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martedì 5 luglio 2016
Paolo Bagnoli: Ripartire da sei
ripartire da sei
Da Critica liberale, 4 luglio 2016
paolo bagnoli
A distanza, oramai, di qualche giorno dal voto che ha sancito la volontà del popolo
inglese di non voler più far parte della Comunità Europea le ragioni della crisi di
quest’ultima sono ancora più evidenti. Tutte riassumibili in una sola proposizione:
l’Europa non sa più quale sia la sua volontà politica reale e in quale direzione essa voglia
andare. Si può facilmente ritenere che, in un giorno futuro, la mossa del Regno Unito non
rimarrà isolata anche se, per i Paesi che hanno adottato l’euro, uscire è certamente più
complesso, ma la moneta unica dovrebbe rappresentare anche uno stimolo di solidarietà
tra i contraenti. Il caso della Grecia, che con circa 20 miliardi, si sarebbe potuta salvare, ci
dice invece il contrario. Quanti poi dicono, compreso il nostro presidente del consiglio, che
occorre prendere spunto dalla rottura, per volgere in positivo la situazione comunitaria
non è cosa sbagliata, solo che poi costoro non solo non hanno una proposta da gettare sul
tavolo e, nel caso dell’Italia, se pure ce l’avesse, non avrebbe né la forza né l’autorevolezza
per sostenerla. Ecco allora che le più varie espressioni in libertà si rincorrono, come certe
rondini volano per il gusto di volare: crescita, sviluppo, unicità di tutti i mercati possibili e
chi più ne ha più ne metta senza una politica di ordine statuale sovranazionale non
significano nulla. La verità è che la crisi attanaglia la stessa formula comunitaria
contenitrice di ventotto – meno uno, dopo il referendum - Stati che sono sempre meno
Stati, ma nemmeno pieni organi comunitari in quanto il potere, la cui linea generale è
dettata dalla Germania, è nelle mani di una complessa struttura burocratica che costituisce
l’ossatura dell’insieme producendo politica senza, di fatto, doverne rendere conto a
nessuno in termini sostanziali; praticamente un’elite occulta: un funzionariato
amministrativo che si è fatto classe politica.
Quanti poi sostengono che occorre riagguantare l’indirizzo federalistico del
Manifesto di Ventotene sono anch’essi fuori del reale che è, lo sappiamo, il luogo della
politica. La Comunità, infatti, è nata proprio nell’impossibilità politica di fare dell’Europa
una federazione sul tipo degli Stati Uniti e tale impossibilità, con il passare degli anni, non
è venuta meno, ma ha fortificato la distorsione propria dell’assetto comunitario medesimo
per il quale, omogeneizzando gli standard di vita dei vari popoli, si sarebbe innestato pure
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un processo unitario. I fatti ci dicono che così non è; parlare di Erasmus mentre si alzano
muri dentro la Comunità ci conferma che proprio così non è e in assenza di un governo
governante la supplenza tedesca non basta. La storia, inoltre, ci dice che quando la
Germania, in epoche e contesti assai diversi tra loro, si è proposta in termini egemonici sul
continente ne sono sempre nati dei drammi. Quello di oggi ha il profilo del ministro delle
finanze tedesco assurto a revisore dei conti di tutti i bilanci e complessi bancari degli Stati
aderenti, provocando più danni che soluzioni; solo la saggia e attenta guida della BCE da
parte di Mario Draghi ha impedito una deflagrazione incontrollabile.
Era inevitabile che il non-essere dell’Europa determinasse anche una classe politica
di governo non all’altezza. Il comportamento di Cameron lo dimostra. Il premier inglese,
che pure ha fatto ottimi studi, non sembra aver mai letto Francesco Guicciardini il quale
sosteneva che l’uomo politico, prima di ogni azione, deve saper immaginare la reazione che
essa può produrre e, quindi, comportarsi tenendo conto di tutti i particolari che l’azione
politica implica. Quando poi sceglie deve aver già pronta anche la ricetta per la reazione
che la sua scelta può determinare. Ma tutto questo Cameron non lo sa. Egli ha agito
sull’onda della furbizia e, alla fine, come sosteneva Giulio Andreotti, “tutte le volpi
finiscono in pellicceria”! Infatti, l’idea del referendum per uscire dalla UE l’ha lanciata
quando guidava un governo di coalizione coi liberaldemocratici per recuperare spazio
elettorale al suo partito. Ciò è avvenuto, ma Cameron sapeva anche che, se avesse avuto
ancora alleati i liberaldemocratici – come probabilmente sperava – questi, da convinti
europeisti, glielo avrebbero impedito e la cosa sarebbe finita lì. Al governo da solo non
poteva venire meno all’impegno preso: il referendum lo ha travolto. Potremmo aggiungere
che ne è uscita confermata una vecchia legge dell’agire politico per cui la tattica è
fondamentale, ma in funzione di una strategia; in assenza nascono quasi sempre dei danni.
Cameron, inoltre, ha fatto una figura meschina perché, dopo aver lanciato l’idea del
referendum per uscire, ha pure invitato a votare contro. C’è da domandarci se uno così
possieda le qualità per guidare una grande Paese come l’Inghilterra! Travolta è stata anche
l’opposizione laburista il cui leader, antieuropeista camuffato – cosa un po’ strana per un
socialista – deve fare i conti con un partito in rivolta e dovrà, prima o poi, lasciarne la
guida del Labour dopo aver avuto il merito di rappresentare, passata la stagione del
blairismo, la riconquista della ragione storica di sinistra del laburismo inglese. La vicenda
di Corbyn dimostra, ancora una volta, che quando la sinistra insegue la destra essa produce
solo la propria rovina. Spaccati i partiti inglesi, lo stesso Regno Unito appare assai meno
unito di prima e non solo perché a Londra è stato ampiamente maggioritario il voto per
rimanere, ma in quanto scozzesi e irlandesi sembrano ben decisi a non mollare il
continente. Se vi riuscissero, con un colpo solo, otterrebbero due risultati: l’Europa e
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l’indipendenza. La Regina, naturalmente, tace e sembra che niente la sfiori, ma è naturale
pensare che sia meno tranquilla di quanto vuol far apparire.
Allora? La Comunità Europea esce da questa vicenda, qualunque siano i suoi
sviluppi, destabilizzata. Se ritiene, tuttavia, di ricomporsi in qualche modo tramite le
clausole che formalizzeranno il distacco, essa farà un altro errore e tra sbagli e incertezze
non si sa dove si può andare a finire poiché il vuoto di politica fa sì che ogni azione guardi
esclusivamente ai mercati, e solo ai mercati, che possono spadroneggiare con l’arma della
speculazione come meglio vogliono non avendo davanti nessuno ostacolo e, quindi, in
grado di dirigere l’asse generale secondo i loro esclusivi interessi.
Una classe politica all’altezza del proprio compito non dovrebbe discutere in termini
sociologici. Evidenziando, cioè, come in Inghilterra abbia prevalso l’egoismo della
popolazione anziana a scapito di quella più giovane. Oltretutto è un ragionamento
pericoloso e, per di più, senza valenza politica, ma espansiva della convinzione che avere
una pensione sia un privilegio – un’idea che in Italia circola da vario tempo – a scapito
delle più giovani generazioni. Tale ragionamento, invece, dimostra ulteriormente quanto il
vuoto di politica sia grande. Un ordine politico, infatti, deve dare risposte a tutti e, quindi,
salvaguardare i più avanti in età e, parimenti, aprire prospettive ai più giovani.
L’ordine politico è lo Stato nel suo complesso ed è questo che va costruito; lo Stato
possibile europeo con il quale conciliare la sovranità delle singole statualità con quella
sovranazionale.
È impossibile senza un assetto federale propriamente detto? Non ne siamo convinti
poiché tra il modello comunitario e quello federale ve ne è uno intermedio, quello
confederale nel quale i singoli Stati rimangono soggetti di diritto internazionale e nel quale
la relazione tra i vari componenti è meno stretta rispetto alla forma federale. Oltretutto, in
un continente formato da modelli repubblicani di vario tipo e da monarchie, una
Confederazione europea salvaguarderebbe meglio la necessità e la scelta dell’unione con
quella propria delle sovranità nazionali. Come mai una tale ipotesi non venga mai, non
diciamo affrontata, ma nemmeno sfiorata, rimane un mistero; la verità, se ne possiamo
azzardare una, è che nessuno è capace di pensare la politica in alto accontentandosi che il
presente vada un po’ meno peggio di come procede attualmente.
Un europeista convinto come Valéry Giscard d’Estaing ha proposto di ripartire dai
sei Stati fondatori evitando «ogni antipatico atteggiamento di rivalsa contro i britannici».
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La proposta ci sembra di buon senso, ma essa ha un significato politico se al verbo
ripartire si assegna il significato proprio che ha e, quindi, si è mossi da un’intenzione
rifondativa che presuppone un’idea stessa dell’Europa diversa da quella comunitaria come
la conosciamo. Per aprire una prospettiva europea vera occorre combattere l’assetto
presente e innovare profondamente l’ideale europeo. Ora si apre, per chi crede nell’Europa,
un nuovo fronte di lotta e di impegno perché altrimenti se la Comunità va in crisi sotto la
spinta dei nazionalismi e dei fanatismi etnicistici delle destre allora non sarà più possibile
ripartire, tanto meno dai sei Stati fondatori. Ci domandiamo se di tutto ciò vi è
consapevolezza perché non è coi vertici a ripetizione che si salva una conquista che, per
quanto gestita male e da cambiare in modo deciso, rimane pur sempre una conquista cui
sarebbe follia rinunciare
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