martedì 17 maggio 2016

Paolo Bagnoli: Politica debole, magistratura forte

Da Critica liberale politica debole, magistratura forte paolo bagnoli L’aspro e guerresco contrasto tra politica e magistratura, ben lungi dall’essersi sopito, si è reincendiato. È un errore ritenere che si tratti di un’anomalia ricorrente perché, da Tangentopoli in poi, esso rappresenta un fattore permanente della nostra politica democratica oramai ridotta a un colabrodo cui si accompagna, a mo’ di convergenza parallela, quella dello “stato di diritto.” Dobbiamo anche dire che, nella sua significante tragicità, essa appassiona sempre meno poiché, alla fine, è veramente difficile tracciare una linea tra dove sta la ragione vera o potenziale oppure non sta. Classe politica e ordine giudiziario sono espressione della crisi profonda che segna il fallimento di entrambe. L’intervista rilasciata al “Corriere della Sera” il 22 aprile da Pier Camillo Davigo ha stupito soprattutto per l’arroganza castale che esprimeva. Per il resto chi si sarebbe aspettato di sentir dire che la giurisdizione è un ordine regolato dalla Costituzione e non un potere che esprime la moralità del Paese? Pensiamo nessuno. Certo che Davigo più che dalle righe è proprio uscito di pagina, ma se così non fosse stato non avrebbe interpretato se stesso e, probabilmente, lo ha fatto con forte legittimità di rappresentanza visto che è il presidente dell’Associazione sindacale unitaria dei magistrati. Qui sorge un problema politico assai grande. Si poteva poi pensare che non vi fosse il controcanto di Raffaele Cantone, sempre sul “Corriere della Sera” del giorno successivo? Cantone, magistrato di punta nel sostegno al governo Renzi, ha detto, in buona sostanza, che la politica potrebbe fare di più; grazie a Dio, che pensata! Ci sembra abbia voluto dire: abbiate fiducia, adesso è arrivato colui che farà quanto, in materia, non è stato fatto in passato. Sbattuto come i capponi di Renzo il ministro Andrea Orlando, se pur con aria ben compresa, in fondo ha detto ben poco. Si è limitato a dichiarare che è “Discutibile schierarsi sul referendum. I giudici valutino il peso delle loro parole”. Pensiamo che, in una siffatta situazione, per qualsiasi ministro sarebbe stato difficile dire qualcosa che avesse valore repubblicano, ma ci rode il tarlo del perché, a fronte di tutto ciò, il presidente costituzionale del CSM non abbia di urgenza convocato una riunione del Consiglio 046 16 maggio 2016 12 medesimo invece di sbattere in prima pagina il suo vice. A maggior ragione dopo le considerazioni del giudice Piergiorgio Morosini la riunione si sarebbe quasi imposta. Egli, infatti, ha ragione a sostenere che, al pari di ogni cittadino, anche i magistrati hanno il diritto di dire come la pensano sul referendum; ci sembra ne abbia un po’ meno nel ritenere che l’organo di autogoverno dei giudici debba esprimersi, quale soggetto, contrario al referendum. Le due cose non si tengono. Oramai, purtroppo, ogni pezzo della Repubblica sembra andare per proprio conto e la disfunzione è sintomo della dissolvenza istituzionale. È prevedibile che, alla fine, ci si metterà una pezza e si passerà avanti con l’annuncio di una prossima riforma del CSM. Lo scontro proseguirà e a uscirne male sarà sempre la politica o quella che passa per tale e che nemmeno il governo difende se si fa caso a talune ragioni per le quali viene abolito il Senato elettivo: più che una riforma istituzionale un repulisti per tagliare ceto politico e relativi costi; un’operazione di pulizia e nient’altro che di pulizia. Non si capisce, allora, perché non vengano tagliate le Regioni da cui emerge un quadro serio e radicato di malversazione del pubblico denaro e di quasi generalizzata modestia della classe politica che esprime. Una parte di essa entrerà però nel nuovo Senato. Con ciò, è oggettivo ribadire che non è assolutamente vero che tutti i politici siano ladri e che tutti gli impegnati in politica siano scadenti. La verità, come ha fatto notare Rino Formica (Corriere della Sera,7 maggio), dopo l’intervista di Davigo, con la solita lucida capacità di analisi, è che «la politica ha da tempo perso la partita con la magistratura». Aggiungendo, tra l’altro. «I giudici, da vent’anni , e ogni anno di più, si sentono investiti di un ruolo preciso: pensano di essere i guardiani dell’onestà. Così, quando Davigo, ragionando da Ayatollah, dice d’essere convinto che il sistema politico è un sistema criminale, come quello mafioso o quello terroristico, che infetta il Paese, io non escludo che, per bonificarlo, pensi anche di doverne assumere tutto il controllo». Formica definisce Davigo alla stregua di un Ayatollah in quanto dimentico che il magistrato deve rispondere solo alla legge e questa non può essere soggetta a interpretazioni: «Farlo, significa appunto comportarsi da leader religioso». Fuori dai denti, Formica coglie il problema; vale a dire la transposizione che ha portato a sostituire il giudizio di sanzione con uno morale; da vent’anni la magistratura “divenuta detentrice del potere delle manette” si sente investita del ruolo di guardiano dell’onestà e più la politica ha indebolito il suo ruolo, più forte è divenuto quello dell’altra. Lo si vede anche da piccole cose. Ma che bisogno c’è che taluni aspiranti alla carica di sindaco durante la campagna elettorale debbano, quasi fosse un atto dovuto, andare a ossequiare Raffaele Cantone? E cosa rappresentano i cosiddetti assessorati alla legalità se 046 16 maggio 2016 13 non superfetazioni di impotenza considerato che, per principio, gli atti di tutti e, soprattutto, quelli di natura politico-amministrativa, non si possono nemmeno pensare come illegali? Il ritorno alla normalità comporta, necessariamente, quello alla politica e alla ricostruzione di un sistema concepito secondo le esigenze del Paese e non del “governismo”. Tanto più ciò ritarda, tanto più la magistratura diviene, al contempo, soggetto politico e di scontro politico. Lo dimostrano le vicende dei 5 Stelle e non solo. È un gioco estremamente pericoloso; duro, che finisce per coinvolgere tutti e che può rivolgersi anche contro il governo e chi lo guida in quanto innescante un possibile strumento per veicolare un dissenso che una politica debole non riesce a far esprimere come dovrebbe essere in una democrazia funzionante.

1 commento:

maurizio ha detto...

Condivido in pieno questo intervento di Paolo Bagnoli. Al riguardo sto leggendo il bel libro di Piero Tony, ex Procuratore della Repubblica a Prato, dal significativo titolo "Io non posso tacere", che affronta i molti e gravi problemi della giustizia italiana riconducendoli sostanzialmente a quello che mi sembra il nucleo centrale del ragionamento di Bagnoli: da tempo la magistratura, o almeno una parte significativa di essa, ha cessato di considerarsi un ordinamento il cui fine è il perseguimento dei reati per recitare invece il ruolo di custode della legalità declinata in termini di pubblica moralità. Questo stravolgimento del proprio ruolo ha indotto i magistrati che condividono questa impostazione a non limitarsi a far rispettare le leggi, la cui redazione e approvazione non è di loro competenza, ma ad interpretarle e giudicarle in funzione delle proprie concezioni etiche ed ideologiche, ponendosi anche in aperto conflitto con il potere legislativo ed esecutivo, cioè con la politica, con una evidente violazione della separazione dei poteri (con l'aggravante che, come ricordato, la Costituzione non definisce la magistratura un potere ma un ordinamento giurisdizionale).
Il pensiero e il ricordo vanno inevitabilmente alla conferenza stampa tenuta dal pool di Mani Pulite per condannare, appellandosi alla piazza, il decreto Conso. Si trattò di un atto palesemente eversivo, subito da una politica sotto schiaffo, in seguito al quale il decreto come è noto venne ritirato.
La stessa logica ha ispirato l'ormai famosa intervista rilasciata da Davigo e quella di Morosini, poi maldestramente smentita, entrambe citate da Bagnoli. Meno rumore ha suscitato un'intervista più recente del Procuratore Generale di Palermo Scarpinato, che ha enunciato che compete alla magistratura ordinaria la difesa della Costituzione alla luce dei principi enunciati dalla stessa. Il che è come dire che il giudizio di legittimità costituzionale delle leggi non è più riservato alla sola Corte Costituzionale, ma riguarda indistintamente tutti i magistrati.
Si pone allora il problema, dibattuto giorni fa su "La Stampa", della liceità dell'intervento dei magistrati nel dibattito pubblico. Se è vero, come dice anche Bagnoli, che i magistrati hanno il diritto di esprimere le loro opinioni, al pari degli altri cittadini, è altrettanto vero che i magistrati non sono cittadini come gli altri proprio in virtù del potere che detengono. A questo proposito Piero Calamandrei scrisse che quando un magistrato esprime le posizioni di una parte deve rinunciare alla pretesa di essere considerato super partes. E, aggiungo io, un magistrato che non può più essere considerato super partes può essere ancora credibile nell'esercizio del proprio ruolo?
Fraterni saluti
Maurizio Giancola