un aspetto della formazione di questo deficit attraverso l’esposizione di dati riguardanti un preciso settore: quello degli Enti Locali, laddove la Lega Nord ha esercitato più fortemente la propria azione politica, rivendicando il merito dell’avanzarsi del federalismo, prima di tutto sotto l’aspetto fiscale.
Il nostro riferimento è stato rappresentato da una relazione della Corte dei Conti, al riguardo dell’acquisto da parte di Comune e Province di titoli messi sul mercato, in gran parte, da banche straniere e denominati “SWAP” e poi, più realisticamente “titolo tossico”.
I numeri di quest’operazione parlano di per sé. I giudici della Corte dei Conti non aggiungono commenti davanti all’esito dell’indagine condotta sull’uso dei derivati da parte dei Comuni e delle Province.
Un’inchiesta condotta attraverso una serie di audizioni che ha visto protagonisti moltissimi responsabili delle finanze degli Enti Locali.
L’augurio avanzato da tutti è stato quello di poter riuscire a chiudere questo tipo di contratti nel più breve tempo possibile.
Perché il danno materiale rischia di essere niente affatto trascurabile.
Basta dire che al 31 dicembre 2009 il risultato atteso (tecnicamente il mark to market depurato dei flussi finanziari realizzati fino a quella data) come conseguenza dei contratti di finanza derivata stipulata negli anni da Comuni e Province era negativo per oltre 885 milioni di Euro: 700 di competenza dei municipi e 185 delle amministrazioni provinciali.
Un vero e proprio fallimento di questa strategia: il ricorso a questi strumenti era stato autorizzato all’inizio del decennio scorso dal precedente governo Berlusconi, con l’intento di alleggerire la spesa per gli interessi per i debiti di Comuni, Province, Regioni.
Il bilancio che adesso ne ha tratto la Corte dei Conti non può certamente essere considerato lusinghiero.
Ecco i dati: si è verificato nel complesso un costo che va a gravare sulle finanze dei Comuni pari al 4,3% del valore nominale.
In alcune regioni questo valore s’impenna come in Piemonte (10,2%), nella Campania (10.16%), nella Basilicata (9.84%), nella Toscana (7,60%) in Liguria (5,88%: la statistica però non tiene conto della risoluzione del contratto vantaggiosamente realizzata dal Comune di Genova, in tempi molto recenti) e così via, fino agli Enti della Regione Lombardia dove il valore negativo si misura appena nello 0,64%.
Questo per i Comuni non va meglio per le Province, dove l’aggravio dell’indebitamento assume un valore medio ancora più elevato: 5,1%.
Spiega la Corte dei Conti: “ Nel caso delle province gli ambiti regionali in cui l’incidenza del valore finale del derivato, rispetto al valore nazionale, è più forte sono quelli del Lazio (8,34%), Piemonte (7,33%), Lombardia (7,19%).
Il fatto è che l’uso dei derivati è stato lanciato in una fase in cui le amministrazioni comunali e provinciali, risultavano per lo più impreparate alla bisogna (si tratta di una valutazione contenuta sempre nella relazione della Corte dei Conti), affidate ad advisor talvolta in aperto e grave conflitto d’interesse; quando non direttamente agli stessi istituti di credito che proponevano loro gli strumenti di finanza creativa.
Per giunta, alcuni contratti (82 per i soli Comuni, pari all’8,6% del totale) sono sottoposti a una “giurisdizione non italiana”.
Scrivono a questo proposito i magistrati contabili: “A parte i problemi di diritto internazionale privato e l’oggettiva difficoltà di conoscenza della legislazione e giurisprudenza di un Paese straniero, nell’eventualità di un contenzioso l’ente dovrebbe accollarsi maggiori oneri e rischi e questo certamente non risponde a principi di sana amministrazione”.
Il risultato è che dei 965 contratti di derivati siglati da 655 Comuni, ben 688 cioè il 71,3% del totale aveva, alla fine del 2009 un segno negativo (pensiamo per quel che riguarda il 2010, agli effetti della crisi economica.).
Non c’è una sola Regione, nella quale siano stati stipulati questi accordi bancari da parte dei Sindaci, che vanti a tutt’oggi un esito positivo degli stessi.
Il volume di debito coinvolto in contratti di finanza derivata per i soli Comuni, ammonta a 16,3 miliardi di euro: un quarto dell’intera esposizione comunale.
Il record si riscontra nella Regione Lazio, con 3 miliardi 894 milioni seguita dalla Lombardia con 2 miliardi 141 milioni.
Veniamo alle Province: su 121 contratti stipulati dalle Province, quelli con segno negativo sono 97: l’80.16%.
In testa a tutti c’è la Lombardia, i cui enti provinciali rischiano di rimetterci 76 milioni.
Quasi inevitabile che in una situazione del genere si cercasse di correre ai ripari, con l’estinzione anticipata degli accordi con le banche.
Finora si è riusciti a farlo soltanto in 314 casi: 296 Comuni e 18 Province.
In sostanza si può ben affermare che i derivati dovevano proteggere gli investimenti, ma nella maggioranza dei casi il risultato è stato esattamente il contrario.
Il risultato è stato, quindi, quello di un allargamento del deficit in una dimensione che minaccia di risultare particolarmente considerevole: l’operato dei giudici della Corte dei Conti può ben essere indicato come un esempio di tentativo di far chiarezza che dovrebbe essere realizzato anche in tanti altri settori.
Savona, li 22 ottobre 2011 Franco Astengo
La più grande incognita, nel discutere della vicenda del deficit pubblico e dei tentativi che – attraverso i tagli – il Governo cerca di compiere per fronteggiarlo – rimane, per la gran parte dell’opinione pubblica, il “come” questo deficit si sia formato, quali siano in realtà le spese che hanno portato a questa situazione, quali investimenti improduttivi siano stati compiuti: insomma sul deficit servirebbe la verità nel dettaglio, ed anche il movimento sotto quest’aspetto non appare avanzare una richiesta molto precisa, puntando di più a chiedere la rimozione o il parziale arretramento dei tagli imposti in questo o in quell’altro settore.
Cercheremo, attraverso questo intervento, di esporre un aspetto della formazione di questo deficit attraverso l’esposizione di dati riguardanti un preciso settore: quello degli Enti Locali, laddove la Lega Nord ha esercitato più fortemente la propria azione politica, rivendicando il merito dell’avanzarsi del federalismo, prima di tutto sotto l’aspetto fiscale.
Il nostro riferimento è stato rappresentato da una relazione della Corte dei Conti, al riguardo dell’acquisto da parte di Comune e Province di titoli messi sul mercato, in gran parte, da banche straniere e denominati “SWAP” e poi, più realisticamente “titolo tossico”.
I numeri di quest’operazione parlano di per sé. I giudici della Corte dei Conti non aggiungono commenti davanti all’esito dell’indagine condotta sull’uso dei derivati da parte dei Comuni e delle Province.
Un’inchiesta condotta attraverso una serie di audizioni che ha visto protagonisti moltissimi responsabili delle finanze degli Enti Locali.
L’augurio avanzato da tutti è stato quello di poter riuscire a chiudere questo tipo di contratti nel più breve tempo possibile.
Perché il danno materiale rischia di essere niente affatto trascurabile.
Basta dire che al 31 dicembre 2009 il risultato atteso (tecnicamente il mark to market depurato dei flussi finanziari realizzati fino a quella data) come conseguenza dei contratti di finanza derivata stipulata negli anni da Comuni e Province era negativo per oltre 885 milioni di Euro: 700 di competenza dei municipi e 185 delle amministrazioni provinciali.
Un vero e proprio fallimento di questa strategia: il ricorso a questi strumenti era stato autorizzato all’inizio del decennio scorso dal precedente governo Berlusconi, con l’intento di alleggerire la spesa per gli interessi per i debiti di Comuni, Province, Regioni.
Il bilancio che adesso ne ha tratto la Corte dei Conti non può certamente essere considerato lusinghiero.
Ecco i dati: si è verificato nel complesso un costo che va a gravare sulle finanze dei Comuni pari al 4,3% del valore nominale.
In alcune regioni questo valore s’impenna come in Piemonte (10,2%), nella Campania (10.16%), nella Basilicata (9.84%), nella Toscana (7,60%) in Liguria (5,88%: la statistica però non tiene conto della risoluzione del contratto vantaggiosamente realizzata dal Comune di Genova, in tempi molto recenti) e così via, fino agli Enti della Regione Lombardia dove il valore negativo si misura appena nello 0,64%.
Questo per i Comuni non va meglio per le Province, dove l’aggravio dell’indebitamento assume un valore medio ancora più elevato: 5,1%.
Spiega la Corte dei Conti: “ Nel caso delle province gli ambiti regionali in cui l’incidenza del valore finale del derivato, rispetto al valore nazionale, è più forte sono quelli del Lazio (8,34%), Piemonte (7,33%), Lombardia (7,19%).
Il fatto è che l’uso dei derivati è stato lanciato in una fase in cui le amministrazioni comunali e provinciali, risultavano per lo più impreparate alla bisogna (si tratta di una valutazione contenuta sempre nella relazione della Corte dei Conti), affidate ad advisor talvolta in aperto e grave conflitto d’interesse; quando non direttamente agli stessi istituti di credito che proponevano loro gli strumenti di finanza creativa.
Per giunta, alcuni contratti (82 per i soli Comuni, pari all’8,6% del totale) sono sottoposti a una “giurisdizione non italiana”.
Scrivono a questo proposito i magistrati contabili: “A parte i problemi di diritto internazionale privato e l’oggettiva difficoltà di conoscenza della legislazione e giurisprudenza di un Paese straniero, nell’eventualità di un contenzioso l’ente dovrebbe accollarsi maggiori oneri e rischi e questo certamente non risponde a principi di sana amministrazione”.
Il risultato è che dei 965 contratti di derivati siglati da 655 Comuni, ben 688 cioè il 71,3% del totale aveva, alla fine del 2009 un segno negativo (pensiamo per quel che riguarda il 2010, agli effetti della crisi economica.).
Non c’è una sola Regione, nella quale siano stati stipulati questi accordi bancari da parte dei Sindaci, che vanti a tutt’oggi un esito positivo degli stessi.
Il volume di debito coinvolto in contratti di finanza derivata per i soli Comuni, ammonta a 16,3 miliardi di euro: un quarto dell’intera esposizione comunale.
Il record si riscontra nella Regione Lazio, con 3 miliardi 894 milioni seguita dalla Lombardia con 2 miliardi 141 milioni.
Veniamo alle Province: su 121 contratti stipulati dalle Province, quelli con segno negativo sono 97: l’80.16%.
In testa a tutti c’è la Lombardia, i cui enti provinciali rischiano di rimetterci 76 milioni.
Quasi inevitabile che in una situazione del genere si cercasse di correre ai ripari, con l’estinzione anticipata degli accordi con le banche.
Finora si è riusciti a farlo soltanto in 314 casi: 296 Comuni e 18 Province.
In sostanza si può ben affermare che i derivati dovevano proteggere gli investimenti, ma nella maggioranza dei casi il risultato è stato esattamente il contrario.
Il risultato è stato, quindi, quello di un allargamento del deficit in una dimensione che minaccia di risultare particolarmente considerevole: l’operato dei giudici della Corte dei Conti può ben essere indicato come un esempio di tentativo di far chiarezza che dovrebbe essere realizzato anche in tanti altri settori.
Savona, li 22 ottobre 2011 Franco Astengo
Franco D'Alfonso: Il riformismo di ieri, il progetto per il domani
RELAZIONE INTRODUTTIVA
Il Riformismo di ieri , il progetto per il domani di Franco D’Alfonso
Milano, Circolo di via De Amicis 20 ottobre 2011
La miglior descrizione della situazione politica e personale dei socialisti milanesi fino allo scorso anno l’ho trovata in una celebre scena di “Brancaleone alle crociate” . Il prode interpretato da Vittorio Gassman incrociando altri scalcinati aspiranti crociati li apostrofa con un “ Onde ite ?” E quelli “ Sanza meta” . Ed il leader di definitivo rimando . “ Anca noi. Ma per diverso percorso”.
Se è vero che la metafora è applicabile all’intero campo della sinistra e non solo a Milano , non v’è dubbio che la diaspora politica socialista si sia caratterizzata a lungo per inconcludenza ed irrazionalità ed in pochi potevano pensare che avrebbe potuto trovare, come ha trovato, una sua nuova vitalità e funzione, come questa sera possiamo ancora verificare.
Questo è stato possibile perché nello studio di Pisapia si è raccolto quasi un anno fa un piccolo gruppo di amici ed esponenti politici di provenienza di sinistra estremamente eterogenea accomunati da una volontaria marginalità rispetto alle oligarchie ed alle parodie di partiti e partitini della sinistra milanese che ha iniziato da subito a lavorare su una ipotesi molto semplice : per tornare a vincere a Milano si doveva operare in maniera opposta rispetto a quanto fatto fino ad allora, con tempi e metodi dettati da un Partito Democratico alla eterna ricerca di un “papa straniero” , vagamente centrista , con il quale cercare di conquistare una maggioranza che per sei volte era rimasta un miraggio. A Milano la sinistra non è mai andata oltre il 40% ma ha avuto la guida della città in tutti i momenti di svolta e sviluppo con Caldara nel 1913 , con Greppi nel 1946 , con Cassinis prima ed Aniasi poi negli anni sessanta e settanta, infine con Tognoli fino alla fine del secolo , grazie ad un'alleanza con la borghesia “illuminata” laica e con la forte componente cittadina cattolico-liberale : partendo da questa semplice considerazione si è definito il profilo del candidato “ideale” che è cosa tutta diversa dalle imitazioni di berlusconismo e di leghismo che inevitabilmente scomparivano di fronte all'originale , scegliendo una persona con una chiara storia di sinistra, lontano dalle derive nuoviste e giustizialiste , con una capacità di dialogo e tessitura politica di alleanze che una volta avevano i partiti della sinistra laica e riformista .
La scommessa era che il professionista di successo , membro di una delle famiglie milanesi più note e rispettate, una storia di impegno politico e sociale in città , garantista e difensore della legalità e dei diritti senza ombre , un passato di parlamentare che gli ha guadagnato il rispetto unanime di tutte le parti politiche manifestasse una leadership in grado di reggere una partita politica totalmente esterna ed almeno inizialmente in contrasto con le burocrazie di partito votate al detto “sconfitta sia basta che sia mia” . Pisapia ha prima imposto le primarie, candidandosi senza alcuna negoziazione partitica, poi le ha vinte contro la “solita” scelta esterna del Pd , infine ha gestito gli scossoni post primarie in maniera tanto accorta da riuscire a mettere in campo la coalizione di liste e partiti più ampia della “seconda repubblica” , dai “moderati civici” ed i Radicali fino ai comunisti di tutte le confessioni, senza nessuna polemica nei confronti di un Pd pure uscito ferito ed umiliato dal confronto.
Pisapia ha rivendicato fin dal primo momento la “continuità” con la storia della sinistra milanese e quindi con il socialismo municipale, sia attraverso atti simbolici come la partecipazione all'annuale raduno socialista di Volpedo sia soprattutto attraverso atti politici , quali il recupero delle buone pratiche di confronto con la società milanese nelle sue diverse articolazioni associative e, soprattutto, il ritrovare lungo vecchi sentieri abbandonati da anni una classe dirigente politica e cittadina che era stata dimenticata . La grande abilità di Pisapia è stata quella di impedire che questa fosse un'operazione nostalgia o di rinverdire vecchi rancori, ma fosse una riscoperta di un'antica “scuola” che è in grado ancora di produrre risultati apprezzabili sul piano delle idee : è nato anche così il “Comitato del 51%” animato da Piero Bassetti che ha raccolto oltre cento professionisti ed esponenti della società milanese che hanno costituito l' agorà politica dove si sono svolte con successo le prove di nuova alleanza tra una sinistra che non si vergogna di sé stessa ed un centro che ragiona in termini di sviluppo e non di egoismi .
E' così che Pisapia politico di sinistra non partitico ha suscitato un'alleanza “mitterandiana”, ( confermata dallo slogan della campagna “La forza gentile” che richiama la “forza tranquilla” di Seguela per il primo Mitterrand ) basata su un “gauchismo” creativo e propositivo ed un riformismo meneghino pragmatico ed inclusivo , che prima ha battuto quel che resta del progetto degli eredi della sinistra Dc e del Pci poi ne ha lanciato uno di speranza inclusivo.
Quello che Giuliano ed i suoi collaboratori hanno fatto a Milano è stato recuperare un metodo di analisi e di lavoro, ingaggiare una battaglia politica “interna” attraverso le primarie che ha permesso di recuperare un rapporto straordinario con il proprio “popolo” ed infine confrontarsi con l'avversario politico su un piano di governo della città : esattamente quello che i vecchi partiti della sinistra, con le loro vecchie classi dirigenti impegnate nello studio e nel confronto prima che nell'apparire in televisione hanno fatto per anni con risultati a volte negativi ma più spesso vincenti .
Ma l’arancione di Pisapia colora su una precisa scelta politica, quella di un rinnovato municipalismo riformista che aveva come riferimento le esperienze dei sindaci socialisti e riformisti di Milano, a partire da Emilio Caldara, con la cui esperienza vedo una singolare somiglianza politica e di situazione.
Caldara pensava che il Comune non fosse un ente che derivava il suo potere con un atto di decentramento dello Stato; ma fosse una comunità primaria che aveva dei suoi diritti innati, di libertà e di autonomia, che andavano inseriti nel disegno statuale, ma che non sono ‘concesse’: sono originarie.
In particolare riteneva che il Comune, nel rapporto con lo Stato, fosse come la cellula nel corpo umano, e che la forza della cellula derivava prevalentemente dalla sua capacità autonoma di fornire servizi pubblici.
Vedeva quindi il Comune come una cellula in cui la società economica e quella sociale potessero trovare le condizioni per condividere la necessità dello sviluppo più equo. “Tanto più le cellule sono in grado di funzionare tramite energie proprie – sosteneva Caldara - tanto più saranno in grado di concorrere al rafforzamento dello Stato”.
Per Caldara il municipalismo non è mai stato localismo fine a se stesso. E’ stato il ricercare nella concretezza della vita cittadine i principi di una vera democrazia, di una buona vita comune da portare a livelli più elevati e complessi.
Oggi le mutate condizioni socio-economiche richiedono forti innovazioni nel rapporto cittadini/amministrazioni pubbliche.
A Milano abbiamo incominciato a individuarle e soprattutto a praticarle, contribuendo a definire un nuovo modo di organizzare la democrazia e la partecipazione, avendo però ben chiaro l’obiettivo di ridare al Comune quel ruolo originario espropriato prima dal fascismo e poi, nella seconda metà del secolo scorso, dal crescente centralismo fiscale. Un obiettivo che non può essere conseguito solo localmente ma ha bisogno di una nuova politica nazionale.
Troviamo qui una nuova somiglianza con il periodo di Caldara, certo molto meno rassicurante : a fronte di una sinistra politica che ritrova sé stessa attraverso il faticoso farsi carico di un processo di partecipazione e responsabilità civica potentemente evocata e quasi incarnata dall’immagine simbolo del Novecento politico, il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo , una politica nazionale apparentemente impazzita ed incapace di trovare perfino una modalità di confronto precipita l’Italia in un periodo di profonda crisi sociale ed economica avviandosi non verso il sole dell’avvenire ma verso il crepuscolo dell’antipolitica e la notte della democrazia.
Io so bene che Giuliano sente oggi sulle proprie spalle , che sono anche le nostre, il peso di una grave responsabilità . Il movimento arancione , la “buona politica” che tutti assieme, travolgendo inutili steccati partitici, abbiamo contribuito a mettere in moto deve misurarsi con una realtà difficile e complessa come l’amministrazione di Milano , con un orizzonte proiettato sul ciclo di un quinquennio che non può essere condizionato dall’esasperazione quotidiana della verifica del livello del consenso ; al tempo stesso però l’esperienza milanese è già un importante riferimento , direi quasi un indispensabile punto di ancoraggio e di speranza per l’intero Paese, quasi senza distinzione di campo politico. I tempi della politica “nazionale” non sono quelli dell’amministrazione, i rischi di una deriva del nostro Paese ai margini dell’ Europa sono reali .
Il dilemma è tra lo sviluppare una nuova politica basata su partecipazione, trasparenza, responsabilità civica nell’esperienza milanese, nella convinzione che l’esempio positivo possa essere lievito di un rinnovamento per tutta l’Italia ovvero impegnarsi in maniera più diretta ed attiva, correndo tutti i rischi derivanti dalla necessità di conquistare e non di mantenere un consenso che permetta di governare. Si tratta di un dilemma forse risolto in partenza, nel senso che ritengo che governare Milano con la buona politica sia un impegno al quale Giuliano e tutti noi non intendiamo certo venir meno, ma che non possiamo far finta che non sia , anche questa sera, sul tavolo.
Franco D'Alfonso
Il Riformismo di ieri , il progetto per il domani di Franco D’Alfonso
Milano, Circolo di via De Amicis 20 ottobre 2011
La miglior descrizione della situazione politica e personale dei socialisti milanesi fino allo scorso anno l’ho trovata in una celebre scena di “Brancaleone alle crociate” . Il prode interpretato da Vittorio Gassman incrociando altri scalcinati aspiranti crociati li apostrofa con un “ Onde ite ?” E quelli “ Sanza meta” . Ed il leader di definitivo rimando . “ Anca noi. Ma per diverso percorso”.
Se è vero che la metafora è applicabile all’intero campo della sinistra e non solo a Milano , non v’è dubbio che la diaspora politica socialista si sia caratterizzata a lungo per inconcludenza ed irrazionalità ed in pochi potevano pensare che avrebbe potuto trovare, come ha trovato, una sua nuova vitalità e funzione, come questa sera possiamo ancora verificare.
Questo è stato possibile perché nello studio di Pisapia si è raccolto quasi un anno fa un piccolo gruppo di amici ed esponenti politici di provenienza di sinistra estremamente eterogenea accomunati da una volontaria marginalità rispetto alle oligarchie ed alle parodie di partiti e partitini della sinistra milanese che ha iniziato da subito a lavorare su una ipotesi molto semplice : per tornare a vincere a Milano si doveva operare in maniera opposta rispetto a quanto fatto fino ad allora, con tempi e metodi dettati da un Partito Democratico alla eterna ricerca di un “papa straniero” , vagamente centrista , con il quale cercare di conquistare una maggioranza che per sei volte era rimasta un miraggio. A Milano la sinistra non è mai andata oltre il 40% ma ha avuto la guida della città in tutti i momenti di svolta e sviluppo con Caldara nel 1913 , con Greppi nel 1946 , con Cassinis prima ed Aniasi poi negli anni sessanta e settanta, infine con Tognoli fino alla fine del secolo , grazie ad un'alleanza con la borghesia “illuminata” laica e con la forte componente cittadina cattolico-liberale : partendo da questa semplice considerazione si è definito il profilo del candidato “ideale” che è cosa tutta diversa dalle imitazioni di berlusconismo e di leghismo che inevitabilmente scomparivano di fronte all'originale , scegliendo una persona con una chiara storia di sinistra, lontano dalle derive nuoviste e giustizialiste , con una capacità di dialogo e tessitura politica di alleanze che una volta avevano i partiti della sinistra laica e riformista .
La scommessa era che il professionista di successo , membro di una delle famiglie milanesi più note e rispettate, una storia di impegno politico e sociale in città , garantista e difensore della legalità e dei diritti senza ombre , un passato di parlamentare che gli ha guadagnato il rispetto unanime di tutte le parti politiche manifestasse una leadership in grado di reggere una partita politica totalmente esterna ed almeno inizialmente in contrasto con le burocrazie di partito votate al detto “sconfitta sia basta che sia mia” . Pisapia ha prima imposto le primarie, candidandosi senza alcuna negoziazione partitica, poi le ha vinte contro la “solita” scelta esterna del Pd , infine ha gestito gli scossoni post primarie in maniera tanto accorta da riuscire a mettere in campo la coalizione di liste e partiti più ampia della “seconda repubblica” , dai “moderati civici” ed i Radicali fino ai comunisti di tutte le confessioni, senza nessuna polemica nei confronti di un Pd pure uscito ferito ed umiliato dal confronto.
Pisapia ha rivendicato fin dal primo momento la “continuità” con la storia della sinistra milanese e quindi con il socialismo municipale, sia attraverso atti simbolici come la partecipazione all'annuale raduno socialista di Volpedo sia soprattutto attraverso atti politici , quali il recupero delle buone pratiche di confronto con la società milanese nelle sue diverse articolazioni associative e, soprattutto, il ritrovare lungo vecchi sentieri abbandonati da anni una classe dirigente politica e cittadina che era stata dimenticata . La grande abilità di Pisapia è stata quella di impedire che questa fosse un'operazione nostalgia o di rinverdire vecchi rancori, ma fosse una riscoperta di un'antica “scuola” che è in grado ancora di produrre risultati apprezzabili sul piano delle idee : è nato anche così il “Comitato del 51%” animato da Piero Bassetti che ha raccolto oltre cento professionisti ed esponenti della società milanese che hanno costituito l' agorà politica dove si sono svolte con successo le prove di nuova alleanza tra una sinistra che non si vergogna di sé stessa ed un centro che ragiona in termini di sviluppo e non di egoismi .
E' così che Pisapia politico di sinistra non partitico ha suscitato un'alleanza “mitterandiana”, ( confermata dallo slogan della campagna “La forza gentile” che richiama la “forza tranquilla” di Seguela per il primo Mitterrand ) basata su un “gauchismo” creativo e propositivo ed un riformismo meneghino pragmatico ed inclusivo , che prima ha battuto quel che resta del progetto degli eredi della sinistra Dc e del Pci poi ne ha lanciato uno di speranza inclusivo.
Quello che Giuliano ed i suoi collaboratori hanno fatto a Milano è stato recuperare un metodo di analisi e di lavoro, ingaggiare una battaglia politica “interna” attraverso le primarie che ha permesso di recuperare un rapporto straordinario con il proprio “popolo” ed infine confrontarsi con l'avversario politico su un piano di governo della città : esattamente quello che i vecchi partiti della sinistra, con le loro vecchie classi dirigenti impegnate nello studio e nel confronto prima che nell'apparire in televisione hanno fatto per anni con risultati a volte negativi ma più spesso vincenti .
Ma l’arancione di Pisapia colora su una precisa scelta politica, quella di un rinnovato municipalismo riformista che aveva come riferimento le esperienze dei sindaci socialisti e riformisti di Milano, a partire da Emilio Caldara, con la cui esperienza vedo una singolare somiglianza politica e di situazione.
Caldara pensava che il Comune non fosse un ente che derivava il suo potere con un atto di decentramento dello Stato; ma fosse una comunità primaria che aveva dei suoi diritti innati, di libertà e di autonomia, che andavano inseriti nel disegno statuale, ma che non sono ‘concesse’: sono originarie.
In particolare riteneva che il Comune, nel rapporto con lo Stato, fosse come la cellula nel corpo umano, e che la forza della cellula derivava prevalentemente dalla sua capacità autonoma di fornire servizi pubblici.
Vedeva quindi il Comune come una cellula in cui la società economica e quella sociale potessero trovare le condizioni per condividere la necessità dello sviluppo più equo. “Tanto più le cellule sono in grado di funzionare tramite energie proprie – sosteneva Caldara - tanto più saranno in grado di concorrere al rafforzamento dello Stato”.
Per Caldara il municipalismo non è mai stato localismo fine a se stesso. E’ stato il ricercare nella concretezza della vita cittadine i principi di una vera democrazia, di una buona vita comune da portare a livelli più elevati e complessi.
Oggi le mutate condizioni socio-economiche richiedono forti innovazioni nel rapporto cittadini/amministrazioni pubbliche.
A Milano abbiamo incominciato a individuarle e soprattutto a praticarle, contribuendo a definire un nuovo modo di organizzare la democrazia e la partecipazione, avendo però ben chiaro l’obiettivo di ridare al Comune quel ruolo originario espropriato prima dal fascismo e poi, nella seconda metà del secolo scorso, dal crescente centralismo fiscale. Un obiettivo che non può essere conseguito solo localmente ma ha bisogno di una nuova politica nazionale.
Troviamo qui una nuova somiglianza con il periodo di Caldara, certo molto meno rassicurante : a fronte di una sinistra politica che ritrova sé stessa attraverso il faticoso farsi carico di un processo di partecipazione e responsabilità civica potentemente evocata e quasi incarnata dall’immagine simbolo del Novecento politico, il Quarto Stato di Pellizza da Volpedo , una politica nazionale apparentemente impazzita ed incapace di trovare perfino una modalità di confronto precipita l’Italia in un periodo di profonda crisi sociale ed economica avviandosi non verso il sole dell’avvenire ma verso il crepuscolo dell’antipolitica e la notte della democrazia.
Io so bene che Giuliano sente oggi sulle proprie spalle , che sono anche le nostre, il peso di una grave responsabilità . Il movimento arancione , la “buona politica” che tutti assieme, travolgendo inutili steccati partitici, abbiamo contribuito a mettere in moto deve misurarsi con una realtà difficile e complessa come l’amministrazione di Milano , con un orizzonte proiettato sul ciclo di un quinquennio che non può essere condizionato dall’esasperazione quotidiana della verifica del livello del consenso ; al tempo stesso però l’esperienza milanese è già un importante riferimento , direi quasi un indispensabile punto di ancoraggio e di speranza per l’intero Paese, quasi senza distinzione di campo politico. I tempi della politica “nazionale” non sono quelli dell’amministrazione, i rischi di una deriva del nostro Paese ai margini dell’ Europa sono reali .
Il dilemma è tra lo sviluppare una nuova politica basata su partecipazione, trasparenza, responsabilità civica nell’esperienza milanese, nella convinzione che l’esempio positivo possa essere lievito di un rinnovamento per tutta l’Italia ovvero impegnarsi in maniera più diretta ed attiva, correndo tutti i rischi derivanti dalla necessità di conquistare e non di mantenere un consenso che permetta di governare. Si tratta di un dilemma forse risolto in partenza, nel senso che ritengo che governare Milano con la buona politica sia un impegno al quale Giuliano e tutti noi non intendiamo certo venir meno, ma che non possiamo far finta che non sia , anche questa sera, sul tavolo.
Franco D'Alfonso
venerdì 21 ottobre 2011
Aldo Penna: Il fascino del male
Il fascino del male, l'epica della violenza e i mansueti costretti al silenzio.
"Ci sono diritti fondamentali che dovrebbero essere al sicuro in queste società: il diritto alla casa, al lavoro, alla cultura, alla salute, all'istruzione, alla partecipazione politica, al libero sviluppo personale, e il diritto di consumare i beni necessari a una vita sana e felice". Parole tratte dal manifesto degli indignati, parole che non abbiamo letto nelle cronache della grande manifestazione italiana. Parole sottoscrivibili, presenti ma disattese in tanti programmi elettorali.
Di quale eversione sono dunque portatori gli indignati italiani, forse di quella rivoluzione del buon senso che pare smarrito e disperso dal cambio di pelle di partiti e leader? Con il Pd sensibile alle ragioni dei banchieri e il Pdl alle sollecitazioni delle grandi rendite finanziarie, l'agenda politica è regolata cacciando nelle ultime righe i bisogni e la disperazione di milioni di famiglie. Il paese ristagna e arretra, il debito pubblico gigantesco e incomprimibile, cresciuto nutrendo privilegi di ogni risma, oscura il futuro dei giovani italiani e il Parlamento cosa fa? Taglia i costi del pranzo a Montecitorio.
A Roma 200.000 persone sfilano pacificamente, come in tutto il mondo, chiedendo ai governi di preoccuparsi del futuro dei giovani invece che di un'elite privilegiata, e i giornali e le tv cosa fanno? Raccontano le azioni di 700 violenti, trasformando miseria e devastazione in epica della rivolta bruta, e tacciono, disperatamente tacciono sulle ragioni di pacifici cittadini accomunati dal bisogno di cambiamento. C'è qualcosa di profondamente malato nella dinamica democratica se accadono cose simili. Amplificando i loro tamburi di guerra attraverso interviste ripetute e sparate a tutta pagina, assistiamo alla glorificazione delle dinamiche militari della guerriglia urbana. Ma neanche una riga sulle centinaia di migliaia, milioni in tutto il mondo, che protestano sfuggendo alle organizzazioni tradizionali, che si radunano come i giovani del medio oriente, pacificamente, ostinatamente, con tam tam silenziosi e mobilitazioni orizzontali.
Qualcuno, e non fra i migliori, ha detto che se un evento non è rappresentato in tv e sui giornali non esiste. Capovolgendo il ragionamento un evento, seppur modesto, lo si fa esistere se il circuito mediatico lo racconta e lo fa rimbalzare cercando figure che lo esprimano, ieri il giovane a gambe divaricate, oggi un ragazzo a torso nudo.
Nei paesi arabi stampa e tv erano asserviti al potere autoritario, eppure le piazze si sono riempite lo stesso. La stampa democratica non faccia gli stessi errori e racconti il bene che c'è ed è tanto, senza subire il fascino del male che c'è ma per fortuna è solo una piccola e violenta parte.
Aldo Penna
"Ci sono diritti fondamentali che dovrebbero essere al sicuro in queste società: il diritto alla casa, al lavoro, alla cultura, alla salute, all'istruzione, alla partecipazione politica, al libero sviluppo personale, e il diritto di consumare i beni necessari a una vita sana e felice". Parole tratte dal manifesto degli indignati, parole che non abbiamo letto nelle cronache della grande manifestazione italiana. Parole sottoscrivibili, presenti ma disattese in tanti programmi elettorali.
Di quale eversione sono dunque portatori gli indignati italiani, forse di quella rivoluzione del buon senso che pare smarrito e disperso dal cambio di pelle di partiti e leader? Con il Pd sensibile alle ragioni dei banchieri e il Pdl alle sollecitazioni delle grandi rendite finanziarie, l'agenda politica è regolata cacciando nelle ultime righe i bisogni e la disperazione di milioni di famiglie. Il paese ristagna e arretra, il debito pubblico gigantesco e incomprimibile, cresciuto nutrendo privilegi di ogni risma, oscura il futuro dei giovani italiani e il Parlamento cosa fa? Taglia i costi del pranzo a Montecitorio.
A Roma 200.000 persone sfilano pacificamente, come in tutto il mondo, chiedendo ai governi di preoccuparsi del futuro dei giovani invece che di un'elite privilegiata, e i giornali e le tv cosa fanno? Raccontano le azioni di 700 violenti, trasformando miseria e devastazione in epica della rivolta bruta, e tacciono, disperatamente tacciono sulle ragioni di pacifici cittadini accomunati dal bisogno di cambiamento. C'è qualcosa di profondamente malato nella dinamica democratica se accadono cose simili. Amplificando i loro tamburi di guerra attraverso interviste ripetute e sparate a tutta pagina, assistiamo alla glorificazione delle dinamiche militari della guerriglia urbana. Ma neanche una riga sulle centinaia di migliaia, milioni in tutto il mondo, che protestano sfuggendo alle organizzazioni tradizionali, che si radunano come i giovani del medio oriente, pacificamente, ostinatamente, con tam tam silenziosi e mobilitazioni orizzontali.
Qualcuno, e non fra i migliori, ha detto che se un evento non è rappresentato in tv e sui giornali non esiste. Capovolgendo il ragionamento un evento, seppur modesto, lo si fa esistere se il circuito mediatico lo racconta e lo fa rimbalzare cercando figure che lo esprimano, ieri il giovane a gambe divaricate, oggi un ragazzo a torso nudo.
Nei paesi arabi stampa e tv erano asserviti al potere autoritario, eppure le piazze si sono riempite lo stesso. La stampa democratica non faccia gli stessi errori e racconti il bene che c'è ed è tanto, senza subire il fascino del male che c'è ma per fortuna è solo una piccola e violenta parte.
Aldo Penna
Francesco Maria Mariotti: Ignazio Visco
In attesa di capire se veramente la guerra in Libia sia finita (è lecito dubitarne, anche se naturalmente tutti speriamo che si chiarisca l'orizzonte politico di quel paese; su questo vi segnalo un ottimo intervento di David Bidussa sul blog "Storia Minima" de Linkiesta), volgo lo sguardo a casa nostra, con la nomina del nuovo Governatore di Banca d'Italia, di cui può essere importante conoscere il pensiero. Sfrutto in questo senso l'ottimo sito dell'Istituto segnalando un intervento del 2008, che mi pare renda bene l'idea delle coordinate in cui si muove Ignazio Visco, coordinate per noi importantissime: appunto "Crescita, capitale umano, istruzione"
Francesco Maria Mariotti
http://mondiepolitiche.blogspot.com/
INTERVENTO DEL VICE DIRETTORE GENERALE DOTT. IGNAZIO VISCO A GENOVA ALLA CERIMONIA DI INAUGURAZIONE DELL’ANNO ACCADEMICO 2007/2008 DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI (16-02-2008)
Quando si considerano, però, non tanto le fluttuazioni cicliche intorno al potenziale di reddito che un'economia può generare ma piuttosto la crescita economica e i livelli di benessere ad essa associati, occorre guardare alle tendenze di fondo, in ultima analisi alla crescita della produttività del lavoro. E nel nostro Paese da troppo tempo essa è particolarmente bassa, il progresso tecnologico è modesto, e l'utilizzo nei processi di produzione dell'innovazione altrove prodotta è insufficiente. Poiché non vi sono ricette magiche che consentano di innalzare in poco tempo e in misura significativa il tasso di crescita potenziale della nostra economia, occorre procedere su molti fronti, con fatica, con pazienza, con perseveranza, rimuovendo inefficienze e vincoli dovuti a regolamentazioni obsolete, ad amministrazioni arretrate o alla difesa di interessi particolari. Soprattutto, occorre fare uno sforzo massiccio sul fronte dell'istruzione, nella scuola secondaria come nelle università. Occorre renderla moderna, adeguata al nostro tempo, con maggiore attenzione alle discipline scientifiche e tecniche, eppure non tralasciando la nostra grande tradizione culturale ma trasmettendola con originalità alle nuove generazioni. Ci vorrà tempo e impegno. Ma da qui si deve partire.
http://www.bancaditalia.it/media/notizie/visco_160208/notizia.html
Testo integrale in pdf:
http://www.bancaditalia.it/interventi/intaltri_mdir/visco_1602/visco_16_2_08.pdf
Francesco Maria Mariotti
http://mondiepolitiche.blogspot.com/
INTERVENTO DEL VICE DIRETTORE GENERALE DOTT. IGNAZIO VISCO A GENOVA ALLA CERIMONIA DI INAUGURAZIONE DELL’ANNO ACCADEMICO 2007/2008 DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI (16-02-2008)
Quando si considerano, però, non tanto le fluttuazioni cicliche intorno al potenziale di reddito che un'economia può generare ma piuttosto la crescita economica e i livelli di benessere ad essa associati, occorre guardare alle tendenze di fondo, in ultima analisi alla crescita della produttività del lavoro. E nel nostro Paese da troppo tempo essa è particolarmente bassa, il progresso tecnologico è modesto, e l'utilizzo nei processi di produzione dell'innovazione altrove prodotta è insufficiente. Poiché non vi sono ricette magiche che consentano di innalzare in poco tempo e in misura significativa il tasso di crescita potenziale della nostra economia, occorre procedere su molti fronti, con fatica, con pazienza, con perseveranza, rimuovendo inefficienze e vincoli dovuti a regolamentazioni obsolete, ad amministrazioni arretrate o alla difesa di interessi particolari. Soprattutto, occorre fare uno sforzo massiccio sul fronte dell'istruzione, nella scuola secondaria come nelle università. Occorre renderla moderna, adeguata al nostro tempo, con maggiore attenzione alle discipline scientifiche e tecniche, eppure non tralasciando la nostra grande tradizione culturale ma trasmettendola con originalità alle nuove generazioni. Ci vorrà tempo e impegno. Ma da qui si deve partire.
http://www.bancaditalia.it/media/notizie/visco_160208/notizia.html
Testo integrale in pdf:
http://www.bancaditalia.it/interventi/intaltri_mdir/visco_1602/visco_16_2_08.pdf
Giovanni Falcetta: Ecco la classifica degli stati con i salari lordi più elevati
L'ITALIA, NELLA CLASSIFICA EUROPEA (UNIONE EUROPEA E PAESI EXTRACOMUNITARI) SI TROVA
AL 15° POSTO PER IL LIVELLO DEI SALARI E DEGLI STIPENDI DEI LAVORATORI DIPENDENTI
PUBBLICI E PRIVATI. IN QUESTE CONDIZIONI L'ECONOMIA NON POTRA' MAI RIPARTIRE PERCHE'
LA DOMANDA E' MOLTO BASSA. LE MASSE DELLE CLASSI SOCIALI MEDIO - BASSE NON HANNO
PIU' SOLDI PER COMPRARE E DAR COSI' LAVORO ALLE IMPRESE, MOLTE DELLE QUALI, PERO', IN
QUESTO VENTENNIO BERLUSCONIANO, HANNO ACCUMULATO ENORMI PROFITTI INVESTITI
ALL'ESTERO (DELOCALIZZANDO LE PRODUZIONI NEI PAESI POVERI) O DEPOSITANDOLI NEI
NUMEROSI "PARADISI FISCALI", SVIZZERA INCLUSA.
Giovanni Falcetta
I Paesi europei dove il lavoro costa di più
Ecco la classifica degli Stati con i salari lordi più elevati. L Italia è al 15° posto
tweet7Stampa
Temi:Economia internazionaleLavoro e CarrierePensioni e TFR
Yahoo! Finanza - lunedì, 3 ottobre 2011 - 9:39
In ogni Paese, la crescita o la riduzione dell'occupazione è determinata da diversi fattori tra cui l'andamento dell'economia, ladomanda complessiva di beni e servizi, le leggi che disciplinano l'attività lavorativa, lo stato di salute dei conti pubblici, l'attivismo delle imprese operanti sul mercato, la facilità di accesso alle professioni, le norme sulle pensioni e icosti del lavoro. Questi ultimi sono tra gli elementi che incidono di più sulle possibilità che hanno i lavoratori di trovare un impiego. Nella busta paga mensile di un dipendente, come è noto, oltre alla retribuzione netta, figurano anche le trattenute fiscali e previdenziali, nonché altre voci a carico dell'azienda che cambiano a seconda delle situazioni. In più, ogni datore di lavoro ha l'obbligo di versare il Tfr (trattamento di fine rapporto) al lavoratore quando quest'ultimo interrompe la collaborazione con chi lo ha assunto. Prima di assumere nuova forza lavoro, quindi, ogni impresa deve prendere in considerazione l'entità dei costi che deve sostenere. E in parecchi casi, soprattutto in Europa, tali costi sono molto elevati.
Rispetto agli altri, infatti, l'Europa è il continente che nella media "vanta" i salari lordi, e quindi i costi del lavoro, più alti. Quali sono i Paesi europei in cui il lavoro costa di più? Ecco una classifica degli Stati del Vecchio Continente (anche non appartenenti all'Ue) con gli stipendi lordi più elevati. I dati, relativi all'anno 2009 (ultima rilevazione disponibile), sono quelli, espressi in dollari americani, della Commissione economica per l'Europa delle Nazioni Unite (UNECE) e della Commissione statistica dell'Onu (UNSD). E per mettere in risalto le differenze, per ogni Stato è menzionato anche il Pil pro capite, un indicatore che misura il livello di benessere di un Paese.
Al primo posto della graduatoria dei Paesi in cui il lavoro ha i costi più elevati c'è la Svizzera, dove la retribuzione lorda mensile è di 6.407 dollari [guarda il cambio in euro], a fronte di un Pil pro capite annuo pari a 65.003 dollari [guarda il cambio in euro].
In seconda posizione c'è un Paese membro dell'Unione europea: la Danimarca. Qui, le buste paga dei lavoratori, al lordo delle trattenute, sono in media di 5.970 dollari al mese [guarda il cambio in euro]. Il Prodotto interno lordo pro capite è invece pari a 56.687 dollari [guarda il cambio in euro]
Sul terzo gradino del podio c'è il piccolo e ricco Lussemburgo, in cui i lavoratori percepiscono in media uno stipendio lordo di 5.864 dollari [guarda il cambio in euro] al mese. In questo caso, anche in virtù del numero degli abitanti, il reddito pro capite è molto più elevato di quello dei primi due Paesi della classifica: 108.706 dollari [guarda il cambio in euro].
Costi del lavoro elevati anche in Norvegia (4° posto), Paese extracomunitario che però intrattiene numerose relazioni economiche con i membri dell'Ue. I datori di lavoro norvegesi pagano mediamente 5.632 dollari [guarda il cambio in euro] al mese per ogni dipendente. Ma a giudicare dal dato del Pil pro capite annuo, 78.674 dollari [guarda il cambio in euro], nel Paese scandinavo anche il livello medio delle retribuzioni nette è molto elevato.
Chiude la top five l'Irlanda (5° posto), dove la paga mensile lorda di un lavoratore è in media di 5.423 dollari [guarda il cambio in euro] e il reddito medio è di 49.115 dollari [guarda il cambio in euro] annui. In questo caso però va precisato che la situazione potrebbe essere cambiata nettamente rispetto all'anno di riferimento, che come detto è il 2009. L'ex Tigre Celtica, ormai a pieno titolo tra i "Pigs" (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna), è infatti uno dei Paesi più colpiti dalla crisi globale e il suo debito pubblico si è più che triplicato in pochi anni, superando il rapporto del 100% rispetto al Pil.
Come si può notare, tra i primi cinque Paesi in cui il lavoro costa di più non sono presenti le maggiori economie europee. Per trovare la prima "big" bisogna scendere alla decima posizione della classifica, occupata dalla Francia. Oltralpe, i salari lordi ammontano in media a 4.001 dollari [guarda il cambio in euro] al mese, in rapporto a un reddito pro capite pari a 41.226 dollari [guarda il cambio in euro] all'anno.
Subito dopo la Francia, troviamo il Regno Unito (11° posto). Tra Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord, imprese e enti pubblici sborsano in media 3.930 dollari al mese [guarda il cambio in euro] per la retribuzione dei loro dipendenti al lordo delle trattenute. Rispetto ai "rivali" transalpini, anche il Pil pro capite è più basso e ammonta a 35.239 dollari [guarda il cambio in euro] annui.
La prima economia europea, la Germania, si trova al dodicesimo posto della graduatoria. In proporzione al reddito pro capite, piuttosto elevato, 40.528 dollari [guarda il cambio in euro] annui, il costo del lavoro è relativamente basso: ogni dipendente percepisce in media uno stipendio lordo di 3.703 dollari [guarda il cambio in euro] al mese.
E l'Italia? In base ai dati dell'Onu rilevati nel 2009, il nostro Paese occupa la quindicesima posizione della classifica. I salari lordi sono in media di 3.200 dollari [guarda il cambio in euro] dollari al mese, che al cambio attuale significa circa 2.400 euro. I costi del lavoro sono quindi inferiori rispetto agli altri Paesi più industrializzati d'Europa. Ma il dato sul reddito pro capite annuo, pari a 35.289 dollari [guarda il cambio in euro], circa 26mila euro, fa capire che, in relazione agli altri Stati menzionati, anche la retribuzione netta è più bassa. In proporzione, quindi, i costi che le imprese italiane devono sostenere per pagare i dipendenti sono alquanto elevati.
Giovanni Falcetta
AL 15° POSTO PER IL LIVELLO DEI SALARI E DEGLI STIPENDI DEI LAVORATORI DIPENDENTI
PUBBLICI E PRIVATI. IN QUESTE CONDIZIONI L'ECONOMIA NON POTRA' MAI RIPARTIRE PERCHE'
LA DOMANDA E' MOLTO BASSA. LE MASSE DELLE CLASSI SOCIALI MEDIO - BASSE NON HANNO
PIU' SOLDI PER COMPRARE E DAR COSI' LAVORO ALLE IMPRESE, MOLTE DELLE QUALI, PERO', IN
QUESTO VENTENNIO BERLUSCONIANO, HANNO ACCUMULATO ENORMI PROFITTI INVESTITI
ALL'ESTERO (DELOCALIZZANDO LE PRODUZIONI NEI PAESI POVERI) O DEPOSITANDOLI NEI
NUMEROSI "PARADISI FISCALI", SVIZZERA INCLUSA.
Giovanni Falcetta
I Paesi europei dove il lavoro costa di più
Ecco la classifica degli Stati con i salari lordi più elevati. L Italia è al 15° posto
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Temi:Economia internazionaleLavoro e CarrierePensioni e TFR
Yahoo! Finanza - lunedì, 3 ottobre 2011 - 9:39
In ogni Paese, la crescita o la riduzione dell'occupazione è determinata da diversi fattori tra cui l'andamento dell'economia, ladomanda complessiva di beni e servizi, le leggi che disciplinano l'attività lavorativa, lo stato di salute dei conti pubblici, l'attivismo delle imprese operanti sul mercato, la facilità di accesso alle professioni, le norme sulle pensioni e icosti del lavoro. Questi ultimi sono tra gli elementi che incidono di più sulle possibilità che hanno i lavoratori di trovare un impiego. Nella busta paga mensile di un dipendente, come è noto, oltre alla retribuzione netta, figurano anche le trattenute fiscali e previdenziali, nonché altre voci a carico dell'azienda che cambiano a seconda delle situazioni. In più, ogni datore di lavoro ha l'obbligo di versare il Tfr (trattamento di fine rapporto) al lavoratore quando quest'ultimo interrompe la collaborazione con chi lo ha assunto. Prima di assumere nuova forza lavoro, quindi, ogni impresa deve prendere in considerazione l'entità dei costi che deve sostenere. E in parecchi casi, soprattutto in Europa, tali costi sono molto elevati.
Rispetto agli altri, infatti, l'Europa è il continente che nella media "vanta" i salari lordi, e quindi i costi del lavoro, più alti. Quali sono i Paesi europei in cui il lavoro costa di più? Ecco una classifica degli Stati del Vecchio Continente (anche non appartenenti all'Ue) con gli stipendi lordi più elevati. I dati, relativi all'anno 2009 (ultima rilevazione disponibile), sono quelli, espressi in dollari americani, della Commissione economica per l'Europa delle Nazioni Unite (UNECE) e della Commissione statistica dell'Onu (UNSD). E per mettere in risalto le differenze, per ogni Stato è menzionato anche il Pil pro capite, un indicatore che misura il livello di benessere di un Paese.
Al primo posto della graduatoria dei Paesi in cui il lavoro ha i costi più elevati c'è la Svizzera, dove la retribuzione lorda mensile è di 6.407 dollari [guarda il cambio in euro], a fronte di un Pil pro capite annuo pari a 65.003 dollari [guarda il cambio in euro].
In seconda posizione c'è un Paese membro dell'Unione europea: la Danimarca. Qui, le buste paga dei lavoratori, al lordo delle trattenute, sono in media di 5.970 dollari al mese [guarda il cambio in euro]. Il Prodotto interno lordo pro capite è invece pari a 56.687 dollari [guarda il cambio in euro]
Sul terzo gradino del podio c'è il piccolo e ricco Lussemburgo, in cui i lavoratori percepiscono in media uno stipendio lordo di 5.864 dollari [guarda il cambio in euro] al mese. In questo caso, anche in virtù del numero degli abitanti, il reddito pro capite è molto più elevato di quello dei primi due Paesi della classifica: 108.706 dollari [guarda il cambio in euro].
Costi del lavoro elevati anche in Norvegia (4° posto), Paese extracomunitario che però intrattiene numerose relazioni economiche con i membri dell'Ue. I datori di lavoro norvegesi pagano mediamente 5.632 dollari [guarda il cambio in euro] al mese per ogni dipendente. Ma a giudicare dal dato del Pil pro capite annuo, 78.674 dollari [guarda il cambio in euro], nel Paese scandinavo anche il livello medio delle retribuzioni nette è molto elevato.
Chiude la top five l'Irlanda (5° posto), dove la paga mensile lorda di un lavoratore è in media di 5.423 dollari [guarda il cambio in euro] e il reddito medio è di 49.115 dollari [guarda il cambio in euro] annui. In questo caso però va precisato che la situazione potrebbe essere cambiata nettamente rispetto all'anno di riferimento, che come detto è il 2009. L'ex Tigre Celtica, ormai a pieno titolo tra i "Pigs" (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna), è infatti uno dei Paesi più colpiti dalla crisi globale e il suo debito pubblico si è più che triplicato in pochi anni, superando il rapporto del 100% rispetto al Pil.
Come si può notare, tra i primi cinque Paesi in cui il lavoro costa di più non sono presenti le maggiori economie europee. Per trovare la prima "big" bisogna scendere alla decima posizione della classifica, occupata dalla Francia. Oltralpe, i salari lordi ammontano in media a 4.001 dollari [guarda il cambio in euro] al mese, in rapporto a un reddito pro capite pari a 41.226 dollari [guarda il cambio in euro] all'anno.
Subito dopo la Francia, troviamo il Regno Unito (11° posto). Tra Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord, imprese e enti pubblici sborsano in media 3.930 dollari al mese [guarda il cambio in euro] per la retribuzione dei loro dipendenti al lordo delle trattenute. Rispetto ai "rivali" transalpini, anche il Pil pro capite è più basso e ammonta a 35.239 dollari [guarda il cambio in euro] annui.
La prima economia europea, la Germania, si trova al dodicesimo posto della graduatoria. In proporzione al reddito pro capite, piuttosto elevato, 40.528 dollari [guarda il cambio in euro] annui, il costo del lavoro è relativamente basso: ogni dipendente percepisce in media uno stipendio lordo di 3.703 dollari [guarda il cambio in euro] al mese.
E l'Italia? In base ai dati dell'Onu rilevati nel 2009, il nostro Paese occupa la quindicesima posizione della classifica. I salari lordi sono in media di 3.200 dollari [guarda il cambio in euro] dollari al mese, che al cambio attuale significa circa 2.400 euro. I costi del lavoro sono quindi inferiori rispetto agli altri Paesi più industrializzati d'Europa. Ma il dato sul reddito pro capite annuo, pari a 35.289 dollari [guarda il cambio in euro], circa 26mila euro, fa capire che, in relazione agli altri Stati menzionati, anche la retribuzione netta è più bassa. In proporzione, quindi, i costi che le imprese italiane devono sostenere per pagare i dipendenti sono alquanto elevati.
Giovanni Falcetta
Giuliana Nuvoli sul libro di Edmondo Rho
Edmondo Rho, Il suicidio, Milano 2011
Il suicidio è il racconto di un’agonia: quella di un uomo, di una classe politica, di una cultura che hanno tenuto per diciassette anni l’Italia in ostaggio. E’ un libro didascalico che procede per accumulazione di elementi, ma è anche una sorta di romanzo in sospeso tra la farsa e la tragedia. Il protagonista è lui, Berlusconi, il populista che ha creduto che un Paese si guidasse come un’azienda; che ha voluto impersonare il Grande Seduttore, senza averne né il fascino né il talento.
La narrazione procede per grumi e per cerchi concentrici (il cuore è Milano), e non in linea diacronica. Prende l’avvio dal conflitto fra Tremonti e Berlusconi, che non gli perdona di aver fatto fuori l’amico Cesare Geronzi. Il quadro sembra uscire dalla Roma di Alessandro VI: intrighi, ripicche, agguati, vendette.
Con pacata sapienza, capitolo dopo capitolo, Rho mette a nudo gli errori del capo e dei suoi seguaci.
Berlusconi perde il contatto con la realtà e si candida a Milano, credendo che la favola del baluardo al comunismo possa ancora funzionare. La medesima cecità mostra anche Letizia Moratti che non chiede scusa a Pisapia, lascia che i manifesti di Lassini deturpino Milano e tratta la città come suo feudo personale.
Al centro della narrazione Rho colloca le zingarate ignoranti di Bossi e la prudente sapienza di Tettamanzi. E traspare con chiarezza come i bisogni individuati dalla Lega siano indotti, contingenti, pretestuosi, mentre quelli cui la Chiesa ambrosiana fa riferimento siano veri e diffusi. L’elenco degli errori del centro destra a Milano lo fa, il 30 maggio 2011, proprio Igor Iezzi, giovane Segretario provinciale della Lega Nord: il comizio di Berlusconi davanti al tribunale, la lotta ai giudici, la bugia sull’auto rubata, gli elettori senza cervello, la Santanché, la pagina Facebook della Moratti, i manifesti di Lassini, lo spot in cui Berlusconi se la prende con la sinistra clientelare e affarista (che non governava da vent’anni)…. e potremmo continuare!
Poi i riflettori si allontanano da Milano e tornano su un piano nazionale, all’ordalìa mediatica del Cavaliere in TV. La perdita di contatto con la realtà qui è ancora più vistosa: occupa spazi impropri, e si fa multare; ripete “come un disco rotto” le solite formule, e nessuno più gli crede; pensa di mettere il silenziatore agli avversari, e la rete gli si scatena contro. Ed è quella rete che dà il primo forte segnale inascoltato: va in massa a votare per il referendum. Pensa, sceglie, disobbedisce.
Avviandosi alla fine Rho pone la domanda di chi possano essere i successori: banchieri (Profumo)? Imprenditori (Montezemolo)? Non c’è ancora risposta.
Cosa certa è, però, l’incapacità di Berlusconi di governare il Paese: per ignoranza e arroganza mescolate insieme. Non ha mai capito cosa occorra per governare uno Stato, e ha creduto di poterlo fare con quell’assenza di regole e di utilizzo dell’esistente per interesse personale, che aveva caratterizzato la sua carriera d’imprenditore.
Rho lo dimostra con chiarezza, ma senza vis polemica. Sono i fatti a parlare: e a questi, con puntuale accuratezza, fa riferimento.
Il suicidio prende così forma e acquista senso: è iniziato lontano, nel momento stesso in cui Berlusconi “è sceso in campo”. E non è soltanto un “suicidio anomico”, per inosservanza delle regole: esso si radica, piuttosto, nell’assenza di una cultura adeguata, nella mancanza di intelligenza politica, nell’arrogante pretesa che il denaro possa comprare tutto e, sopra tutto, nella valutazione sbagliata del popolo che intendeva governare. Sul momento ha ceduto all’incantesimo del pifferaio magico, ora si sta svegliando.
Il Don Giovanni è vecchio, finto, dileggiato dal mondo intero. Il vorace Pantagruel non ha giardini ordinati e città vivibili nella sua bocca: ha solo i poveri resti di un Paese che ha provato a distruggere.
giuliana nuvoli
19 ottobre 2011
Il suicidio è il racconto di un’agonia: quella di un uomo, di una classe politica, di una cultura che hanno tenuto per diciassette anni l’Italia in ostaggio. E’ un libro didascalico che procede per accumulazione di elementi, ma è anche una sorta di romanzo in sospeso tra la farsa e la tragedia. Il protagonista è lui, Berlusconi, il populista che ha creduto che un Paese si guidasse come un’azienda; che ha voluto impersonare il Grande Seduttore, senza averne né il fascino né il talento.
La narrazione procede per grumi e per cerchi concentrici (il cuore è Milano), e non in linea diacronica. Prende l’avvio dal conflitto fra Tremonti e Berlusconi, che non gli perdona di aver fatto fuori l’amico Cesare Geronzi. Il quadro sembra uscire dalla Roma di Alessandro VI: intrighi, ripicche, agguati, vendette.
Con pacata sapienza, capitolo dopo capitolo, Rho mette a nudo gli errori del capo e dei suoi seguaci.
Berlusconi perde il contatto con la realtà e si candida a Milano, credendo che la favola del baluardo al comunismo possa ancora funzionare. La medesima cecità mostra anche Letizia Moratti che non chiede scusa a Pisapia, lascia che i manifesti di Lassini deturpino Milano e tratta la città come suo feudo personale.
Al centro della narrazione Rho colloca le zingarate ignoranti di Bossi e la prudente sapienza di Tettamanzi. E traspare con chiarezza come i bisogni individuati dalla Lega siano indotti, contingenti, pretestuosi, mentre quelli cui la Chiesa ambrosiana fa riferimento siano veri e diffusi. L’elenco degli errori del centro destra a Milano lo fa, il 30 maggio 2011, proprio Igor Iezzi, giovane Segretario provinciale della Lega Nord: il comizio di Berlusconi davanti al tribunale, la lotta ai giudici, la bugia sull’auto rubata, gli elettori senza cervello, la Santanché, la pagina Facebook della Moratti, i manifesti di Lassini, lo spot in cui Berlusconi se la prende con la sinistra clientelare e affarista (che non governava da vent’anni)…. e potremmo continuare!
Poi i riflettori si allontanano da Milano e tornano su un piano nazionale, all’ordalìa mediatica del Cavaliere in TV. La perdita di contatto con la realtà qui è ancora più vistosa: occupa spazi impropri, e si fa multare; ripete “come un disco rotto” le solite formule, e nessuno più gli crede; pensa di mettere il silenziatore agli avversari, e la rete gli si scatena contro. Ed è quella rete che dà il primo forte segnale inascoltato: va in massa a votare per il referendum. Pensa, sceglie, disobbedisce.
Avviandosi alla fine Rho pone la domanda di chi possano essere i successori: banchieri (Profumo)? Imprenditori (Montezemolo)? Non c’è ancora risposta.
Cosa certa è, però, l’incapacità di Berlusconi di governare il Paese: per ignoranza e arroganza mescolate insieme. Non ha mai capito cosa occorra per governare uno Stato, e ha creduto di poterlo fare con quell’assenza di regole e di utilizzo dell’esistente per interesse personale, che aveva caratterizzato la sua carriera d’imprenditore.
Rho lo dimostra con chiarezza, ma senza vis polemica. Sono i fatti a parlare: e a questi, con puntuale accuratezza, fa riferimento.
Il suicidio prende così forma e acquista senso: è iniziato lontano, nel momento stesso in cui Berlusconi “è sceso in campo”. E non è soltanto un “suicidio anomico”, per inosservanza delle regole: esso si radica, piuttosto, nell’assenza di una cultura adeguata, nella mancanza di intelligenza politica, nell’arrogante pretesa che il denaro possa comprare tutto e, sopra tutto, nella valutazione sbagliata del popolo che intendeva governare. Sul momento ha ceduto all’incantesimo del pifferaio magico, ora si sta svegliando.
Il Don Giovanni è vecchio, finto, dileggiato dal mondo intero. Il vorace Pantagruel non ha giardini ordinati e città vivibili nella sua bocca: ha solo i poveri resti di un Paese che ha provato a distruggere.
giuliana nuvoli
19 ottobre 2011
giovedì 20 ottobre 2011
Tomaso Greco: A che cosa punta Stefano Boeri?
A che cosa punta Stefano Boeri?
Stefano Boeri voleva il congresso. Lo aveva chiesto prima dell'estate, è tornato a chiederlo dopo la nomina della nuova segreteria cittadina. Eppure di quella segreteria cittadina Boeri fa parte. Anzi, a dirla tutta è un "invitato permanente" come capodelegazione in giunta. Un calembour politico che suona più come un dazio da pagare che come un riconoscimento verso l'ex candidato alle primarie. In ogni caso, un ruolo che sta stretto all'architetto che vuole "rigenerare" il partito milanese, ma che nel partito milanese fatica a trovare una collocazione. E così prima bolla la segreteria come eletta da "27 dei 120 membri della direzione" e espressione del "bilancino di schieramenti precotti", poi rilancia chiedendo un confronto aperto a partire dalla politica e dal rapporto partito/giunta. Affida le sue riflessioni, in tempo quasi reale, al microfono amico di Beltrami Gadola, direttore di Arcipelago Milano e fresco di nomina nel cda dell'Aler.
In estrema sintesi il Boeri-pensiero si può riassumere così: al primo turno ci hanno votato in 170mila, esprimiamo 20 consiglieri di maggioranza su 29, ma il partito è ancora basato su equilibri antecedenti alla proliferazione di idee e contribuiti che ha portato alla vittoria elettorale. E, in quanto tale, sarebbe sostanzialmente obsoleto e anche un po' autoreferenziale.
Quindi, consiglia Boeri, confrontiamoci sulla politica. Solo che sulla politica, se il Pd fosse costretto a prendere delle scelte chiare, finiremmo per assistere a delle spaccature non da poco. E non certo tra Cornelli e Mauri, ma tra Bersani e Veltroni, Marino e la Bindi, Fassina e l'area lib-dem e via di questo passo. Il problema, dal punto di vista delle decisioni strategiche, non sembra essere un difetto della compagine milanese. Semmai l'eco di dinamiche nazionali.
Questione invece tutta milanese è che ruolo abbia scelto per sé e per i suoi Stefano Boeri. Sceso in campo con squilli di trombe, la dirigenza del Pd lo aveva indicato come sicuro vincitore delle primarie. Alzi la mano chi non conosce almeno cinque militanti del Pd che abbiano fatto attivamente campagna per Pisapia alle primarie. Candidato capolista del Pd dopo una lunga gestazione è stato il secondo più votato dopo Berlusconi. Entra in giunta come assessore a Cultura, Expo, Moda e design. E lì inizia a dissentire dalle scelte del sindaco in materia di Expo. Firmata la tregua (armata, maligna qualcuno) con Pisapia, l'attenzione di Boeri è passata a concentrarsi sul partito democratico.
Certo è che Boeri non ha bevuto l'amaro calice per un ruolo da gregario o, ancor peggio, per rimanere estraneo alla decisioni che contano. Se la soluzione di battitore libero in giunta è poco praticabile, soprattutto senza il sostegno almeno parziale del partito, potrebbero essere molti gli approdi potenziali dell'ex direttore di Abitare.
In questo la battaglia interna al Pd milanese potrebbe essere tutt'al più il mezzo, ma non certo il fine. Boeri potrebbe provare a vincerla sapendo che, anche qualora la perdesse, si accrediterebbe come insider (e con una certa percentuale di minoranza) e non più come ospite. Sullo sfondo c'è Expo e ci sono le elezioni nazionali, poi le provinciali e le regionali. Non necessariamente in quest'ordine. E Boeri, che conosce i meccanismi della politica, sa bene che gli avversari che non possono essere marginalizzati rischiano di passare per un promoveatur ut amoveatur. Meccanismo che si può subire o, con un gioco di carambole, provocare.
Stefano Boeri voleva il congresso. Lo aveva chiesto prima dell'estate, è tornato a chiederlo dopo la nomina della nuova segreteria cittadina. Eppure di quella segreteria cittadina Boeri fa parte. Anzi, a dirla tutta è un "invitato permanente" come capodelegazione in giunta. Un calembour politico che suona più come un dazio da pagare che come un riconoscimento verso l'ex candidato alle primarie. In ogni caso, un ruolo che sta stretto all'architetto che vuole "rigenerare" il partito milanese, ma che nel partito milanese fatica a trovare una collocazione. E così prima bolla la segreteria come eletta da "27 dei 120 membri della direzione" e espressione del "bilancino di schieramenti precotti", poi rilancia chiedendo un confronto aperto a partire dalla politica e dal rapporto partito/giunta. Affida le sue riflessioni, in tempo quasi reale, al microfono amico di Beltrami Gadola, direttore di Arcipelago Milano e fresco di nomina nel cda dell'Aler.
In estrema sintesi il Boeri-pensiero si può riassumere così: al primo turno ci hanno votato in 170mila, esprimiamo 20 consiglieri di maggioranza su 29, ma il partito è ancora basato su equilibri antecedenti alla proliferazione di idee e contribuiti che ha portato alla vittoria elettorale. E, in quanto tale, sarebbe sostanzialmente obsoleto e anche un po' autoreferenziale.
Quindi, consiglia Boeri, confrontiamoci sulla politica. Solo che sulla politica, se il Pd fosse costretto a prendere delle scelte chiare, finiremmo per assistere a delle spaccature non da poco. E non certo tra Cornelli e Mauri, ma tra Bersani e Veltroni, Marino e la Bindi, Fassina e l'area lib-dem e via di questo passo. Il problema, dal punto di vista delle decisioni strategiche, non sembra essere un difetto della compagine milanese. Semmai l'eco di dinamiche nazionali.
Questione invece tutta milanese è che ruolo abbia scelto per sé e per i suoi Stefano Boeri. Sceso in campo con squilli di trombe, la dirigenza del Pd lo aveva indicato come sicuro vincitore delle primarie. Alzi la mano chi non conosce almeno cinque militanti del Pd che abbiano fatto attivamente campagna per Pisapia alle primarie. Candidato capolista del Pd dopo una lunga gestazione è stato il secondo più votato dopo Berlusconi. Entra in giunta come assessore a Cultura, Expo, Moda e design. E lì inizia a dissentire dalle scelte del sindaco in materia di Expo. Firmata la tregua (armata, maligna qualcuno) con Pisapia, l'attenzione di Boeri è passata a concentrarsi sul partito democratico.
Certo è che Boeri non ha bevuto l'amaro calice per un ruolo da gregario o, ancor peggio, per rimanere estraneo alla decisioni che contano. Se la soluzione di battitore libero in giunta è poco praticabile, soprattutto senza il sostegno almeno parziale del partito, potrebbero essere molti gli approdi potenziali dell'ex direttore di Abitare.
In questo la battaglia interna al Pd milanese potrebbe essere tutt'al più il mezzo, ma non certo il fine. Boeri potrebbe provare a vincerla sapendo che, anche qualora la perdesse, si accrediterebbe come insider (e con una certa percentuale di minoranza) e non più come ospite. Sullo sfondo c'è Expo e ci sono le elezioni nazionali, poi le provinciali e le regionali. Non necessariamente in quest'ordine. E Boeri, che conosce i meccanismi della politica, sa bene che gli avversari che non possono essere marginalizzati rischiano di passare per un promoveatur ut amoveatur. Meccanismo che si può subire o, con un gioco di carambole, provocare.
mercoledì 19 ottobre 2011
martedì 18 ottobre 2011
lunedì 17 ottobre 2011
Andrea Ermano: Ragazzini, criminali, infiltrati
EDITORIALE
Avvenire dei lavoratori
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Ragazzini.
Criminali.
Infiltrati.
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di Andrea Ermano
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Ci scrive un lettore: “La più grande manifestazione mondiale degli Indignati si è tenuta a Roma (150-200 mila persone). . . Ma oggi si parlerà di loro, dei Black Bloc, e dei danni (materiali e d’immagine) provocati da loro. E non delle giuste rivendicazioni che i tanti precari, i giovani, le donne, i lavoratori in genere, ponevano. Perché queste cose accadono in Italia?” (G.F. Tannino, Monaco di Baviera).
La questione è rilevante. Assistiamo alla nascita di un movimento popolare transnazionale che, come e più del Sessantonto, potrebbe rivoluzionare in senso cosmopolita il nostro modo di vivere la cittadinanza. Ma noi italiani rischiamo di vedercene tagliati fuori a causa dei Black Bloc.
Perché ci succedono queste cose? Il ministro degli Interni, Roberto Maroni definisce le violenze accadute sabato “un’opera di criminali infiltrati tra i manifestanti”. È successo, per esempio, che un’autoblindo dei Carabinieri sia stata attaccata, circondata, espugnata e messa a fuoco da una centuria di “regazzini di sedici-diciassette anni”, ha dichiarato un testimone oculare di fronte alle telecamere web.
Pare che i “regazzini” abbiano avuto l’accortezza di lasciare aperta una via di fuga al milite presente sul furgone. Stavano per dare alle fiamme l'automezzo blindato, ricorda Fabio T. che era alla guida: "Non riuscivo più ad andare né avanti né indietro". E aggiunge: "Per fortuna avevo il casco, altrimenti sarei morto". Invece, è riuscito a scappare. Per fortuna.
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"Per fortuna avevo il casco, altrimenti sarei morto",
Fabio T. fugge dall'autoblindo poi incendiato.
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"L'intento preciso dei ‘neri’", riferisce un altro agente, “era quello di dividerci per aggredirci. . . avvicinandosi alle forze dell'ordine, filmandole e chiamando poi sul cellulare i loro compagni per segnalare i punti deboli. E lì hanno colpito”.
Ora, siccome al giorno d’oggi nel nostro continente i “regazzini” di norma non posseggono queste capacità di coordinamento tattico paramilitare, sorge il dubbio che il sostantivo “criminali” usato da Maroni indichi dei criminali veri, cioè una lievitazione di manovalanza criminale addestrata e mobilitata ad hoc. (Nel frattempo è giunta la notizia che gli addestramenti paramilitari sarebbero avvenuti in Val di Susa).
Resta da comprendere l’attributo “infiltrati”.
Le cronache riferiscono di circa cinquecento "infiltrati" che, tra Piazza San Giovanni e Via Merulana, hanno messo in scena un’orgia di violenza. Si erano “infiltrati” da sé? Erano lì convenuti per autonoma decisione loro? Cercavano distrazione tra una curva sud e l'altra?
Se le parole hanno un senso, dobbiamo ritenere che sabato in Roma gli “infiltrati” puntassero a provocare una situazione nella quale – e qui citiamo di nuovo Maroni – “poteva scapparci il morto”.
Se il bilancio si chiude “solo” con centotrenta all’ospedale e nessuno all’obitorio, lo si deve all’intelligenza delle forze dell’ordine.
Forse, i nostri poliziotti e i loro comandanti si erano preparati con tanta professionalità all’appuntamento, avendo ascoltato alcuni messaggi speciali lanciati da Giuliano Ferrara su “Radio Londra” circa gli Indignados che, parole sue, erano “alla ricerca del morto”.
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Piazza di Porta San Giovanni, Roma 15.10.2011:
L'autoblindo dei Carabinieri viene dato alle fiamme
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“Alla ricerca del morto” – che in questo marasma possa ormai "scapparci il morto", l’aveva già diagnosticato anche Antonio Di Pietro, qualche settimana fa. Quindi, riassumendo in ordine cronologico – Di Pietro, Ferrara, Maroni – siamo alla terza evocazione del morto nel giro di breve tempo. Ecco, questo, tutto questo, effettivamente avviene solo in Italia.
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<>
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È questa per il Belpaese un’epoca di tensione. Non mancano forti contrasti né sul piano politico né su quello economico e nemmeno su quello culturale.
Sul piano culturale, e in modo eminente sul piano religioso, i cattolici appaiono visibilmente spaccati due; d’un lato c’è una Curia vaticana che vorrebbe tenersi questo governo in attesa di gestire il "dopo" conservando il suo potere (ma troppo non è abbastanza), dall’altro lato ci sono settori di episcopato italiano uniti al grosso della "base" che invece vedono il berlusconismo come fumo negli occhi e reputano il Paese maturo per un pluralismo cultuare adulto.
Sul piano economico la situazione non è migliore. Crescono i motivi di conflitto tra potentati, tra Settentrione e Meridione, tra economia reale ed economia finanziaria, tra “grandi” e “piccoli” in competizione per l’accaparramento di risorse sempre più esigue; senza contare la dicotomia tra precari e “garantiti”, tra giovani disoccupati e anziani privilegiati, tra capitale e lavoro.
In questo scenario ha luogo il cozzo frontale tra le opposte fazioni della politica, nelle quali trovano contrastante estrinsecazione i mille interessi, più o meno framelici, più o meno feroci.
Una plastica rappresentazione di tutto ciò si è materializzata dentro il Corriere della Sera, tempio della borghesia lombarda dove il 5 ottobre scorso Ferruccio de Bortoli, direttore parco e moderato, concludeva il suo fondo testualmente così:
“Su questo giornale abbiamo suggerito al premier di fare come è accaduto in Spagna: annunciare che non si ricandiderà, chiedere le elezioni e non trascinare con sé l'intero centrodestra. Nessuna risposta”.
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Piazza di Porta San Giovanni, Roma 15.10.2011:
L'autoblindo dei Carabinieri brucia
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Invece, la “risposta” gli veniva recapitata proprio quello stesso giorno e proprio sul suo giornale da Marina Berlusconi, presidente di Fininvest e figlia del presidente del Consiglio:
“Mio padre non deve assolutamente mollare e non mollerà. Per molte ragioni. Intanto in un momento come questo la stabilità è un bene prezioso, e oggi non mi pare proprio ci siano alternative degne di questo nome all'attuale governo. Ma soprattutto non deve mollare e non mollerà per il rispetto e l'amore che ha verso la democrazia”.
Questo cozzo frontale, tutto inerente all'establishment (ma anche inerente a tutto l'establishment), ha dell’inaudito. Perciò, purtroppo, non possiamo dirci completamente sorpresi se a Roma qualche centinaio di "criminali infiltrati" è sceso in capo “alla ricerca del morto”. Non per la prima volta succedono queste cose, in Italia.
Oggi, comunque, possiamo gioire dello scampato pericolo di ieri. Ma domani? Che fare? La legittima mobilitazione dei cittadini non può cedere al vile ricatto della violenza. Dunque, non possiamo non augurarci che gli Indignados moltiplichino le loro azioni di protesta sociale, pacificamente. E speriamo che prima o poi dal Parlamento nasca un’alternativa politica credibile all'attuale marasma.
Avvenire dei lavoratori
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Ragazzini.
Criminali.
Infiltrati.
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di Andrea Ermano
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Ci scrive un lettore: “La più grande manifestazione mondiale degli Indignati si è tenuta a Roma (150-200 mila persone). . . Ma oggi si parlerà di loro, dei Black Bloc, e dei danni (materiali e d’immagine) provocati da loro. E non delle giuste rivendicazioni che i tanti precari, i giovani, le donne, i lavoratori in genere, ponevano. Perché queste cose accadono in Italia?” (G.F. Tannino, Monaco di Baviera).
La questione è rilevante. Assistiamo alla nascita di un movimento popolare transnazionale che, come e più del Sessantonto, potrebbe rivoluzionare in senso cosmopolita il nostro modo di vivere la cittadinanza. Ma noi italiani rischiamo di vedercene tagliati fuori a causa dei Black Bloc.
Perché ci succedono queste cose? Il ministro degli Interni, Roberto Maroni definisce le violenze accadute sabato “un’opera di criminali infiltrati tra i manifestanti”. È successo, per esempio, che un’autoblindo dei Carabinieri sia stata attaccata, circondata, espugnata e messa a fuoco da una centuria di “regazzini di sedici-diciassette anni”, ha dichiarato un testimone oculare di fronte alle telecamere web.
Pare che i “regazzini” abbiano avuto l’accortezza di lasciare aperta una via di fuga al milite presente sul furgone. Stavano per dare alle fiamme l'automezzo blindato, ricorda Fabio T. che era alla guida: "Non riuscivo più ad andare né avanti né indietro". E aggiunge: "Per fortuna avevo il casco, altrimenti sarei morto". Invece, è riuscito a scappare. Per fortuna.
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"Per fortuna avevo il casco, altrimenti sarei morto",
Fabio T. fugge dall'autoblindo poi incendiato.
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"L'intento preciso dei ‘neri’", riferisce un altro agente, “era quello di dividerci per aggredirci. . . avvicinandosi alle forze dell'ordine, filmandole e chiamando poi sul cellulare i loro compagni per segnalare i punti deboli. E lì hanno colpito”.
Ora, siccome al giorno d’oggi nel nostro continente i “regazzini” di norma non posseggono queste capacità di coordinamento tattico paramilitare, sorge il dubbio che il sostantivo “criminali” usato da Maroni indichi dei criminali veri, cioè una lievitazione di manovalanza criminale addestrata e mobilitata ad hoc. (Nel frattempo è giunta la notizia che gli addestramenti paramilitari sarebbero avvenuti in Val di Susa).
Resta da comprendere l’attributo “infiltrati”.
Le cronache riferiscono di circa cinquecento "infiltrati" che, tra Piazza San Giovanni e Via Merulana, hanno messo in scena un’orgia di violenza. Si erano “infiltrati” da sé? Erano lì convenuti per autonoma decisione loro? Cercavano distrazione tra una curva sud e l'altra?
Se le parole hanno un senso, dobbiamo ritenere che sabato in Roma gli “infiltrati” puntassero a provocare una situazione nella quale – e qui citiamo di nuovo Maroni – “poteva scapparci il morto”.
Se il bilancio si chiude “solo” con centotrenta all’ospedale e nessuno all’obitorio, lo si deve all’intelligenza delle forze dell’ordine.
Forse, i nostri poliziotti e i loro comandanti si erano preparati con tanta professionalità all’appuntamento, avendo ascoltato alcuni messaggi speciali lanciati da Giuliano Ferrara su “Radio Londra” circa gli Indignados che, parole sue, erano “alla ricerca del morto”.
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Piazza di Porta San Giovanni, Roma 15.10.2011:
L'autoblindo dei Carabinieri viene dato alle fiamme
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“Alla ricerca del morto” – che in questo marasma possa ormai "scapparci il morto", l’aveva già diagnosticato anche Antonio Di Pietro, qualche settimana fa. Quindi, riassumendo in ordine cronologico – Di Pietro, Ferrara, Maroni – siamo alla terza evocazione del morto nel giro di breve tempo. Ecco, questo, tutto questo, effettivamente avviene solo in Italia.
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È questa per il Belpaese un’epoca di tensione. Non mancano forti contrasti né sul piano politico né su quello economico e nemmeno su quello culturale.
Sul piano culturale, e in modo eminente sul piano religioso, i cattolici appaiono visibilmente spaccati due; d’un lato c’è una Curia vaticana che vorrebbe tenersi questo governo in attesa di gestire il "dopo" conservando il suo potere (ma troppo non è abbastanza), dall’altro lato ci sono settori di episcopato italiano uniti al grosso della "base" che invece vedono il berlusconismo come fumo negli occhi e reputano il Paese maturo per un pluralismo cultuare adulto.
Sul piano economico la situazione non è migliore. Crescono i motivi di conflitto tra potentati, tra Settentrione e Meridione, tra economia reale ed economia finanziaria, tra “grandi” e “piccoli” in competizione per l’accaparramento di risorse sempre più esigue; senza contare la dicotomia tra precari e “garantiti”, tra giovani disoccupati e anziani privilegiati, tra capitale e lavoro.
In questo scenario ha luogo il cozzo frontale tra le opposte fazioni della politica, nelle quali trovano contrastante estrinsecazione i mille interessi, più o meno framelici, più o meno feroci.
Una plastica rappresentazione di tutto ciò si è materializzata dentro il Corriere della Sera, tempio della borghesia lombarda dove il 5 ottobre scorso Ferruccio de Bortoli, direttore parco e moderato, concludeva il suo fondo testualmente così:
“Su questo giornale abbiamo suggerito al premier di fare come è accaduto in Spagna: annunciare che non si ricandiderà, chiedere le elezioni e non trascinare con sé l'intero centrodestra. Nessuna risposta”.
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Piazza di Porta San Giovanni, Roma 15.10.2011:
L'autoblindo dei Carabinieri brucia
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Invece, la “risposta” gli veniva recapitata proprio quello stesso giorno e proprio sul suo giornale da Marina Berlusconi, presidente di Fininvest e figlia del presidente del Consiglio:
“Mio padre non deve assolutamente mollare e non mollerà. Per molte ragioni. Intanto in un momento come questo la stabilità è un bene prezioso, e oggi non mi pare proprio ci siano alternative degne di questo nome all'attuale governo. Ma soprattutto non deve mollare e non mollerà per il rispetto e l'amore che ha verso la democrazia”.
Questo cozzo frontale, tutto inerente all'establishment (ma anche inerente a tutto l'establishment), ha dell’inaudito. Perciò, purtroppo, non possiamo dirci completamente sorpresi se a Roma qualche centinaio di "criminali infiltrati" è sceso in capo “alla ricerca del morto”. Non per la prima volta succedono queste cose, in Italia.
Oggi, comunque, possiamo gioire dello scampato pericolo di ieri. Ma domani? Che fare? La legittima mobilitazione dei cittadini non può cedere al vile ricatto della violenza. Dunque, non possiamo non augurarci che gli Indignados moltiplichino le loro azioni di protesta sociale, pacificamente. E speriamo che prima o poi dal Parlamento nasca un’alternativa politica credibile all'attuale marasma.
domenica 16 ottobre 2011
sabato 15 ottobre 2011
Olaf Cramme: Social democrats failing to make the case for 'more Europe'
POLICY NETWORK - 17 SEPTEMBER 2011
Social democrats failing to make the case for 'more Europe'
di Olaf Cramme
To claim stronger ownership of the European project, social democracy must urgently raise its
game
Does ideology matter in the fight to save the euro and, as some have argued, the entire process of
European integration? Pundits have come a long way to recognise that the current crisis is
fundamentally a political one – and less about economics. Put bluntly, almost everyone seems to
know what to do but nobody knows how to do it. Democracy, legitimacy and sovereignty have
become the principle concerns for incumbent governments across the European Union as they
attempt to bridge the reputedly irreconcilable positions of different interest groups and national
constituencies. They struggle because they have failed, over the last two decades, to create a
compelling narrative - which justifies and explains their pooling and transfer of power to
supranational institutions.
Those policymakers, in trouble and presently facing existential choices vis-à-vis EU integration,
are overwhelmingly from the conservative or centre-right family. After the likely change in
Denmark, they still dominate 21 of the 27 EU member states, and 14 out of the 17 eurozone
countries. Some, therefore, hoped that this homogenous political picture would facilitate the
emergence of a political settlement capable of transcending the boundaries of a highly diverse and
polarised Europe; building on from the great Christian democratic tradition that helped facilitate
unification in the first place. The dogmatic emphasis on "austerity", though, is not only failing to
resolve the immediate problems - but is also not looking like a winning formula for embattled
centre-right parties, unsure as to how they should confront the mounting anger among citizens.
Against this background, social democracy is finally beginning to sniff an opportunity – after a
long series of painful defeats at national and, indeed, European elections. While some centre-left
parties continue to shy away from the impossible choices that the union has thrown up in the wake
of the crisis, others, like the German SPD have taken a truly assertive stance - outpacing their
political rivals with proposals on the scale and scope of further integration. As such, social
democrats are making a bold claim for leadership. At a time when Euroscepticism is on the rise and
uncertainty is widespread, they demand "more Europe" to put the union back on a sustainable path
of development.
Yet, how plausible is this renewed confidence? In a new research paper, I analyse the ideational
challenge for social democracy in the context of European integration. The historical account shows
that the left's internal heterogeneity and, above all, the absence of a clear line of reasoning about the
power and purpose of integration have so far impeded a stronger social democratic imprint on the
European project. This weakness, in turn, derives from the failure of social democrats to come to
terms with at least three major predicaments.
First, there is the overwhelming logic of economic liberalisation in EU politics - which developed
into a self-fulfilling prophecy and came to define the competences of, and the relationship between,
the various levels of supranational governance. In other words, it is not only that open markets have
created a favourable environment for a particular kind of ideology, but also that Europe's now
strongly intertwined economies have become powerful sources in the defence of economic
liberalism. Social policy, on the other hand – often presented as the antidote by the centre-left –
does not have as much punching power and its advocates have struggled to present a coherent
intellectual case for its advancement.
A second predicament relates to the new political and electoral cleavages, which the processes of
integration - at both European and global levels - have created. Structural and ideological voting
along traditional left-right lines is in steady decline. This has been brought about by the emergence
of an additional value-based dimension, which stretches along an authoritarian-libertarian axis.
While this increased polarisation affects the political system as a whole, social democracy seems
particularly hard hit because of the idiosyncratic sociological composition of its support base -
heavily divided on questions of boundary control versus boundary transcendence. As a
consequence, settling on a credible "catch-all" position has become almost impossible.
The third predicament is institutional and, so, directly impacts on the other two. Critics have argued
that social democracy is basically squeezed between encumbering influence from the top - the EU
level - and insufficient room for manoeuvre at the bottom - the national level. From this perspective,
the half-way federalisation has brought the worst of both worlds to the fore. Whereas in the past,
nation-state social democracy could deploy the full range of macro and micro-economic instruments
to tame rampant capitalism - it is, nowadays, limited to prioritising supply-side reforms and fighting
a rather defensive struggle to maintain existing levels of social security and welfare. The
supranational institutions, by contrast, lack the mandate and competences to be a more forceful
corrective to the injustices created by open markets.
None of this ought to suggest that social democracy has to turn its back on the idea of European
integration. On the contrary, while the EU's "democratic deficit" should be of real concern to the
centre-left politicians, they must not give way to a defeatist view in which transnational
policymaking must always and inevitably be less responsive to popular demands and needs than
more traditional modes of representative democracy. European states left to their own devices, and
dependant on weak international institutions, will never be capable of taking on the destructive
forces – and, indeed, undemocratic nature of global capitalism. But to become a more dominant
agenda-setter and claim stronger ownership of the European project, social democracy must
urgently raise its game. At the very least, it needs to better identify the policy space in which
Europe can make a qualitative difference to the objective of creating a more cohesive and
solidaristic society. Otherwise, the social democratic promise on Europe is bound to misfire
Social democrats failing to make the case for 'more Europe'
di Olaf Cramme
To claim stronger ownership of the European project, social democracy must urgently raise its
game
Does ideology matter in the fight to save the euro and, as some have argued, the entire process of
European integration? Pundits have come a long way to recognise that the current crisis is
fundamentally a political one – and less about economics. Put bluntly, almost everyone seems to
know what to do but nobody knows how to do it. Democracy, legitimacy and sovereignty have
become the principle concerns for incumbent governments across the European Union as they
attempt to bridge the reputedly irreconcilable positions of different interest groups and national
constituencies. They struggle because they have failed, over the last two decades, to create a
compelling narrative - which justifies and explains their pooling and transfer of power to
supranational institutions.
Those policymakers, in trouble and presently facing existential choices vis-à-vis EU integration,
are overwhelmingly from the conservative or centre-right family. After the likely change in
Denmark, they still dominate 21 of the 27 EU member states, and 14 out of the 17 eurozone
countries. Some, therefore, hoped that this homogenous political picture would facilitate the
emergence of a political settlement capable of transcending the boundaries of a highly diverse and
polarised Europe; building on from the great Christian democratic tradition that helped facilitate
unification in the first place. The dogmatic emphasis on "austerity", though, is not only failing to
resolve the immediate problems - but is also not looking like a winning formula for embattled
centre-right parties, unsure as to how they should confront the mounting anger among citizens.
Against this background, social democracy is finally beginning to sniff an opportunity – after a
long series of painful defeats at national and, indeed, European elections. While some centre-left
parties continue to shy away from the impossible choices that the union has thrown up in the wake
of the crisis, others, like the German SPD have taken a truly assertive stance - outpacing their
political rivals with proposals on the scale and scope of further integration. As such, social
democrats are making a bold claim for leadership. At a time when Euroscepticism is on the rise and
uncertainty is widespread, they demand "more Europe" to put the union back on a sustainable path
of development.
Yet, how plausible is this renewed confidence? In a new research paper, I analyse the ideational
challenge for social democracy in the context of European integration. The historical account shows
that the left's internal heterogeneity and, above all, the absence of a clear line of reasoning about the
power and purpose of integration have so far impeded a stronger social democratic imprint on the
European project. This weakness, in turn, derives from the failure of social democrats to come to
terms with at least three major predicaments.
First, there is the overwhelming logic of economic liberalisation in EU politics - which developed
into a self-fulfilling prophecy and came to define the competences of, and the relationship between,
the various levels of supranational governance. In other words, it is not only that open markets have
created a favourable environment for a particular kind of ideology, but also that Europe's now
strongly intertwined economies have become powerful sources in the defence of economic
liberalism. Social policy, on the other hand – often presented as the antidote by the centre-left –
does not have as much punching power and its advocates have struggled to present a coherent
intellectual case for its advancement.
A second predicament relates to the new political and electoral cleavages, which the processes of
integration - at both European and global levels - have created. Structural and ideological voting
along traditional left-right lines is in steady decline. This has been brought about by the emergence
of an additional value-based dimension, which stretches along an authoritarian-libertarian axis.
While this increased polarisation affects the political system as a whole, social democracy seems
particularly hard hit because of the idiosyncratic sociological composition of its support base -
heavily divided on questions of boundary control versus boundary transcendence. As a
consequence, settling on a credible "catch-all" position has become almost impossible.
The third predicament is institutional and, so, directly impacts on the other two. Critics have argued
that social democracy is basically squeezed between encumbering influence from the top - the EU
level - and insufficient room for manoeuvre at the bottom - the national level. From this perspective,
the half-way federalisation has brought the worst of both worlds to the fore. Whereas in the past,
nation-state social democracy could deploy the full range of macro and micro-economic instruments
to tame rampant capitalism - it is, nowadays, limited to prioritising supply-side reforms and fighting
a rather defensive struggle to maintain existing levels of social security and welfare. The
supranational institutions, by contrast, lack the mandate and competences to be a more forceful
corrective to the injustices created by open markets.
None of this ought to suggest that social democracy has to turn its back on the idea of European
integration. On the contrary, while the EU's "democratic deficit" should be of real concern to the
centre-left politicians, they must not give way to a defeatist view in which transnational
policymaking must always and inevitably be less responsive to popular demands and needs than
more traditional modes of representative democracy. European states left to their own devices, and
dependant on weak international institutions, will never be capable of taking on the destructive
forces – and, indeed, undemocratic nature of global capitalism. But to become a more dominant
agenda-setter and claim stronger ownership of the European project, social democracy must
urgently raise its game. At the very least, it needs to better identify the policy space in which
Europe can make a qualitative difference to the objective of creating a more cohesive and
solidaristic society. Otherwise, the social democratic promise on Europe is bound to misfire
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