martedì 7 maggio 2013

Franco Astengo: Dove si era fermata la bicamerale del 1997

DOVE SI ERA FERMATA LA BICAMERALE DEL 1997 dal blog: http://sinistrainparlamento.blogspot.it Il 30 giugno 1997 svolgeva la sua ultima seduta la Commissione Bicamerale per le Riforme, presieduta da Massimo D’Alema: dopo 145 giorni di lavoro, 1341 emendamenti e 900 sub-emendamenti presentati, 189 progetti di legge depositati a inizio lavori, 48 sedute plenarie, 10 audizioni (sindacati, mondo dell’economia e della cultura) e 14 riunioni dell’Ufficio di Presidenza la Commissione concludeva la prima fase del suo compito, consegnando in 41 cartelle il progetto di Riforma della II parte della Costituzione. Come tutti ricorderanno, alla fine, non se ne fece nulla per il veto del centrodestra, e in particolare di Silvio Berlusconi. Oggi, mentre infuria la discussione sulla “Convenzione per le riforme” potrà apparire, comunque, di un qualche interesse riprendere in sintesi le conclusioni di quel lavoro, anche per svolgere una necessaria operazione comparativa con quanto potrà emergere nell’attualità (e, in ogni caso, compiendo un paragone con l’insieme del dibattito odierno). Questi i punti di sintesi del progetto varato a quel tempo e rimasto, come abbiamo visto, nel cassetto (salvo la ripresa di alcuni punti nell’affrettata e incompleta riforma del titolo V della Costituzione, varata del centrosinistra nel 2001). Federalismo L’“ordinamento federale della Repubblica” avrebbe dovuto articolarsi in comuni, province e regioni. “Sussidiarietà” e “differenziazione” i criteri sulla base dei quali sarebbero stati ripartite le funzioni pubbliche tra i diversi Enti e lo Stato: “Nel rispetto delle attività che possono essere adeguatamente svolte dall’autonoma iniziativa dei cittadini”. I neo-costituenti avevano disegnato un “federalismo flessibile”: a ogni regione avrebbero potuto riconoscersi (con legge costituzionale) “forme e condizioni particolari di autonomia”. L’art.59 del nuovo testo elencava le materie di esclusiva competenza dello Stato: tutte le altre sarebbero andate alle Regioni, compresa la forma di governo e la legge elettorale (che rimaneva allo Stato per i comuni e le province, titolari di funzioni regolamentari e amministrative). Ma la vera novità del progetto di riforma sarebbe dovuto essere rappresentato dal cosiddetto federalismo fiscale. Vale a dire il riconoscimento della piena autonomia finanziaria di entrata e di spesa, a comuni, province, regioni, che disponessero di una quota non inferiore ala metà del gettito complessivo delle entrate tributarie erariali, depurata dalle risorse necessarie per far fronte agli interessi del debito pubblico, alle calamità naturali, agli interventi per favorire uno sviluppo economico equilibrato nel Paese, e a costituire il Fondo perequativo regionale (creato per consentire a tutte le Regioni di erogare servizi adeguati). Semipresidenzialismo La forma di governo prescelta era stata quella del semipresidenzialismo con varianti di rilievo, però, rispetto al modello francese. Il Presidente della Repubblica sarebbe stato eletto con suffragio diretto da parte dei cittadini (che avrebbero proposto i candidati). I poteri del capo dello Stato, individuati in allora, sarebbe stati quelli di poter sciogliere le Camere senza la controfirma del Primo Ministro, al quale poteva essere chiesto in qualsiasi momento di presentarsi alla Camera per verificare la sussistenza del voto di fiducia. Governo Il Primo Ministro (nominato dal capo dello Stato sulla base dei risultati elettorali) avrebbe diretto l’azione del governo: entro 10 giorni dalla formazione del Governo il Primo Ministro avrebbe esposto alle Camere il suo programma e chiesto la fiducia. Il Governo avrebbe potuto chiedere la precedenza per i suoi disegni di legge, prevedendone la votazione entro una certa data nel testo proposto o accettato dal Governo stesso. Inoltre il Governo avrebbe potuto bloccare le leggi che comportassero maggiori oneri finanziari a meno che esse non fossero state approvate a maggioranza assoluta dai membri delle Camere. Risultava ampliata la potestà regolamentare dell’Esecutivo e, quanto ai decreti legge, essi sarebbero stati consentiti soltanto in determinate materie perdendo efficacia se entro 45 giorni non fossero stati convertiti in legge, né avrebbero potuto essere reiterati. Il Parlamento IL Parlamento sarebbe stato composto dalla Camera (titolare del rapporto fiduciario con il Governo) e dal Senato (che avrebbe ricoperto un ruolo di garanzia e di raccordo con le autonomie territoriali). Entrambi i rami del Parlamento sarebbero stati eletti a suffragio universale e diretto. Il Senato avrebbe dovuto essere composto da 200 senatori, ma per esaminare i provvedimenti in materia di Regioni ed Enti Locali, sarebbe stato integrato da 200 consiglieri regionali, provinciali, comunali eletti dai rispettivi consigli. Nel progetto della Bicamerale risultava, invece, ancora indeterminato il numero dei deputati. Un numero fisso avrebbe potuto, infatti, risultare in contrasto con l’ordine del giorno sulla legge elettorale che prevedeva un doppio turno di coalizione, con la diminuzione della quota dei seggi uninominali dal 75% al 55% e l’attribuzione di un premio del 20% in favore della coalizione vincente. Formazione delle leggi Il bicameralismo diventa imperfetto. Alle leggi bicamerali (in materie indicate tassativamente) si affiancavano quelle monocamerali. Garanzie Il principale contrappeso di questo nuovo sistema politico sarebbe stato rappresentato dalla Corte Costituzionale sulla quale sarebbero ricadute, tra l’altro, le decisioni sui conflitti tra Stato e Regioni o di cui sarebbero state parte anche Comuni e Province; sui ricorsi contro le elezioni di deputati e senatori; sui ricorsi diretti dei cittadini e delle minoranza parlamentari. IL CSM sarebbe stato presieduto dal Capo dello stato ma composto da un maggior numero di membri laici (due quinti invece di un terzo) e diviso in due sezioni: per giudici e PM. Tra le altre novità allora previste anche la creazione di un Procuratore Generale, titolare dell’azione disciplinare (obbligatoria) eletto dal Senato a maggioranza dei tre quinti scelto tra coloro in possesso dei requisiti per essere nominato giudice della Consulta. Il procuratore generale avrebbe dovuto riferire annualmente alle Camere sull’esercizio dell’azione disciplinare. Apparivano rilevantissime, infine, anche le norme che avrebbero dovuto costituzionalizzare le garanzie processuali: oralità, contradditorio, parità delle parti, concentrazione e immediatezza del processo, terzietà del giudice. Franco Astengo

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