Il Circolo Carlo Rosselli è una realtà associativa presente a Milano sin dal 1981. http://www.circolorossellimilano.org/
domenica 1 maggio 2016
Franco Astengo: Primo maggio
Buon Primo Maggio .
Nel nostro Paese il lavoro è il fondamento del primo articolo della
Costituzione Repubblicana, la rappresentazione più visibile,
immediata, della sua importanza all'indomani della Liberazione.
Molti ricorderanno oggi questo fatto.
Non si può però dimenticare anche quanto scrive Carlo Marx in "Lavoro
salariato e capitale":
"Il lavoro è dunque una merce che il suo possessore il salariato
vende al capitale.
Perché lo vende? Per vivere.
Egli vende a un terzo questa attività vitale per assicurarsi i mezzi
di sussistenza necessari"
Ciò significa che, nel regime capitalistico, la vendita del lavoro è
necessitata dalla condizione del bisogno e di conseguenza l´ elemento
fondante dello sfruttamento, dell´alienazione, della sopraffazione.
La liberazione del lavoro non può che coincidere con l´uscita dal
capitalismo intesa quale sola possibilità di trasformazione reale
dello stato di cose presenti, dando a ciascuno secondo i suoi bisogni
e ricevendo da ciascuno secondo le sue capacità.
Franco Astengo
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10 commenti:
La liberazione del lavoro non può che coincidere con l´uscita dal
capitalismo intesa quale sola possibilità di trasformazione reale
dello stato di cose presenti, dando a ciascuno secondo i suoi bisogni
e ricevendo da ciascuno secondo le sue capacità.>
OK, ma come, radicalmente con sistema economico statalista ex
URSS-Cina di Mao ?
Questa volta la sua realizzazione ci consentirà di tutelare
l'ambiente per non morire di asfissia appena sfamati con una
pagnotta a testa (siamo oramai 7,2 miliardi a questo mondo sfinito) e
eliminare lo stock di bombe atomiche ?
La fai un po' facile caro compagno dopo circa un secolo di esperienze
comuniste attuate e implose.
Penso che la via sia quella di ripristinare il modello economico
previsto dalla Costituzione e in contemporanea di avere divelta la
gabbia costituzionalizzata neoliberista nella Ue.
Però temo tanto che io non ci sarò quando questo avverrà, però nel
frattempo spingo per questo obiettivo che deve essere del Popolo
europeo e di cui Diem 2025 è un utile faro.
Un dialogante riformista socialista saluto.
Luigi Fasce - Genova
Caro Franco cari amici,
non penso che quando i nostri costituenti hanno affermato che la nostra Repubblica è fondata sul lavoro, abbiano avuto in mente l'analisi di Marx e la fuoriuscita dal capitalismo. Quindi il riferimento è necessariamente improprio.
Io penso che sia necessario superare la concezione del lavoro come sfruttamento, alienazione e sopraffazione, visto che fonda la nostra Repubblica.. Il lavoro, in molti casi e in molti paesi, soprattutto in quelli che sono usciti dal capitalismo privato e non da quello pubblico, sia sfruttamento. Ma nella nostra cultura economica il lavoro dell'operaio, del tecnico e quello dell'imprenditore artigiano e del piccolo imprenditore è stato visto come possibilità di affermare il sapere e la libertà economica dell'uomo.Il lavoro ha bisogno di chi ha idee e capitale e, d'altra parte, il capitale ha bisogno di competenze e di contributi del lavoro. Tutta la nostra economia basata su 5 milioni di PMI dimostra questo( guardiamo alle storie di IGNIS, di PERUGINA e di tante altre che hanno avuto successo grazie alle competenze dei lavoratori) . Inoltre un'occhiata a "Lavoro e interazione" di Habermas ed altre analisi recenti, ci danno strumenti di analisi più efficaci di quelle di Marx del ruolo del lavoro nella nostra società.
Il riformismo è stato la strategia dei socialisti, non solo per una più giusta redistribuzione del reddito ma per produrre strumenti legislativi che contribuissero ad affermare il ruolo del lavoro nella nostra Repubblica.(non è necessario citarli) Il suo metodo dunque può aiutare tutti nello sforzo per trovare soluzioni nell'ambito dei valori della nostra Costituzione. E' questa che dobbiamo attuare in tutte le sue parti, perchè tutto si tiene, come diceva Bobbio,.Inoltre, io penso che ci potrà aiutare in questo sforzo, se usciamo dal nostro isolamento culturale, se costruiamo un dialogo continuo (non solo nelle riunioni ufficiali) con la sinistra europea, con gli studiosi che hanno fatto nuove analisi, coi paesi che hanno trovato soluzioni migliori, se "abitiamo" di più l'Europa e meno solo il nostro paese. Mi sembrano queste alcune delle vie per trovare idee per costruire le condizioni per il lavoro per i giovani ed una prospettiva più certa per esso, nel sistema capitalistico, che ora soffre dello strapotere della finanza che gli ha cambiato profondamente i connotati.
Un cordiale saluto
Blando Palmieri
CFR Roma
Caro Franco, in tempi preistorici l’uomo era cacciatore, pescatore, raccoglitore, a tratti anche cannibale, e nomade. Il nomadismo portò l’homo sapiens a trasmigrare, da un’area dell’Africa orientale chiamata Valle del Rift, in Europa, in Asia e infine in America del Nord e del Sud (e in Australia, allora ancora attaccata al continente asiatico, dove la popolazione di aborigeni è rimasta fino a tempi recenti ferma allo stadio della caccia, della raccolta e del nomadismo). In queste tribù transumanti si può supporre che ci fosse un capo forse con privilegi, ma che il bottino venisse diviso equamente fra i membri della tribù. Diventato stanziale e contadino l’homo sapiens, si può supporre che nell’ambito della tribù e del villaggio ci fosse comunque un capo, il più forte e/o il più saggio, e oltre a un capo riconosciuto, mantenuto dagli altri, anche un sacerdote, uno sciamano, altresì mantenuto dagli altri. Ecco come si delinea l’ipotesi di sfruttamento.
Quando i beni prodotti dalla tribù stanziale, dal villaggio, superano le necessità di sopravvivenza dei suoi abitanti, con il surplus agricolo (e quindi lo sfruttamento dei contadini) possono nascere le città: si ricorda ad esmpio Uruk, una città dei Sumeri e successivamente dei Babilonesi, situata nella Mesopotamia meridionale. Nel sesto millennio avanti Cristo, Uruk, da piccolo insediamento divenne una vera e propria città, la prima per cui sia possibile utilizzare questo termine; questo perché fu la prima ad avere due caratteri fondamentali: la stratificazione sociale e la specializzazione del lavoro. Stratificazione sociale e specializzazione del lavoro uguale sfruttamento. Non solo. Le città come Uruk e tutte quelle che seguirono, erano caratterizzate anche da alcuni importanti edificazioni: le mura, il tempio, la reggia e i magazzini per le scorte alimentari. Il lavoro per realizzare queste opere maggiori veniva forse svolto inizialmente dai cittadini liberi, ma sempre più, con il tempo, dagli schiavi, man mano che le guerre fra città ne mettevano a disposizione fra i vinti. Quindi la schiavitù come sfruttamento assoluto: non il lavoro come merce venduto per un salario, ma il lavoro scambiato per la semplice sopravvivenza. Lo schiavismo come fenomeno è durato dagli inizi della civiltà fino ai giorni nostri. Chi ha costruito le Piramidi, i giardini pensili di Babilonia, gli acquedotti romani, le mura di Costantinopoli o la Muraglia cinese, chi ha fatto muovere le galere veneziane che dominavano il Mediterraneo, chi ha scavato le ricchezze del Sud America per gli spagnoli, eccetera, se non gli schiavi? Anche se abolita ufficialmente verso la metà dell’Ottocento, la schiavitù è continuata di fatto nelle colonie dei Paesi europei fino alla seconda guerra mondiale, e l’Onu calcola che ancora oggi ci siano almeno trenta milioni di persone in tali condizioni nel mondo. D’altra parte quale è la condizione, solo per fare un esempio, della manodopera orientale che lavora nei Paesi del Golfo, piuttosto che dei cinesi di Prato, piuttosto che il lavoro minorile nelle fabbriche dell’Estremo Oriente. Altro che lavoro come merce in camio di un salario! Insomma è fenomeno più limitato rispetto allo sfruttamento della schiavitù che ha caratterizzato nel corso dei millenni gran parte delle società umane. Certo, hai ragione, lo sfruttamento non è affatto concluso nei giorni nostri nelle società più avanzate. Come sono state ottenute le immense ricchezze dell’uno per cento della popolazione mondiale pari al Pil di qualche Paese mediano, o le ricchezze del dieci per cento della popolazione italiana (che notoriamente possiede la metà di quelle del Paese), se non con lo “sfruttamento”, non solo e non tanto, del lavoro fisico, ma dell’ingegno dei dipendenti? Ebbene non c’è dubbio che questi sono, e son sempre stati, i risultati economici di un sistema chiamato “capitalismo”. Ovvero esiste un plusvalore prodotto da tutti i lavoratori del mondo, contadini, operai, impiegati, commercianti, dirigenti, studiosi, scienziati, eccetera, che viene in tutto o in parte appropriato da altri. Ma quale è la conclusione? E’ che lo sfruttamento è elemento fondante delle società umane e che per sradicarlo la formula ancora non c’è. La formula utopistica del marxismo (dare a ciascuno secondo i suoi bisogni e ricevere da ciascuno secondo le sue capacità), mai realizzata dai sistemi comunisti del secolo scorso, mi astengo dal commentarla. Ma queste poche righe sono semplicemente uno stimolo per “riflettere”.
Cordialissimi saluti. Lorenzo
Caro Lorenzo,
condivido praticamente tutto del tuo ragionamento. Anche perché non sono marxista ed ho sempre avversato il comunismo, sul quale la storia si è incaricata di mettere una pietra tombale (non capirò mai come i nostalgici del comunismo, professandosi materialisti e deterministi, possano poi ignorare il fallimento regolare del comunismo nella realtà …).
Sradicare lo sfruttamento e costruire la società giusta, la società socialista, è per me, come diceva Brandt, come per il marinaio inseguire l’orizzonte: impari presto che l’orizzonte si sposta sempre insieme a noi, ma non smetti di dirigerti verso quella meta irraggiungibile di giustizia e libertà.
Il problema del capitalismo di questi anni è che il meccanismo sembra essere impazzito.
Lo sfruttamento c’era anche 50 anni fa, ma nel mondo sviluppato si percepiva un avanzamento delle classi lavoratrici. Il benessere si diffondeva e con esso i diritti. E anche chi aveva meno aveva motivo di coltivare la ragionevole certezza che la condizione dei suoi figli, o almeno dei suoi nipoti, sarebbe stata migliore della sua.
Ed in effetti così è stato.
Adesso invece sembra che si vada a ritroso: il benessere si concentra ed il destino dei figli della gente comune ha tutta l’aria di essere nettamente peggiore di quello dei padri.
Il fatto è che il capitalismo è una forza della natura e come tutte le forze della natura deve essere governato dalla mano dell’uomo.
Oggi nessuno riesce a governarlo, è come una giungla che ricopre man mano tutte le vestigia della civiltà, o come un fiume esondato dagli argini che spazza via campi coltivati, fabbriche, città.
A me pare che di questo passo, se non si riprende l’opera di civilizzazione che compete alla politica, il capitalismo lasciato a se stesso non solo ci porterà al declino sociale e civile ma finirà per compromettere le condizioni della sua stessa esistenza. Insomma, mai come ora la profezia del vecchio Marx sull’impoverimento progressivo del “proletariato” (che oggi ovviamente è altra cosa rispetto a quello descritto nel Capitale) e sull’estrema polarizzazione sociale sembra avvicinarsi alla realtà di un futuro prossimo.
Bisognerebbe almeno tentare di ricostruire gli argini. Invece mi pare che si coltivi la brillante idea di buttare giù le dighe rimaste …
Cari saluti.
Luciano
Sul come conciliare giustizia e libertà si è cimentata storicamente una schiera ragguardevole di pensatori e di politici. Lo stesso movimento di "Giustizia e Libertà" ne è testimonianza. Il filone del Socialismo liberale annovera illustri militanti e teorici del Socialismo italiano. Avendo essi a cuore la "Libertà", presero le distanze dal comunismo il cui modello di realizzazione concreta era quello del bolscevismo sovietico, sfociato nel bieco totalitarismo staliniano, nei confronti del quale lo stesso comunista Gramsci ebbe da polemizzare . ( Chi non ricorda la famosa lettera che egli scrisse ai "compagni" sovietici, ricordando loro le parole di Marx: "La rivoluzione che come Saturno divora i propri figli batte una falsa strada" ?. Era l'epoca delle "purghe" e dei "processi" staliniani.
Per questa sua "incauta" uscita, anch'egli pare abbia pagato un duro prezzo!!!!).
Che Astengo richiami le parole di Marx per denunciare i fenomeni dello sfruttamento capitalistico e del lavoro-merce, non risulta essere , al lume dell'esperienza storica, una soluzione circa la difesa della libertà nel regime collettivistico, specie se si pensa che il lavoro, stando ad analisi più attenta, non è solo "merce".
Personalmente sono pienamente convinto che il primo passo della libertà comincia con la "libertà dal bisogno". Chi non è messo in condizione di poter soddisfare prioritariamente i bisogni primari, non può essere considerato in cammino verso le libertà superiori.
I milioni di giovani disoccupati o le migliaia di migranti diseredati sono in effetti privati delle libertà più "elementari", per cui tutte le Costituzioni e le proclamazioni dei diritti dell'uomo, per costoro risultano vuote parole, fumo negli occhi, provocatoria demagogia, paravento "ad usum delphini"..
Salvemini, i Rosselli, Gobetti e tanti altri furono assillati per tutta la vita dall'impegno di conciliare la giustizia sociale e la libertà.
Ovviamente Astengo nel citare il passo di Marx, lascia intendere che il problema delle libertà sia un fatto secondario e trascurabile.
Sarebbe interessante un suo ulteriore intervento per dire più apertamente qual è lo sbocco del suo pensiero nel sec. XXI e, alla luce delle esperienze del XX secolo, quali rimedi riterrebbe necessari perchè la fine del sistema capitalistico non abbia gli sbocchi che ha avuto. Una soluzione possibile potrebbe essere quella di sancire e praticare il principio secondo cui quando gli interessi del singoli o privatistici cozzano o sono in contrasto con quelli della Comunità, a fare un passo indietro, immancabilmente siano i primi.
La ricostruzione che fa Borla può risultare interessante dal punto di vista storico, ma, di fronte al problema posto, rimane in sospeso e non offre soluzioni.
Ovviamente anch'io continuo a riflettere sulle soluzioni possibili e so che esse non sono "a portata di mano".
Un saluto, Roel
Il problema del capitalismo di questi anni è che il meccanismo sembra essere impazzito.
Così dice Luciano Belli Paci nel suo ragionamento che condivido integralmente, salvo che su questo punto.
Il meccanismo del capitalismo non è affatto impazzito, procede come un pendolo che si sposta periodicamente da un lato all'altro.
Oggi siamo nella fase il cui prevale il capitalismo finanziario, o per dirla con un noto pensatore delle origini del capitalismo (Adam Smith) prevale la RENDITA, anche se non si tratta più di rendita agraria. Fino alla fine degli anni settanta dello scorso secolo prevaleva l'ideologia del capitalismo produttivo (il PROFITTO).
La terza gamba del pensiero smithiano (il LAVORO) stenta, come sempre, a prendere atto che l'unico possibile "alleato" in questa guerra infinita (perchè purtroppo il capitalismo ha i secoli contati) è il capitalismo produttivo, e tende, soprattutto nella sua componente massimalista, a considerare tutto il capitalismo un unicuum.
I socialisti dello scorso secolo seppero fare questa distinzione e cos'era, d'altronde, il famoso" COMPROMESSO SOCIALDEMOCRATICO se non un patto implicito tra le due componenti "produttive" per la redistribuzione della ricchezza prodotta? E' possibile oggi pensare ad un nuovo patto per "tosare la pecora" (per dirla con Nenni)?
Per essere più schietto il sottoscritto in Italia tra Marchionne ed un qualsiasi presidente di un qualsiasi grande ente finanziario (anche se di "sinistra") preferisce di gran lunga il primo, anche se poi occorre (per dirla con un altro grande pensatore) "capire la realtà per trasformarla", e nel caso di Marchionne tante sono le critiche che possiamo fare, ma non quella di aver affossato la FIAT, l'ha trasformata e la FIAT delle grandi produzioni di massa delle auto di segmento B (le utilitarie) non la vedremo più, almeno in Italia. Mi rendo conto che per chi come la FIOM di Landini è abituata a leggere la realtà con la visione deformata dall'ideologia sia un problema, ma non può e non deve essere un problema per chi come noi è abituato a ragionare per governare i cambiamenti, non per affossarli.
Il problema che abbiamo di fronte è però un grande problema, la globalizzazione è ormai un dato di fatto con cui dobbiamo convivere, per cui il livello "nazionale" è ormai troppo limitato per capire cosa sta effettivamente avvenendo, per i socialisti nati Internazionalisti il non comprendere questo dato di fatto è letale. Un Partito Socialista (o sindacato) che si rinchiude nella sua fortezza Bastiani è destinato prima o poi a scoprire che il nemico è ormai alle sue spalle ed ha invaso il suo territorio. Per usare un esempio di un secolo fa è come Cadorna che difendeva le vette ed un mattino i soldati italiani si svegliarono vedendo le truppe di Rommel alle loro spalle, erano passate di notte nelle valle di Caporetto.
Fraterni
Nella tripartizione classica fra rendita, profitto e lavoro non si deve dimenticare che, nella realtà concreta, i primi due fattori non sono ormai altro che le due facce della stessa medaglia, quella capitalistica. Infatti Dario Allamano parla, sia pur contrapponendoli, di capitalismo finanziario e di capitalismo produttivo, auspicando un ritorno all'alleanza fra profitto e lavoro - quello che a lungo fu definito il patto fra produttori - in funzione anti-rendita. Quest'alleanza, o per meglio dire questa convergenza di interessi, in effetti ci fu e caratterizzò il trentennio compreso, grosso modo, fra il 1945 e il 1975, quello che definiamo del compromesso socialdemocratico. Come ricordiamo questo così dobbiamo però ricordare anche la rivoluzione conservatrice che lo aggredì determinando la regressione in cui viviamo. Questa rottura storica, definita da Luciano Gallino la lotta di classe dopo la lotta di classe, costituisce l'esempio e l'origine di quello che Luciano Belli Paci ha indicato come impazzimento del meccanismo. Il finazcapitalismo, sempre per citare Galllino, ne è stato conseguenza, non causa, perché le tante bolle speculative che si sono succedute servivano a garantire un alto livello di consumi anche a fronte di salari e stipendi depauperati per ricostituire margini di profitto più ampi. Con la crisi del 2007-2008 tutto questo è saltato, ma il capitalismo finanziario globale non pare intenzionato a demordere. Così pure le multinazionali, che costituiscono un elemento radicalmente nuovo rispetto alle distinzioni dell'economia politica classica, poiché realizzano profitti - e quali profitti - in uno scenario che non è certo quello del mercato delineato da Adam Smith e nel contempo sono così strettamente intrecciate alla rendita finanziaria, che alimentano e da cui sono alimentate, da renderle di fatto indistinguibili. Questo è il paradigma made in USA che anche un presidente non conservatore come Obama vuole imporre al resto del mondo con i trattati transoceanici.
A fronte di uno scenario come questo riproporre il ritorno ad una socialdemocrazia esclusivamente redistributiva risulta non credibile oltre che non praticabile. Del resto, oltre a Riccardo Lombardi, anche Palme e Brandt avevano compreso che era venuto il momento di compiere ulteriori passi in avanti, ma il primo fu assassinato in circostanze mai chiarite e il secondo costretto ad abbandonare la scena politica da uno scandalo probabilmente montato ad arte.
Non mi sono convertito certo alla rivoluzione, ma sono convinto che i termini del problema siano radicalmente cambiati e richiedano un approccio altrettanto diverso.
Come minimo mi sembra che non sia il fronte del lavoro dipendente che deve rinsavire, andando incontro ad un capitalismo che lo ha devastato, ma sono casomai i piccoli e veri imprenditori e i piccoli commercianti ed artigiani a dover capire e scegliere fra un capitalismo distruttivo e autodistruttivo, quello della finanza e delle multinazionali che inevitabilmente li fagociterà, e un fronte più ampio di resistenza e di lotta.
Fraterni saluti
Maurizio Giancola
Che il capitalismo si stia avviando verso una sua riunificazione è sostanzialmente smentito dai fatti, quello produttivo si sta avviando sempre di più verso la separazione dalle attività non proprie del core business principale (il caso Fiat è emblematico con la sua uscita da tutte le attività non direttamente connesse con la produzione di auto e mezzi pesanti), l'epoca della famiglia socia di riferimento di Mediobanca è ormai un reperto del passato.
Che poi il mercato di Adam Smith fosse diverso dall'attuale beh mi pare una osservazione banale, è del tutto ovvio che è così, sono passati quasi tre secoli, resta ferma la base della sua analisi (liberale) che trova riscontri anche oggi nel mondo globalizzato e cioè che la RENDITA sottrae risorse al capitalismo produttivo (PROFITTO), CHE ERA IL SUO CETO DI RIFERIMENTO, così come Marx qualche annetto dopo fece la sua analisi che prendeva a riferimento il nuovo ceto in formazione: la CLASSE OPERAIA. Ogni studioso sociale analizza il suo tempo e per fare un esempio più vicino a noi Paolo Sylos Labini analizzò la crescita dei ceti medi.
Il dramma vero è che le risorse per le più grandi speculazioni finanziarie non le hanno messe a disposizione degli squali di WS i capitalisti produttivi, bensì i FONDI PENSIONE privati, un vero paradosso per cui la classe operaia ed i ceti medi si sono infilati in un cul de sac da cui è molto difficile uscire, ed i GESTORI dei fondi pensione hanno un mandato imperativo: massimizzare il rendimento del fondo per cui fanno speculazioni a breve (fino ad alcuni anni fa i fondi pensione dovevano investire in immobili, oggi "giocano" in borsa).
Fraterni saluti
Dario
Da tempo non partecipo ai dibattiti della mailing list, ma questo intervento di Maurizio Giancola mi induce ad un commento. A mio giudizio Giancola ha centrato perfettamente il problema: si è venuto costituendo un nuovo blocco sociale antagonista naturale del capitalismo finanziario e di chi detiene posizioni di rendita all’ombra di esso. All’elenco indicato da Giancola aggiungerei buona parte del ceto professionale, quella parte che non opera simbioticamente con il capitale finanziario ed i detentori di posizioni di rendita. Se non che l’insieme dei ceti del lavoro intellettuale e pratico stenta a prendere coscienza di tale stato di cose, assordato e confuso da una martellante e fragorosa propaganda di pressoché tutto il sistema mediatico. Tale stato di cose dipende anche da gravi ritardi di elaborazione culturale e politica della sinistra, che per timidezza e non poca confusione di idee si è fatta mettere all’angolo. Non credo che vi siano ancora le condizioni per la promozione di un movimento politico che tuteli gli interessi del vasto insieme sociale colpito nei suoi valori e prospettive dall’attuale evoluzione del sistema economico, anche se qua e là si vedono nascere episodi che sembrano promettenti. Sono invece convinto che nel solco di quanto prospettato da Giancola dovrebbero orientarsi le attività di approfondimento e dibattito dei circoli culturali di sinistra, senza alcuna velleità ne sostanziale ne marginale di partecipare allo stato delle cose ad eventi elettorali. Cari saluti a tutti. Giovanni Baccalini
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