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giovedì 29 settembre 2016
Janiki Cingoli: Ricordando Shimon Peres
Ricordando Shimon Peres
di Janiki Cingoli, Direttore CIPMO
Ho conosciuto Shimon Peres per la prima volta nel 1986: accompagnavo Giorgio Napolitano, allora responsabile Esteri del PCI, nella sua prima missione in Israele e Palestina, che avevo organizzato per lui.
L’incontro avvenne nel suo ufficio, a Gerusalemme, e si svolse in un momento delicato: pochi giorni prima vi era stato il terribile attentato alla Stazione delle Corriere, a Tel Aviv, e ci aspettavamo un clima teso. Invece ci fu solo un accenno all’argomento, del genere loro ci hanno colpito, noi abbiamo risposto. As usual. Si sarebbe potuto dire.
Il focus della discussione, che spaziò ovviamente su tutta la situazione e sugli spiragli di pace che già Peres intravvedeva, fu la questione dei rapporti tra Israele e Russia, congelati dopo la Guerra dei Sei Giorni del ‘67. Peres chiedeva che il PCI si facesse tramite con l’URSS per la ripresa dei rapporti, sostenendo che quel grande paese poteva giocare un ruolo importante di ponte, anche rispetto ai palestinesi. Gorbaciov era stato eletto da un anno, e le speranze del mondo erano puntate su di lui.
Napolitano prese buona nota, e poco tempo dopo il suo rientro, durante una missione in Russia, informò i dirigenti del PCUS ai massimi livelli del messaggio di Peres. Questo contribuì sicuramente alla ripresa dei contatti tra i due paesi, fino alla ripresa dei rapporti diplomatici annunciata ufficialmente nel 1990.
Ho avuto poi occasione di incontrare Peres nuovamente nel corso della missione del Sindaco Albertini, nel 2006, che toccò Giordania, Israele e Palestina, e che servì a rinsaldare i rapporti di Milano con tutta l’area.
Ma il momento più emozionante a cui mi è stato dato di assistere fu quello del congresso del Partito Laburista, nel 1992, in cui Peres si confrontò con Rabin per la leadership, e fu sconfitto.
In realtà Peres era l’uomo che immaginava la pace ma solo Rabin era in grado di realizzarla, aveva il sufficiente legame con il suo popolo e con le Forze armate del paese. Fu lui che strinse la mano ad Arafat, sul prato della Casa Bianca, e cercò di portare avanti la pace, affrontando non solo le sfide dell’estremismo palestinese e le provocazioni del terrorismo, ma anche le fortissime resistenze dentro il suo stesso paese: per questo fu ucciso.
Il premio Nobel per la pace andò ad entrambi i due leader israeliani, ma privo di Rabin Peres non fu in grado di andare avanti sulla sua via, e perse le elezioni, cedendo il Governo a Netanyahu. In realtà Peres, come Gorbaciov, era più amato all’estero che in Israele, e non riuscì mai a vincere un confronto elettorale.
Questo non toglie che la sua visione di un BENELUX del Medio Oriente, ISPhAlUr (Israele, Palestina e Urdun, il nome arabo della Giordania) come lo chiamava lui, da inserire in una comunità del Medio Oriente sul modello della Unione Europea, è stata una visione che ha a lungo attirato l’attenzione degli studiosi e degli esperti e ha fatto sognare gli uomini di pace di tutto il mondo.
Il suo progetto di un canale tra il Mar Rosso e il Mar Morto, da lui perseguito fino all’ultimo, è sicuramente un grande progetto, anche se ha suscitato grandi polemiche fra gli ambientalisti.
Uomo di pace, non era un uomo imbelle. Suo fu il progetto che portò Israele a munirsi dell’arma atomica, come deterrente ultimo contro il mondo arabo ostile che lo circondava.
La sua elezione a Presidente di Israele, nel 2007, segnò una sorta di riconciliazione con il suo paese, che si riunì intorno a lui. In tutti quegli anni, fino al 2014, e anche dopo la fine del mandato, si è adoperato in ogni modo per tenere aperti i contatti con la leadership palestinese e con il Presidente Mahmoud Abbas, cercando di temperare l’intransigenza di Netanyahu, di elaborare ipotesi e progetti di pace innovativi e percorribili: iniziative sempre puntualmente stoppate dal Premier israeliano.
Con lui muore un Padre Fondatore di Israele, forse l’ultima delle grandi figure che hanno creato Israele. Il vuoto che lascia è grande, non si vedono nel paese nuovi leader che siano in grado di raccoglierne l’eredità.
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