giovedì 2 gennaio 2014

Nino Cartosio: Note sulla fase economica

Nino Cartosio, FIOM-CGIL Varese, novembre 2013 Provo a mettere giù alcuni punti sulla fase economica, nella piena consapevolezza della parzialità della riflessione. Si tratta di note che non sono frutto di un lavoro sistematico di ricerca ma con cui cerco di mettere in ordine alcune idee che mi sono fatto osservando “sul campo” la situazione di questi ultimi mesi del sistema industriale. L’ Italia in una doppia crisi “di sistema” La crisi che si è manifestata pienamente dal 2008 in poi è uno spartiacque. E’ una crisi sistemica sovranazionale che ha cause precise nel trentennio neoliberista precedente, e non a caso si è manifestata da subito negli USA che di quel modello sono stati i creatori e gli esportatori. Come tutte le crisi di questa portata, anche in questo caso le cause sono da ricercare nel passato, anche non immediato, e negli squilibri che si sono creati gradualmente nella società, nell’economia e soprattutto nella finanza. Tra queste cause è giusto ricordare almeno la cancellazione (opera dell’amministrazione progressista di Bill Clinton nel 1998) della legge Glass Steagall del 1933 con cui il New Deal rooseveltiano regolava i mercati finanziari e separava il credito commerciale dalla banca d’investimento. Il superamento della distinzione tra finanza commerciale da un lato (sia retail, sia corporate) e finanza a medio-lungo termine, ovvero di investimento dall’altro, è caduto in una fase storica in cui, dopo la fine dei sistemi socialisti di economia pianificata e l’accelerazione della globalizzazione, le masse finanziarie disponibili e in cerca di remunerazione sui mercati erano in forte crescita. E’ negli anni ‘90 che aumentano la loro diffusione e il loro peso attori e fattori del mondo della finanza successivamente al centro della crisi: dagli hedge funds ai “fondi sovrani” alla espansione di mercati non regolamentati (over the counter), dalla creazione di nuovi prodotti finanziari sempre più complessi a episodi di moral hazard, con prestiti richiesti, concessi e retribuiti (retribuzione dei manager delle grandi banche alla concessione del prestito e non alla sua restituzione, nonostante abnormi dilatazioni della leva finanziaria). Il venire meno della separazione tra il credito commerciale e quello a medio lungo termine, la nascita di banche “di sistema” too big to fail e il legame tra mercato immobiliare e finanza opaca determina di fatto la ricaduta sempre meno mediata di queste dinamiche sul resto dell’economia e della società: non a caso, la crisi bancaria degli anni ‘80 negli USA (con il fallimento di decine e decine di istituti di credito locali) aveva prodotto effetti molto più limitati sull’economia rispetto a quanto accaduto nel 2008. In realtà il sistema economico globale costruito negli anni ‘90 era intrinsecamente instabile. A Oriente, dopo la crisi delle “tigri asiatiche” del 1997-1998, e con la Cina in testa, maturava la scelta di liberarsi dalla dipendenza dai capitali occidentali e di affermare la propria sovranità. Ciò avveniva con gli enormi surplus delle bilance dei pagamenti creati dall’esponenziale crescita delle esportazioni, a sua volta frutto della rilocalizzazione industriale “in entrata” in quelle aree. Questi attivi generavano a loro volta i giganteschi flussi di capitale verso gli USA che garantivano l’alimentazione locale del credito e dei nuovi prodotti/settori finanziari. A Occidente, a fronte della delocalizzazione industriale, il recupero di una temporanea alta profittabilità avveniva quindi con l’espansione delle bolle finanziarie (dot.com, immobiliare) e la pressione verso il basso sul costo del lavoro e sui salari. Gli effetti negativi sulla domanda venivano contenuti con consumi finanziati a debito, grazie ai bassi tassi di interesse e all’espansione del credito anche ad alto rischio, con titoli che poi venivano cartolarizzati e immessi nei mercati non più (o non ancora) regolamentati dei nuovi profittevoli prodotti finanziari. (Laura Pennacchi, L’Unità del 7 novembre 2013). Dentro questo quadro mondiale caratterizzato da squilibri e instabilità finanziari, la posizione dell’Italia è ancora più complessa. Oltre ai problemi di bilancio pubblico, c’è soprattutto il dato che riguarda il sistema industriale e produttivo, la sua specializzazione, la sua capacità di produrre innovazione, la sua forza finanziaria ecc. Nel 2002 la CGIL parlava di “declino industriale” sollevando il problema dell’inadeguatezza del sistema produttivo italiano a reggere la sfida della globalizzazione. Erano considerazioni che avrebbero dovuto trovare maggior ascolto. Sono state spesso interpretate come una retorica “declinista” da accantonare. Si trattava invece di realismo. Non a caso infatti, a sei anni dall’inizio della crisi (2008-13), il nostro paese ha perso 8 punti percentuali di PIL e oltre 20 punti percentuali di produzione industriale: dati di per sé eloquenti, che diventano sconcertanti se si rapportano alla storia del secondo dopoguerra italiano (dati Cer presentati dal Sole 24 Ore il 2 ottobre 2013):  Il 2013 sarà il 4° anno di diminuzione del PIL a partire dall’inizio della crisi (2008). Nell’intera storia repubblicana antecedente (1946-2007) solo in due anni (il 1975 e il 1993) si era verificata una diminuzione del Pil.  La profondità e la durata di questa crisi sono inusitate. Sei anni dopo la crisi del 1975, il paese aveva riguadagnato 21,6 punti di Pil e 18 punti di produzione industriale. Sei anni dopo la crisi del 1993, l’Italia aveva riguadagnato 8,9 punti di Pil e 6 punti di produzione industriale. Alla luce di questi dati, pare ragionevole interpretare questa crisi come un passaggio storico e non congiunturale; un passaggio in cui il sistema (incentrato su piccola impresa famigliare, settori tradizionali dei beni di consumo, competizione sui costi e uso della svalutazione competitiva ecc.) che aveva trainato il paese alla crescita del secondo dopoguerra arriva al capolinea. Da un lato, con la globalizzazione, sono venute meno le condizioni di contesto in cui questo sistema si era affermato. Dall’altro, il sistema stesso ha perso nel corso degli anni i suoi pezzi migliori riducendo progressivamente la capacità competitiva. Sono significativi i dati della partecipazione italiana al commercio mondiale. La quota italiana sull’export mondiale è passata dal 3,9% del 2002 al 3% del 2012: abbiamo quindi perso circa il 25% della nostra quota nell’arco di un decennio (Dati elaborati dal Ministero dello Sviluppo Economico nel marzo 2012). Per l’Istat, fatto 100 il valore della nostra quota di export mondiale nel 1999, questa risultava ridotta di circa il 28% nel 2011. Per orizzonte temporale (l’ultimo decennio) questo dato va quindi ben oltre la crisi post 2008 e indica come l’industria italiana ormai da lungo tempo non riesca a intercettare le dinamiche di crescita nel contesto della globalizzazione. Ciò si spiega sì con il forte aumento delle quote di export dei paesi emergenti (e la contestuale diminuzione di quelli “maturi”), ma anche con i limiti strutturali del nostro sistema accumulatisi negli anni prima della grande crisi: produzioni mature vengono “spiazzate” dalle delocalizzazioni e dalla conseguente insostenibile concorrenza da costo; al tempo stesso sono carenti i soggetti imprenditoriali in grado di agganciarsi alla crescita dei settori ad alta tecnologia e una serie di scelte (o non scelte) di politica economica e industriale che hanno compromesso la tenuta dei settori a maggior valore aggiunto e a cui farò in seguito riferimento. E’ inevitabile la ricaduta di questi dati sui livelli di crescita economica italiani. Inequivoco, a questo proposito, quanto affermato nell’”Indagine Conoscitiva” sull’industria italiana presentata da Banca d’Italia alla Camera dei Deputati nel settembre 2012: “Nel decennio che ha preceduto la recente crisi internazionale l’economia italiana ha segnato il passo, sia in una prospettiva storica sia rispetto ai principali paesi europei. Il tasso annuo di crescita del PIL pro capite è diminuito dal 3 per cento e più registrato fino agli anni settanta al 2,4 negli anni ottanta e all’1,5 negli anni novanta. Tra il 2000 e il 2007 il PIL pro capite è aumentato di appena lo 0,7 per cento l’anno.” E ancora: “Nonostante la debole crescita della domanda interna, le difficoltà competitive del nostro sistema produttivo e l’elevata dipendenza energetica – due temi che vengono sviluppati in questa nota – si sono riflesse nel progressivo peggioramento del saldo del conto corrente della bilancia dei pagamenti, che è passato da un sostanziale pareggio nel 2000 a valori negativi via via crescenti, fino a toccare il 3,5 per cento del PIL nel 2010. […] Sul peggioramento del saldo corrente ha influito significativamente il deterioramento del saldo delle merci: il crescente squilibrio dei beni energetici non è stato compensato da un miglioramento dell’avanzo degli altri beni”. Sull’andamento della bilancia commerciale italiana è necessaria una precisazione alla luce dei dati relativi al biennio 2011-2, quando si è tornato a generare un attivo. Questo è frutto della tenuta, o del moderato aumento, delle esportazioni dovuto anche alla capacità di riorganizzarsi di una parte limitata del nostro sistema d’impresa in prevalenza di dimensioni medio grandi (secondo i dati Istat-Ice sono cresciute in volume del 2,3 per cento nel 2012, leggermente al di sotto del commercio mondiale). Ma soprattutto il ritorno a un attivo commerciale al netto del bilancio energetico si spiega con il crollo delle importazioni causato dalla crisi e dalla forte contrazione della domanda. Il recente rapporto congiunto Istat-Ice (Istituto per il commercio estero), “l’Italia nell’economia internazionale” del novembre 2013, dà una lettura sintetica e chiara di questa recentissima evoluzione: “Ne è derivato un drastico abbassamento del disavanzo corrente di bilancia dei pagamenti, sceso di circa 40 miliardi tra il 2011 e il 2012, pari a 2,6 punti percentuali di Pil, e destinato, secondo le previsioni, a trasformarsi in un saldo positivo nell’anno in corso. Come altre volte in passato, il riequilibrio dei conti con l’estero segnala la profondità della recessione, più che l’andamento favorevole delle esportazioni. Il ritorno alla crescita farà presumibilmente riemergere un disavanzo corrente ma senza porre problemi di sostenibilità, dato che il debito estero dell’Italia, pur essendo leggermente aumentato, è ancora inferiore a quello della maggior parte dei paesi europei”. Sul crollo di importazioni e domanda interna il rapporto continua così: “come già accennato, la recessione che ha colpito l’economia italiana si è manifestata anche in una flessione delle importazioni di beni e servizi, scese del 7,7 per cento rispetto al 2011. Le dimensioni della caduta si possono spiegare, almeno in parte, con il rallentamento delle importazioni e con il forte calo degli investimenti che sono le due componenti della domanda a più alto contenuto di acquisti dall’estero. […] La tenuta delle esportazioni non è però sufficiente a impedire che l’attività produttiva continui a ridursi, data la persistente debolezza della domanda interna”. I dati relativi alla meccanica strumentale, un settore decisivo per il nostro valore aggiunto e il nostro export, sono paradigmatici di queste tendenze. L’Ucimu (associazione dei costruttori di macchine utensili) stima che tra il 2006 e il 2012 il valore della produzione del settore sia sceso da 4,6 a 4,4 miliardi di Euro (nello stesso periodo in Germania aumenta da 8,1 a 10,6 miliardi e in Giappone da 9,6 a 13,1 miliardi; in Cina passa da 5,7 a 21,4 miliardi). Tra il 2008 e il 2012 migliora il rapporto tra importazioni ed esportazioni ma, mentre l’export italiano di macchine utensili aumenta del 7,3% (da 3,21 a 3,44 miliardi di Euro), si verifica il vero e proprio crollo delle importazioni, che si riducono del 57% (da 1,47 miliardi a 679 milioni), e del mercato interno che si contrae del 54% (da 2,15 miliardi a 919 milioni di Euro). Vero è che l’incidenza dell’export sul valore prodotto aumenta nel periodo fino alla percentuale elevatissima dell’80,5% e che l’avanzo commerciale si consolida, ma questo accade soprattutto per il crollo della domanda interna mentre la nostra posizione pare indebolirsi in termini strutturali (il Sole 24 Ore del 27 novembre 2013). Allargando il discorso dall’hi tech ai settori più in generale definibili ad alto valore aggiunto l’Italia mantiene alcune eccellenze, in prevalenza costituite dalle imprese che mantengono assetti proprietari legati allo stato e da medie imprese operanti nei campi della meccanica strumentale/meccatronica, dell’alimentare, del design e della moda. Nonostante le grandi dimensioni dei mercati di sbocco, queste eccellenze sono ridotte a un numero limitato di players in grado di operare a livello internazionale. Pertanto esse non hanno la dimensione per poter guidare il sistema industriale all’innalzamento complessivo del suo livello qualitativo e competitivo, precondizione necessaria alla ripresa di un percorso di crescita consolidata della nostra economia. Anche nel nostro Paese le cause di questa situazione si sono accumulate gradualmente nel corso degli anni. Nell’ambito della dimensione industriale ed economica è necessario fare riferimento addirittura agli ultimi decenni e allargare il discorso all’intreccio tra questa e quelle della politica economica generale e delle scelte strategiche che essa compie nei vari ambiti, dalle infrastrutture alle politiche e agli assetti industriali alla ricerca scientifica, alla formazione e alla crescita professionale. E’ su tutti questi piani che pare essere mancata una capacità di programmazione strategica che sarebbe stata necessaria per evitare il percorso di declino sopra sommariamente illustrato. Non a caso nel suo “La scienza negata” del 2005, un documentato saggio sul degrado scientifico e della ricerca nel nostro paese, uno studioso e storico della scienza (e non dell’industria e dell’economia) come Enrico Bellone riprendeva a proposito dell’Italia la nozione di “paese in via di sottosviluppo” che lo scienziato, e militante del Pci, Toraldo di Francia introdusse nel dibattito pubblico fin dal 1973 (trovando invero poche orecchie sensibili oltre a quelle dell’attuale Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano). Bellone collega la scarsità di investimenti, il forte ritardo e la mancanza di programmazione nel campo della ricerca scientifica al portato culturale della nostra storia nazionale, all’egemonia del filone idealista nella cultura delle classi dirigenti e ai “rigetti della scienza e della tecnica che dominarono i nostri anni sessanta e che coinvolsero grandi numeri di intellettuali e opinionisti di destra, di centro e di sinistra, laici e cattolici, conservatori e progressisti”. Queste dinamiche sono alla base delle scelte politiche che si sono susseguite nel corso degli ultimi decenni e che hanno avuto la ricaduta molto negativa sul mondo dell’industria e sui suoi livelli di competitività di cui ho parlato in precedenza. Scriveva ancora Bellone “l’ipotesi di un collasso irreversibile è alle porte. Ci potremmo riprendere solo facendo leva su scelte forti e strategiche, da programmare in una cornice europea e con scelte coraggiose sul piano finanziario e organizzativo”. Metteva poi in guardia dall’ “opinione erronea che non si tratti di un declino vero e proprio, ma dell’esito temporaneo di una sorta di fluttuazione negativa che si sarebbe realizzata solo negli ultimissimi anni e alla quale sarebbe facile porre rimedio con alcuni ritocchi più o meno marginali”. Per concludere quindi che “la deriva del sistema, insomma, è molto rilevante, ha una storia lunga e richiede scelte di natura strategica e a lungo termine”. Come detto sopra il tema della ricerca è strettamente connesso a quello dell’economia e del sistema industriale. In questo ambito, è praticamente coevo al contributo di Bellone, vale la pensa di riproporre la riflessione di Luciano Gallino nel suo pamphlet del 2003 “La scomparsa dell’Italia industriale”. Gallino passa in rassegna la scarsa propensione italiana a produrre nei settori strategici dell’industria, da cui il nostro paese è uscito progressivamente nel corso degli anni. Dall’informatica/elettronica, che stanno al centro della “terza Rivoluzione industriale” e che sono state le gambe su cui la globalizzazione finanziaria e produttiva ha potuto svilupparsi nell’ultimo trentennio; all’aeronautica civile, in cui l’Italia è rimasta fuori dal consorzio Airbus che rappresenta oggi una delle più grandi storie di successo industriale e tecnologico della storia europea; alla chimica, con lo sperpero di fondi pubblici e la costruzione di “cattedrali nel deserto” negli anni ’60 e ’70; per concludere con il dissestato settore auto (Gallino scrive nel 2003, mentre la Fiat è sostanzialmente sull’orlo del fallimento, evitato con l’ingresso delle banche nel capitale della società. Oggi, a dieci anni di distanza, la produzione di auto in Italia è scesa ai suoi minimi storici). Gallino risale nel corso dei decenni alla ricerca delle cause del declino italiano: “all’incirca dal 1960, il nostro paese ha perduto o drasticamente ridimensionato la propria capacità produttiva in settori industriali nei quali aveva occupato a lungo un posto di primo piano a livello mondiale. E’ il caso dell’informatica, della chimica, dell’industria farmaceutica”. E’ un percorso su cui, secondo Gallino, “l’Italia sta correndo precisamente il rischio” di “una rovinosa caduta”. Le cause della parabola discendente sono molteplici. Scelte e orientamenti di gruppi manageriali di alto livello che hanno esasperato “la diversificazione delle società o dei gruppi controllati sino a perdere di vista la ‘missione’ primaria, intanto che si dimostravano incapaci di inventarne un’altra”. La “convinzione, diffusa tra un buon numero di top managers, che l’industria, a ben vedere è in fondo solamente un’appendice fastidiosa della finanza, perché obbliga a faticare di più mentre fa guadagnare di meno”. Ma anche “inclinazione delle imprese ad adottare modelli organizzativi capaci di ottenere tassi di produttività molto elevati da forze di lavoro con un livello di istruzione piuttosto basso”. Le scelte politiche nazionali, è il caso dell’industria aeronautica civile, in cui i sono stati enormi i danni creati dal “criterio di affermare il primato della politica nazionale e internazionale sulla razionalità economica, oppure di questa su quella, badando sempre a che il momento di decidere il primato della prima sulla seconda, o viceversa, fosse quello sbagliato”. Dai lavori di Gallino e Bellone emerge la natura molteplice e di lunga durata delle dinamiche che, su piani diversi e con il filo conduttore della mancanza di programmazione e visione strategica, hanno compromesso pesantemente la capacità competitiva dell’industria italiana nei settori che abbiamo definito in modo esteso “ad alto valore aggiunto”. Ma può essere utile entrare nel dettaglio con qualche esempio in più e tornare alla fine degli anni ottanta nonché a quel decennio novanta in cui, come abbiamo visto, si è sostanzialmente esaurita la capacità di crescita del paese. Proprio in quegli anni recenti si ripresenta con chiarezza un deficit di capacità progettuale delle classi dirigenti economiche e politiche che ha accelerato la perdita di fattori decisivi per la nostra tenuta competitiva, anche in coincidenza con la privatizzazione di alcune delle grandi imprese pubbliche operanti in settori decisivi per l’economia nazionale. Ad esempio nel campo delle reti per la trasmissione dei dati che, alla fine degli anni ‘80 vedeva nella Stet uno dei centri mondiali nella ricerca e nello sviluppo, la posizione italiana si è via via ridotta fino alle vicende attuali del gruppo Telecom. La siderurgia pubblica italiana, che era stata una delle più avanzate del mondo e aveva fornito, insieme ad altre industrie di base, i beni primari a basso costo necessari al grande sviluppo industriale del dopoguerra, è finita nelle mani di una famiglia di piccoli imprenditori che hanno rinunciato all’innovazione e allo sviluppo per puntare una miope massimizzazione del profitto, con le conseguenze ambientali industriali e giudiziarie conosciute e che mettono a repentaglio la sopravvivenza stessa di un settore posizionato dalla mano pubblica ai massimi livelli di innovazione mondiale. Ma non sono questi gli unici casi. Sempre restando in settori strategici e ad alto valore aggiunto, ma in ambito privato e non pubblico, si possono ricordare altri casi di perdita di capacità industriale e competitiva che hanno preso forma nel corso del decennio novanta. La telefonia cellulare, con la Omnitel (tra le principali imprese europee del tempo) finita in mano agli inglesi e integrata nella Vodafone. Le tecnologie motoristiche cedute dalla Fiat a Bosch, che ha così industrializzato i motori auto common rail. Ma anche la riduzione del perimetro industriale della Pirelli, con alienazioni (uscita dal settore cavi, operazioni di compra-vendita nelle tecnologie fotoniche) finalizzate a reperire risorse investite nell’operazione Telecom (acquistata a un valore probabilmente troppo alto indebitando la società) e con lo sviluppo dei settori immobiliari. Pare quasi che un passaggio epocale di scenario, segnato in termini generali dall’accelerazione della globalizzazione e in ambito nazionale dall’entrata dell’Italia nell’area Euro, sia stato affrontato passivamente, senza la percezione della profondità delle trasformazioni che hanno/avrebbero coinvolto il Paese e senza la conseguente volontà di puntare al riposizionamento “di sistema” necessario a contenere la “deriva” cui sopra si faceva riferimento. Dal mio punto di vista, di sindacalista impegnato quotidianamente nelle aziende metalmeccaniche del territorio di Varese, osservo quasi tutti i giorni il lato industriale della crisi e posso individuarne alcuni tratti. Siamo concentrati in settori con scarso potenziale di crescita perché particolarmente esposti alla concorrenza da costo. In termini di valore aggiunto manifatturiero infatti il peso complessivo di settori quali il tessile e l’abbigliamento, il cuoio e le calzature, i prodotti in legno ammonta nel nostro paese al 13,6 per cento, molto più che in Francia (5,2) e in Germania (3,1). I settori più propensi all’innovazione (chimica, apparecchi radiotelevisivi, per le comunicazioni, medicali e di precisione, macchine per ufficio ed elaboratori, altri mezzi di trasporto) pesano per il 16,4 per cento in Italia, il 19,7 in Francia e il 20,8 in Germania (Banca d’Italia 2012). Per relativa esperienza personale cito il caso dell’elettrodomestico (un settore al centro del boom degli anni 50-60 e tipico del made in Italy): negli ultimi anni praticamente tutti i gruppi principali - Electrolux, Indesit, Candy, Whirlpool - hanno chiuso stabilimenti in Italia e ridotto fortemente l’occupazione. Electrolux una decina di anni fa aveva circa 12.000 addetti adesso sono circa 6000 e sono a rischio 4 stabilimenti. Indesit ha chiuso due stabilimenti negli ultimi due tre anni (nel torinese e nella bergamasca) e ora ha presentato un altro piano da un migliaio di esuberi con chiusura di altri stabilimenti. Candy ha chiuso tutti le aziende che aveva tranne Brugherio. Nello stesso periodo la Whirlpool ha ridotto il numero di addetti in Italia da circa 6000 a circa 3000/3500. E a questi processi corrisponde lo spostamento dei volumi in paesi est europei o asiatici. Tutto ciò ha conseguenze dirette sul sistema di piccole e medie imprese fornitrici diffuse su territorio, che sono in grandissima difficoltà a seguire la migrazione delle produzioni nei paesi a basso costo del lavoro, dove le supply chains si riorganizzano attorno ai nuovi poli industriali (ritorneremo diffusamente sul tema frammentazione del ciclo/catena del valore/delocalizzazioni). Ricordo comunque il caso della Whirlpool: con l’ultima riorganizzazione della primavera 2013 (con cui viene chiuso lo stabilimento di Trento), Varese diventa il polo di eccellenza per gli elettrodomestici da incasso built in, con un investimento di 250 milioni di euro (davvero un risultato eccellente di questi tempi) e si concentra quindi su prodotti di alta gamma, ma con volumi e occupati drasticamente inferiori rispetto al passato (uscita non traumatica di quasi mille persone negli ultimi 7-8 anni). Possiamo onestamente pensare che nei prossimi anni aumenterà i volumi e genererà occupazione aggiuntiva? Molte piccole aziende sono fornitrici/subfornitrici e marginali nella catena del valore Molte delle piccole imprese che incontriamo sul territorio sono sostanzialmente fornitrici o subofornitrici di altre. I prodotti di queste sono spesso componenti che vengono inseriti in apparati di maggior complessità e valore aggiunto. I livelli di posizionamento nella catena del valore possono variare da quelli più bassi (artigiano che fornisce pochi soggetti in un ristretto ambito territoriale, qualche decina di chilometri per intendersi) a quelli più alti (impresa che opera anche sui mercati internazionali). In ogni caso il dato comune è che queste produzioni occupano un segmento molto limitato nell’estensione di catene del valore che tendono a localizzarsi prevalentemente presso le imprese (italiane ed estere) per le quali si lavora. Queste nostre piccole imprese giocano molto sull’innovazione di processo per fare economie di scala (investimenti sulla capacità produttiva) o al massimo su innovazione incrementale (adattamento, modifica parziale) e non sistemica (quella di sistema è concentrata negli anelli più alti e/o meno periferici della catena del valore, dei quali si è fornitori). Cito, a proposito di quest’ultimo periodo, quanto riportato nel rapporto sull’innovazione di Banca d’Italia del 2012 : “Per gran parte delle imprese italiane, soprattutto di dimensione piccola e medio-piccola, le innovazioni di prodotto sono per lo più di natura incrementale, quelle di processo si sostanziano soprattutto nell’acquisizione di macchinari: in entrambi i casi si tratta di innovazioni che richiedono un minor impegno organizzativo e finanziario”. Prevale pertanto la tipologia di impresa “innovatrice senza ricerca”, che prevalentemente incorpora e utilizza innovazione piuttosto che produrla. Ciò è confermato dal basso numero di brevetti prodotti in Italia rispetto alla media europea (nonostante il nostro settore manifatturiero, in termini di valore aggiunto secondo solo a quello tedesco, sia decisamente più rilevante rispetto a molti altri paesi che ci precedono per numero di brevetti): “l’indice di intensità brevettuale, pari nel 2008 a 111,6 brevetti per milione di abitanti nella media dell’Unione europea, mostra una variabilità elevatissima (da 1,6 della Romania a 293,6 della Svezia) che rispecchia in buona parte una dicotomia tra paesi dell’Unione a 15 e i paesi di recente ingresso. Nell’ambito dell’Ue15 emergono nettamente i paesi scandinavi e la Germania. L’Italia, con 78,0 brevetti per milione di abitanti, si colloca al di sotto della media europea”; siamo superati da Svezia, Germania, Finlandia, Danimarca, Olanda, Austria, Lussemburgo, Belgio, Francia e Regno Unito (dal rapporto dell’Istat “Noi Italia 2013. 100 Statistiche per capire il Paese in cui viviamo”). Dal punto di vista della frammentazione/esternalizzazione dei cicli produttivi, l’analisi (Ex Machina) fatta qualche anno fa dall’Unione industriali della provincia di Varese (UNIVA) sulle imprese della meccanica strumentale, quelle che producono macchine e apparati meccanici, conferma la mia impressione. L’esternalizzazione di gran parte delle fasi produttive del processo, tenendo all’interno la parte più rilevante della catena del valore - progettazione, commercializzazione, montaggio, controllo qualità e assistenza post vendita (un’attività quest’ultima sempre più centrale per molte imprese) - è uno dei tratti distintivi dei comportamenti aziendali che emergono dalla ricerca. Faccio un esempio limite, perché si colloca comunque a un livello di eccellenza come l’industria aerospaziale, che dimostra qual è la differenza tra essere subfornitori e avere un prodotto proprietario, tra essere al centro del processo oppure occupare una parte marginale della catena del valore. Quello di AleniaAermacchi (11.000 addetti di cui 1700 a Varese). Il gruppo ha marginalità molto differenti: da quelle più basse delle subforniture per i velivoli civili (aerostrutture per Boeing e Airbus...attenzione il Boeing 787 Dreamliner, il più avanzato aereo civile del mondo, è fatto al 30% in Italia!) a quelle più alte dei prodotti proprietari legati al militare (caccia da supremazia aerea EFA), all’addestramento (M346 progettato, sviluppato e fatto a Varese, acquistato dall’aeronautica israeliana IAF in 30 esemplari per 1 miliardo di euro) e al civile a breve raggio (velivoli turboprop della famiglia ATR). I processi di frammentazione del ciclo produttivo, che hanno preso il via con la ristrutturazione industriale a partire dalla fine degli anni ‘70 (fine della centralità del paradigma fordista), hanno ampliato il tradizionale tessuto di piccola e media impresa sul territorio (appunto con una funzione di fornitura/subfornitura). Il decentramento produttivo è stata la carta giocata per ridurre i costi dopo gli shock degli anni ‘60-’70 (aumento dei costi del lavoro grazie alle conquiste del movimento operaio organizzato e aumento dei prezzi energetici). Per un po’ (decennio Ottanta) il modello ha retto anche grazie all’espansione dei consumi privati sostenuta dalla crescita del debito pubblico e alla svalutazione competitiva; poi si è scontrato con fattori di “sistema”, affermatisi gradualmente negli ultimi trent’anni su scala internazionale/mondiale. Tra questi, sommariamente, elenco: 1) La “terza rivoluzione industriale”, cioè lo sviluppo, a partire dagli Usa e dai paesi a capitalismo avanzato, di nuove tecnologie che hanno “alzato il livello” della competizione mondiale, aumentando la dimensione richiesta degli investimenti in ricerca, sviluppo, conoscenza a un livello proibitivo per la maggioranza delle imprese di cui stiamo parlando (mentre il valore aggiunto tende a spostarsi verso i segmenti “centrali” dei processi produttivi); 2) La delocalizzazione produttiva per cui nei paesi di nuova industrializzazione sono nati nuovi soggetti che competono, e vincono, sul versante dell’abbattimento dei costi. Essa ha penalizzato doppiamente le nostre imprese. Dal punto di vista delle merci, che vengono importate e sostituiscono quelle prodotte in precedenza in Italia perché costano meno. E da quello della crescente difficoltà a “seguire” la delocalizzazione industriale: fornire chi produce in Cina, ad esempio, diventa praticamente impossibile per molte piccole aziende italiane. A differenza della grande industria tedesca che, per i suoi beni strumentali ad alta tecnologia, ha trovato in quelle aree mercati molto ricettivi e grandi spazi di crescita per le proprie esportazioni. Su questo punto la mia impressione è confermata da Banca d’Italia nella sua relazione sulla situazione dell’industria italiana del 2012: “Nel nuovo contesto, segnato dall’intreccio fra globalizzazione e nuove tecnologie, i distretti industriali, caratterizzati da filiere produttive di natura prettamente “locale”, sono posti di fronte a nuove sfide. Le possibilità di unbundling della produzione rendono oggi possibile il trasferimento di mansioni e fasi produttive più standardizzate e di routine nei paesi a bassi salari. La piccola impresa distrettuale, specializzata nella produzione di input intermedi, potrebbe quindi perdere i vantaggi derivanti dal legame con altre imprese o attività limitrofe.” 3) La fine, dalla seconda metà delle anni Novanta con l’ingresso dell’Italia nell’area Euro, della svalutazione competitiva che rigenerava periodicamente margini di competitività sui costi. Si tratta di uno snodo epocale che, nonostante le scadenze temporali predefinite, e a causa della mancanza di programmazione economica generale sopra ricordata, pare non essere stato compreso preventivamente nella sua natura di autentico spartiacque sistemico. Ovviamente i processi sopra descritti hanno intensità differenti a seconda del settore e delle tipologie di impresa, e non mancano le eccezioni, ma mi pare realistico dire che si tratta di una tendenza generale ben presente nella realtà del nostro tessuto industriale. L’azienda familiare ha limiti strutturali sempre più evidenti Questo è un altro limite strutturale del nostro tessuto produttivo. Senza entrare nel merito delle caratteristiche di queste realtà, ma fermandosi a dati del 2008 elaborati dal Centro ricerche sull’impresa familiare (Cerif), soltanto il 33% di queste aziende sopravvive al primo passaggio generazionale e solo il 50% di quelle “superstiti” supera il secondo passaggio generazionale. Per quanto riguarda gli assetti proprietari la presenza di imprese familiari in Italia è molto alta, ma non così dissimile da quella di altri paesi europei. Il divario si fa molto rilevante, invece, soprattutto nelle modalità di gestione di queste aziende, del modello manageriale, di quello che si definisce “il controllo”. Come ricorda Banca d’Italia (2012): “La peculiarità italiana diventa evidente quando si isolano le imprese familiari in cui tutto il management è espressione della famiglia proprietaria: queste sono due terzi in Italia, contro un terzo in Spagna, circa un quarto in Francia e in Germania, soltanto il 10 per cento nel Regno Unito. Per quanto riguarda le pratiche manageriali, l’Italia presenta la percentuale più alta di imprese a gestione “accentrata” (85 per cento) e quella più bassa di imprese che utilizzano sistemi di remunerazione individuale incentivanti (16 per cento). In particolare, la diffusione di una gestione molto accentrata è più elevata nelle imprese la cui proprietà e il cui management fanno più stretto riferimento a una famiglia; nel caso dell’Italia ben nove imprese su dieci a proprietà e gestione completamente familiare dichiarano di avere una gestione centralizzata e di non remunerare i dirigenti in base al raggiungimento degli obiettivi.” (per gestione “accentrata” si intende quindi un management interno alla famiglia). A questo si aggiunge che, nel 2008, oltre la metà delle imprese familiari (che al 98% hanno meno di 20 addetti, Cerif 2008) era controllata da over sessantenni. La propensione innovativa decresce all’aumentare dell’età: da un’indagine condotta tra i manager partecipanti al World Business Forum di Milano emerge che solo l’1,4% dei vertici aziendali (manageriali) over 50 è incline al cambiamento e all’innovazione (Corriere Economia del 4 novembre 2013). Rispetto a quelle di altri paesi, inoltre, solo il 20% delle imprese familiari italiane hanno già trovato soluzioni per gestire il passaggio generazionale, contro il 47-8% di UE e USA (Cerif 2008). Questi dati confermano la mia impressione di un vincolo pesante che grava sul nostro sistema d’impresa. Sono molte le aziende sul territorio che hanno il problema del cambio generazionale (a Varese, secondo l’Unione delle Camere di Commercio lombarde, quelle con imprenditore con oltre 70 anni di età sono 1329, di cui 263 manifatturiere), alcune anche di grande importanza, ma soprattutto si tratta di quelle piccole che costituiscono tessuto diffuso sul territorio. Sono realtà in cui la generazione dei nostri genitori/nonni (gli attuali 70/80enni) ha costruito benessere gestendo le aziende nel periodo di espansione durato fino agli anni Novanta, venuto poi meno gradualmente. E’ un modello in cui il capo azienda spesso “faceva tutto”: ideava il prodotto (grande conoscenza tecnica e idee); organizzava l’azienda; seguiva la parte commerciale e il rapporto con i clienti e magari gestiva pure il personale. Un modello in cui, nel bene (legame con la comunità e sviluppo di una certa responsabilità sociale, anche in forme paternaliste, ma lontana dai tratti predatori del capitalismo liberista) e nel male, c’è una forte identificazione tra l’imprenditore/famiglia e l’impresa e tra questi e il territorio. La dimensione familiare si sovrappone a quella territoriale: spesso i rapporti di fornitura con aziende maggiori erano anche “patrimonio” personale delle famiglie ed erano relazioni in cui l’aspetto economico contava, ma non era l’unico. D’altro canto si sono manifestati anche casi in cui tra imprenditori che facevano cose simili o le stesse cose ci fossero comportamenti antagonistici e non cooperativi (figurarsi fare un’azienda insieme più grande di quelle già esistenti). Oltre che per la specializzazione produttiva e la doppia crisi sistemica in atto oggi questo modello è in forte difficoltà per più di un motivo:  il cambio generazionale si scontra con il dato oggettivo: se la proprietà e il controllo devono restare nella famiglia è “statisticamente” difficile (parlo proprio di probabilità numeriche) che le generazioni che si susseguono siano tutte adeguate e interessate a proseguire nell’attività: non mancano nella mia esperienza i “figli scemi” o che vogliono fare altro nella vita.  la globalizzazione e la competizione mondiale (non solo la concorrenza subita, ma anche il dover andare a cercare nuovi mercati più ostici) rendono molto più difficile il quadro ed è ormai quasi impossibile per un imprenditore gestire tutto o quasi da solo come è avvenuto nel passato.  Il dato familiare complica l’evoluzione della struttura e degli assetti d’impresa verso modelli più moderni ed efficienti. La proprietà coincide con il controllo, ciò impedisce un’evoluzione manageriale (nuove capacità portate all’interno della struttura) e finanziaria (gli assetti proprietari non vengono messi in gioco nemmeno quando sarebbe necessario farlo per reperire risorse funzionali allo sviluppo dell’impresa).  Questo dato si lega a quello dell’innovazione industriale al centro del già citato rapporto di Banca d’Italia sull’innovazione industriale, dove si afferma: “Appare plausibile l’ipotesi che le imprese familiari presentino in media un maggiore livello di avversione al rischio, quale conseguenza della sostanziale coincidenza tra patrimonio familiare e di impresa, con effetti negativi su crescita, investimenti, internazionalizzazione e innovazione. Le imprese familiari tendono ad avere una minore propensione a ricorrere a management esterno, anche quando scarseggiano le risorse manageriali all’interno della famiglia proprietaria. Queste caratteristiche, poco penalizzanti in periodi di crescita stabile e regolare, possono costituire uno svantaggio più rilevante quando il sistema economico è soggetto a shock esterni e richiede una forte capacità di innovazione e rinnovamento”.  C’è un problema culturale e di “struttura mentale” in molti di questi imprenditori. Ci sono le eccezioni, ma tantissimi non riescono a elaborare il cambio dei paradigmi, sono “fuori dal mondo” (molto più del sindacato). Non a caso, assurdità come quelle dei dazi che Tremonti periodicamente ha tirato fuori in passato, o la chiusura localistica del leghismo, oppure altre varianti populiste ma tendenzialmente (e pateticamente) nazionaliste hanno avuto così largo consenso in questi strati sociali. La chiusura nell’ambito familiare della struttura proprietaria rischia di penalizzare l’impresa, non fa girare “aria fresca” sotto il profilo mentale e culturale. Non è un giudizio di valore, spesso si tratta di persone “per bene”, attente ai loro dipendenti, dedite al lavoro, anche generose...ma sempre più senza strumenti di comprensione della realtà. Finanza, credito, assetti proprietari Intrecciata alla proprietà familiare c’è la questione finanziaria. Molte imprese hanno assetti tutt’altro che solidi e hanno difficoltà a reperire risorse finanziarie. Soprattutto in una competizione che si è fatta mondiale le risorse finanziarie sono decisive sia per gli investimenti su prodotto e processo, sia per spingere i prodotti dal punto di vista commerciale. Finanza (scarsa), struttura degli assetti proprietari (familiare/bloccata) e (mancati) investimenti nell’innovazione industriale sembrano quindi legati strettamente uno all’altro, come emerge in questo paragrafo della relazione di Banca d’Italia sopra citata: “Gli imprenditori indicano tra i principali ostacoli all’innovazione la carenza di risorse finanziarie. Il capitale azionario, più adatto rispetto al debito a finanziare l’innovazione, è meno diffuso che in altri paesi; in particolare, in Italia risulta poco sviluppato il settore del venture capital il cui compito è quello di fornire capitale di rischio, nonché consulenza, alle imprese giovani e di piccole dimensioni, operanti in settori innovativi”. Si parla di “capitale azionario”, “venture capital” ecc.: in contesti di proprietà famigliare e piccola dimensione è difficile pensare a ambiti di azione per strumenti e soggetti di quel tipo. Da un lato (l’azienda), ti quoti o cerchi di reperire capitale se sei grosso, non se sei piccolo; se hai in mente una strategia di espansione fondata su prodotti che lo permettono, non se hai di fronte un declino più o meno lungo ma irreversibile. Dall’altro (fondo di private equity o venture capital), investi in capitale di rischio se hai opportunità di remunerazione e se gli assetti proprietari sono “aperti”; non se il valore prodotto è statico o decotto e se gli assetti proprietari restano legati allo ius sanguinis. A fronte di piani di sviluppo industriale e/o di innovazione di prodotto, che presentano margini di rischio più alti rispetto ad attività consolidate e stabilmente profittevoli, sono maggiormente utilizzabili (e utilizzati in altri paesi avanzati) gli strumenti di finanziamento sopra ricordati. Sono strumenti che coinvolgono il capitale (sia in funzione di garanzia contro il maggior rischio, sia nell’ottica di remunerare l’investimento al raggiungere di determinati obiettivi di sviluppo) e che quindi tendono a modificare gli assetti proprietari: ciò si scontra con la natura familiare della proprietà di molte imprese italiane e con la sua tendenza ad autoperpetuarsi anche a discapito dell’impresa stessa. Di sicuro il credito si è ristretto e le banche hanno adottato (e continuano ad adottare) comportamenti legati alla “finanza per la finanza” piuttosto che alla “finanza per l’industria” (anche se le banche italiane sono state meno esposte di quelle di altri paesi alla finanza “innovativa”). Ma sono molti i soggetti imprenditoriali che, lamentando la scarsa propensione all’erogazione del credito, omettono di ricordare che sono loro i primi a dotare di scarsi capitali le loro stesse imprese. Non mancano piccole e medie imprese in cui si è accumulato patrimonio, ma sono numerose quelle in cui il rapporto tra patrimonio netto e indebitamento finanziario è 1 a 5, 1 a 6 e anche oltre e le fonti di terzi sono di gran lunga sovrabbondanti rispetto al capitale proprio; e molti sono i casi in cui il margine generato è ridotto (e per la specializzazione produttiva “arretrata” e per gli oneri finanziari) e non c’è di fatto accumulazione di risorse per fare investimenti. La restrizione del credito è frutto di un circolo vizioso. Rispetto alle banche di altri paesi (anche europei, come la Germania) quelle italiane hanno generalmente avuto meno problemi nella fase iniziale della crisi. Ora però si trovano in una situazione molto pesante. Oltre ad aver dovuto acquistare titoli di stato (su cui svolgono anche e in parte profittevole attività di trading) per ottenere gli aiuti della Bce nell’ambito di operazioni di rifinanziamento a lungo termine (LTRO), molte banche vantano crediti inesigibili o di assai difficile esigibilità nei confronti delle imprese. Ciò significa che:  le operazioni di rifinanziamento a lungo termine hanno contribuito a evitare il fallimento delle banche (che si trovavano a fronteggiare la scadenza delle loro obbligazioni in un periodo di forte difficoltà a reperire risorse per la crisi del credito interbancario), a sostenere i debiti sovrani e a salvare l’unione monetaria, ma non hanno avuto effetti positivi sull’erogazione del credito (le banche hanno anche realizzato un utile grazie al differenziale tra i rendimenti degli investimenti in titoli e quelli dei prestiti alla loro clientela).  per le banche è necessario procedere con accantonamenti per poter far fronte alla possibile svalutazione dei crediti (che, riconosciuti inesigibili, diventerebbero quindi perdite da coprire). Ciò concorre alla sottrazione di risorse che le banche potrebbero destinare altrimenti a nuovi prestiti. Può essere utile ricordare quanto emerso dal Rapporto di Banca d’Italia sulla stabilità finanziaria del novembre 2013. Nel primo semestre 2013 le nostre banche hanno aumentato il volume di titoli di stato italiani da 321 a 396 miliardi di euro. Rispetto al dicembre 2011, gli acquisti netti di titoli pubblici da parte delle banche italiane sono stati pari a 150 miliardi e la quota di attività bancarie relativa ai nostri titoli pubblici è aumentata dal 6 al 10%. Sulla “cattiva qualità” dei crediti (le partite deteriorate si stimano in circa 114 miliardi di euro a metà 2013, Sole 24 Ore del 13 novembre 2013) incide la negativa congiuntura economica in corso ormai dal 2008 , ma questo problema viene ulteriormente aggravato dalle caratteristiche del sistema finanziario italiano e dei rapporti tra esso e il mondo dell’industria. In mancanza di un mercato di capitali sviluppato e di investitori istituzionali (oltre a private equity e venture capital ricordo l’insufficiente sviluppo dei fondi pensione integrativi, presenti di fatto solo grazie al lavoro sindacale), il finanziamento delle imprese passa in gran parte proprio dalle banche. Vi è quindi un legame biunivoco tra i due soggetti: è vero che le imprese sono penalizzate dalla restrizione del credito, ma è altrettanto vero che le banche sono in difficoltà per il cattivo andamento delle aziende con cui si sono esposte. Commentando il Rapporto sulla stabilità finanziaria di Banca d’Italia, sul Sole 24 Ore del 13 novembre 2013, Donato Masciandaro scriveva infatti: “Le imprese italiane dipendono troppo dal credito bancario e i rischi diventano ancor più evidenti quando […] la profittabilità cala e il credito è asfittico. Fatto 100 il fabbisogno finanziario, le imprese statunitensi dipendono per 25 dalle banche, quelle europee per 70, quelle italiane per 90. E’ una struttura rigida che in tempi di crisi può rivelarsi letale”. E, se la crisi continuerà, il quadro è destinato a peggiorare. Rispetto al rapporto con gli assetti proprietari e a quanto sopra riportato, Masciandaro aggiungeva: ”Le imprese italiane devono affrontare con decisione il nodo della struttura finanziaria: da un lato c’è la sfida della trasparenza e dei mercati, inclusa la possibilità di perdere la proprietà e il controllo; dall’altro c’è la difesa di rendite di posizione sempre più fragili e precarie, a cui si aggiunge la possibilità di fallire per eccesso di dipendenza da credito bancario”. Di sicuro la stretta creditizia (credit crunch) incide negativamente sul finanziamento delle imprese: secondo i dati di Banca d’Italia e Bundesbank presentati dal Sole 24 Ore, nei primi 9 mesi del 2008 le aziende italiane avevano ottenuto 495 miliardi di nuovi prestiti, nello stesso periodo del 2013 lo stock di nuovo credito concesso si è ridotto a 305 miliardi. Ma altrettanto negativo è l’effetto dei fattori sopra esposti (dimensione ridotta, scarso valore aggiunto, assetti proprietari familiari/bloccati), peculiari delle imprese, non delle banche. Tutto ciò si manifesta nella vita quotidiana di molte aziende. Ho visto imprese che operano sui mercati internazionali e si misurano con competitori che hanno dimensione più elevata, maggiori risorse finanziarie e una gamma più ampia di prodotti che permette loro di intaccare i margini che hanno su alcuni prodotti per poterne “spingere” altri e mettere in difficoltà le nostre aziende. Ma anche altre in cui i progetti di sviluppo industriale non vengono supportati con capitale proprio dall’imprenditore, che richiede a terzi capitali e credito senza voler mettere in discussione gli assetti proprietari e il controllo della società, col rischio concreto di bloccare la crescita dell’impresa. Mi pare quindi che la restrizione del credito e la difficoltà a finanziare il sistema produttivo siano dovute sì a quello che è successo negli ultimi anni nel mondo della finanza, ma anche alle caratteristiche dimensionali, di specializzazione produttiva e di tipologia degli assetti proprietari proprie del nostro sistema d’imprese. Pare quindi necessario pensare anche a misure mirate a “disintermediare” le banche, ovvero a favorire l’accesso delle aziende a nuove fonti di finanziamento soprattutto (ma non solo) debitorio e a medio/lungo termine, fonti per le quali vi sarebbero potenzialità non ancora sviluppate da parte di investitori internazionali. Queste misure, che dovranno essere costruite ed esposte nel dettaglio dai tecnici, ci pare possano convergere verso alcune linee di azione: • una maggior “trasparenza” da parte delle aziende, che dovrebbero dotarsi di sistemi di controllo e gestione quantomeno sullo stile di quelli delle aziende quotate in borsa e che dovrebbero essere disponibili a dare visibilità strategica agli investitori con la presentazione di business plan almeno triennali (aspetti coerenti, almeno in parte, con la logica dei provvedimenti sui minibond, che possono essere emessi anche da società non quotate). • Un maggior impegno di capitali propri (anche esterni all’impresa e/o a fronte del conferimento di garanzie) che gli imprenditori dovrebbero rendere disponibili a fronte di operazioni di ristrutturazione del debito e consolidamento finanziario. Con la possibilità per i creditori, in mancanza di questi impegni, di reperire nuovi azionisti • L’evoluzione del sistema di garanzie al di fuori della sfera prettamente immobiliare oggi di gran lunga prevalente e verso una dimensione basata anche su altri asset interni all’azienda come merci e magazzini (asset based lending) anche alla luce del minor onere medio di un prestito su cui il debitore rende disponibili garanzie. • Il rafforzamento degli incentivi fiscali riconosciuti a fronte del rafforzamento patrimoniale delle imprese. Si tratta anche di strumenti già esistenti (aiuto alla crescita economica ACE) e che dovrebbero seguire la linea tracciata già anni addietro da Vincenzo Visco con l’introduzione della dual income tax e finalizzata ad accrescere il capitale proprio investito nell’impresa. • Collegare il sistema della previdenza integrativa a quello d’impresa secondo una logica di investimento industriale, per definizione a medio/lungo termine e a basso tasso di rischio. Un’operazione simile potrebbe avvenire con un ruolo di intermediario da parte di Cassa depositi e prestiti e consentirebbe di ridurre l’esposizione dei fondi (e dei rendimenti pagati ai lavoratori soci) rispetto alle congiunture dei mercati finanziari, aumentando al contempo i flussi finanziari in entrata nel sistema produttivo. E’ utile ricordare quanto affermato dal vice presidente di Cometa Felice Roberto Pizzuti a un recente convegno organizzato dalla FIOM-CGIL: “tutti i fondi pensione della previdenza complementare attualmente gestiscono un patrimonio di oltre 100 miliardi di Euro, che è costantemente in crescita; il flusso annuo di contributi è di circa 12 miliardi ma [...] circa il 70% è allocato all’estero”. Dimensione/struttura d’impresa e innovazione/produttività A partire dalla mia esperienza personale e con il riscontro dei dati citati abbiamo visto come la piccola dimensione aziendale si intrecci con tutti gli altri elementi di difficoltà del sistema fin qui esposti (specializzazione produttiva, frammentazione del ciclo, assetti proprietari/manageriali e finanza). Rispetto alla dimensione aziendale i dati della contabilità nazionale ISTAT del 2009 relativi alle imprese manifatturiere italiane confermano e rafforzano il quadro fin qui emerso. Le imprese prese in esame occupano circa 4.170.000 lavoratori. Consideriamo alcuni dati rilevanti e incrociamoli con le classi dimensionali “estreme”: le più piccole (0-9 e 10-19 addetti) e la più grande (oltre 250). Le imprese più grandi (con oltre 250 dipendenti) hanno:  Un valore aggiunto per addetto di 60.000 euro rispetto ai 23.600 di quelle più piccole (0-9 addetti), ai 35.000 di quelle con 10-19 addetti e a un valore medio di 43.000 euro.  Un livello di investimenti di circa 11.000 euro per addetto rispetto ai 5.500 riscontrati tra 0-9 addetti, ai 6.400 della classe 10-19 addetti e a un valore medio di 7400 euro.  Una quota di profitti sul valore aggiunto del 25% a fronte di quella negativa delle imprese minori (-5,4%), al 18,4% delle imprese con 10-19 addetti e a un valore medio del 20,2%.  Una quota di esportazioni sul fatturato che è del 38% rispetto all’8,1% delle aziende fino a 9 addetti, al 14,9% della classe 10-19 addetti e al valore medio del 29,1%. Sono dati che, per la loro nettezza, non necessitano di commenti. Documentano come, usando le parole della Relazione di Banca d’Italia sull’industria italiana del settembre 2012, “più piccola è la dimensione, più difficoltoso è […] sostenere gli elevati costi fissi connessi con l’attività di R&S, l’innovazione, l’accesso ai mercati esteri” e, come vedremo, “ne risente il tasso di crescita della produttività”. Stabilito con chiarezza questo punto è utile raffrontare, sulla base dei dati elaborati dall’ISTAT e relativi al 2006, la distribuzione degli addetti nelle classi dimensionali d’impresa tra l’Italia e i paesi dell’Unione europea: in Italia gli occupati nelle imprese che hanno fino a 9 addetti sono il 46,7% del totale, mentre nell’EU sono il 29,6%. Nelle aziende con 50-249 addetti erano occupati il 12% dei lavoratori italiani e il 16,8% di quelli dell’Unione, al di sopra dei 250 addetti operavano il 20% dei lavoratori italiani e il 32,9% di quelli degli altri paesi europei. A questi dati ne va aggiunto un altro, macroscopico, che riguarda la percentuale dei lavoratori autonomi sul totale degli occupati. Sulla base dei dati ISTAT elaborati nel 2013 e relativi al 2010, la percentuale di lavoratori autonomi sul totale degli occupati nel nostro paese è del 31%. E’ il dato più alto in assoluto di tutti i paesi europei ed è oltre il doppio della media dell’Unione a 27. All’interno di una retorica deteriore, che pure si è affermata negli ultimi decenni, potrebbe essere inteso come un dato “positivo” per il sistema (elevata imprenditorialità). Alla luce dei dati e delle tendenze esposte fin qui è evidente che si tratta invece di un dato molto preoccupante perché segnala un alto livello di inefficienza del nostro sistema economico. Torna qui attualissimo il metodo di lavoro indicato da Antonio Gramsci in Americanismo e Fordismo. Nelle carceri fasciste Gramsci ragiona sulle forme dell’organizzazione dell’economia e della società e, nell’individuare le determinanti dell’arretratezza economica italiana (contrapposta al modello progressivo di “capitalismo programmatico” americano), si sofferma sulla “composizione demografica” del nostro Paese, ovvero sulla quota sovrabbondante di occupati nei settori “interstiziali” di servizio e di percettori di rendita a fronte di quelli addetti alla produzione diretta di “valore”. Alla luce dello scarto dimensionale registrato con gli altri paesi europei, pare utile collegare il ragionamento sulla dimensione d’impresa a quello sulla produttività: è ragionevole pensare che la stagnazione della produttività italiana sia strettamente correlata alla dimensione e alla composizione della struttura industriale e alla sua sempre minore capacità di produrre crescita (si vedano i dati sull’andamento del Pil esposti all’inizio di queste note). Come ricordava Banca d’Italia nel settembre 2012, “Tra il 2000 e il 2007 il PIL per ora lavorata ha ristagnato in Italia, mentre è cresciuto a un tasso medio annuo dell’1,4 per cento in Francia e in Germania. La produttività totale dei fattori, un indicatore che approssima le capacità tecnologiche e organizzative di un sistema produttivo, è addirittura arretrata in Italia (-0,4 per cento all’anno), mentre è aumentata di poco meno dell’1 per cento in media all’anno in Francia e in Germania. Nonostante la modesta dinamica delle retribuzioni negli ultimi quindici anni, la divaricazione della dinamica della produttività italiana rispetto a quella di Francia e Germania è stata tale da generare una significativa perdita di competitività rispetto ai principali paesi dell’area dell’euro, come indicato dall’andamento del costo del lavoro per unità di prodotto”. E ancora, intrecciando il tema della produttività con quello della dimensione e della composizione del tessuto d’impresa e del nodo assetti proprietari/finanza, “Nei paesi in cui la dimensione aziendale è inferiore il tasso di crescita della produttività è più basso a causa delle maggiori difficoltà delle imprese di piccola dimensione a sostenere gli elevati costi fissi della R&S. […] Le innovazioni di tipo incrementale che paiono più alla portata delle piccole e medie imprese italiane si caratterizzano per un approccio informale e quindi poco trasparente che accentua le asimmetrie informative e limita la disponibilità o aumenta il costo dei finanziamenti esterni “. Studi effettuati su un campione di imprese manifatturiere italiane “ confermano che la dimensione di impresa è positivamente correlata all’ammontare della spesa in R&S, quindi alla capacità innovativa e infine alla produttività”. Torniamo ai dati ISTAT sulla distribuzione delle imprese manifatturiere italiane nelle varie classi dimensionali. Nel 2009 risultava anche che:  Nelle imprese con oltre 250 addetti la retribuzione annua media lorda per dipendente era di 31.300 Euro, contro i 18.200 delle imprese fino a 9 addetti, i 20.700 di quelle tra 10 e 19 addetti e un valore medio di 25.300 Euro.  Nelle imprese con oltre 250 addetti l’orario annuo medio effettivamente lavorato era di 1540 ore, a fronte di 1672 ore nelle imprese fino a 9 addetti e a 1665 in quelle tra i 10 e i 19 e un dato medio di 1617. Alla luce di tutto questo la lettura della mancata produttività sostenuta in questi ultimi anni dai settori egemoni nel mondo politico e del capitalismo pare del tutto ideologica: la necessità di abbassare i livelli salariali (deroghe peggiorative ai contratti nazionali) e allungare gli orari di lavoro come strumenti per conseguire recuperi di produttività non trova riscontro nei dati disponibili e nelle dinamiche dell’economia reale. Al contrario la stagnazione della produttività è dovuta alla presenza “sovrabbondante” rispetto ad altri paesi di settori di piccola impresa in cui, già ora, gli orari di lavoro sono più lunghi e i livelli salariali più bassi della media (fermo restando che anche un intervento penalizzante su quelle variabili non potrebbe colmare il divario con i paesi in cui i costi del lavoro e di produzione sono inferiori ai nostri). Mettere al centro del ragionamento l’offerta di lavoro (i lavoratori) e non entrare nel merito delle molte questioni qui sommariamente riportate riguardanti la domanda di lavoro (il tessuto produttivo) è classico di un impianto analitico liberista. Si assume per “ottima” la dotazione produttiva e si interviene prevalentemente, quando non esclusivamente, con “aggiustamenti” dal lato dell’offerta. Va aggiunto che nel dibattito sviluppatosi in questi anni è stata egemone l’idea per cui la contrattazione aziendale dovrebbe sostanzialmente “produrre” o meglio determinare gli aumenti di produttività. A questa concezione sono stati legati i provvedimenti di detassazione dei Premi di risultato variabili, delle maggiorazioni e delle indennità legate a turnistiche che ampliano l’orario di funzionamento degli impianti industriali. Tali agevolazioni sono state presentate come incentivi all’aumento della produttività. Così come del resto la vulgata sulla diffusione della contrattazione aziendale a scapito del contratto nazionale. Un’impostazione di questo tipo è l’opposto delle dinamiche reali. Nel nostro modello negoziale la contrattazione aziendale è uno strumento con cui si redistribuisce (o si tenta di redistribuire) ai lavoratori sotto forma di salario aggiuntivo parte degli aumenti di produttività conseguiti dalle imprese anche grazie a modifiche organizzative che hanno implicazioni sulla loro prestazione. L’obiettivo di un’organizzazione sindacale è anche quello di riuscire a redistribuire salarialmente gli aumenti della produttività, quindi è auspicabile una maggior diffusione della contrattazione decentrata per poter meglio aderire alle dinamiche all’interno dell’impresa (ce lo hanno insegnato gli elettromeccanici e la FIOM milanesi fin dal 1960). Al di là della volontà delle parti (la nostra di estendere, quella delle aziende di ridurre), una valutazione realista, fatta sulla base dei dati e delle considerazioni sullo stato del nostro sistema industriale, lascia poco spazio all’estensione della contrattazione decentrata anche al termine della fase più acuta della crisi che stiamo attraversando. In ogni caso, e cioè se il tema è la produttività, si tratterebbe di una contrattazione integrativa, che cioè “aggiunge” salario e non lo riduce introducendo deroghe ai minimi contrattuali, come è stato teorizzato da molti commentatori e introdotto in normative di legge dall’ultimo governo Berlusconi. In materia di produttività e delle sue determinanti, e per fare giustizia dei capovolgimenti sopra illustrati, vale la pena di ricordare la lezione di Paolo Sylos Labini (Lionello Tronti, Crescita, produttività e distribuzione del reddito, 2010) secondo cui l’andamento della produttività è determinato da questi fattori:  L’estensione del/i mercato/i con cui ci si misura. Un mercato che non si espande non mobilita le risorse necessarie per gli investimenti da cui può derivare l’aumento della produttività. Da anni in Italia le spinte all’aumento della produttività che potevano provenire dal mercato sono state scarse. Abbiamo visto come il Pil sia tendenzialmente stagnante fin dal decennio ‘90 con tutte le sue componenti principali in discesa: dalla seconda metà degli anni Novanta la perdita di quote di mercato sull’export, dall’inizio del decennio 2000 la contrazione dei consumi interni e degli investimenti.  L’aumento del costo del lavoro in rapporto al costo degli altri fattori di produzione e al costo del prodotto, che può incentivare la sostituzione del lavoro con innovazioni di processo finalizzate alla riduzione dei costi e alle economie di scala (ma ci deve essere il mercato di sbocco). Su questo dalla fine degli anni ‘80/primi anni ‘90 siamo in una situazione di riduzione dell’aumento del costo del lavoro rispetto all’aumento del prezzo di macchinari e impianti, con un sostanziale pareggio delle dinamiche di crescita dopo il 2000.  Gli investimenti fatti negli anni precedenti, che influenzano i livelli di capacità produttiva e di produttività correnti. Dal 2000 in poi si è verificato in Italia un rallentamento negli investimenti, con una fase di ulteriore crollo in corrispondenza della crisi a partire dal 2008. Poiché sono anche gli investimenti fatti in precedenza a determinare il livelli di produttività, non paiono esserci spazi di crescita per il futuro prossimo. La lettura di Sylos Labini permette di uscire dalla vulgata della produttività frutto di scelte contrattuali e di comportamenti dei lavoratori, la riporta in una dimensione di relazione con le caratteristiche del tessuto produttivo su cui ci siamo soffermati. E con le politiche, tra cui l’aumento del reddito dei lavoratori come spinta all’aumento della domanda, degli investimenti e anche della produttività, che dovrebbero essere fatte per promuovere la crescita economica e la riorganizzazione del sistema produttivo. Alcune osservazioni sul reddito da lavoro e la disuguaglianza Non c’è dubbio che, con buona approssimazione, le dimensioni macro sopra esposte siano visibili “a occhio nudo” all’interno delle imprese, a cominciare dai livelli salariali che, nella mia esperienza, seguono (più che determinare) la capacità competitiva/innovativa, la dimensione del valore aggiunto prodotto nell’impresa e quindi i livelli di produttività. Non a caso, per restare alla mia esperienza personale, abbiamo livelli professionali e salariali mediamente molto più alti nelle imprese del settore aeronautico, della meccanica strumentale e della meccatronica rispetto a quelle che operano come subfornitrici occupando ristretti segmenti della catena del valore. Oltre a tutte le voci salariali e non salariali, alle indennità legate alla professionalità e all’orario e a livelli di inquadramento che superano abbondantemente verso l’alto le normative nazionali, AgustaWestland ha un Premio di risultato di 3800 euro annui, AleniaAermacchi di 3300. Conosco molte imprese della meccanica strumentale in cui sono stati negoziati Premi di risultato e altre voci di salario aziendale che annualmente hanno valori complessivi di 4-5-6.000 euro a lavoratore (a cui si aggiungono erogazioni salariali discrezionali non contrattate). Al di là della crisi degli ultimi anni è impensabile trovare qualcosa di simile nelle aziende più piccole e “periferiche”. Il riferimento ad AgustaWestland e AleniaAermacchi è utile per ribadire lo stretto collegamento tra profilo innovativo dell’impresa, valore aggiunto, livelli salariali e occupazionali. Secondo lo studio di Prometeia e Oxford Economics su Finmeccanica (di cui fanno parte le due aziende sopra citate) il gruppo ha investito in ricerca e sviluppo 1,3 miliardi di Euro nel 2012 (circa il 12% del fatturato rispetto all’1,2% sul Pil investito a livello nazionale). Il valore aggiunto per addetto prodotto da Finmeccanica nel 2012 è di 83.500 Euro nel 2012, secondo solo a quello del comparto farmaceutico che è di 101.700 Euro e ben al di sopra dei 73.400 Euro dell’elettronica, dei 67.000 della chimica e dei 62.100 della meccanica strumentale. Non solo, dall’analisi risulta anche l’effetto traino che i settori ad alta tecnologia hanno sull’insieme del sistema sia dal punto di vista del valore, “ogni Euro di valore aggiunto creato da Finmeccanica in Italia genera ulteriori 1,6 Euro nell’economia italiana” e “ogni occupato del gruppo Finmeccanica sostiene altri 2,1 posti di lavoro” (dal Sole 24 Ore del 28 novembre 2013) Sulla base della mia esperienza quindi, le posizioni sindacali che tendono a determinare i livelli salariali come una funzione di regole contrattuali sono sganciate dalla realtà. Possono essere utilizzate come elemento di agitazione in una chiave “volontaristica” da sempre presente nel movimento dei lavoratori ma che oggi mi pare anacronistica a fronte della caduta della partecipazione politica e del crescente disorientamento di masse crescenti di lavoratori. Ricordo ad esempio la lunga polemica sul valore e sulle conseguenze dell’accordo del 23 luglio 1993 sulla politica dei redditi e sugli assetti della contrattazione. Le regole contrattuali hanno ovviamente la loro importanza, ma la caduta della quota dei redditi da lavoro verificatasi in Italia negli ultimi anni mi pare soprattutto un prodotto:  Dei fattori di crisi sistemica dell’industria italiana sopra elencati, tra i quali spicca l’incapacità di generare aumenti di produttività, che impongono più bassi livelli “di compatibilità” alla contrattazione; e altresì della precarizzazione del mercato del lavoro (anche questa connessa alla crisi strutturale e usata sia come strumento di abbattimento dei costi per le imprese, sia come fattore di redistribuzione interstiziale del lavoro a fronte della crescente difficoltà del sistema a produrre piena e buona occupazione).  Delle tendenze internazionali alla rilocalizzazione produttiva e dello spostamento del baricentro economico globale, all’interno delle quali sta il caso italiano, provocate dalla globalizzazione economica e finanziaria e dalla “terza rivoluzione industriale” per iniziativa del grande capitale e sotto l’egemonia del modello neoliberista. Non a caso la caduta della quota dei redditi da lavoro sul Pil è un fenomeno che riguarda l’Italia ma anche gli altri paesi avanzati come USA, Giappone e Francia (con l’eccezione del Regno Unito). In un articolo dell’agosto 2010 su lavoce.info, Francesco Pastore presenta i dati a partire dal 1970: la quota di redditi dal lavoro nel nostro paese rimane abbastanza stabile, su valori prossimi al 70% e con alcuni aggiustamenti congiunturali, fino al 1990 quando inizia a scendere per attestarsi a valori di poco inferiori al 60%. Si tratta di un calo di una decina di punti percentuali che si verifica anche negli altri paesi sopra ricordati. Il tema si riaggancia alla conclusione del paragrafo precedente, e cioè alla spinta positiva che il miglioramento del reddito da lavoro potrebbe esercitare sull’andamento economico complessivo e anche sull’andamento della produttività. Penso vada prestata attenzione ad alcune battaglie politiche in corso in altri paesi. Negli Stati Uniti Obama ha posto il tema di un aumento del salario minimo legale a circa 10 dollari l’ora. In Germania la SPD sta negoziando la partecipazione alla Grande Coalizione ponendo come condizione un salario orario minimo legale pari a 8,5 euro. Possono sembrare notizie slegate dal nostro contesto. Non lo sono. Innanzitutto segnalano l’importanza di poter avere degli strumenti come il contratto nazionale che offrono una vasta percentuale di copertura. In Italia abbiamo i contratti nazionali. Negli Usa non ci sono. In Germania esistono contratti regionali che hanno visto ridursi la loro copertura per la fuoriuscita di imprese dalle organizzazioni di rappresentanza (chi non è associato non applica il contratto) e per la precarizzazione del mercato del lavoro, con i nuovi rapporti di lavoro (i cosiddetti minijob, i contratti interinali) a cui non si applicano le norme contrattuali. Ritengo che queste tendenze in paesi così importanti debbano farci riflettere: da un lato il contratto nazionale va difeso; dall’altro bisogna trovare il modo di estendere i suoi livelli di tutela salariale ai lavoratori che oggi non sono coperti e che operano con contratti precari. Più che estendere il decentramento contrattuale, una vera chimera nelle attuali condizioni dell’industria italiana, sarebbe utile concentrarsi su questo tema. Resta un ultimo tema che è connesso a quanto emerso sopra, quello della diseguaglianza nella distribuzione del reddito nel nostro Paese. Per misurare il livello di disuguaglianza si usa l’indice Gini, che può oscillare tra un valore minimo di 0 e massimo di 1. A un valore di 0 corrisponderebbe una situazione teorica in cui il reddito è distribuito in modo equivalente tra tutti i cittadini. A un valore di 1 corrisponderebbe invece una situazione in cui tutto il reddito sarebbe corrisposto a una sola persona escludendo tutti gli altri cittadini. Uno scostamento di centesimi di punto registra differenze anche rilevanti. Se utilizziamo come misuratore l’indice Gini stimato dalla Ue (i dati sono riportati sul Sole 24 Ore del 24 giugno 2013) l’Italia, con un valore di 0,34, si colloca in ambito europeo, tra i paesi con una disuguaglianza abbastanza alta. Vi è un gruppo di paesi del centro Europa (Germania, Francia, Austria, Belgio e Lussemburgo) che hanno valori oscillanti tra 0,26 e 0,30. Un secondo gruppo di Paesi, fondamentalmente quelli scandinavi, che hanno valori crescenti ma che restano su livelli inferiori di disuguaglianza (rispetto agli anni ‘80 un aumento da valori attorno allo 0,20 a valori attorno allo 0,25 circa). Un terzo gruppo, in cui si trovano USA, Regno Unito e Australia, in cui i livelli di disuguaglianza sono più elevati (gravitando su valori tra quelli italiani e lo 0,38 degli USA). Prima di entrare nel merito del caso italiano è utile un riferimento generale. Negli ultimi decenni, nell’ambito di un’egemonia culturale e politica neoliberista, spesso abbiamo assistito a un discorso che contrapponeva la crescita alla redistribuzione della ricchezza: per creare ricchezza sarebbe stato necessario “rinunciare” alla uguaglianza nella redistribuzione. Su quest’ultima, si sarebbe dovuti intervenire in un secondo, imprecisato, momento. Spiegare la crisi di questi anni solo con l’aumento delle disuguaglianze pare riduttivo e semplicistico (non si capirebbe il senso di quanto scritto fino a ora, tra l’altro) ma è sicuro che il luogo comune neoliberista per cui una maggior uguaglianza nella redistribuzione della ricchezza contrasta con la crescita economica viene smentito incrociando i dati dell’indice Gini con quello dell’andamento del Pil. Nel novembre 2011 su l’Unità, Nicola Cacace scriveva a proposito “dal coefficiente Gini […] Stati Uniti e Italia risultano, con Gran Bretagna e Grecia, i paesi industriali a più alta disuguaglianza (indice Gini superiore a 0,3) mentre Germania e i paesi del nord Europa, Danimarca, Olanda, Svezia, Norvegia e Finlandia, sono i paesi a più alta eguaglianza sociale (indice Gini inferiore a 0,3). Mentre nella classifica della Banca Mondiale dei 50 maggiori Paesi più ricchi per Pil pro capite troviamo ai primi posti i paesi a più alta eguaglianza: Norvegia, Danimarca, Svezia, Finlandia, Olanda, Germania”. Il caso italiano è interessante. Dai dati OCSE sull’andamento dell’indice Gini risulta che la disuguaglianza nel nostro paese è sostanzialmente stabile dalla metà degli anni novanta a oggi, mentre ha conosciuto un’impennata nei primi anni novanta in corrispondenza con una fase di contrazione dell’economia (l’indice Gini passa da 0,31 di metà anni ‘80 allo 0,35 di metà decennio successivo). Questa lettura è confermata nel 2009 da Andrea Brandolini, studioso di Banca d’Italia che individua un’evoluzione di questo tipo “nel 1969 si avviò con l’autunno caldo una fase ‘egualitaria’ che si concluse nei primi anni ottanta”. All’inizio dei quali “queste spinte si affievolirono e si avviò una fase in cui la distribuzione dei redditi tese ad ampliarsi; ciò avvenne soprattutto durante la grave crisi economica del 1992-93” quando le diseguaglianze “crebbero fortemente riportandosi ai livelli del 1980. Da allora non è emersa alcuna netta tendenza verso un allargamento della disparità di reddito”. In realtà il quadro è più complesso e articolato. Dagli anni ‘90 a oggi sono cambiate le condizioni dei singoli gruppi sociali, con dati parziali che divergono a seconda della tipologia professionale, della condizione occupazionale, famigliare e territoriale. Su questo l’analisi di Brandolini viene sostanzialmente confermata da Carlo Florio, Marco Leonardi e Francesco Scervini dell’Università di Milano. Da questi lavori, e citando i dati di Banca d’Italia riportati da Brandolini, possiamo individuare alcune tendenze: • tra il 1993 e il 2006 aumenta l’incidenza delle persone a basso reddito tra gli operai (dal 27 al 31%), gli impiegati (dal 6,7 all’8,1%) e tra i non occupati (dal 70 al 76,7%); mentre cala fortemente tra i lavoratori autonomi (dal 24,8 al 13,7%). Ciò si traduce nel fatto che, sul totale delle persone a basso reddito, gli operai passano dal 31,6 al 37,6%, i non occupati dal 7,4 al 10,1% e gli impiegati dal 8,6 al 10%; mentre gli autonomi calano fortemente dal 23,4 al 12,6%. • osservando il periodo 2000-2006, risulta che l’incidenza delle persone a basso reddito è molto diversa a seconda della tipologia dei rapporti di lavoro. Nelle famiglie che hanno esclusivamente rapporti di lavoro tradizionali, l’incidenza della persone a basso reddito oscilla tra il 15,2 e il 18,8%. In quelle in cui gli impieghi sono esclusivamente “atipici” (intese come a termine, interinali, collaborazioni coordinate e continuative e a progetto e a tempo parziale), l’incidenza delle persone con basso reddito si muove tra il 44,6% e il 47,6%). Nelle famiglie in cui sono presenti redditi da pensione invece, il livello delle persone a basso reddito si colloca tra il 22% e il 25%. • Al livello di reddito va aggiunta una misurazione della condizione “patrimoniale” delle persone in modo da articolare il concetto di “povertà”, che è statico e misura il livello di reddito nel momento della rilevazione, con quello di “vulnerabilità”, che è “dinamico” perché stima, in prospettiva, l’esposizione al rischio povertà dei soggetti. La vulnerabilità si può manifestare quando il valore dei patrimoni posseduti è insufficiente, in mancanza di altre entrate, a garantire un livello di vita accettabile (la attività liquide sono quelle immediatamente disponibili per fronteggiare fasi di emergenza). Ebbene, dai dati di Banca d’Italia emerge che “quasi il 40 per cento degli individui ha attività liquide insufficienti, da sole, a sostentarli al livello della soglia di povertà per almeno tre mesi. Il 16 per cento delle persone non solo si trova in questa condizione, ma ha anche un basso livello di reddito. […] Tali valori segnalano che una parte significativa della popolazione italiana è povera in termini sia di reddito sia di risorse patrimoniali” Si possono trarre alcune considerazioni da questi dati. Pur mantenendosi stabili i livelli di disuguaglianza generale, la distribuzione del reddito si è spostata “orizzontalmente” penalizzando il lavoro operaio e dipendente e favorendo quello autonomo. Si può ipotizzare che gli effetti negativi su operai e dipendenti siano connessi ai fattori che abbiamo prima indicato e che hanno portato a una calo della quota dei redditi da lavoro sul Pil. Al contrario si può ipotizzare che l’evoluzione positiva conosciuta dai lavoratori autonomi sia avvenuta perché questi, in molti casi, occupano posizioni interstiziali in cui godono di rendite di posizione e sono meno esposti alle dinamiche di mercato e della globalizzazione (questa tendenza va comunque verificata dopo l’esplosione della grande crisi nel 2008). E’ inoltre evidente il collegamento tra lavoro non a tempo indeterminato e crescenti livelli di povertà: da un lato, come già detto, questi rapporti di lavoro sono legati spesso alla scarsa qualità della domanda (basso valore aggiunto, bassa produttività, incapacità di creare occupazione ben retribuita e stabile, come emerge dai dati sopra esposti); dall’altro sono proprio questi rapporti di lavoro quelli meno tutelati dal sistema di contrattazione e da quello di welfare, degli ammortizzatori sociali e del sostegno al reddito. E’ su questo ultimo punto che vale la pena concludere il ragionamento. In un rapporto sulle crescenti disuguaglianze del 2011, nel paragrafo dedicato all’Italia, l’Ocse stimava che: “le imposte sui redditi e i sussidi sociali hanno un ruolo importante nella redistribuzione del reddito in Italia riducendo la disuguaglianza di circa il 30% - la media Ocse è un quarto” e “in Italia sanità, istruzione e servizi pubblici destinati alla salute contribuiscono a ridurre di circa un quinto la disuguaglianza di reddito. Gli stessi contribuivano ”a una riduzione della disuguaglianza pari a circa un quarto nel 2000. La spesa sociale in Italia è basata prevalentemente su trasferimenti pubblici, come ad esempio i sussidi di disoccupazione, piuttosto che dai servizi”. Dall’elaborazione dell’Ocse emerge il ruolo primario dei servizi pubblici e del welfare nella redistribuzione del reddito. Non solo, la considerazione per cui il nostro stato sociale è fondato soprattutto su trasferimenti economici piuttosto che su servizi induce un’ulteriore considerazione: i più penalizzati, ancora una volta, risultano essere i precari, che sono esclusi in gran parte dal sistema degli ammortizzatori sociali e del sostegno al reddito (e qui torniamo ai dati sopra esposti e contenuti nel lavoro di Brandolini). Proprio la documentata importanza dei sistemi di welfare e dei servizi pubblici nel combattere diseguaglianza e povertà ci porta a concludere con alcune considerazioni avanzate poche settimane fa da Stefano Fassina che smonta l’attacco liberista alla “spesa pubblica fuori controllo” e ne svela strumentalità e il carattere di classe. Scrive Fassina che “la spesa pubblica corrente, primaria, pro-capite dell’Italia (spesa totale, senza spesa in conto capitale e senza spesa per interessi sul debito) è tra le più basse dell’Unione Europea (dati deflazionati al Pil, anno base 2005: 9.624 euro a residente vs 12.062 della Germania, 13.840 euro della Francia, 10.928 del Regno Unito), con minore tasso di crescita rispetto agli altri, anzi da tre anni in riduzione in termini reali e nominali (si veda G. Pisauro, Rapporto di Finanza Pubblica, Il Mulino 2013)”. Risulta inoltre che la nostra spesa pubblica sanitaria pro-capite è “non soltanto tra le più basse dell'Unione europea (1.729 euro vs 2.111 della Germania, 2.292 della Francia e 1.940 del Regno Unito), ma stabilizzata e in riduzione, nonostante l'impennata di ultra-sessantacinquenni, quando per gli altri partner europei gli aumenti sono cospicui”. E che, nella spesa pubblica per la scuola, “siamo ultimi (996 euro vs 1.276 per la Germania, 1.679 per la Francia, 1.576 per il Regno Unito), lungo un trend di chiara contrazione”. E pertanto, alla luce dei dati forniti da importanti istituzioni come Banca d’Italia, Osce e Ue e che sopra abbiamo presentato, è ragionevole concludere, con le parole di Fassina, che “Al di la degli effetti sociali devastanti, minore spesa pubblica, data la situazione dell'Italia, vuol dire minor potere d'acquisto delle famiglie e minori fatturati delle imprese. Quindi, minori consumi e minori investimenti. Quanti continuano a insistere sugli effetti espansivi dello scambio minori spese-minori tasse dovrebbero sapere che il moltiplicatore della spesa è molto superiore al moltiplicatore delle imposte, soprattutto in una fase recessiva, segnata dalle difficoltà di accesso al credito: secondo una recente ricerca dell'IMF sui G7 (Baum, A. Poplawski-Ribeiro, M. e Weber, A. […]) un taglio di spesa di 1 euro ha un impatto recessivo di 1,34 euro, mentre una riduzione di imposte di un euro implica un effetto espansivo di 0,35 euro. In sintesi, un taglio di spesa accompagnato da una corrispondente riduzione di tasse determina un effetto recessivo di pari importo. In altri termini, continuare a affrontare i problemi secondo il paradigma neo-liberista significa aggravarli”. Pare quindi di poter concludere richiamando alla necessità di un’azione complessiva volta alla crescita economica. Le caratteristiche del tessuto industriale rendono improbabile una sua capacità endogena di riposizionamento sistemico a più alti livelli di competitività. E’ ragionevole pensare che solo un insieme di politiche pubbliche (fiscali, infrastrutturali, della ricerca) e industriali (uno sforzo per favorire, alcune proposte le abbiamo avanzate, la crescita finanziaria e l’evoluzione delle imprese) possano favorire il riposizionamento competitivo della nostra industria, il ritorno a una crescita dei tassi di produttività e quindi alla possibilità di un aumento dei redditi, della quantità e della qualità dell’occupazione. Di fronte a questo scenario, appare patetico il permanere nel Paese di un forte senso comune nazionalista. Molte delle politiche e delle scelte che sembrano necessarie sono attuabili muovendosi in un ambito europeo o comunque, anche per la parte che può restare a livello nazionale, mettendo in discussione, a quel livello sovranazionale, la politica economica di austerità che ha aggravato la crisi sociale successiva al 2008, alimentato populismi e nazionalismi che rischiano di far regredire l’intero continente. Si ringraziano Simone Dragone per il confronto sviluppato durante la stesura e per i consigli e le indicazioni di lavoro, soprattutto per la parte riguardante la finanza, Manuela e Bruno Cartosio per la revisione del testo. MATERIALI UTILIZZATI Banca d’Italia, a cura di M. Bugamelli, L. Cannari, F. Lotti e S. Magri, Il gap innovativo del sistema produttivo italiano: radici e possibili rimedi, aprile 2012. Bellone Enrico, La scienza negata. Il caso Italiano, Codice Edizioni, Torino, 2005. Bisazza Barbara, Distribuzione dei redditi, Italia seconda in Europa per disparità, Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2013. Bocciarelli Rossella, Investitori esteri interessati a Btp e Bot Brandolini Andrea, L’evoluzione recente della distribuzione del reddito in Italia, Brandolini A. Saraceno C. e Schizzerotto A., Dimensione della disuguaglianza in Italia: povertà, salute, abitazione, Il Mulino, Bologna, 2009. Cacace Nicola, Ridurre le diseguaglianze per risanare il Paese, l’Unità, 30 novembre 2011. 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