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martedì 21 giugno 2016
Paolo Bagnoli: Vocazione maggioritaria e vocazione alla sconfitta
vocazione maggioritaria
e vocazione alla sconfitta
paolo bagnoli
Da Critica liberale
È una vecchia norma che in politica non è salutare stare da soli. Infatti, per
sviluppare iniziative che portino a conclusioni positive, occorre avere degli alleati; ciò non
significa necessariamente formare delle coalizioni se i numeri lo consentono, quanto
instaurare rapporti di confronto democratico. Essere, cioè, aperti alle espressioni politiche
e sociali della democrazia. Se così non è, si inducono gli avversari dei più opposti fronti a
coalizzarsi per scalzare chi, con fare dominante, si ritiene nell’autosufficienza della
rappresentanza e della democrazia.
Nel caso italiano quanto sta avvenendo è oramai un qualcosa di più, visto il
comportamento del presidente del consiglio, strafottente verso gli avversari interni ed
esterni e oramai immerso – dimostrando ben poca originalità - nella sindrome del
complotto tanto da identificare se stesso con i destini del Paese. Megalomania?
Sicuramente, ma ancor di più il sintomo di una distorsione strutturale della democrazia
italiana di cui la prospettata riforma istituzionale ne è il riflesso. Essa oramai si è ridotta a
una semplice operazione per mandare a casa – sono parole di Matteo Renzi – “un politico
su tre” - per creare una classe politica, come ha detto qualche settimana orsono
incontrando alcuni studenti milanesi, «che smetta di sparare addosso al Paese, perché se
non ami il tuo Paese non sei credibile». E siccome il Paese è lui e solo lui, ne consegue che
bisogna mandare a casa chi lo critica. Chiaro che il referendum si sia ridotto a un problema
che riguarda non il Paese e la sua Costituzione, quanto se esso si piega a lui. Per la
proprietà transitiva, se ami il Paese non puoi che amare lui e, di conseguenza, non puoi
votargli contro. Si tratta di un plebiscito, come giustamente è stato detto; se lo vincerà lo
interpreterà come il diritto di appropriazione dell’Italia; la legge elettorale ne è lo
strumento. E nella speranza che il referendum costituzionale gli vada bene, visto
l’andamento delle amministrative, ha promesso, nel frattempo, di cambiare il proprio
partito avendolo fino ad oggi un po’ trascurato. Un modo come un altro per gettare la colpa
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delle cose che non vanno su altri che, probabilmente, non lo amano come lui desidererebbe
e, quindi, non amano neppure il Paese al quale rende così un nuovo positivo servizio.
Tra quanto farà, ne siamo sicuri, nel Partito per tacitare anche ogni singolo sospiro
che spossa suonare come critica nei suoi confronti e quanto farà nel Paese, se gli italiani
glielo permetteranno, esiste un filo solido di continuità e anche di coerenza perché questa
concezione, che egli interpreta in maniera un po’ istrionesca e un po’ con molta arroganza,
ha la sua motivazione in quella stessa del Pd: vale a dire, nell’aver concepito un soggetto a
“vocazione maggioritaria.” Tale formula non significa cercare di fare un partito che abbia la
maggioranza – la Dc l’ha avuta per mezzo secolo e, pur rappresentando tante vocazioni,
non ha mai dichiarato di averne una simile – bensì che essa deve, a costo di stravolgere la
Costituzione della Repubblica e la regole della politica democratica, realizzarsi come
imperante per giustificare se stessa. Se il problema fosse stato davvero di ridurre i
parlamentari, si poteva benissimo fare una modifica che cambiasse, restringendoli, i
numeri di Camera e Senato senza abolire quest’ultimo. Ma tale operazione non avrebbe
garantito l’attuarsi della “vocazione” e non avrebbe evidenziato che il leader del partito
maggiore ha quasi l’obbligo di imporre una logica maggioritaria. Altro che costruire una
classe dirigente nuova che ami l’Italia! E poi, sinceramente, non si comprende cosa c’entri
una riforma di questo tipo con la ripresa dell’economia che, nonostante gli annunci
tonitruanti, non segna né ripresa né sviluppo. Quale sia il nesso logico non si capisce e,
infatti, a ben vedere, tra le tante bugie che siamo costretti giornalmente a subire, nessuno
su questo piano ha cercato nemmeno di spiegare il nesso.
La concezione del “partito a vocazione maggioritaria” è di Walter Veltroni il quale
afferma anche, qualche volta, di non essere nemmeno stato comunista. Essa, tuttavia, a
ben vedere è propria della cultura comunista perché i vecchi partiti comunisti, forti della
loro genetica funzione egemonica, dovevano essere pure maggioritari. Intendiamoci: il
mondo è cambiato e un partito sbrindellato come il Pd non assomiglia nemmeno
lontanamente alle vecchie formazioni comuniste militarizzate nell’ideologia della propria
funzione e del proprio ruolo. Tuttavia, sul piano delle assonanze culturali, poiché le idee
non sono mai orfane, la concezione della verticalizzazione della democrazia – nei regimi
comunisti era, beninteso, definita popolare - non è certo frutto di una gravidanza
eterologa, bensì il prodotto di un disegno in house che non sarebbe passato se non avesse
trovato spinte e coperture autorevoli da chi, invece, ci saremmo aspettati prudenza e
garanzia. D’altra parte, come sosteneva Linneo: natura non facit saltus!
Il presidente del consiglio ha, infatti, in questa direzione, fatto quanto non solo non
ha mai fatto nessuno prima di lui, ma riteniamo nemmeno pensato nel 70 anni di vita della
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Repubblica, cambiando, contemporaneamente, la Costituzione e la legge elettorale in un
rapporto di funzionalità reciproca. Non solo, ma a conferma del disegno che persegue, ha
pure detto che la carica di presidente del consiglio non può essere tenuta dalla stessa
persona per due mandati consecutivi. La dichiarazione è come una nota esplicativa a piè di
pagina: si vuole fare dell’Italia un Paese presidenzialista con l’elezione diretta del
presidente del consiglio che, appunto, costituzionalizza così la vocazione maggioritaria;
ossia la ragione del proprio partito. Costruire, cioè ,un sistema simil americano non
tenendo conto - e non mettendo sotto accusa quello vigente negli Stati Uniti - che siamo in
Italia; vale a dire in un contesto storico del tutto diverso e nemmeno paragonabile. Ma
quanto la dichiarazione esprime in maniera addirittura subliminale tramite il richiamo ai
due mandati è che anche in Italia si realizzi quanto si realizza in America nella quale
l’elezione del Presidente significa eleggere il governo poiché il governo è il Presidente tanto
che si parla non di “governo Obama”, bensì dell’amministrazione Obama e ciò è possibile
non solo per l’elezione diretta della massima carica di quel Paese, ma in quanto non c’è un
voto di fiducia del Congresso né sul programma del Presidente né tantomeno sulla
compagine e sull’organizzazione del suo modo di governare. Insomma, negli Stati Uniti, il
Parlamento è forte, ma il sistema non è parlamentare. In Italia è esattamente il contrario: il
Parlamento è debole – e ancor di più lo sarà se la legge elettorale entrerà in vigore
superando le verifiche di costituzionalità – ma il sistema è parlamentare. Se così è ci
saranno delle buone ragioni perché così sia; non solo, ma non abbiamo memoria che nella
storia degli Stati Uniti, della più vecchia democrazia del mondo, ci sia mai stato un
Presidente che ha invocato la vocazione maggioritaria del suo Partito né abbia cercato di
farsi una legge elettorale con questa cifra. Il Presidente e il Congresso sono eletti
separatamente e il gioco democratico è regolato in maniera tale che le due entità
istituzionali siano autonome e costrette, molto spesso, a confrontarsi dialetticamente. Qui,
con la scusa della governabilità, si vuole mettere definitivamente la mordacchia a un
Parlamento che, chi ha concepito la legge approvata, tra nominati e premio di
maggioranza, vuole ai suoi piedi. È il partito a vocazione maggioritaria!
Ecco perché la costruzione mitologica del leader è così accuratamente perseguita da
Matteo Renzi. Visto che non può definirsi “uomo della provvidenza”, tanto meno della
“previdenza” se per andare in pensione occorre fare addirittura un mutuo, Renzi si disegna
quale homo faber fortunae vostrae. Sostiene anche di aver abbassato le tasse. A occhio e
croce, se si considera l’insieme del carico fiscale complessivo che grava su ognuno di noi, ci
sembra che si debba registrare un aumento, Non solo. In una recente intervista a Eugenio
Scalfari ha dichiarato: «In 70 anni nessuno ha fatto meglio di noi». Ma come si può. A
leggere una cosa del genere, pur essendo stati sempre lontani dalla Dc, ci è subito venuto in
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mente con rispetto e considerazione Amintore Fanfani. Egli, infatti, riuscì, con un piano
che passa alla storia con il suo nome, a dare in poco tempo la casa a 350.000 famiglie
italiane. E che dire che l’Autostrada del Sole venne realizzata in soli sei anni mentre le
buche delle strade di Firenze che Renzi aveva promesso di rattoppare, quando era sindaco
della città, in pochi mesi sono ancora tutte là dove lui le ha lasciate? Già, Fanfani: si dirà
che erano altri tempi, ma le chiacchiere sono chiacchiere e i fatti sono i fatti.
Infine un’ultima considerazione. La politologia sta discettando sul cambiamento di
sistema da “bipolare” a “tripolare”. Non crediamo che, al di là di quel che appare oggi, la
situazione stia così poiché lo sgangherato bipolarismo che è seguito alla “Repubblica dei
partiti” ha prodotto un sostanziale e radicato governismo con scomposizioni e annessione
di cui ha tratto vantaggio il maggior partito di governo. La sostituzione della politica con il
governo è destinata a divenire strutturale se le riforme costituzionali saranno approvate e
la legge elettorale rimarrà quella fatta da Renzi. Ciò significa che avremo un sostanziale
unipolarismo; in ogni caso chi si afferma sarà implicitamente il “partito della nazione”. La
verticalizzazione del sistema sarà la natura del sistema medesimo e in luogo di un
confronto dialettico di tipo parlamentare avremo uno Stato nel quale si fa passare per
politica un qualcosa che è solo lotta per il governo. Felici, ça va sans dire, di sbagliarci. Ma
crediamo di no.
Per tornare a una nuova condizione di politica e di politico democratici occorre che
al quesito referendario il disegno renziano venga bocciato e, naturalmente, che la legge
elettorale sia cambiata.
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