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sabato 11 maggio 2013
Francesco Bochicchio: Gli scenari economici che si fatica a cogliere
GLI SCENARI ECONOMICI CHE SI FA FATICA A COGLIERE
di FRANCESCO BOCHICCHIO
L’economia in gravissima crisi è il grande problema dell’Occidente e tutti si rendono conto della sua drammaticità, ma nessuno riesce a elaborare una visione lucida. Eppure basterebbe uno studio e nemmeno troppo elaborato, in quanto i dati ci sono tutti per individuare la strada da intraprendere. Su “Il Corriere della Sera”, ci si rende conto che la crisi della piccola e media impresa è gravissima in modo che non può essere risolta in modo tradizionalmente liberista e antisociale, ma è necessario un accordo con i lavoratori, vale a dire un fronte comune tra questi e gli imprenditori: tale consapevolezza è reale e non frutto di atteggiamento strumentale, e quindi non nasconde una volontà di annacquare i conflitti a favore di un organicismo aziendale, non vi è quindi un formale se non addirittura fittizio richiamo alla solidarietà, solidarietà che varrebbe solo a favore delle imprese e non viceversa, ma per la priva volta vi è un cambiamento di rotta a favore di un nuovo patto sociale, sia pur dai contenuti indefiniti. In secondo luogo, sullo stesso giornale e su “Il Sole 24 Ore” ci si è resi conto della necessità di un rilancio della manifattura interna, da cui discende il sostegno della domanda e quindi dei ceti deboli: vi è l’abbandono della politica dell’offerta e quindi della centralità e autosufficienza dell’impresa. Infine, Draghi ha criticato le banche per tassi creditizi troppo elevati; cos’altro è tale critica se non l’abbandono del liberismo e del dogma del mercato quale meccanismo di allocazione delle risorse efficiente, anzi l’unico efficiente? Il fondamento di ogni politica economica moderata è il rifiuto dell’intervento pubblico sui prezzi e comunque di ogni criterio di determinazione dei prezzi diverso da quello di mercato. La critica di Draghi sconfessa tale impostazione proprio sul mercato finanziario, che costituisce l’architrave dell’economia. Ebbene, è impossibile non vedere un filo unitario che unisce questi tre aspetti, anche se tutti lo trascurano. Il filo unitario è rappresentato da una valorizzazione dell’impresa, con particolare riguardo alla media o piccola, esclusivamente se in grado di non risolversi nella figura dell’imprenditore e di dare corpo a un’organizzazione oggettiva e razionale, recependo istanze sociali e economiche più ampie, quali emergenti da una politica di redditi con a monte programmazione e da una contrattazione collettiva a tutto campo. In tale ottica, il profitto dell’imprenditore è essenziale quale misuratore di efficienza e quindi fissato in percentuale sul fatturato in modo che il profitto aumenti solo se aumenta il fatturato e quindi se vi è un contributo alla ricchezza economica complessiva. In tale cornice e solo in tale cornice i tre elementi trovano armonica collocazione. In primo luogo, il rilancio della piccola e media impresa deve avvenire non mediante una tutela corporativa e di elusione normativa e fiscale, come nel patto scellerato Pdl-Lega, ma mediante una salvaguardia del suo spazio vitale legato a dinamismo e innovazione. In tale ottica, la grande impresa è, in via affatto speculare, oggetto di analisi duplice, da un lato di verifica critica per impedire comportamenti vessatori e comunque invasivi dello spazio delle piccole e medie imprese, e dall’altro di attenzione e promozione per ricerca e investimenti massicci. Non vi è quindi né tutela corporativa della piccola impresa né sfavore verso la grande impresa, il cui ruolo centrale e di traino non può essere negato in un’economia “globalizzata” e “dematerializzata” e finanziaria, ma a condizione che posizioni di dominio o comunque di prevalenza sul mercato non vadano a danno degli altri operatori. Quindi, vi è un intervento selettivo e critico sul ruolo di tutti gli operatori per vincolarli al loro ruolo. E’ la centralità della programmazione con politica dei redditi. Di qui, in secondo luogo, una nuova politica della domanda interna non più anticiclica ma strutturale e con revisione delle storture proprie del mercato liberista. In terzo luogo, il controllo dei tassi bancari non si giustifica se non in una politica di redditi con programmazione a monte. La cornice unitaria entro cui si collocano i tre tasselli conduce a una soluzione innovativa e contro-corrente: la centralità dell’economia spetta alla politica economica pubblica e l’impresa non è più autosufficiente, ma è solo un attore, fondamentale per l’impulso e l’innovatività, ma con tali elementi che da un lato devono sempre essere presenti e non a intermittenza secondo il comodo degli imprenditori, e dall’altro non devono sfociare in dominio. Il fatto che tali punti emergono a livello europeo e addirittura occidentale in generale dimostra pianamente che i limiti di una politica economica pubblica centrale nell’epoca della “globalizzazione” sono, contrariamente a quanto ci viene da decenni tramandato quale verità teologale, solo apparenti e quindi sono facilmente –sì, proprio facilmente- superabili. Il liberismo è superato non solo per l’incapacità del mercato a fungere da meccanismo razionale di allocazione delle risorse ma soprattutto per l’inutilizzabilità della politica dell’offerta a fondamento della “side-economy” e della politica di Reagan e della Thatcher. Ed infatti la politica dell’offerta ritiene che il motore dello sviluppo sia rappresentato dall’impresa e dalla sua offerta, in modo che la politica economica si debba limitare a eliminare ostacoli alla libera attività dell’impresa: la Storia ha invece dimostrato che la politica dell’offerta è priva di valore, sia perché senza limiti esterni la tendenza alla massimizzazione del profitto ha portato alla speculazione a danno degli investimenti produttivi, sia perché l’ineguaglianza nella distribuzione dei redditi spinta oltre ogni ragionevole limite ha portato a una crisi da sotto-consumo non sanata da mercati esteri. La “globalizzazione” è fallita non solo da un punto di vista di equità sociale ma soprattutto da uno economico in quanto i rapporti economici internazionali si sono dimostrati funzionali solo alla grande impresa globalizzata, con particolare riferito alle “merchant bank”, e non all’economia nel complesso. La risposta è quindi in una politica della domanda orientata da una programmazione industriale condivisa dalle parti sociali, in modo effettivo e consapevole e se non paritario comunque senza soggezione dei sindacati alle imprese. Il liberismo va abbandonato in tutte le sue varianti , anche moderate quale l’economia sociale di mercato: l’alternativa attuale non è il comunismo, nemmeno nella nuova e raffinata versione del “benecomunismo”, in quanto l’attenzione verso i beni comuni se non limitata ai beni essenziali diventa fuorviante. La finanza va risanata non mediante nazionalizzazioni, che non risolvono il problema di una gestione attenta ai fidi alle imprese produttive ed alla cura dei risparmi medio-piccoili e svincolata dalla speculazione. L’alternativa è socialista, per la precisione propria di un’ottica socialdemocratica di sinistra, vale dire di un’ottica che attualmente accetti il sistema capitalistico senza abbandonare il presupposto, proprio del marxismo, della consapevolezza della frattura tra capitale ed esigenze di un razionale sviluppo economico, frattura da colmare mediante un intervento esterno capillare e penetrante, in cui la conflittualità sociale è ineliminabile alla luce dell’irriducibilità del lavoro al capitale e può essere governata solo imponendo vincoli stringenti alle imprese.
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