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martedì 21 giugno 2016
Franco Astengo: Il senso (difficile) del voto
IL SENSO (DIFFICILE) DEL VOTO di Franco Astengo
L’esito del voto amministrativo svoltosi in Italia, e ancor di più quello dei ballottaggi, ha fornito il senso di un profondo modificarsi, presente anche nel quadro europeo, nel rapporto tra presenza istituzionale, governo,espressioni del conflitto, società.
Un rapporto che rimane fondamentale per definire una capacità di lotta e una proposta, senza cedere (come sta accadendo) a una sorta di mito soreliano, aggiornato attraverso l’esaltazione tramite web del “gesto esemplare” (occupy, sciopero generale, boicottaggio).
E’ l’eterna dannazione della ricerca del “Graal” del contro, della democrazia diretta, del volere di maggioranze informi e spossessate. Una ricerca nel vuoto che per il tramite del voto si trasforma in omologazione, integrazione, internità all’esistente magari mascherata da snobismo collettivo: apparire “fuori” per chiamarsi “dentro”.
Emergono così elementi d’analisi di grande interesse e problematicità:
1) La fragilità dell’orientamento politico di massa messa a nudo dall’egemonia di un“pensiero unico” basato sull’individualismo consumistico e competitivo, la mistificazione offerta dalla presunta assenza di riferimenti ideologici, la mancanza di una qualche capacità di mediazione e di proposta da parte dei soggetti politici. La democrazia senza partiti (una vecchia citazione da Adriano Olivetti) declina nella morta gora della staticità sociale imposta dalla governabilità personalistica. Così non funziona la cosiddetta “democrazia del pubblico” che si attorciglia nel confronto tra autoreferenzialità del potere e mera espressione di un dissenso senza radici e privo di prospettiva e rende puro esercizio di potere la tanto decantata “democrazia governante”;
2) Una società debole composta di recinti corporativi eternamente disconnessi tra loro. Una società ridotta a poltiglia (De Rita, qualche anno fa) che imbonitori da fiera lusingano con le carezze di parole prive di significato reale. Una società che utilizza strumenti di relazione virtuali, nascondendo la complessità delle diverse soggettività culturali triturandoli in spunti separati che, alla fine, provocano soltanto divisione senza costruzione di senso (e di conseguenza di consenso che si ferma a un effimero autoscatto delle foto di gruppo della notte della “vittoria”). Divisioni che generano cattiveria tra generazioni, tra diversità di vario tipo, etniche, di genere, di “status”, verrebbe da dire di “classe” inteso quale termine omnicomprensivo di un insieme di fratture diventate invisibili sotto la coltre della propaganda gridata.
In questa dimensione si sono annichilite le residualità politiche di stampo novecentesco, si sono rese irriconoscibili le grandi contraddizioni sociali, è sparita la politica e diventata impossibile la proiezione nel concreto dei tentativi (anche importanti) di protesta collettiva, senza generare un effettivo antagonismo.
Emerge il cinismo delle forme spurie di possesso del potere esercitato al solo scopo di mostrarsi alla ribalta mediatica e così far sapere di “esistere”.
Non c’è più regolazione delle dinamiche insieme eterne e quotidiane dentro le strutture organizzate, non funzionano più semafori e ascensori della democrazia liberale.
Tutto sembra lasciato alla moltitudine che fa posta di assaltare l’impero senza sapere però dove si trova e come possa essere colpito.
Impero che continua a esercitare il proprio eterno dominio, mentre sulla scena si avvicendano sgomitando i guitti che ne cantano la gloria e le masse assistono cantando impotenti con i singoli stretti nelle loro magliette rosse, azzurre, verdi, tutte uguali.
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