Due problemi per la sinistra
di: Sergio Ferrari
luglio - 28 - 2012
C’è una tendenza nel dibattito in materia di politica economica nel nostro paese, che tende, da varie parti, a trascurare, se non a nascondere, i problemi e le specificità delle questioni che caratterizzano la nostra economia reale e cioè il nostro sistema produttivo.
Certo è difficile battere il “fascino” della finanza internazionale e la scoperta che il profitto si può fare, anche più facilmente, eliminando l’intermediazione del lavoro e costruendo con un po’ di fantasia pezzi di carta da vendere ad ogni “credente” opportunamente raggirato. Tutto questo può essere descritto con un fascino che una volta era tipico dei romanzi d’appendice che, tuttavia, si limitavano a riempire i sogni di qualche ragazza. Inoltre questi romanzi avevano l’obbligo di far finire male il “cattivo”. In questa storia moderna questo finale per ora non si vede. . .
Tornando con i piedi per terra, una recente nota dell’Ufficio Studi della BNL, curato da P. Ciocca, rileva l’andamento della produzione industriale negli ultimi anni, compreso l’ultimo trimestre del 2012. Rinviando a quella Nota per tutte le indicazioni e i confronti con paesi come la Germania e la Francia – confronti tutti negativi per noi – la conclusione è quella che si sarebbe potuto trarre 5 o 10 o 15 anni fa. Ma, come accennato, si è cercato e si cerca tuttora di evitare quelle conclusioni ineluttabili che farebbero poco piacere ai vari liberisti che detengono un certo monopolio dell’informazione e della rappresentanza di interessi che dovrebbero essere messi sotto osservazione. Anche perché da analisi più obiettive emergerebbe che il lavoro e il sindacato, in effetti, hanno pagato i prezzi di questo declino, ne sono le vittime e non come molti vorrebbero far credere, i responsabili. I dati negativi sull’andamento della nostra produzione industriale si accompagna ovviamente con il parallelo dato negativo in materia di occupazione e di sottooccupazione.
Se partendo da questi dati si dovessero misurare le politiche economiche in essere e programmate, le conclusioni non potrebbero che essere pesanti: poiché prevalendo una visione ideologico-liberista, le cause di questa nostra crisi di lungo periodo restano “incomprese” e quindi le terapie inefficaci. L’infinito dibattito sull’art. 18 e dintorni ne è solo una delle prove.
Per correttezza occorre aggiungere che anche con visioni più laiche, le terapie non sarebbero né facili né di breve periodo, anche perché la malattia rimasta trascurata da alcuni lustri, non è priva di effetti negativi prodotti dall’accumulo delle negligenze, ma anche perché con il passare del tempo nascono nuovi problemi generali che oggi vengono condensati sotto la dizione del nuovo modello di sviluppo. Che cosa debba essere concretamente questo nuovo sviluppo non è necessariamente chiaro ma sembra che almeno un aspetto sia evidente e cioè che sembra difficile superare l’attuale crisi pensando di tornare semplicemente al punto di partenza.
Ma se il modello di sviluppo precedente, del quale sappiamo tutto, non è più perseguibile, la conseguenza non sono certo altrettanto chiare in quanto si possono immaginare un numero infinito di soluzioni, sopratutto se non si definiscono e si progettano con un minimo di coerenza e di capacità.
La stessa green economy, che viene citata come riferimento per questo un nuovo sviluppo, può avere applicazioni ed effetti molto diversi e, da un punto di vista delle trasformazioni dei rapporti sociali, probabilmente nulli.
La sinistra deve misurarsi, quindi, su due fronti: replicare e confutare la scuola e le politiche liberiste, da un lato, e, dall’altro, dare concretezza ad una visione che non è – come viene descritta strumentalmente ma con scarsa correttezza intellettuale dalla destra – una proposta stalinista né tanto meno di semplice sostituzione del pubblico al privato. Una programmazione dello sviluppo si pone obiettivi di qualità dei valori di riferimento che entrambe queste scuole hanno dimenticato o, forse, mai accettato.
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